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"Le mie memorie di guerra" del Ten. capp. Padre Pacifico Brandi La

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"Le mie memorie di guerra" del Ten. capp. Padre Pacifico Brandi La
dal libro:
"Le mie memorie di guerra"
del Ten. capp. Padre Pacifico Brandi
Nel luglio del 1916 il padre cappuccino Pacifico Brandi di S. Elpidio - Macerata, venne
nominato cappellano militare nelle zone di guerra. Gli venne affidato il settore VaI Padola e
VaI Visdende.
Il suo compito era di raggiungere le batterie e gli osservatori, circa venticinque,
dislocati in alta montagna su un fronte di venti chilometri.
Nel suo diario di guerra si legge “L 'elemento militare in cui mi trovavo era buono. Gli
ufficiali colti, gentilissimi, nella maggioranza religiosi, benché parecchi non praticanti da
tempo. Erano quasi tutti giovanissimi, la maggioranza di complemento”.
Le sue note di diario si riferiscono a Montecroce, Colesei, Coltrondo, Quaternà,
Pisandolo, Bosco Chiauri... Raggiungeva queste postazioni a dorso di mulo, a piedi o in
teleferica come al Popera e al Col Rosson.
Visitava i camminamenti vicinissimi al nemico, incontrava i soldati, celebrava la messa,
si intratteneva con loro, li ascoltava, li incoraggiava, raccoglieva le loro preoccupazioni per
le famiglie lontane.
Una delle batterie predilette era quella del Pisandolo. Così scrive:
La batteria del Pisandolo
"Mi piaceva celebrare sul bello e maestoso affusto del 280. Erano due pezzi di tale calibro.
Essi, tutti i giorni a mezzodì, puntavano sulla ferrovia di Siliach e Toblach. Di ciò sentivo un po’ di
dispiacere, perché pensavo, che oltre il materiale di guerra, potevano esservi, nel treno, fanciulli e
povere donne, ma... era la guerra... Un giorno, mentre celebravo la S. Messa, in tale Batteria,
circondato da ufficiali e soldati, alcuni aeroplani nemici volarono proprio su di noi e sembrava che si
fossero accorti dell'assembramento! Vidi che i soldati cominciavano ad allontanarsi per andare nei
ricoveri. Era grave mettere un precedente; sarebbe stato poi gravissimo, data la superstizione che
dominava anche nel nostro Esercito, in tempo di guerra, far dire che, durante la S. Messa del
cappellano, si era stati costretti andare nei rifugi per salvarsi dal nemico! Ci voleva poco, passare poi
come iettatore!!! Allora mi sentii ispirato di essere santamente audace. Mi voltai e dissi risoluto:
Nessuno si muova e non abbia paura di nulla... Nessuno si mosse più. Gli altri tornarono. Gli
aeroplani fecero due o tre giri al di sopra di noi e della zona di Monte Croce e poi se ne andarono,
come di cuore avevo pregato il Signore. Feci egualmente il mio bravo discorso, ed inculca la più
grande fiducia nel Signore, nelle cui mani era la nostra vita."
La teleferica
"Chi ha fatto la guerre in montagna conosce molto bene la teleferica. Ne ho viste di costruite
molto bene, ma quelle che si usavano allora in alta montagna, erano veramente primitive e
rudimentali. Due pezzi di tavola della lunghezza di un metro circa, uniti tra loro, una corda di ferro
traente, un'altra portante, dei pali molto alti di sostegno, dei motori nei due luoghi estremi del
percorso: ecco le teleferiche del Cadore, almeno quelle di VaI Padola e di VaI Visdende, ad
eccezione di quella di Danta, ch'era veramente bella e comoda.
La teleferica univa la vallata colle alte cime. Si abbreviava moltissimo e in pochi minuti si
raggiungeva la meta. Per andare a Colesei, al Quaternà, al Col Rosson, ai Laghi d' Olbe, ne usavo
sempre. Vi era del pericolo, ma facilitava in modo straordinario il servizio religioso e risparmiava la
cavalcata sul mulo di ore e ore.
Qualche volta per guasti al motore si restava per qualche tempo sospesi tra cielo e terra e
confesso che ciò non era piacevole. Una sola volta però corsi serio pericolo di cadere dalla
teleferica del Quaternà. Ero seduto sulle due tavole congiunte e mi distrassi guardando il panorama.
Insensibilmente mi spostai da un lato e il carrello andò a battere sul palo sostenitore. Vi furono delle
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forti oscillazioni e se non fossi stato colla mano bene attaccato alla corda, sarei certamente caduto sui
numerosi tronchi di pini, tagliati per il passaggio della teleferica.
Per qualche tempo non mi distrassi più e con molta attenzione cercavo di stare bene in
equilibrio. Assai brutta e paurosa era egualmente la teleferica di Sappada Laghi d' Olbe di cui mi
servii molte volte ma non senza un po’ di timore.
Per usare della teleferica, concessa, per quanto riguarda il personale, solo agli ufficiali e ai
feriti, era necessario firmare un registro per dichiarare che si andava sotto la propria personale
responsabilità".
Casa del soldato a Candide
"Una delle belle istituzioni, a conforto dei soldati in guerra e non in guerra soltanto, sono state
certamente le Case del Soldato. Non occorre descriverle. Si comprende subito cosa siano. In queste
Case, il soldato passa qualche ora della libera uscita, leggendo, scrivendo, ascoltando musica,
qualche discorso, conversando con compagni, e si sente come a casa propria, perché sa che sono
fatte per lui, da persone che pensano ai militari con cuore fraterno e con generosità. Ve ne sono
state, e ve ne sono in tempo di pace; ve ne furono moltissime in tempo di guerra.
Avere molte e belle Case del Soldato, fu una delle mie principali mire, fin dai primi tempi della
vita militare. Pertanto, dopo appena qualche mese, ne istituii una molto bella a Candide, per tutti i
militari della zona. Ottenni dal Municipio la grande aula del Consiglio con un'altra sala attigua. Fu
inaugurata dal generale Ferrari, presenti i miei ufficiali del Comando, parecchi altri del presidio, le
autorità del paese e molti soldati. La fornii di parecchi volumi di lettura, di riviste, di un grammofono,
e di vari strumenti musicali. Ebbi molta cancelleria e parecchi libri dal Comitato Nazionale per
Bibliotechine per soldati di Milano, e dalle lettrici di "Matelda", bella rivista allora diretta dalla
compianta signora Bottazzi-Bondi Marianna. Una signora di Pesaro, Matilde Leonardi, sapendo
della mia iniziativa, scrisse in detta rivista un appello alle mateldine, perché mi fornissero molti libri di
lettura, adatti per soldati. Risposero con prontezza e generosità. Ebbi anche vari pacchi di libri dalla
signora Angelina Zanelli-Guiddi di Savona.
Tutte le sere i soldati stavano delle ore nella Casa, che a loro s'intitolava, dove, tra tutto il
resto, trovavano gratis la cancelleria per la corrispondenza coi loro cari. La visitavo ogni sera,
possibilmente, e mi fu sempre di consolazione. Mai il minimo incidente. Un caporale e due soldati del
Comando erano addetti alla sorveglianza. Vi furono fatte anche delle conferenze, tra cui una di
Stefano Cavazzoni, allora semplice soldato della Territoriale. Ma per la sua bella cultura, nonostante
che fosse autodidatta, per le aderenze che aveva in alto (era in amicizia anche con Cadorna), spesso
veniva mandato in mezzo alle truppe per conferenze. Fin dalla prima volta che lo conobbi, mi fece
buona impressione. Franco, aperto, deciso, ottimo cristiano, apostolo di fede, esercitava in mezzo a
quelli che lo avvicinavano una buona influenza. E ciò che più convinceva era la sua Messa e
Comunione di tutte le mattine e la visita frequente al SS. Sacramento. Stava di residenza a S. Stefano
di Cadore e fu lì che lo vidi la prima volta".
Dal libro:
"Le mie memorie di guerra"
del Ten.capp. Padre Pacifico Brandi
Nel luglio del 1916 il padre cappuccino
Pacifico Brandi di S. Elpidio - Macerata,
venne nominato cappellano militare nelle zone
di guerra. Gli venne affidato il settore Val
Padola e Val Visdende. Il suo compito era di
raggiungere le batterie e gli osservatori, circa
venticinque, dislocati in alta montagna su un
fronte
di
venti
chilometri.
Così racconta, nel suo diario di guerra, il
terribile inverno del 1916.
nell'ambiente milanese, gli espose il suo
problema ed ebbe un biglietto di presentazione presso i vari comitati "Pro esercito".
Partì per Milano, constatò la generosità di
quella gente ed ebbe indumenti invernali per
tutti i suoi soldati. Così andando per il servizio
religioso nelle batterie ed osservatori oltre
all'altarino da campo portava con sé anche il
pacco di indumenti da distribuire. La sua visita
era allora più che mai gradita.
Prosegue così le sue annotazioni:
Ottobre 1916
"Già era caduta parecchia neve, e sulla
cima delle montagne, dove erano collocate
quasi tutte le mie Batterie, si viveva in
mezzo al gelo. Spesso avvenivano
congelazioni ai piedi.
"Chi ha vissuto la vita dell'alta montagna
per mesi e mesi, e non per sport, ma stando
fermi in posizioni molto disagiate, sa quale
influenza opprimente abbiano la neve ed il
gelo, quando si deve vivere in mezzo ad
essi dall'ottobre sino a tutto aprile ed
anche più.
Amando io i soldati come figlioli, non mi
sentivo più di andare a trovarli, senza aver
fatto qualche cosa per il loro corpo, come
avevo procurato già di giovare al loro
spirito. Non avevo quasi più il coraggio di
predicare il dovere e il sacrificio, vedendoli
sempre in mezzo alla neve ed al gelo.
Il freddo deprime in modo terribile l'animo
nostro. La mia preoccupazione pertanto
era più che giusta. Infatti vidi che i soldati
mi ascoltavano volentieri anche quando
sentivano una grande stanchezza del gelo e
della neve.
Sapevo per esperienza che in mezzo alla
neve, col vento che era quasi sempre
abbastanza forte, specialmente la notte,
non erano mai troppi i ripari. E pensavo
che se i miei soldati, oltre quelli che
passava il Governo, avessero avuto dei bei
indumenti di lana, o di pelle, come li
fornivano i Comitati, sarebbero stati molto
meglio e più efficacemente difesi".
Si raccomandò allora a Padre Gemelli,
maggiore medico in visita alle truppe delle
prime linee. Conoscendo la sua influenza
Portavo sempre con me parecchie paia di
guanti e di calze di lana e li regalavo ora a
questo, ora a quel soldato. Seguitai ad
averne anche in seguito da varie parti,
tanto che la mia stanza era diventata un
luogo di rifornimento".
"In ogni oggetto vi era l'indirizzo della
persona che l'aveva offerto e del Comitato
raccoglitore. Raccomandai ai soldati di
mandare una cartolina di ringraziamento.
La sera dopo la mia visita partivano
sempre centinaia di cartoline di
ringraziamento".
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La dura invernata
"L'inverno del 1917 fu molto cattivo. Nevicate in quantità, e, ciò che è peggio, grandi
e numerose le valanghe.
Non ricordo bene in quale mese, dopo
varie giornate, nelle quali era caduta in
abbondanza la neve, nella famosa vallata
del monte Tudaio, dai due costoloni ai lati
della strada, che da Cima Gogna porta a
S. Stefano, caddero tante valanghe, che la
strada restò del tutto ostruita. Si calcolava
che la neve accumulatasi, fosse alta circa
trenta metri.
Migliaia di soldati vi lavorarono per 15
giorni onde aprire un varco. Così tutte le
truppe di Val Padola e Val Visdende
vennero tagliate fuori dall'Italia e per 15
giorni non ricevettero rifornimenti. Furono
consumate tutte le provviste e se fosse
venuta altra neve e avesse nuovamente
ostruita la via, ci saremmo trovati molto
male. Si ebbe anche qualche vittima.
Questo fatto fu di conseguenze economiche
disastrose, perché, in previsione di un'altra
stagione simile, per l'inverno 1917-1918,
furono accumulati viveri e munizioni di
riserva per tre mesi e quando venne la
ritirata, i magazzini erano pieni colmi di
ogni ben di Dio e, tutto o quasi, si dovette
abbandonare".
La tormenta
"Le Alpi, specialmente quelle Cadorine,
sono veramente belle e incantevoli, ed io,
anche ora, ne sento una vera nostalgia.
Nei giorni in cui il sole risplende e riscalda,
salire su, a 2000, a 3000 e più metri, e poi
guardare il percorso fatto, girare lo
sguardo sulle belle vallate, solcate da
piccoli affluenti che vanno poi a formare i
fiumi grandi, che sanno le storie di gloria e
di dolore della Patria; mirare le alte
montagne che, maestose, s'innalzano
gigantesche, quasi che vogliano toccare il
cielo, mirare infine le splendide pianure
che lontano decine di chilometri formano
la ricchezza del Veneto, tutto ciò riempie
l'animo di un senso di gioia così profonda,
che solo gli amanti della montagna
possono comprendere.
E anche per noi Cappellani era bello andare a trovare i nostri soldati nei giorni nei
quali le Alpi erano baciate e riscaldate dal
più bel sole. Ma, spesso, le nostre gite si
effettuavano in giorni, in cui si
richiedevano molti e grandi sacrifici.
Qualche volta si rischiava anche la vita.
Piccole e grandi valanghe erano all'ordine
del giorno. E quanti soldati hanno esse
seppellito!... Anche oggi giacciono in mezzo
ai ghiacciai più di 20 soldati, seppelliti da
una grande valanga sotto il Passo della
Sentinella.
In una volta sola, 40 giovani furono
travolti e seppelliti sotto enormi cumuli di
neve. Nonostante tutti gli sforzi fatti dai
Comandi, solo l'anno appresso, da soldati
guidati dal bravo Cappellano Cappuccino,
P. Cassiano Bodo, ne furono disseppelliti
venti; trovati del tutto intatti, carbonizzati
dal gelo. Altre vittime della montagna
erano fatte dalla tormenta. Una sera
anch'io stavo per essere da questa
travolto.
Ero andato a Collesei per celebrare, la
mattina appresso, la S. Messa. Essendo nei
primi giorni di novembre 1916, desideravo
che i militari facessero la santa Comunione
per i compagni caduti. Andai quindi la sera
innanzi e dopo una breve sosta al
Comando della batteria, mi recai nelle
baracche dei soldati. Ve ne erano alcune
distaccate dal Comando più di 300 metri,
situate verso le trincee di fanteria. Erano
quasi del tutto seppellite dalla neve. Vi si
entrava carponi e se ne usciva a stento.
Confessai alcuni soldati e mi trattenni
parecchio con loro. Quando mi decisi a
tornare al Comando di batteria, era già
quasi notte. Vicino alle baracche, il
sentiero si conservava abbastanza visibile,
ma poi scompariva del tutto. Ciò che fu
peggio, incominciò a nevicare fittamente e
a sollevarsi un gran vento che, oltre
gettare violentemente addosso la neve che
cadeva
in
abbondanza,
sollevava
furiosamente quella già caduta, formando
intorno a me un turbine spaventoso.
Portando gli occhiali, questi restarono ben
presto del tutto ricoperti e li dovetti
togliere. Senza occhiali, essendo molto
miope, non vedevo quasi nulla. Il sentiero,
come ho detto, era scomparso del tutto.
Camminando nella neve non battuta,
affondavo fino alla cintola e per avanzare
un po' dovevo aiutarmi anche colle mani.
Non arrivavo mai e il tempo incominciava
a sembrarmi lungo. Non mi pare che mi
prendesse proprio il senso della paura, ma
ricordo che pensai che potevo essere
seppellito dalla neve e ciò da un momento
all'altro. D'altra parte non sapevo se
andavo veramente verso le baracche del
Comando.
frangenti i minuti sembrano ore, il vento
cessò e vidi la mia posizione. Era stato il
mio buon Angelo Custode a fermarmi lì,
perché stavo a pochi metri da un precipizio. Se avessi poco poco avanzato ancora,
sarei caduto e ritrovato cadavere chissà
quanto dopo. Avevo completamente
deviato! Ringraziai di cuore i miei celesti
Patroni e poi, essendo ben pratico della
zona, mi orientai ben bene ed incominciai
ad avanzare lentamente verso la Batteria,
aiutandomi in tutti i modi per non
affondare troppo. Senza altre peripezie,
raggiunsi le baracche del Comando. Sentii
una gratitudine grandissima verso il
Signore, che mi aveva liberato da sicura
morte. La notte ebbi dei sogni angosciosi e
mi destai più volte impaurito. Con orrore
ripensavo in seguito a quella sera
infernale. Mi pare che non dissi nulla agli
ufficiali.
Altre volte mi son trovato in mezzo alla
tormenta ma con minore pericolo. Una
volta sulla via del Quaternà dovetti tornare
indietro. Qualche cosa di simile mi accadde
a Cima Vallona e a Monte Spina"
La tormenta mi aveva completamente
disorientato e non vedevo quasi più nulla.
Credetti
prudente
fermarmi,
per
orientarmi un po'. Mi raccomandai alla
Madonnina e alla cara sorella del Cielo:
Suor Teresa del Bambin Gesù. Non avevo
davvero voglia di morire tra la neve. Era
poco poetico!
Mi fermai dunque e colle mani mi toglievo
continuamente la neve dattorno. Aspettavo
che si calmasse un momento il vento furioso per vedere ove mi trovassi. Dopo un
tempo che non so valutare, perché in certi
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La grande nevicata del 1916
di Addolorata Martini Barzolai
Tra le tante vicissitudini causate dagli eventi
bellici, ci volle anche quella grande nevicata
dell'inverno del 1916 a rendere ancora più
dura la vita della nostra gente del Comelico e
dei soldati che erano in zona per le operazioni
militari.
Lo sgombero della neve
Per lo sgombero della neve dalle strade si
provvide, come per il trasporto dei reticolati e
delle granate, con la manodopera dei civili,
specialmente delle donne e dei giovani. Il
primo lavoro lo facemmo liberando dalla neve
la nuova strada, costruita per usi militari, che
da San Leonardo portava alle Casere e oltre,
per consentire ai soldati di trasportare al
fronte i materiali necessari.
Io allora avevo 13 anni. L'accordo con il
caposquadra era questo: spalare una
superficie di metri quattro per quattro per una
cifra che, se non ricordo male, era di quattro
lire.
Lo stesso lavoro lo facemmo sulla strada tra
Tamai e Aiaredo.
Quando terminammo il lavoro in queste
località, ci spostarono, allo stesso prezzo
pattuito, sulla strada nazionale tra Candide e il
Km. 24. Mi ricordo che il compenso ci
sembrava poco e allora decidemmo di
scioperare perché la paga venisse aumentata,
ma tutto si risolse in un nulla di fatto, e così
riprendemmo il lavoro.
Ci voleva, oltre alla buona volontà, anche la
forza fisica per maneggiare il badile e buttare
la neve oltre la superficie stradale. Posso dire
che tutti i capisquadra che si sono succeduti in
questo lavoro furono molto comprensivi nei
miei confronti e, anche se non riuscivo a
completare i miei sedici metri quadrati,
chiudevano un occhio e mi pagavano per
intero.
Alla sera, dopo una così dura giornata di
lavoro, eravamo tutte stanche morte, io più di
tutte per la mia giovane età (ai piedi avevo le
calze di lana nostrana e i "scapins" - scarpetti
di pezza).
Mi ricordo che una volta uno dei capisquadra
disse a mia madre: "La figliola è piena di
buona volontà, ma è da incoscienti far fare
simili lavori a una bambina, dovresti tenerla a
casa!". Ma io continuai a lavorare perché in
famiglia eravamo molto poveri e quel po' di
denaro che guadagnavo era vitale per i nostri
bisogni.
Voglio ricordare, per un senso di doverosa
riconoscenza, i nomi di quei capisquadra:
Ploni dal Naine e Nuci d' Brode da
Casamazzagno, Valentin Proila da Dosoledo.
Vi era anche un signore che abitava nella
penultima casa, a destra a Dosoledo, andando
verso Padola, di cui ora non ricordo il nome.
Ci sarebbero altri episodi da raccontare in
merito a quel lavoro, ma penso sia meglio non
dilungarmi troppo.
I funerali
Tra i tanti inconvenienti causati da
quell'abbondante nevicata ci fu anche quello di
non poter seppellire i morti. Vicino a casa
nostra morì, in quel periodo, un uomo, ma
non fu possibile fare i funerali e portarlo in
cimitero e così i famigliari dovettero fare un
buco nella neve, nelle vicinanze della casa,
metterci la bara e ricoprirla di neve, come in
un congelatore, e aspettare il tempo propizio
per seppellirlo nel cimitero del paese.
I soldati del sud
Grandi erano anche i disagi causati alle truppe
che erano stanziate in zona, in modo
particolare ai soldati che venivano dal sud
Italia e non erano abituati al clima rigido dei
nostri inverni.
Mi ricordo quando passavano sulla strada, tra
due muraglioni di neve le barelle con i feriti o i
morti, trasportate dai loro commilitoni. I
soldati, quando non erano in servizio al fronte.
avevano bisogno di essere sistemati al riparo
dalle intemperie e, così, le autorità militari
obbligarono la gente del posto a dare loro
alloggio nelle case e nei fienili. Anche in casa
nostra vennero requisite alcune stanze per
ospitare i soldati.
Certamente né la nostra né le altre famiglie
fecero salti di gioia nel doverli ospitare.
Costatammo invece che tutti i soldati si
comportarono educatamente con noi, non
venimmo mai molestate, anzi se potevano ci
davano ogni tanto un po' del loro rancio.
Ci raccontavano della loro terra e delle loro
famiglie, perché grande era la nostalgia di
casa. Durante il giorno andavano a fare il loro
servizio e, al rientro, se erano bagnati, si
asciugavano e poi si riposavano.
Quello che mi ricordo molto bene è che la
nostra casa era diventata una specie di
stazione, di arrivi e partenze.
La cucina dei soldati
La cosiddetta "cucina dei soldati" era stata
sistemata dietro la casa dei Betta e dei
Burnello e, alle volte, potevamo avere dai
cucinieri della pastasciutta e del risotto, e
posso dire che per noi era una novità, sia la
pasta sia il riso. I cucinieri che preparavano il
rancio per la Milizia Territoriale erano di
Casamazzagno e si chiamavano: Iacu d' Ione
e suo cognato al Rosin d' Sughi.
8
L'INVERNO DEL 1916
"U pacchettu di nive"
dal diario di Giovanna Festini Cucco
Oggi è il 6 maggio 1985. E' nevicato
fino a valle, una neve carica di acqua che ha
fatto piegare sotto il suo peso alberi e arbusti.
Ricordo solo pochi nomi: Pasquale
Castellaneta, Colaccico Giovanni e di un
caporal maggiore di cui non ricordo il nome.
Andando a Vandeli e osservando il
panorama mi son venuti in mente particolari di
un episodio relativo alla grande guerra 191518.
Fra questi emergeva un certo Bruno
Paolo che, a differenza di tanti altri, sapeva
leggere e scrivere.
Nei brevi periodi di riposo concessi ai
combattenti di prima linea erano ospiti di casa
nostra alpini, artiglieri e i richiamati della
Territoriale, detta "la Terribile".
La nostra cucina e la "stua" erano a loro
disposizione, potevano scaldarsi, farsi da
mangiare, scrivere a casa e tutti si sentivano
come in famiglia. La mamma preparava le
calze, gli "scarpetti", lavava la biancheria e noi
a malincuore li vedevamo ripartire per il
fronte.
Un gruppo di soldati della "Territoriale",
tutti quarantenni di Gioia del Colle - Bari,
addetti ai rifornimenti, venivano da noi dopo il
loro turno di lavoro, si scaldavano il rancio e
passavano le ore come fossero in famiglia.
"Tu Luigi, sei nostro padre. Tu
Giuseppa sei nostra madre!" e additandoci
"Questi sono i nostri figli!"
Un giorno arriva a casa nostra e ci fa
vedere una lettera che, tramite la "scrivanella"
gli mandava sua moglie.
Fra le tante e spassose notizie gli
chiedeva chiarimenti circa la neve che non
aveva mai visto e perciò le mandasse un
pacchetto.
Rivolto a mia madre disse: "Vedrai
Giuseppa che cosa le rispondo". Si mise a
tavolino vicino alla finestra. Fuori cadeva
abbondante la neve e tutto assorto osservava
e meditava.
Ed ecco il capolavoro in risposta alla
moglie:
"Cara molia, tu mi chiedi "u pacchettu"
di "nive" ma no soltanto "u pacchettu" potrei
mandartene, ma "quintalata". Ce n'é tanta
quassù che anche "le arbare piangono tutti".
Certo non gli mancava lo spirito
d'osservazione perché anche allora come oggi
gli
alberi
gocciolanti
"piangono".
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