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E il panico è fuggito Oltre le terapie: la Cura è
N. 2-3
2008
LEGA ITALIANA CONTRO I DISTURBI D’ANSIA, DI AGORAFOBIA E DA ATTACCHI DI PANICO
E il panico è fuggito
SOMMARIO
Una vita tormentata, un incontro fatale, un percorso
alla ricerca di se stesso, la ritrovata voglia di vivere
n. 2-3 Aprile-Settembre 2008
Rivista trimestrale della Lidap onlus
Direttore Responsabile: Anna Maria Ferrari –
Aut. Trib. di Parma n. 18/2002 del 4/6/2002 –
Sped. in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. In
L. n. 46 del 27/2/2004) art. 1, c. 2, DCB Parma
n uomo non comune. Questo sono io.
Con una sensibilità estrema. Sensibile e vulnerabile. Con una mente acuta
e pensieri veloci. Un’accelerazione
mentale che mi porta a capire e ad anticipare gli altri, a terminare nella mia mente
i loro discorsi mentre stanno ancora parlando. Ma anche a pensare troppo velocemente nella solitudine. A consumarmi di
pensieri per un nonnulla.
Una vita tormentata dal nervosismo infantile, dal senso di scontentezza, fino ai disturbi ansiosi adolescenziali, e poi con la prova
più intensa: il primo attacco di panico.
Avevo 17 anni e mi stavo guardando allo
specchio; ho provato una paura sconosciuta e terribile nel guardarmi. Si ripeterà ancora e poi ancora. Poi la strada è
tutta in discesa e il dap diviene il vero protagonista della mia vita. Evito tutto quanto penso mi faccia star male.
A 18 anni ho perso l’autobus per il mio
futuro. La mia scelta adolescenziale di
scrivermi in medicina (passione mai esaurita) non può essere soddisfatta. La sede
universitaria implica il soggiorno fuori
casa, e per me è impensabile. Rifiuto un
ottimo posto di lavoro fuori provincia perché ho paura a stare da solo. Nei momenti
di panico notturno dormo nel letto con i
miei genitori. Non credo di avere un futuro.
Vado avanti così, a intermittenza. Sono
seguito da uno specialista. I farmaci funzionano. Li combino all’evitamento di
situazioni potenzialmente scatenanti.
Evito molte cose, non mi sposto dalla mia
casa, faccio quello che posso.
La vita va avanti, fra una terapia e l’altra.
Alterno mesi di pausa e nuovi attacchi.
A 32 anni mi sposo, un anno dopo ho la
mia prima figlia, sei anni dopo la seconda.
Incominciano attacchi di derealizzazione
fortissimi. A questo punto preciso della mia
vita incontro due donne, due medici. Una mi
solleva chimicamente dai sintomi con
pazienza e tanta tenerezza. L’altra mi mette
U
a contatto con una parte di me che sentivo
soffrire, ma di cui non avevo coscienza.
Due anni esatti è durato il percorso insieme a loro. È stata dura, ma piano piano ho
ritrovato me stesso. Quel me stesso che
conoscevo bene ma non sapevo più dove
fosse. E il panico è fuggito. Come un
vigliacco di fronte a un avversario temibile.
Ciò che sono oggi: la simbiosi fra un bambino e un adulto, l’incontro di tante facce in
un’unica persona: adesso non vorrei essere altro che ciò che sono. Si, potrei cambiare, potrei cadere ancora, ma potrei rialzarmi e continuare il cammino. Ho una
solo possibilità: questa mia vita; e non me
la gioco a dadi con il panico. Non voglio
vincere, ma solo vivere. E lo sto facendo.
IN QUESTO NUMERO:
LA NOSTRA LINEA EDITORIALE
DI GIUSEPPE COSTA .......................................................
LA STORIA DEL PANICO
DI MARIO TROIANO ..........................................................
PSICOTERAPIE
DA PAGINA .......................................................................
FARMACI SÌ... FARMACI NO
DI SILVANO DEDALO ..................................................
GENETICA
DA PAGINA .................................................................
TAVOLA ROTONDA
A CURA DI VALENTINA CULTRERA ............................
EUGENIO DI TRAPANI
DA PAGINA .................................................................
ESPERIENZE
DA PAGINA ................................................................
GITA TERAPEUTICA
DA PAGINA ................................................................
COMITATO SCIENTIFICO
DI ANNA PAPPALARDO .............................................
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TERAPIE NATURALI
IL TEMA AFFRONTATO IN QUESTO
NUMERO (LA CURA) HA RICHIESTO
UNA TRATTAZIONE AMPIA E LA PIÙ
ESAUSTIVA POSSIBILE. PER QUESTO
ABBIAMO RITENUTO UTILE
DEDICARE DUE NUMERI
ALL’ARGOMENTO. CI VEDREMO
AL NUMERO OTTOBRE/DICEMBRE!
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Oltre le terapie: la Cura
è scegliere se stessi
Una scelta consapevole nei confronti della propria esistenza
ANNA PAPPALARDO
utto inizia da una decisione: la decisione di affrontare la situazione in
modo sincero e diretto.
La cura è un percorso da intraprendere e
va vissuto come tale, avendo ben chiaro
che a contare è l’obiettivo e non il metodo
per raggiungerlo. Voglio sottolineare questo perché spesso il rischio è che la terapia
diventi fine a se stessa e crei, nella perso-
T
na, una paradossale forma di dipendenza.
Il DAP si affronta e si supera in molti modi,
lo sappiamo bene: non esiste una prescrizione infallibile da applicare sempre e
comunque, le forme in cui gli attacchi di
panico si presentano sono varie e certamente non standardizzabili, anche se
hanno caratteristiche comuni. Ogni individuo vive la sua particolare esperienza che
va quindi rispettata nella sua unicità.
segue a pagina 2
2
L E T T E R A
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Il primo passo è certamente la consapevolezza e la volontà di guardare in faccia il
panico: sembra un pessimo gioco di parole, ma siamo consapevoli di quanto questo
passaggio sia difficile e fondamentale insieme: è una situazione mista di chiusura dettata dalla paura e desiderio di aprirsi per
condividere e liberarsi di un oscuro peso.
“Condividere” è certamente una delle
parole chiave e il gruppo di auto aiuto si
rivela importante, talvolta decisivo: la persona interessata dal DAP si trova insieme ad
altri individui che, come lui, stanno vivendo
o hanno vissuto un’esperienza simile. È un
contesto protetto, in cui sentirsi meno fragili
e “giudicati”, è la dimensione giusta che stimola l’apertura e lo “sfogo” salutare. Il
gruppo di auto aiuto diventa uno strumento essenziale per diventare consapevoli di
non essere soli e di essere colpiti da un
disturbo comune a molti, che non è espressione della propria debolezza e fragilità. Un
disturbo che nasconde le potenzialità della
persona, non le distrugge.
Può essere un punto di partenza e contemporaneamente di arrivo, di certo non
esiste un iter obbligato per la guarigione e
neppure una tempistica da rispettare.
Come leggerete in uno degli articoli in
questo numero, non ci deve essere
un’“ansia di guarigione” perché ciascuno
ha diritto ad avere il suo ritmo e il suo percorso. Il concetto è importante: il DAP è si
espressione di un allarme che scatta a tradimento, ma è condizionato e condiziona
il vissuto e le esperienze della persona,
nasce come segnale che qualcosa è in
disarmonia con l’equilibrio complessivo.
Limitarsi a tornare come prima della comparsa degli attacchi di panico, seppure
sembrerebbe già un traguardo importante,
vuol dire perdere l’occasione di conoscersi meglio attraverso la lente della sofferenza che il DAP crea. L’attacco di panico è
così un “disvelamento”, un cono di luce
per guardarsi meglio dentro, per capire e
capirsi. Sì, il DAP diventa un’opportunità
importante per conoscerci in modo sincero, gettando un’occhiata su angoli di noi
poco noti. Sta a noi, allora, saperlo affrontare con questa consapevolezza, sicuri
che con la guarigione ritroveremo un equilibrio più vero e consapevole.
Non è semplice ma, ve lo assicuro insieme
a molti amici della Lidap, questo cammino
porta a esiti sorprendenti.
La guarigione nasce anche da un atto di
ribellione, di sfida, se vogliamo vederla
così. Ho incontrato molte persone: nei loro
racconti ho visto spesso come hanno
A I
S O C I
osato andare oltre il DAP, affrontando direttamente la situazione di potenziale “pericolo”, ovviamente con il giusto supporto. La
fuga o la passiva accettazione non conducono da nessuna parte se non in un circolo perverso perché, come già sottolineato,
è la scelta di reagire, quell’alzarsi in piedi
fisico e metaforico che conduce oltre
l’attacco di panico, è l’atteggiamento indispensabile che va oltre ogni metodologia
di cura adottata. Di più: è la chiave con cui
riprendere in mano la propria vita. Dobbiamo esserne consapevoli.
Finora ho parlato del significato e dell’obiettivo, di come la terapia debba essere
strumentale a questo sentiero. Negli articoli
che proponiamo in questo numero andiamo a focalizzare alcuni punti importanti.
Giuseppe Ciardiello in “Psicoterapia e/o
psichiatria” riflette sull’interrogativo “È
meglio parlare del mio malessere con
qualcuno o prendere un medicinale?”. La
risposta sta certamente in un approccio
che riconosca la complessità della persona senza necessariamente implicare la
necessità di operare una scelta tra farmaco e terapia della parola anzi, al contrario,
favorendone l’integrazione.
“Farmaci si, farmaci no” di Silvano
Dedalo punta l’attenzione contro il “fai da
te” dei medicinali, sottolineando al contrario un utilizzo intelligente e soprattutto
accompagnato da un vero progetto di
guarigione e cambiamento.
Giampaolo Perna in “Non solo geni, ma
anche geni” affronta un tema davvero
importante: il ruolo dei geni nei confronti
del DAP. Semplificando: l’attacco di panico si trasmette di genitore in figlio? Una
domanda che ovviamente ha un peso
specifico non banale. Nell’ articolo vengono portati numeri e statistiche, con una
conclusione: esiste una predisposizione
genetica al DAP ma, attenzione, predisposizione non significa presenza. Ad incidere, in maniera comunque pesante, sono
anche le condizioni ambientali in cui la
persona vive. Entrambi gli aspetti vanno
tenuti allora in grande attenzione per sviluppare metodologie di guarigione sempre
più ampie ed efficaci.
In “Psicoterapie dei disturbi d’ansia”
Nicola Ghezzani invece analizza i tipi di
intervento in situazione di ansia e di DAP:
si può mirare “al contenimento e alla
gestione del sintomo oppure al cambiamento dell’intera personalità”. Nell’articolo
vengono poi commentate le diverse tecniche riconducibili ai due filoni.
“Senza prima bussare” è il titolo del contributo di Maurizio Montanari e raccoglie
un’ampia riflessione sul panico, il suo
significato per la persona e i modi per
affrontarlo. Uno sguardo trasversale che
non può che concludersi con invito alla
multidisciplinarietà.
Anche Pietro Spagnulo in “Alla riscoperta di se stessi” ribadisce le possibilità
offerte dal DAP per scoprire il proprio sé:
l’importante, però, rimane l’atteggiamento
equilibrato nei confronti della terapia, evitando di darsi tempi o scadenze.
La medicina e la psicologia quindi ci mettono di fronte a dibattiti estesi sulla soluzione migliore per superare il DAP: negli
articoli analizzeremo alcuni interessanti
punti di vista.
Un approccio farmacologico corretto, è
importante per bloccare gli attacchi gli
panico e poter quindi iniziare quel lavoro
su se stessi che permetta di ritrovare la
propria libertà ed autonomia superando la
paura della paura. La pillola non è un rimedio sufficiente, ma è un punto di partenza
importante.
Una serie di sedute di psicoterapia permette, in taluni casi, di affrontare le proprie
paure ed i propri limiti (con la terapia cognitivo comportamentale) ed in altri una conoscenza maggiore del proprio io (con la terapia dinamica-analitica), ma anche qui non
siamo di fronte ad un rimedio sufficiente.
La svolta per la persona colpita da DAP
può avere forme e situazioni imprevedibili:
quindi non sul come, perché l’approccio
deve essere olistico e riguardare tanto il
fisico quanto la mente.
Il concetto di approccio integrato passa
proprio da qui. Una ragionata combinazione tra psicoterapia e farmacoterapia
consente infatti di intervenire in modo
completo, “lavorando” sia sulla qualità
della vita (fortemente compromessa dai
sintomi) attraverso i farmaci, sia su un processo di comprensione del disturbo e
recupero dell’autonomia e della libertà
grazie alla consulenza di uno psicoterapeuta. Il DAP viene affrontato così a 360
gradi e la persona partecipa attivamente
alla sua guarigione, non è più l’oggetto
di una cura ma piuttosto la protagonista di un percorso.
Dobbiamo esser chiari: la pillola e la psicoterapia sono viste come due soluzioni in
chiave quasi contrapposta, una sorta di
aut aut semplicemente assurdo.
Non siamo a un bivio dove, intrapresa la
strada, non possiamo più tornare indietro
e dobbiamo per forza continuare sempre
e comunque.
E questo è uno dei luoghi comuni più dannosi. L’altro punto da ribadire è che cia-
D A L
D I R E T T O R E
3
La nostra linea editoriale
lcuni nostri lettori, nonché soci Lidap, ci hanno fatto pervenire alcune valutazioni critiche sull’impostazione degli ultimi 2 numeri di Pan (quelli della nuova serie, per intenderci).
Viene rilevato un eccessivo spazio assegnato agli articoli dei
consulenti e dei ricercatori Lidap rispetto a quelli dei soci che in
passato, invece, avrebbero avuto più spazio. Intanto diciamo subito
che le osservazioni, ancorché critiche, ci fanno sempre piacere sia
perché denotano interessamento al nostro impegno sia perché ci
permettono di migliorare il prodotto del nostro lavoro. Nello specifico, tali osservazioni ci danno la possibilità di illustrare il modo in cui
costruiamo il giornale e quale linea editoriale ci orienta.
Nel numero 3/4 del dicembre 2007, presentando la nuova serie di
Pan, avevamo scritto che “non abbiamo mai negato, scientemente,
la pubblicazione di un articolo o una lettera che ci perveniva dai
Soci o dai Lettori”! Questo impegno rimane nella misura in cui,
però, Soci e Lettori ci inviano i loro contributi e questo flusso, dobbiamo dire, non sempre è costante. Sia la redazione che il Direttivo Lidap svolgono una costante azione di sollecito nei riguardi del
corpo associativo affinché il flusso di contributi dalla “base” sia
continuo ma non sempre tale azione ottiene i risultati auspicati.
Questa è una delle ragioni per cui in alcuni numeri di Pan possono prevalere in quantità i contributi dei consulenti e ricercatori
Lidap. Quindi colgo questa occasione per sollecitare ancora tutti
coloro che ci leggono e che vogliono far conoscere le loro storie di
inviarci i loro articoli o semplici osservazioni, anche critiche, perché questo rappresenta uno dei due pilastri del nostro periodico.
Abbiamo detto che il contributo dei Soci è un “pilastro” di Pan e
in questa proposizione prende corpo uno dei compiti statutari
della Lidap, cioè quello della condivisione e della solidarietà; pensiamo infatti che raccontare la propria esperienza sia un modo
non solo di condividere un proprio particolare cammino di vita, ma
anche quello di dare e ricevere solidarietà! Qualcuno si è spinto a
A
scuna opzione ha i suoi pro e i suoi contro, da tenere in debita considerazione.
L’affidarsi al farmaco passivamente come se
agisse magicamente è un errore allo stesso
modo che impegnarsi in un programma psicoterapeutico che non abbia chiari gli obiettivi ed i tempi con rischio di durare anni
senza arrivare ad una soluzione.
La persona colpita da DAP non deve
attaccarsi al medicinale come a un amuleto da portare con sé per tutta la vita e neppure deve fare della psicoterapia l’ancora
necessaria al suo equilibrio.
L’esito è purtroppo evidente: sostituiamo
una dipendenza con un’altra, senza capirne le origini. E questa non è guarigione, è
un trascinarsi avanti, rinunciando alla possibilità di comprendere se stessi e tornare
liberi ed autonomi.
Utilizziamo allora questi due “strumenti”
guidati da un medico e da uno psicoterapeuta in modo lucido, al momento giu-
dire che Pan potrebbe essere come un grande gruppo di automutuo aiuto che abbraccia tutti i Soci della Lidap… Naturalmente questo non è vero e non sarebbe comunque possibile, oltre che
fuorviante, rispetto alle autentiche dinamiche dei nostri gruppi ma
è innegabile il conforto che può dare il sentimento di partecipazione collettiva che si prova raccontando o leggendo del disagio o
del successo nell’affrontare un’esperienza di vita così particolare
e complessa come è quella del disturbo da attacchi di panico.
Ma Pan non può esaurire il suo ruolo in questo modo. Nell’articolo
sopra citato si diceva anche che “fin dalla sua nascita, nel 1991, la
Lidap ha inserito nei propri statuti la missione di fornire al più
vasto pubblico possibile un’informazione corretta sulle problematiche legate al Dap” e questo spiega perché nella nostra rivista
diamo spazio ai contributi dei collaboratori scientifici della Lidap
o dei professionisti delle scienze o delle culture che in qualche
modo riguardano le nostre problematiche. Con la nuova serie di
Pan queste collaborazioni sono state sistematizzate e meglio strutturate e questo ha dato più peso al loro apporto piuttosto che la
loro quantità rispetto a prima (credo che sia questo che ha prodotto una diversa percezione dei contributi professionali che alcuni nostri lettori hanno lamentato!). È vero, a volte sono articoli ostici a una facile lettura ma, indipendentemente dalla singole capacità espositive, la materia che trattano, e che ci riguarda, è spesso
difficile come è “difficile” e “complesso” il nostro problema! È un
percorso, però, a cui non possiamo rinunciare sia per compiti statutari sia per buon senso: che giornale sarebbe il nostro se si riducesse a registrare solo le esperienze dei Soci senza gettare lo
sguardo oltre il sintomo? Sarebbe come quei gruppi che non riescono a superare la fase iniziale in cui si è incentrati nel racconto
dei sintomi e nelle illustrazioni delle peculiarità di ogni farmaco;
fase quasi d’obbligo, direi, finalizzata certamente ad assaporare
sto e all’interno di un vero percorso verso
il superamento del DAP.
Il gruppo di auto-mutuo aiuto si inserisce come cornice ulteriore. Le esperienze
condivise vengono catalizzate da un facilitatore che non può e non deve esprimere giudizi sulle modalità di trattamento
(è meglio il farmaco o è meglio la psicoterapia, o peggio, il farmaco fa male o la psicoterapia è inutile!!), senza la necessità di
essere guidate da un conduttore professionista, per non intaccare l’immediatezza
della situazione e per permettere ad ogni
partecipante di diventare auto consapevole delle mille sfaccettature del DAP e del
fatto di non essere solo.
Nel gruppo, nessuno è superiore o inferiore
all’altro perché è la dimensione di equilibrio
che stimola il desiderio di esprimersi e condividere. Lo scambio tra “pari” diventa la
chiave di volta per aprirsi in modo vero, in
modo totale. Il gruppo di auto-mutuo
segue a pagina 26
aiuto si è ripetutamente dimostrato come
snodo decisivo, per varie ragioni ma in
primo luogo, probabilmente, perché guarda
con intensità e con priorità all’individuo.
Non fissiamoci, allora, su posizioni e preconcetti, teniamo in primo piano la persona e la sua dimensione. Non dimentichiamoci che lottiamo contro un disturbo che
colpisce uno dei diritti fondamentali di ogni
individuo: la libertà. Ed è proprio per la
serietà di questo disturbo che dobbiamo
ancorarci fortemente su ciò che la scienza
dimostra come punto di partenza imprescindibile. Ogni operatore che voglia aiutarci, psichiatra, neurologo o psicoterapeuta che sia, deve responsabilmente
offrirci soluzioni validate da studi scientifici
o altrimenti avere l’onestà intellettuale di
non spacciare la sua opinione lasciando a
noi l’opportunità di una scelta informata.
È qui che il cammino inizia!
ANNA PAPPALARDO
4
R I F L E S S I O N I
È una parola piccola, la parola “cura”, che
a noi arriva direttamente dal latino, da quel
cura-ae che per lo più traduciamo con
“preoccupazione, affanno, inquietudine”.
Frugando il vocabolario della lingua italiana, si distinguono però due principali
DI VALENTINA CULTRERA
aree di significato del termine “cura”: la
prima è quella di “impegno, dedizione, interesse, attenzione,
ecc”; la seconda è quella di “terapia, medicina, ecc.”.
Mi viene in mente la scuola elementare, la maestra che detta, come
compito, qualcosa del genere: “Scrivete cinque frasi con la parola
cura”. La mamma cura i propri figli, il medico cura i malati, il papà
cura la sua collezione di medaglie, il bimbo ordina con cura i suoi
soldatini, la nonna mi ricorda di aver sempre cura di me.
Queste erano più o meno le frasi che scrivevo io, in fretta, per
chiudere con i compiti il prima possibile. E la frase della nonna
è quella che, oggi, mi invita a riflettere e a fare due bilanci.
Pensando al disagio psicologico, ai sintomi spesso drammatici
con cui esso si manifesta, alle tante storie che si dipanano nei
nostri gruppi, penso che per me sia sempre più facile fornire
informazioni sulle possibilità di cura, intesa come ventaglio di
terapie, che contribuire a una riflessione proficua sulla necessità di prendersi cura di sé.
Eppure, in ogni gruppo di auto-aiuto in cui mi trovo, esaurito lo
scambio di notizie sulle diverse terapie in atto (farmacoterapia,
psicoterapia, ecc.), finisco sempre per veder le persone intraprendere la strada del benessere individuale quando esse, dopo mesi o
anni di sofferenza, tentano e, con fatica, riescono a fare una cosa
piacevole, che dà loro gioia, che gratifica bisogni personali sopiti.
“Sono riuscita a stare dieci minuti a guardare una vetrina”, “Ho
fatto una passeggiata in riva al mare”, “Ho accettato di provare
quel lavoro a cui tenevo tanto”, “Ho detto a mio marito che non
avevo voglia di andare a trovare sua madre”.
Si accende una luce, si comincia a guardare il sintomo con occhi
LA CURA
INTESA
COME
ASCOLTO
diversi, proprio quel sintomo che per molto tempo è stato ascoltato e nutrito, intorno al quale abbiamo fatto ruotare le nostre
scelte e le decisioni anche più delicate, di cui si sono impregnate tutte le nostre relazioni personali.
Si accende una luce e cominciamo ad ascoltare altri bisogni. E
a uno, finalmente, proviamo a dare consistenza, realtà, vita, riuscendo così a riprenderci un piccolo pezzo della nostra vita.
Cos’è, allora, che accomuna la cura, intesa come terapia, alla
cura, intesa invece come attenzione e dedizione?
Nella mia esperienza personale e nel mio lavoro con i gruppi ai
auto-aiuto ho sperimentato che alla base di ogni cura deve esserci l’ascolto. Curare un paziente è, prima di tutto, ascoltarlo con
attenzione, ascoltare le sue parole, i suoi gesti, i segnali del suo
corpo, le risposte di quel corpo a qualunque intervento terapeutico esso venga sottoposto. Prendersi cura di sé e degli altri è,
prima di tutto ascoltare, in silenzio, di che cosa c’è richiesta e,
prima ancora, banalmente, se ci sono richieste di cura.
Prendersi cura di sé è sentire le proprie emozioni, decidere di
esprimerle o di lasciarle vivere nell’intimo, ma di esse essere
consapevoli; è cogliere l’emozione della persona di fronte a noi,
ma non essere mai sicuri di averla colta, fino a che essa non ce
ne dia conferma; è accettare di non aver voglia o possibilità o
risorse per prendersi cura di qualcuno; è sapere a che cosa stiamo rinunciando quando ci prendiamo cura di noi e a che cosa
rinunceremo, probabilmente, se accetteremo di prenderci cura
degli altri. È sapere a che cosa non potremmo mai rinunciare,
per nessuno. È saper dire di no, senza sentirci delusi di noi stessi e senza sentirci degni di essere abbandonati da tutti. È cogliere che la cura di sé è legata a filo doppio alla cura degli altri, e
che senza un buon ascolto di sé, sarà difficile dar spazio alla
voce, diversa dalla nostra, di colui che ci ha chiesto aiuto.
È, quindi, ascoltare in silenzio. Pochi hanno il dono di riuscirci
in modo spontaneo. I più, all’ascolto vero, debbono arrivare lavorando duramente e… con cura.
RECENSIONI
Puoi anche dire no!
L’ASSERTIVITÀ AL FEMMINILE
PSICHIATRIA COME
MEDICINA DELL’ANIMA
BAUER-BAGNATO-VENTURA, ED. BALDINI&CASTOLDI
MARCO BERTALI, MACRO EDIZIONI, 2006
Riuscire a dire, in modo chiaro e diretto, ciò che sentiamo e ciò che
Quest’opera tratta la salute psichica con un
pensiamo, nel pieno rispetto di noi stessi e degli altri: in sintesi queapproccio di tipo olistico, che prende in consta è l’assertività, una capacità che ogni individuo possiede alla
siderazione anche la natura spirituale delnascita, e che perde, strada facendo, per imitazione di un mondo
l’essere umano. La psichiatria infatti dovrebadulto che difficilmente riesce a mantenere questa dote integra.
be essere intesa sempre meno come mera somministrazione di farCrescendo, si impara scioccamente che, per mantenere integre le maci e sempre più come cura profonda dell’Anima. La maggior parte
relazioni più significative e importanti, non “sta bene” dire ciò che si delle problematiche per le quali viene fatta una diagnosi psichiatrica
sente, almeno non sempre. E per essere
sono in realtà sofferenze psichiche, segnali che la nostra Anima ci laneducati, bene educati, si finisce per alienarsi cia per richiamare l’attenzione sui nodi non sciolti della nostra vita.
Psichiatria come Medicina dell’Anima è anche una denuncia durissima dell’uso sconsiderato degli
e per impoverire le relazioni interpersonali.
Ma è possibile salvare capre e cavoli? È psicofarmaci (meglio definibili con il neologismo di cerebrofarmaci) soprattutto per quei disagi
possibile riscoprire il piacere di essere psichiatrici meno gravi (stati depressivi, stati d’ansia, crisi di panico, fobie, disturbi ossessivi,
coerenti con ciò che si prova, senza man- disturbi psicosomatici) che possono essere invece curati con un approccio psicoterapeutico, o più
in generale relazionale, e con l’utilizzo di tecniche introspettive e di modifica psico-fisiologica ed
care di rispetto a un’altra persona?
Le autrici del libro ci spiegano in modo energetica (meditazione, yoga, training autogeno, reiki, pranichealing, rioabierto,ecc.).
semplice, ricco di esempi concreti e di È qui racchiusa la preziosa testimonianza di uno psichiatra che opera sul campo da più di
storie in cui è facile riconoscersi, che cos’è vent’anni, e ha sperimentato con successo soluzioni “dolci” per moltissimi problemi psicologil’assertività, quali vantaggi offre alle rela- ci, solitamente insabbiati sotto la coltre soffocante di farmaci più o meno potenti, che vengozioni tra le persone, come fare per farla no ancora, nonostante gli effetti collaterali che arrecano, prescritti abbondantemente dietro
VALENTINA CULTRERA
forti pressioni delle industrie farmaceutiche. Un’accusa autorevole, dunque, contro le indupropria.
segue a pagina 26
L A
S T O R I A
D E L
P A N I C O
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L DAP È LA MANIFESTAZIONE DI PROFONDI STATI DI ANSIA, STRESS, DEPRESSIONE CHE NASCONDONO SEMPRE UN’UNICA
angoscia esistenziale: la paura di vivere.
ste silenziosamente nella nostra vita fino a quando, un bel giorno,
Sembra strano pensare che già nel IV secolo l’uomo potesse inaspettatamente, emergono con prepotenza nella nostra vita.
soffrire di attacchi di panico, ma gli scritti dell’illustre medi- Chi soffre di questo disturbo è una persona che si cimenta nella
co greco, Ippocrate, ci danno notizie che vanno proprio in que- folle impresa di tenere lontano dalla propria vita le emozioni: ne
sta direzione. L’attacco di panico non è, dunque, un disturbo di ha paura, perché percepisce la inevitabile difficoltà di controlrecente generazione.
larle, di tenerle a bada e quindi sceglie per loro la via
Ippocrate (460-370 a.C.), infatti, il fondatore della medicina dell’«emarginazione». Sappiamo, però, che le emozioni sono
scientifica, parlò di isteria, descrivendone sintomi specifici che parte integrante e ineliminabile del tessuto stesso dell’esistenza
noi oggi consideriamo riconducibili agli attacchi di panico. Dopo e che l’impresa condotta nel tentativo di mandarle in esilio in
di lui Galeno (200-130 a.C.), il padre della fitoterapia, individuò qualche isola sperduta della nostra coscienza, di metterle al
le cause della cosiddetta isteria nel disequilibrio dello stato degli bando, è impossibile e genera un profondo conflitto interiore che
umori, che identificava in bile gialla, bile nera, sangue e flegma. prima o poi esploderà. È come se ogni giorno spingessimo nel
Intorno al I secolo dopo Cristo il medico greco Areteo di Cappa- profondo, dentro di noi, una certa quantità di emozioni fino a
docia narrò la storia di un carpentiere saggio e dalle grandi capa- quando le loro vibrazioni, se pure compresse, sono talmente
cità che, al momento di scendere al foro, alle terme o in qualsiasi intense e strette l’una sull’altra da cercare una via di fuga, una
altro luogo pubblico, cominciava a sospirare e riusciva a tornare strada verso la libertà e, in qualche modo, verso il loro riconoin sé solo una volta rientrato nel luogo di lavoro. Oggi l’agorafobia scimento da parte nostra: l’attacco di panico, infatti, si manifeè una paura riconosciuta e studiata dalla psicologia. Con un salto sta proprio in un’eruzione incontrollabile di emozioni spiacevoli
lungo piú di 2 millenni approdiamo al pensiero di Boissier De Sau- sia per la nostra psiche che per il nostro corpo.
vage (1700) che utilizzò il termine «vertigine isterica» per descri- Perché si possa parlare di DAP (Disturbo da Attacco di Panico)
vere una sintomatologia da ricondurre all’attacco di panico.
gli attacchi si devono verificare con una certa frequenza nel
Culen, mezzo secolo più tardi, coniò il tertempo: almeno quattro in un mese. Molto
mine «nevrosi funzionale», mentre Morel
spesso, però, è possibile che si verifichi
(1866) descrisse i sintomi caratteristici
un solo attacco di panico seguito dalla
di una «nevrosi vegetativa».
persistente angoscia che la sconvolgente
Krishaber, tra il 1872 e il 1873, descrisse
esperienza possa ripetersi. La cosiddetta
con il termine «neuropatia cerebo-cardia«sindrome del bambino scottato».
ca» una patologia che presenta caratteristiLA PAURA/NEVROSI D’ANGOSCIA
che simili a quelle degli attacchi di panico.
Fobo (dal greco, paura) era figlio di AfroNello stesso periodo il medico militare De
dite, la dea dell’amore, e di Marte, il dio
Costa battezzò una nuova corrente di
della guerra. È bizzarro pensare che la
ricerca sulle conseguenze che lo stato
paura sia nata (nella mitologia, si intend’angoscia può avere sul funzionamento
de) dall’incontro tra amore e conflitto? In
del cuore rendendolo più fragile.
DI MARIO TROIANO
fondo, a pensarci bene non sembra così
Anche Sigmund Freud (1856-1939), il
PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA
innaturale. In entrambi i casi, in amore
neurologo e medico austriaco che offrì al
come in guerra, esiste la paura. È una
mondo l’incredibile scoperta dell’inconscio, impiegò le sue energie per studiare i disturbi dell’ansia delle emozioni più ancestrali. Secondo Epicuro, filosofo greco
dando loro un nuovo nome, «nevrosi d’angoscia», e individuan- del III secolo avanti Cristo, lo scopo della filosofia era proprio
done due forme in relazione alla quantità minore o maggiore di quello di liberare l’uomo da quelle «malattie» dell’anima che
ansia. La prima, spiegò Freud, si manifesta in un diffuso senso impediscono il raggiungimento della felicità: la paura degli dei,
di paura e di inquietudine che nasce da un pensiero rimosso, la paura della morte.
curabile attraverso l’intervento psicoterapeutico. La seconda La regina delle paure è l’angoscia d’abbandono, detta anche
forma, nella quale predomina l’aspetto biologico, è accompa- nevrosi d’angoscia: un’emozione che la vita ci offre in dotazione
gnata da aumento dei ritmi respiratori e cardiaci, sudorazione, fin dalla nascita e che ci accompagna, se pur in forma latente,
per sempre.
diarrea e terrore.
Passarono anni di silenzio sull’argomento fino a quando Donald Il «cucciolo» d’uomo per diventare «autonomo» sotto l’aspetto del
Klein, negli anni sessanta, riaccese i riflettori sui disturbi d’ansia nutrimento e della ricerca del cibo impiega almeno 6 anni di vita;
dimostrando che gli attacchi di panico hanno caratteristiche bio- ne consegue che tutto il suo sviluppo psichico in quel tratto di
logiche, epidemiologiche e cliniche specifiche. Solo nel 1980, esistenza è condizionato. Per vivere dipende dagli altri, in partinella terza edizione del DSM 1980 (Diagnostic and Statistical colare dalla mamma. Per questa ragione il bambino, crescendo,
Manual of Mental Disorders – Manuale diagnostico statistico per assocerà il bene della madre nei suoi confronti alla propria
i disturbi mentali) venne ufficialmente stabilito che gli attacchi di sopravvivenza e vivrà con la paura profonda, sempre in agguato,
panico sono una forma assolutamente specifica di disturbo di essere abbandonato. Questo spiega perché, anche in età aduld’ansia e come tali richiedono un approccio terapeutico specifico. ta, quando ci manca l’amore e l’affetto abbiamo la sensazione di
non poter vivere e sopravvivere, come se ci mancasse la proteCOS’È L’ATTACCO DI PANICO?
zione, l’accudimento, il cibo stesso. In altre parole, per la nostra
Il panico è un problema strettamente collegato alla regolazione e psiche, per il nostro Sé, l’amore, la sicurezza e il cibo sono tutt’ual contenimento delle proprie emozioni. Le sue radici profonde no: quando perdiamo l’uno abbiamo la sensazione di perdere
hanno a che fare con zone grigie di depressione e di dolore nasco- anche l’altro e siamo assaliti dal dolore e dall’angoscia. Se, però,
I
DAP:
DALLA
ANTICHITÀ
A OGGI
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6
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Alla riscoperta di se stessi
l Disturbo di Panico riceve quotidianamente molta attenzione da parte dei media. Numerose e a volte controverse e confuse sono però le notizie sui trattamenti e sulla loro durata.
Non c’è da sorprendersi: il Disturbo di Panico è molto diffuso, è fortemente invalidante, e soprattutto, è curabile. Quindi è
comprensibile che desti molto interesse.
I
continua da pagina 5
da una parte esiste la paura d’abbandono – come elemento fondamentale della crescita psichica dell’individuo, della sua vita
emozionale – dall’altra, fortunatamente, a farle da contraltare,
esiste un’altra pulsione altrettanto inevitabile e costitutiva per lo
sviluppo equilibrato della persona, che affiora in età più adulta:
è l’istinto verso l’esplorazione e l’autonomia. Se non siamo in
grado di diventare autonomi, infatti, saremo sempre persone
incapaci di instaurare relazioni significative con gli altri. I due
binari – ricerca di protezione da una parte e capacità di esplorazione verso l’ambiente circostante dall’altra – devono sempre
vivere in armonia nella vita psichica e nel Sé di ogni individuo,
pena l’insorgere di gravi problemi psicologici. La teoria dell’attaccamento di John Bowlby spiega molto bene l’importanza del
bisogno di sicurezza e protezione come bisogno che dura tutta la
vita, e l’angoscia di separazione e di abbandono come conseguenza e risposta alla perdita di questa relazione.
(Articolo tratto dal libro di Mario Troiano,
Guarire dagli attacchi di panico, Magi Edizioni Scientifiche, 2005)
MARIO TROIANO, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’A.F.I. (Associazione Famiglie Italiane), direttore e vice presidente dell’I.E.I.P.E. (Istituto Europeo Internazionale di Psicologia dell’Emergenza), consulente tecnico del Tribunale Civile di
Roma. Svolge attività clinica e di consulenza sui problemi della
famiglia e della persona.
Nel corso degli ultimi dieci-quindici anni si sono accumulate
ormai numerose prove che le terapie basate sui principi cognitivi e comportamentali sono ben efficaci nel ridurre i sintomi e
l’evitamento sino alla loro scomparsa in un’alta percentuale di
persone. Le più autorevoli linee guida internazionali individuano
nella terapia cognitivo-comportamentale il trattamento di eccellenza per superare il disturbo e sono allo
studio promettenti interventi integrativi
che migliorano ulteriormente i tempi e la
diffusione della efficacia.
Purtroppo, però, proprio la risposta positiva del disturbo a vari trattamenti pragmatici e focalizzati sull’esposizione e
sulla desensibilizzazione favorisce la tentazione di proclamare speciali abilità
curative da parte di questo o quel centro
o specialista.
Non è infrequente imbattersi in promesse
di spettacolari guarigioni in poche sedute.
Certo, può accadere anche questo. Le
terapie moderne sono molto efficaci, e il
cambiamento di atteggiamento verso i
sintomi da parte di chi soffre del disturbo può essere anche repentino ed è un
elemento cruciale del lavoro psicoterapeutico.
A volte accade che persino dopo un solo
incontro “illuminante” si possa riprendere
il controllo della propria vita e si apprenda a non fidarsi delle proprie idee distorte sugli effetti dell’ansia (la paura di perdere il controllo, di morire, di impazzire).
Tuttavia, generalmente è necessario un certo tempo – alcuni
mesi – per “apprendere” a non temere il proprio corpo e le proprie emozioni. Nella stragrande maggioranza dei casi è necessario un comprensibile periodo di progressivo allenamento
prima di sentire la propria ansia come non pericolosa e dunque
prima di sentirsi pronti ad affrontare situazioni e circostanze
temute.
Per questa ragione i trattamenti che promettono troppo in troppo poco tempo finiscono per innescare un’ansia da prestazione
(“se non ci riesco sono io che non sono capace”, “non ce la farò
mai a superare il mio problema”, etc.) che naturalmente non fa
che aggiungere all’ansia ulteriore ansia e dunque allungare
paradossalmente i tempi di risposta al trattamento o addirittura
fa interrompere precocemente il trattamento con aggiuntivi sentimenti di frustrazione.
Il mio consiglio è di iniziare un trattamento adeguato, ma senza
“ansia” di risultati, concedendosi il tempo necessario per acquisire gli strumenti e l’esperienza necessaria per fare a meno del
repertorio di evitamenti e circoli viziosi.
Curare il Disturbo di Panico non è una lotta contro dei sintomi,
ma una preziosa opportunità di riscoperta del proprio corpo,
delle proprie emozioni e di riorganizzazione delle proprie priorità e dei propri progetti di vita.
PIETRO SPAGNULO
Direttore del Centro Ricerche
per i Disturbi d’Ansia
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7
GNI TANTO “RICICCIA” QUESTA PREOCCUPAZIONE. È MEGLIO UNA PSICOTERAPIA O ANDARE DA UNO PSICHIATRA? È
meglio parlare del mio malessere con qualcuno o pren- o la capacità nutritiva del pane) messe insieme potranno mai dare
dere un medicinale? In quale modo posso meglio risol- il complesso delle funzioni del supermercato che saranno sempre
vere il problema? Come faccio prima? In quale modo “maggiori della somma delle parti” che lo compongono.
risparmio? Anche gli operatori della psiche sentono la pressio- Beh! Che lo vogliamo o no, è così anche per il nostro organismo.
ne di queste domande; pressione che a volte li inducono a cor- Abbiamo un corpo con tanti sistemi e organi che sono studiati e
rere un rischio. Corriamo questo rischio anche quando ci avven- guardati con tagli e punti di vista specifici e diversi. Ma quando
turiamo nel mondo della cura del panico e questo rischio si diciamo, come poco sopra, “abbiamo un corpo”, a dirlo è una
parte di me, di noi, che non è localizzabile in nessuna parte del
riflette sulle persone che di questo disturbo soffrono.
Il rischio consiste nei vari deliri di onnipotenza attraverso i quali mio corpo perché è il frutto del funzionamento dell’organismo
non è facile districarsi sia per i medici, psichiatri e psicoterapeu- complessivo. L’organismo che “sono”, solo nell’interazione con
ti che, più o meno esplicitamente, nei loro messaggi e analisi dia- un altro simile a me, e nella condivisione di uno spazio comune,
gnostiche, presentano come risolutivi alcuni interventi piuttosto produce quella parte di me capace di dire “Io” distinguendolo/si
che altri. A volte sembra che veramente il nostro corpo venga ridot- dal “Tu”; quella stessa parte capace di riflessione e di guardare
to e trattato alla stregua di un supermercato in cui le persone entra- anche all’organismo come fosse un oggetto e che mi spinge a
no già sapendo cosa cercare, con quali caratteristiche; i nostri orga- questa riflessione. Quella parte che può guardare il supermerni e sistemi sono guardati e visti a volte da un biologo, altre da uno cato o il vasetto di marmellata. Quindi, quando siamo ansiosi o
psichiatra, poi da un medico, e ognuno di essi, essendo e sentendo- depressi o spaventati, è normale che ci siano scompensi anche
si lo specialista di turno, esprime un parere che il più delle volte non negli organi e nei sistemi del nostro organismo. E il desiderio di
trovarli sarà condizionato solo dal metodo di ricerca e dagli strutiene conto di quello degli altri.
Eppure il nostro organismo è un “insieme” di parti stupendamen- menti impiegati. Ma il problema non è lo stato e il funzionamento di questi organi o sistemi, bensì l’ansia
te interconnesse. E quando diciamo “un
o la depressione o la paura di quell’Io che
insieme di parti in interazione” intendiavive questi stati emotivi; cioè di colui o
mo dire che ogni parte funziona come funcolei che, chiamando per nome questi
ziona anche perché è in sintonia con le
stati, li interpreta come manifestazione di
altre parti ed è proprio la loro reciproca
tutto il complesso dell’organismo che
collaborazione a definirne le funzione nei
siamo. E il complesso dell’organismo che
loro limiti e nella loro modalità.
siamo è sempre un dato relazionale.
Volendo semplificare stiamo dicendo che
Da questo punto di vista sarò “Io”,
vediamo nel modo in cui vediamo anche
l’organismo che sono complessivamente, a
perché i nostri occhi sono posti sotto la
definire quelle sensazioni in un modo o
fronte, e portano i loro messaggi grazie ai
nell’altro in relazione alla mia esperienza
neuroni e ad altri sistemi che funzionano
storica ed evolutiva. Non c’è né ci potrà
per mezzo della neurochimica che dipende
DI GIUSEPPE CIARDIELLO
mai essere una validazione oggettiva della
anche dalla funzionalità neuroormonale
fenomenologia che ci contraddistingue ed
che a sua volta condiziona la presenza e la
è per questo che, quando stiamo male, o
concentrazione dei neurotrasmettitori ecc.
Nel nostro organismo tutto è collegato. Tornando alla metafora del anche sentiamo solo del disagio, la prima cosa che dobbiamo
supermercato, gli organi del nostro corpo sono la merce nel suo chiederci è che cosa vogliamo curare o che cosa sentiamo veradettaglio; poi, nel supermercato, ci sono i ripiani, i reparti, i set- mente che non va come vorremmo che andasse. Se decidiamo per
tori merceologici, e tutti questi vari elementi lo compongono nel l’organismo nel suo complesso, allora la cura e la riabilitazione
suo complesso come nel nostro organismo contribuiscono i siste- di un singolo organo o sistema non può essere la soluzione defimi, dai semplici ai complessi, dai sistemi cellulari a quello respi- nitiva, ma deve essere solo un momento di uno spazio e un tempo
ratorio, circolatorio, nervoso ecc. Pur essendo vero che ognuno più ampio in cui si preveda anche un altro tipo di intervento.
può trovare quello che cerca, a seconda dei suoi bisogni (alimen- Intendo dire che secondo il mio punto di vista nel DAP la cura
tari o di ricerca), arrivando anche a scomporre nel dettaglio ogni d’elezione è la psicoterapia e gli interventi psichiatrico e di riabisingolo elemento fino a farlo diventare un atomo o cellula, è anche litazione comportamentale, quando e se necessari, dovrebbero
vero che il livello funzionale e la categoria cui appartiene il super- essere mirati solo alla mitigazione dei sintomi in modo da contrimercato non potrà mai essere ridotto al singolo elemento che con- buire a renderla possibile. Il DAP è una sindrome (insieme di sintomi); spesso, se non sempre, è la parte emergente espressiva di
tiene né può essere da esso dedotto.
Il supermercato sarà sempre più ampio, più complesso del singolo un disturbo relazionale antico e profondo e quello relazionale è un
elemento che, anche scomposto, non potrà mai dare il resoconto disturbo che solo per il tramite di una relazione si può pensare di
risolvere. La relazione terapeutica è l’unico tipo di relazione che,
né potrà rendere conto delle funzioni di tutto il supermercato.
Le funzioni del supermercato (servire una fetta di popolazione nei effettuandosi in uno spazio protetto e basandosi su un rapporto di
suoi bisogni alimentari ed altro; stabilire rapporti di lavoro con fiducia, può proporsi di toccare temi che fanno, e con fatica, capoalcuni e diversi tipi di categorie di persone ecc.) saranno sempre lino da questi sintomi. Temi che, presi in carico, possono condurpiù della somma dei singoli componenti di questa struttura. Que- re alla soluzione del problema della fiducia, dell’abbandono, del
ste funzioni non sono quindi riconducibili alla somma degli articoli dolore, della tensione, della tenacia, dell’amore, della rabbia…
alimentari che, appartenendo a categorie con qualità diverse, non Temi che non sono localizzabili in un organo del nostro corpo ma
possono essere ad esse paragonati. Ma neanche le funzioni dei sono espressi come funzioni complessive ed emergenti dal
singoli prodotti (per esempio la capacità di detergere del sapone supermercato che siamo.
O
PSICOTERAPIA
E/O
PSICHIATRIA
8
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INTERVENTO TERAPEUTICO IN SITUAZIONE DI ANSIA E DI ATTACCO DI PANICO PUÒ MIRARE AL CONTENIMENTO E ALLA
gestione del sintomo oppure al cambiamento dell’intera che il sistema cambia i suoi equilibri. Perché il mutamento sia
personalità. Il primo tipo di intervento è sintomatico e stabile non deve essere locale, ma globale.
produce miglioramenti transitori e ad esso fanno capo La psicoterapia psicoanalitica e psicodinamica si basa sull’idea
(fra altri) l’intervento farmacologico, psicosomatico, sistemico- che la personalità umana è composta di pensieri consci e inconsci.
relazionale, cognitivista. Il secondo è strutturale e produce cam- Per capire i fenomeni psichici occorre spiegare il sottofondo della
biamenti stabili, ossia la guarigione e comprende (fra altri) cognizione che è l’emozione. Da qui la necessità di studiare le relal’indirizzo psicoanalitico, psicodialettico, esistenziale.
zioni primarie fra il bambino e i genitori, la famiglia, il mondo, e di
Vediamo l’intervento farmacologico. Poiché la ricerca scientifi- studiare l’evoluzione dell’uomo, la sua esistenza di specie, per
ca ha sinora escluso la presenza di fattori di natura genetica (non meglio capire quali siano le emozioni di base (amore, odio, paura,
li ha dimostrati), e poiché l’osservazione tecnica mostra, nei collera, gioia, approvazione, vergogna e colpa, comunione e solitumomenti di crisi, la presenza di tempeste neuroendocrine in atto, dine, ecc.) e le loro vicessitudini nella vicenda soggettiva.
il farmaco dovrebbe avere lo scopo di ridurre la disfunzione, di Secondo Freud, un individuo entra in ansia allorché scopre di
probabile derivazione psicologica. In questo contesto, fare una avere desideri che le sue figure di riferimento (padre, madre, famidiagnosi (indimostrata) di malattia genetica spingerebbe chi la glia, precetti morali interiorizzati) condannerebbero.
subisce in una condizione di terrore e di passivo affidamento al Secondo Margaret Mahler, l’ansia sorge in relazione all’esperienmezzo tecnico. Per contro, un utilizzo sano dello psicofarmaco za evolutiva della separazione-individuazione del bambino dalla
rende possibile la sua integrazione l’intervento umano: mutuo madre. In questa teoria, se nella fase di separazione-individuaaiuto, psicoterapia, counseling.
zione il bambino è spaventato o traumatizzato dalla propria esiLe tecniche di autogestione psicosomatica, abbastanza com- genza di autonomia, il processo non si completa e non viene inteplesse, sono poco adatte alla crisi in atto perché necessitano di riorizzato, inibendo la nascita della personalità autonoma.
un tempo e un luogo determinati per esseLa psicoterapia dialettica (o strutturalre attivate. Alcuni esercizi (p. es. Training
dialettica) di cui sono autore, è una
autogeno) sono utili ad alleviare la tensiomoderna evoluzione del pensiero psicodine, ma sono privi di potenzialità terapeunamico. Ogni essere umano ha due bisogni
tiche risolutive. In altri casi, come nelle
fondamentali: il bisogno di appartenendiscipline meditative (che vanno dallo
za/integrazione sociale (che organizza i
yoga al tai chi fino alla moderna sofrololegami affettivi e sociali) e il bisogno di
gia) la presa di coscienza della realtà coropposizione/individuazione (che organizza
porea è più profonda e i benefici riverbel’autonomia affettiva e morale individuale).
rano a livello della struttura dell’io. Infine,
L’ansia nasce allorché l’individuo con idennella psicoterapia bioenergetica le tecnitificazioni e legami affettivi intensi entra in
che espressive si integrano con l’analisi
conflitto con essi in virtù del bisogno di uno
della struttura profonda della personalità.
sviluppo personale autonomo. Minacciato
DI NICOLA GHEZZANI
Quando la ricognizione corporea si affiannel suo equilibrio, l’io produce allora
PSICOLOGO CLINICO E PSICOTERAPEUTA (ROMA),
MEMBRO DEL COMITATO SCIENTIFICO LIDAP
ca a una psicoterapia della struttura della
paura, inibizioni e sensi di colpa più o
personalità può avere effetti risolutivi.
meno coscienti.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale si limita a osser- Le novità portate in campo psicoterapeutico dalla psicoterapia
vare i comportamenti visibili e, risalendo ai pensieri che li hanno struttural-dialettica sono almeno sei: 1. L’analisi del dato storicoprodotti, li cancella sostituendoli con altri mediante tecniche di sociale. L’esperienza soggettiva è analizzata in quanto fatto storisuggestione e persuasione. Più che di una psicoterapia in senso co-sociale, con una minuziosa attenzione alla storia individuale e
proprio si tratta di una tecnica di rieducazione dei processi di voli- alla sua interazione con il contesto storico-sociale di riferimento.
zione (la volontà che guida i comportamenti). In rapporto all’an- Il conflitto fra soggettività e storia è il nodo della patologia. 2.
sia, il terapista individua i processi di pensiero che stanno all’ori- L’analisi del conflitto morale. Il conflitto interiore è e rimane irrigine dell’esplosione d’angoscia e ne devia il percorso. Le linee di ducibile perché è sempre, più o meno consapevolmente, un conpensiero identificate come causa della crisi vengono rimosse e flitto morale e finché non si risolve il problema morale di fondo
sostituite da schemi logici meno carichi di emotività. La psicote- esso persiste. Il conflitto psichico è una resistenza a una soggerapia cognitivo-comportamentale interviene, dunque, solo sulle zione o a una limitazione prodotta dall’ambiente, tal che la sentiaaree vigili della coscienza, non sulle aree subliminali e, soprattut- mo come ingiusta, quindi immorale, e ad essa ci ribelliamo. 3. Il
to, non interviene sulle aree inconsce. Pertanto, i suoi risultati cambiamento dei valori personali. Il conflitto interiore mira semsono temporanei, perché il mutamento (ambientale, sentimentale, pre, in modo inconsapevole, a una evoluzione delle idee sociali
sociale, evolutivo) facendo intervenire nuovi fattori i quali scon- interiorizzate, quindi a un mutamento nei valori e nello stile di vita.
4. La definizione della struttura di base. La distinzione, nel disturvolgendo l’apprendimento ricevuto fanno riemergere i sintomi.
Secondo la psicoterapia sistemico-relazionale (o strategica) bo, di una “struttura psicologica di base” consente sia l’intervento
un sintomo trova spiegazione nel sistema dei rapporti che uni- breve che la lunga elaborazione mutativa. 5. L’azione. La Psicotesce gli individui (una coppia, una famiglia, un team professiona- rapia dialettica non si limita a una conoscenza fine a se stessa,
le, ecc.). Non ritenendo la semplice spiegazione delle cause suf- perché una volta individuato il nodo storico-strutturale essa agisce
ficiente a produrre un mutamento, la psicoterapia sistemica nei confronti di questo per modificarlo. La guarigione consiste prodispone di una tecnica di intervento specifica, che è la “prescri- prio in una salute orientata all’azione. 6. La narrazione autobiozione paradossale”: un comando, un rituale, uno spostamento di grafica. Essendo l’immagine che abbiamo di noi stessi un nucleo
funzioni, attenzione o potere da una persona a un’altra ed ecco emotivo che si sviluppa in una narrazione, il paziente che usa la
L’
PSICOTERAPIE
DEI
DISTURBI
D’ANSIA
segue a pagina 26
P S I C O T E R A P I E
9
L DISTURBO DA ATTACCO DI PANICO È UN FENOMENO COMPLESSO. NON SEMPRE BEN IDENTIFICATO, SPESSO CONFUso
con l’affetto d’angoscia. Un ospite indesiderato che non si do precipitare tutte le gocce di rugiada, gli insetti e i pezzetti di
fa annunciare e in molti casi non si presenta solo. Un legno in un unico grumo che cade avviluppato al sasso. Lo
abito che tende a rivestire il soggetto in maniera esclusi- scopo della riabilitazione è dunque quello di restituire il sogva, intrappolandolo in una identificazione monositomatica.
getto alla sua vita originaria, permettergli di uscire dall’identiDiagnosi differenziale, stigma, comorbidità, farmacologia e trat- ficazione monadica al panico, che rischia di divenire uno stigtamento integrato sono i punti che cercherò di affrontare per ma che alimenta se stesso.
porli alla comune discussione.
Quando il panico arriva, le suppellettili cadono, e tutto ciò che
si riteneva solido, cede.
GRUPPO E LEGAME SOCIALE
Nulla sembra più costituire un solido appiglio nel corso della
vita. Ecco allora chiara la centrale funzione di tenuta del grupE gli era venuta anche un’altra immagine: di se stesso che po di auto muto aiuto.
per tutta la vita si era tenuto in equilibrio su una fune. Poi In tal senso la dismissione degli abiti di ammalato è un opera da
c’era stata la caduta, e lui aveva scoperto che, anziché sfra- portare avanti da subito, anche quando le crisi di fanno sentire
cellarsi, sapeva volare, che aveva questo miracoloso e ina- in modo virulento.
spettato dono.
Il gruppo, come ricostruzione di un legame, ancorché programR.M. Pirsig, Lila mato e scadenzato, deve aprire le porte a un individuo quando
ancora il panico non è divenuto il signore della sua vita. E se
L’epoca contemporanea appare, per chi soffre di un qualche questo è già successo, la circolazione di parola ha lo scopo di
malanno di ordine psichico, una sorta di terra di bengodi ricca riabilitarlo a percorrere le sue antiche strade oggi non più pradi rimedi pronto uso, soluzioni pret a porter, farmaci mirati e ticate. Discutere del lavoro, della famiglia, di ciò che è andato
risolutivi. Questo stato delle cose deterperso e di ciò che è in bilico, è un modo
mina una condizione diadica rimedioper ristabilire una situazione precedente
paziente che, in ultima analisi, isola il
al sisma.
soggetto e lo consegna ad una convivenPANICO E ANGOSCIA
za spesso monadica con la propria patoSpesso il disturbo da attacco di panico
logia.
viene confuso con la crisi acuta
È invece indispensabile muoversi in
d’angoscia. L’angoscia è un affetto. Un
un’ottica antisegregante, che vada nella
affetto che, al suo culmine finale, presendirezione dell’assoluta libertà di espresta le medesime caratteristiche del Dap,
sione, anche sintomatica, del soggetto.
potendo però individuare degli elementi di
Nell’ottica Lidap questo deve tradursi
sostanziale differenza, che permette di
nell’adozione di una modalità di approcorientare la diagnosi e il trattamento.
cio che possa restituire la persona soffeDI MAURIZIO MONTANARI
Il panico ha un tempo (ora) e un oggetto
rente alla condizione precedente al
(il corpo), e nella maggioranza dei casi
momento in cui il Dap ha fatto la sua
non presenta dei prodromi tali da perrumorosa comparsa, senza per questo
credere di poter riportare il tutto a un mitico status quo ante. mettere al soggetto che ne patisce di mettersi al sicuro prima
Cosa è infatti un gruppo se non un luogo nel quale condividere della crisi. L’angoscia è invece sganciata dalla contingenza temun iniziale senso di marginalità che, attenuato ed ammorbidito, porale. Incide effettivamente sul corpo cronologico, ma quello
può permettere al singolo di riprendere le fila della sua storia che le manca è il tempo attuale del panico, l’ora. In questo
interrotta? Cosa è il gruppo se non un microcosmo utile a sop- senso l’angoscia è qualcosa che sembra situarsi altrove, e testiperire allo sfilacciamento del legame sociale al quale va incon- monia la dimensione di a-temporalità dell’inconscio. L’angoscia
tro chi è sorpreso dal Dap?
è un affetto normale, sensazione compagna di vita palpabile nei
Il punto focale è evitare che il soggetto si trovi solo nel momen- momenti di passaggio, potremmo dire che è un elemento conto dell’attacco, ponendo le condizioni per le quali questo infarto sustanziale al genere umano. Prima di essere un elemento invadella vita possa essere condiviso, in modo che i legami che il lidante, è il segnale di un interrogazione interiore, legata all’oDap colpisce e mette a dura prova, resistano alle sferzate e non pacità di un enigma, di una questione, una situazione che si
si spezzino. Nel gruppo, nel quale la parola regna sovrana, c’è pone di fronte al soggetto, attuale o retrodatata. È fonte preziocondivisione e accoglienza.
sa di ispirazione e ha portato autori di grande levatura a geneNon ci sono ricette precostituite, non ci sono scelte precluse. rare opere che, in questo senso, sono un tentativo di lenire
Una condivisione che ben lungi dal tramutarsi in uno stallo, una l’angoscia.
sorta di mal comune mezzo gaudio, deve sapersi trasformare in Parlo dell’angoscia di E. A Poe e di Franz Kafka, di Kierkegaard
una zona di transito, un passaggio preliminare utile a riprende- e di Cesare Pavese; di Van Gogh e di Edvard Munk , e tant altri
re le fila del proprio discorso interrotto. C’è una frase ‘analiti- potrebbero essere citati.
ca’ che può apparire molto più criptica di quello che in realtà Kierkegaard ha scritto ‘L’angoscia è una vertigine’ né degli angevoglia significare: un soggetto si trova nello scorrere dei suoi li né degli animali’. L’angoscia non se lo lascia mai sfuggire (il
significanti. Vale a dire che l’individuo X è definito dalle sue soggetto), né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro,
passioni, dalle sue attività, dai suoi amori, dai suoi passatempi né di giorno, né di notte’.
e dai legami sociali. L’attacco di panico sortisce l’effetto del Un affetto che sopraffà senza che si sappia da dove questa
sasso nella ragnatela: la colpisce e ne spezza i filamenti, facen- venga, e a cosa tenda. Siamo quindi lontani dalla comune acce-
I
SENZA
PRIMA
BUSSARE
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10
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zione negativa che si dà all’angoscia, la quale in quest’ottica si
rivela un concetto capace di aprire alla riflessione soggettiva .
L’angoscia può evolvere in uno stato paralizzante, tale da impedire il soggetto nel pensiero e nel movimento, culminando in
malessere fisico e senso di costrizione.
Lo stesso Freud in ‘Introduzione alla psicoanalisi’ isolava ‘quell’angoscia eccessivamente intensa… tale da paralizzare ogni azione’.
Allo stato visibile, de facto, Dap e crisi d’angoscia sono fenomeni che appaiono identici nella loro manifestazione esteriore finale, quella che chiede aiuto. Mentre in molti casi l’angoscia introduce e modula il tempo di analisi potendo il soggetto contare su
dei punti che egli bene o male conosce (dottore, sono angosciato a causa di questa o quella questione, devo fare qualcosa per
uscirne), il panico non offre le stesse possibilità.
Il panico, più sordo e monolitico, scardina la quotidianità dell’individuo e costituisce per lui un enigma in quanto evento
senza precedenti. Il paziente affetto da Dap nella maggior parte
dei casi giunge da un terapeuta o da un medico sprovvisto di un
qualsivoglia appiglio simbolico al, quale ricondurre questo stato
inaspettato. L’angoscia è quindi un affetto ‘normale’, una ruminazione dolorosa consustanziale all’essere umano, che può non
evolvere mai in una forma acuta.
L’attacco di panico invece è un temporale improvviso privo di
prodromi.
FARMACI E PSICOTERAPIA
Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette
nelle nostre mani in cerca di aiuto una nostra proprietà privata,
di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con
l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi.
Sigmund Freud, Vie della psicoterapia psicoanalitica
Non intendo annoiare l’utente proponendo la corposa bibliografia (che nessun clinico può permettersi di ignorare) inerente agli
ultimi sviluppi che il fecondo rapporto neuroscienze psicanalisi
sta partorendo, scoprendo territori sempre più condivisi, un
tempo ritenuti zone proprietarie. Intendo però fare un accenno
all’ultimo articolo del professor Irving Kirsch dell’Università di
Hull, pubblicata sulla rivista on line “Public Library of Science
(PLoS) Medicine”, riportato da tutti gli organi di stampa, che in
poche e concise righe detronizza il Prozac, togliendogli una volta
e per tutte l’aura di rimedio ultimativo e miracoloso contro la
depressione, per assegnargli una normale efficacia similare
all’effetto placebo, con risultati equivalenti alle psicoterapie. Il
tutto scientificamente comprovato, e riconosciuto da una gran
parte della medicina organica che aveva fatto del Prozac un proprio cavallo di battaglia.
Cosa c’entra la depressione col panico? C’entra nella misura in
cui gli approcci totalizzanti sono destinati a segnare il tempo,
dopo anni di somministrazioni indifferenziate e spesso selvagge.
Della depressione si parla molto, e la si studia da anni, potendo
definirla forse come uno dei mali dell’animo umano più antichi.
Vi è stato un tempo in cui era impensabile andare contro il pensiero corrente che riteneva questo farmaco ‘la pillola della felicità’, correndo il rischio di essere tacciati di stupidità o di oscurantismo. Sino a pochi anni fa, chi osava mettere in dubbio
l’efficacia del Prozac, validata da tonnellate di studi e pubblicazioni, sbatteva contro un muro di gomma.
La maggioranza dei medici che lo adottavano non ammetteva
che la prescrizione esclusiva (cioè il trattamento farmacologi-
co puro) potesse essere messa in discussione da qualsiasi
altro dato.
Si tratta di un esempio di come la ‘scientificità’ che mostra dati
incontrovertibili, non possa fare a meno della soggettività.
L’azione indiscriminata e massiccia di questo farmaco ha portato a questi ultimi sviluppi anche perché ha fatto a meno del concetto di diagnosi differenziale.
Non esiste una depressione, ma le depressioni. E questo è bene
tenerlo presente anche con il panico, oggi che l’azione di Lidap
ha saputo rendere visibile un disturbo che sino a poco tempo fa
era costretto a girovagare senza che nessuno gli riconcesse uno
status di oggettività. Esiste la melanconia, la depressione reattiva, la depressione di ordine nevrotico e quella a base psicotica. E non è pensabile, oggi lo sappiamo bene, approcciarle tutte
come un magma indistinto.
Il panico è , come oggetto di studio, assai più giovane della
depressione. E il rischio da scongiurare è quello di indirizzare la
nostra visione nella facile suggestione che esista un rimedio
unico, un approccio assoluto, un farmaco risolutivo.
LA PILLOLA ANTIPANICO
L’osservazione e lo studio del Dap non possono fare a meno di
tenere conto del sistema complesso nel quale esso si esprime: il
soggetto. Esistono forme di panico singole, altre che si presentano in una catena di commorbilità (abuso di sostanze, disturbi
del comportamento alimentare per citare le più frequenti). Il
panico è un fenomeno transclinico, proprio della struttura
nevrotica quanto di quella psicotica.
È tale e tanto variegata la complessità del campo nel quale questo fenomeno si presenta, che sarebbe un errore antistorico pretendere di percorre una sola via.
Questo perché chi orienta la sua pratica con gli strumenti analitici, sa che non esistono sintomi o fenomeni che si reggono
sulle loro gambe, ma individui complessi che ne sono portatori.
Come ultima questione, vorrei affermare che la contrapposizione terapia breve-analisi interminabile, non ha modo di sussistere se noi siamo clinicamente capaci di osservare la scansione
temporale. La persona che chiede aiuto perché le cosiddette
‘crisi di panico’ gli stanno impedendo la vita, può scegliere di
salutare il terapeuta nel momento di un benessere raggiunto. E
questo accade assai frequentemente.
O di continuare la propria esperienza nel gruppo. Dopo, solo
dopo, accade che quello stesso individuo, messo al lavoro da ciò
che egli ha saputo toccare, chieda di approfondire le questioni
spinose che sente dentro di lui agire alla stregua di movimenti
tellurici, e per le quali il cosiddetto ‘panico’ è stato solo un elemento di disvelamento. In quel momento si apre una fase qualitativamente diversa, che interessa il discorso del soggetto, non
più focalizzato sull’emergenza sofferente che ha costituto il
casus belli che lo ha portato a domandare un aiuto, ma chiama
in causa un opera di approfondimento, di rettifica. A questo
punto non possiamo parlare dello stesso trattamento, quanto di
un ‘riprendere le fila’ a emergenza passata. Consapevoli,
l’individuo e il terapeuta, che il panico può ripresentarsi, ma in
modo tale da non fare più paura come prima. Trovando un soggetto che spesso ha ripreso a vivere, utilizza il farmaco al bisogno, lavora e coltiva i propri interessi. Un uomo che non è più
quel mare gelato e terrorizzato che aveva visto il panico bloccare e compromettere le sue normali attività.
Questa è l’essenza della multidisciplinarietà.
MAURIZIO MONTANARI
11
F A R M A C I
Farmaci sì, farmaci no: è una questione
spesso aspramente dibattuta, in psichiatria in generale e nel disturbo di panico in
modo particolare.
Tale questione, mentre appare del tutto
legittima e incentrata sull’interesse ultimo
DI SILVANO DEDALO*
del paziente quando riguarda il singolo
caso clinico, diventa invece sterile polemica, antiscientifica e clinicamente dannosa, se prende spunto da
posizioni preconcette, incuranti delle risultanze a livello mondiale della medicina basata sulle prove di efficacia (EBM).
Se pretendere di curare tutto e tutti con i farmaci è sicuramente ingiustificato, altrettanto insensato è credere di poter farne
sempre a meno, magari contando sulla “buona volontà” del
paziente, come molti benpensanti (purtroppo talvolta anche
medici) pensano di poter fare, con ciò annullando il senso della
ricerca, della sperimentazione, dei congressi, della stampa specializzata.
È evidente che nel disturbo di panico non vi può essere guarigione senza cambiamento. Se però le forze del paziente non
sono sufficienti, malgrado la presa di coscienza e il sostegno
della psicoterapia, dei gruppi di auto aiuto e di eventuali altre
strategie non mediche, a modificare il contesto e/o il proprio
atteggiamento, il farmaco si rivela un’arma indispensabile per
vincere la battaglia lunga e aspra cui è chiamato.
Il fatto che già da tempo e sempre di più per il futuro si possa
disporre di farmaci di cui è ampiamente certificata sia la tollerabilità che l’efficacia, anche per terapie della durata di anni,
non significa che le cure psicofarmacologiche siano indicate
sempre e per chiunque. Significa però che possono essere intraprese con la massima tranquillità quando i professionisti cui il
paziente si affida individuino in esse un supporto imprescindibi-
FARMACI
SÌ...
FARMACI
NO
le per la realizzazione di un progetto terapeutico complesso e
personalizzato.
In conclusione, chi soffre di questo disturbo, distruttivo per la
qualità della propria vita, deve soprattutto evitare il “fai da te”,
pensando magari che la paura ingiustificata del farmaco sia
frutto di una strategia inconscia e occulta per non guarire e continuare a utilizzare la malattia come soluzione patologica dei
propri conflitti.
*NEUROPSICHIATRA E CONSULENTE LIDAP – ROMA
Comprendere e curare il disturbo di panico
1. NON SOLO GENI, MA ANCHE GENI!*
* con la collaborazione di
Massimiliano Grassi, Psicologo.
Cari Amici della Lidap, è con grande piacere che mi accingo a discutere con voi
l’importanza dei fattori genetici nel Disturbo di Panico (DAP). Infatti, se è indubitabile che l’ambiente giochi un ruolo fondamentale nello sviluppo di questo disturbo
d’ansia, è altrettanto chiaro che esiste una
predisposizione genetica allo sviluppo del
DAP come dimostrato ripetutamente da
studi scientifici.
La genetica è fondamentale nel definire chi
siamo e come ci comportiamo e definisce
l’assetto di base su cui poi l’ambiente agisce. I geni sono il fondamento di ogni
essere vivente. In ogni cellula del nostro
corpo si trovano i cromosomi che portano
quelle informazioni necessarie all’esistenza della vita e soprattutto alla sopravvivenza di questa oltre il singolo individuo. Tutti,
in quanto esseri umani, disponiamo degli
stessi geni ma fra di noi esistono differen-
ze genetiche legati a varianti (in gergo
“alleli”) che possono contribuire ad
aumentare o talvolta addirittura essere
causa diretta di certe patologie. E questo
vale anche per i disturbi psichiatrici e a sua
volta potrebbe valere anche per il DAP.
Prima di andare a cercare i geni implicati in
un disturbo, un tratto psicologico o una
qualsiasi aspetto che si manifesta differentemente tra le varie persone, il passo precedente è quello di cercare di capire se e
quanto i geni abbiano un ruolo in questo.
La risposta a questa domanda può avvenire attraverso due fasi: visto che i geni si
ereditano dai genitori, perché un disturbo
sia genetico è necessario che si concentri
e trasmetta nelle famiglie di chi soffre del
DAP. Il fatto che un disturbo sia familiare è
necessario ma non sufficiente per definire
l’esistenza di una predisposizione genetica: tutta una serie di aspetti più prettamente di natura ambientale potrebbero
spiegare la maggior concentrazione del
disturbo in alcune particolari famiglie: si
pensi ad esempio il ruolo di eventuali stili
di cure genitoriali che vengono trasmessi
assieme al disturbo dai genitori ai figli o
della condivisione dello stesso ambiente
familiare per due fratelli che poi entrambi
svilupperanno entrambi il panico. Nel
primo caso si potrebbe avere ad esempio
che al panico si associ una certa modalità
di relazionarsi ai figli la quale aumenta la
probabilità di sviluppare proprio il panico,
oltre che a portare i figli stessi a relazionarsi poi a loro volta nello stesso modo
con i propri eventuali figli. E così a loro
volta i figli dei figli e i genitori dei genitori,
come una vera e propria catena intergenerazionale. Inoltre se alcuni aspetti del
mondo familiare di una persona sono predisponenti al panico è molto probabile che
gli stessi fattori agiscano anche sui propri
fratelli, aumentando nello stesso modo
anche a loro il rischio di ammalarsi.
La familiarità del DAP è da tempo nota e
indiscussa: il modo più semplice per vedere in modo rigoroso la familiarità è quello di
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andare a vedere tra i familiari di primo
grado dei soggetti aventi il disturbo (cioè
genitori, fratelli e figli), quanti presentino
anch’essi il disturbo, e confrontare poi il
numero di malati tra i familiari di primo
grado di persone che invece non presentano il disturbo stesso. Mettendo assieme
i risultati dei vari studi che hanno utilizzato
questa modalità di indagine per il DAP
risulta che nei soggetti con il disturbo circa
dall’8 al 31% dei familiari di primo è
anch’esso affetto, mentre solo dal 1,5% al
3,5% dei familiari nei soggetti sani. Questo
rappresenta addirittura il più elevato
grado di familiarità riscontrato tra tutti i
diversi disturbi d’ansia.
Se quindi l’aggregazione familiare del DAP
sembra evidente, altrettanto evidente dalla
ricerca viene ad essere il ruolo dei geni nel
conferire questa familiarità. Per andare a
scoprire il peso dei geni si deve ricorrere
poi a un’altra strategia tanto semplice
quanto ingegnosa. Si ricordi che esistono
due tipi di gemelli, quelli monozigoti (o
identici) che sono in tutto per tutto geneticamente identici poiché derivano entrambi dallo stesso ovulo e spermatozoo che
solo dopo la formazione dell’embrione,
per diversi motivi, va incontro a una precocissima divisione portando così alla formazione di più individui distinti, ma come
appena ribadito identici a livello genetico. I
gemelli eterozigoti invece derivano da
embrioni diversi fin dalla nascita, cioè dall’incontro ciascuno di un ovulo e uno spermatozoo diversi; questi condividono invece, in media, metà del patrimonio genico.
Entrambe i tipi di gemelli condivideranno
inoltre molte delle cause ambientali agenti
nel provocare un certo disturbo. A questo
punto si può considerare nella coppia di
gemelli la loro somiglianza per quanto
riguarda il disturbo (cioè a livello fenotipico).
Questa somiglianza viene considerata un
indice di familiarità vista la chiara parentela
dei gemelli, ma un indice che, per quanto
detto prima, ci permette tramite una strategia statistica di scomporre quanta di questa
familiarità sia dovuta a fattori genetici e
quanta a fattori ambientali: basandosi sulla
conoscenza di questa differenza di condivisione dei geni tra i due tipi di gemelli si può
ipotizzare infatti che una maggior somiglianza fenotipica tra i gemelli sia dovuta a questa maggior somiglianza genetica.
I risultati per quanto riguarda il DAP parlano
di una stima dell’ereditabilità tra il 32% e
il 48% che indica un ruolo dei geni certo
e di media intensità. Anche in questo caso
se si va a confrontare queste stime con
G E N E T I C A
quelle per gli altri disturbi d’ansia il ruolo
dei geni per il DAP risulta essere il più
elevato di tutti. Da queste evidenze è chiaro che la genetica svolge un ruolo nel DAP
anche se è più corretto parlare di predisposizione o vulnerabilità genetica che si manifesta per influenza di altri fattori biologici,
ambientali ancora non chiariti.
Ora che sappiamo che i nostri geni giocano un ruolo significativo nella predisposizione al DAP, la domanda da porsi successivamente è “ma quali geni. Dagli studi
in questo senso non si è trovato ancora
nulla di certo, i risultati sono incerti e spesso capita che se in uno studio un gene
appare associato con il panico, nello studio successivo si ha difficoltà a far emergere la medesima associazione. Analoga-
mente si è iniziato a scandagliare in lungo
e in largo tutti i nostri cromosomi alla ricerca di regioni del nostro genoma in cui
potrebbero trovarsi i geni coinvolti in un
certo disturbo ma anche in questo caso i
risultati non sono ancora chiari.
Come mai queste difficoltà? In parte perché ancora non si è fatto quanto in altri
disturbi e quindi delle possibili risposte
potrebbero arrivare nel prossimo futuro (è
in corso un nuovo studio internazionale di
grandi proporzioni e proprio ora in fase di
svolgimento) ma è probabile che le ragioni
siano anche altre. Come prima accennato,
i disturbi psichiatrici sono disturbi innanzitutto causalmente complessi: non esiste
per ora alcun disturbo in cui sia nota una
relazione uno a uno tra il disturbo e un singolo fattore casuale. Questa cosa renderebbe tutto più semplice, ma così non è.
Nei disturbi psichiatrici, similmente a
quanto avviene con altre patologie complesse come quelli cardiovascolari o
tumorali, è probabile che un gran numero
di fattori diversi e di diversa natura agiscano e interagiscano tra di loro nella causa
della patologia. E’ chiaro che tanto più
numerose e complesse sono le cause e
tanto più difficile sarà riconoscerle e studiarle. Ma complessi risultano essere non
solo le cause ma anche i disturbi stessi. Le
sindromi psichiatriche sono molto spesso
multisfaccettate e diverse nel modo in cui
si manifestano tra i vari soggetti aventi
quel disturbo: si pensi già solo al panico e
ai diversi sintomi che possono presentarsi
negli attacchi, che in alcuni sono primariamente di natura cardiovascolare, in altri
respiratori, in altri ancora cognitivi ecc.
ecc. Se, come è possibile, ad aspetti e
“mattoncini” diversi della manifestazione
della stesso disturbo sono legati fattori (in
questo caso genetici) diversi, il considerare unitariamente e globalmente il disturbo
nella usa interezza non può che andare a
complicare ulteriormente la possibilità di
comprensione delle cause.
Come fare quindi? Dopo quanto appena
detto è chiaro un maggior sforzo di ricerca
deve essere necessariamente affiancato a
strategie che tengano in considerazione
queste complessità. Partendo dalla problematica della complessità della manifestazione del disturbo (o fenotipo), per
avere accesso più facilmente alle componenti genetiche di un fenotipo complesso
è possibile passare attraverso un fenotipo
intermedio o “interno” (endofenotipo).
Come dice Gottesman, padre dell’applicazione del concetto di endofenotipo in
psichiatria, come noi vediamo il disturbo
manifestato in un certo soggetto è il risultato di un complesso “balletto” di interazioni tra fattori genetici ed ambientali
magistralmente diretto lungo il tempo. Per
arrivare dai geni e alla manifestazione del
disturbo si deve quindi passare attraverso
molti livelli di complessità emergente e
interagente. Passando dallo studio del
disturbo nel suo complesso ad una sua
particolare sfaccettatura si riduce la complessità della rete delle cause del fenomeno indagato e quindi aumenta la possibilità
di riuscire a studiarlo fruttuosamente.
I primi risultati di questo approccio sul
DAP sono stati promettenti. L’esempio
più importante di endofenotipo per il
panico è sicuramente la sensibilità alla
somministrazione di miscele d’aria ad
alto contenuto di CO2. Con una frequenza molto maggiore tra i soggetti affetti da
DAP rispetto a quelli sani, il respirare una
G E N E T I C A
tale miscela d’aria provoca delle manifestazioni simil-paniche. Fin dal 1998,
Donald Klein, professore della Columbia
University e padre del DAP, ha iniziato ad
ipotizzare di considerare questa ipersensibilità come un possibile endofenotipo per
il DAP e numerosi successivi studi, molti
dei quali effettuati presso il Centro Disturbi
d’Ansia del San Raffaele, hanno confermato la validità di un suo possibile utilizzo
in tal direzione. Certo anche qui siamo
ancora molto indietro con la ricerca, ma è
indubbio che si tratta di una strada che
potrebbe portare presto a buoni risultati.
La comprensione del significato della vulnerabilità genetica al DAP necessiterà di
nuove strategie di indagine che prendano
in considerazione la complessità dei fenomeni sotto studio. Troppo spesso infatti le
tecniche comunemente utilizzate, specialmente quelle statistiche, risultano essere
poco efficaci allo studio di fenomeni complessi. In questi casi è d’obbligo passare a
tecniche più raffinate e che meno tradiscano la natura di quello che si sta cercando di capire. Purtroppo quello che si
guadagna in capacità di spiegazione lo si
va a perdere in capacità di comprensione
del fenomeno. Se invece di considerare il
ruolo di cento singoli geni candidati singolarmente, ne si considerano cento tutti in
una volta in interazione tra loro e magari
allo stesso tempo anche svariati fattori di
natura extra-genetica, è molto probabile
che avvicinandoci alla complessità della
realtà sia possibile un modello migliore, più
fedele, che meglio la spiega, ma proprio
per questo più difficile da capire. Insomma, spesso, quanto più una tecnica
modella bene la realtà, tanto meno ce la
rende decifrabile; tanto più la semplifica e
quindi ce la rende comprensibile tanto
meno la saprà spiegare bene.
Un altro esempio dell’importanza della
genetica nel DAP e soprattutto nella sua
cura è legata alla possibilità di utilizzare
l’informazione sulla nostra genetica per
scegliere le terapie più adatte per ognuno
di noi. La farmacogenetica, è un campo a
ponte tra presente e futuro, sta attirando
di anno in anno sempre più interesse, e
non solo per valutare la risposta al trattamento, ma anche la possibilità di prevedere l’emergere di effetti collaterali alla somministrazione di un certo farmaco. La farmacogenetica ci permetterà superare,
almeno parzialmente, il metodo a “prove
ed errori” che necessariamente viene ora
utilizzato nella somministrazione delle terapie. Fino ad ora la scelta delle terapia più
idonea si basa sul giudizio clinico e sugli
studi sperimentali che dimostrano che un
farmaco è “in media” è più efficace del placebo mentre risulta essere difficile predire
la risposta farmacologica “ad hoc” per
ogni singola persona. La conoscenza
genetica potrà permettere di scegliere il
farmaco giusto per la persona giusta. Un
esempio di questo è un recente studio che
ho condotto al San Raffaele con i miei collaboratori e pubblicato sulla prestigiosa
rivista “Neuropsychopharmacology” nel
2005. In questo studio abbiamo dimostrato come la risposta al trattamento con
paroxetina, una delle molecole di dimostrata efficacia nella cura del panico, fosse
influenzata dalla genetica del trasportatore
della serotonina, cioè della pompa che
recupera la serotonina dalla sinapsi su cui
agiscono i farmaci serotoninergici. Chi
nasceva con il tipo L del trasportatore che
rendeva più efficiente la ricaptazione della
serotonina, aveva una risposta migliore
rispetto a chi nasceva con il tipo S e questa differenza era presente in particolare
nelle donne. La farmacogenetica sembra promettere di poter identificare chi
risponderà ad una terapia e chi no. E la
genetica potrebbe addirittura permetterci
di identificare le persone per cui la psicoterapia potrebbe essere utile o meno.
In conclusione, è vero che il DAP non può
essere ridotto ad una malattia puramente
genetica ed è indubbio il ruolo di fattori
non genetici ambientali nel modellarne
l’espressione clinica, ma è altrettanto vero
che la genetica svolge un ruolo importante nel predisporre al DAP e che questa
predisposizione sia un fattore necessario
per lo sviluppo di questo disturbo così
limitante. Essere predisposti non vuol dire
sviluppare il disturbo, ma in assenza di
questa predisposizione è molto difficile
avere attacchi di panico inattesi anche in
presenza di condizioni di vita difficili e sfavorevoli. Il non riconoscere questo aspetto
del panico, che poggia le sue fondamenta
su studi scientifici solidi, vuol dire negare il
valore della ricerca scientifica che ha
garantito a tutti noi la soluzione a tanti problemi medici e psichiatrici ed un miglioramento importante della qualità di vita.
2. PERCHE’ SI ALLA TERAPIA
INTEGRATA FARMACI ANTIPANICO
& PSICOTERAPIA
COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
Chiunque soffre o abbia sofferto del DAP,
sa benissimo che ciò che questo disturbo
in primis nega è la libertà, a partire dall’autonomia nel muoversi. A prescindere da
come eravate prima di aver avuto quel
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primo maledetto attacco di panico, da
quel momento in poi la paura è cresciuta,
assalendovi immediatamente oppure
piano, piano, subdolamente, ma comunque è cresciuta a tal punto da farvi dubitare della vostra salute fisica rendendovi
preoccupati di avere una malattia fisica
grave (ipocondria). Questo timore si è
quindi ridotto, purtroppo non in tutti, dopo
le rassicurazioni del medico di famiglia, del
cardiologo, dei medici del pronto soccorso e degli altri medici del corpo, che troppo spesso vi hanno semplicemente liquidato con un “non ha niente” oppure “è
solo un po’ di stress”.
È vero che non avevate una malattia del
corpo, ma gli attacchi si sono ripresentati inizialmente in maniera improvvisa
e inattesa e voi avete imparato a difendervi facendo crescere la paura della
paura, la paura di star male o di avere un
attacco (ansia anticipatoria) che vi permetteva di essere all’erta, pronti a difendervi dagli attacchi stessi, forse innocui sul
corpo ma devastanti sulla mente. L’ansia
anticipatoria poteva essere così forte,
soprattutto laddove la paura di star male
era molto alta, da mimare un vero attacco
di panico (situazionale).
Ma come era possibile difendervi dagli
attacchi? Innanzitutto avete iniziato a evitare le situazioni dove erano comparsi i primi
attacchi e vi siete sentiti più sicuri quando
venivate accompagnati da qualcuno di
fiducia (non uno qualunque e non era
importante che fosse un medico o uno psicoterapeuta, bastava che fosse di fiducia!)
che potesse soccorrervi in caso di attacco.
Avete iniziato a muovervi avendo bene in
mente la mappa dei punti di soccorso
(ospedali, centri medici, farmacia, abitazioni di amici, e così via) e poi, piano, piano,
man mano che gli attacchi continuavano,
avete ristretto il raggio di azione in cui potevate muovervi con un sufficiente senso di
sicurezza, creando quasi una mappa con
confini al di là dei quali la paura del panico
e il rischio non vi permettevano di andare
oltre. Avete iniziato a evitare o vivere con
disagio luoghi affollati (supermercati,
negozi, strade) oppure luoghi chiusi
(ascensori, stanze strette, e addirittura di
sentire disagio indossando cinture, cravatte
o vestiti stretti!), mezzi di trasporto (autobus, metropolitane, treni e aerei) oppure lo
star da soli per quella maledetta paura di
star male. Alcuni di voi, nei momenti più
pesanti del panico, si saranno quasi trovati
agli “arresti domiciliari” bloccati in casa dalla
paura di star male, avendo quindi perso
quasi totalmente la libertà di movimento e
segue a pagina 14
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autonomia. Altri fra voi avranno invece sviluppato una vera e propria ansia sociale
per il timore di poter fare brutta figura in
caso si presentasse un attacco, paura che
vi ha portato a isolarvi socialmente.
Avete quindi lottato contro la paura, talvolta riguadagnando spazi, altre volte perdendoli, ma sempre impossibilitati a essere voi stessi, a ritornare ad avere le potenzialità che avevate prima di quel maledetto primo attacco di panico.
Ma, cari pazienti, avevate perso molto di
più. Come era possibile programmare il
futuro e progettare la nostra vita, avendo la
Spada di Damocle degli attacchi sulla
vostra testa? Come era possibile assumersi responsabilità nuove sul lavoro e nella vita
personale e sociale con questo handicap
imprevedibile nel suo decorso? Come era
possibile scegliere liberamente amici e partners, quando la paura vi costringeva a scegliere chi vi dava sicurezza ma che non
necessariamente amavate? Tutti questi
dubbi e limiti e molti altri vi hanno tolto la
libertà di scegliere, di essere voi stessi, di
vedere un futuro libero e, in ultima analisi, di
lottare con tutte le vostre forze per la felicità.
Il DAP vi ha tolto molto di più della semplice libertà di muoversi, vi ha tolto la
libertà di scegliere.
Ecco affacciarsi quindi la depressione, una
depressione reattiva a tutte le limitazioni
imposte dalla paura, e che spesso si
accompagnava perdita della stima in se
stessi e dal desiderio di lasciarsi andare rassegnati al vostro miserabile destino. Ecco la
tentazione di bere o assumere sedativi, di
annegare la paura dell’alcool e nelle benzodiazepine illudendosi di avere un attimo di
libertà dal panico e dalla paura, per poi
diventare ancora più schiavi e dipendenti.
È vero che ognuno di voi è unico e il suo
DAP ha caratteristiche uniche, tanto che
nessuno si riconoscerà in ogni aspetto del
triste percorso appena descritto. Ci sarà
chi avrà più ipocondria, chi non svilupperà
le fobie, chi sarà stato capace di vincere la
paura e, pur stando male, affrontare la
strada, i mezzi, la folla. Chi avrà superato
la depressione (o meglio demoralizzazione) aprendo gli occhi al pensiero positivo o
chi non sarà nemmeno diventato demoralizzato avendo un temperamento fortemente ottimista. Chi avrà usato gli alcolici
come autoterapia, chi no. E addirittura ci
sarà chi a un certo punto sarà guarito
senza nessun motivo o intervento. Tutto
questo è verissimo come è altrettanto vero
che ognuno di voi riconoscerà nell’ossatura del percorso descritto il proprio percor-
G E N E T I C A
so, segnale che il processo del DAP è
comune per tutte le persone che sono colpite da questo disturbo. È vero che gli
alberi sono diversi (un salice piangente
non è un pino) e che ogni albero ha un
significato diverso per ognuno di noi
(l’albero di casa vostra per voi ha un significato particolare, diverso da quello che ha
per uno sconosciuto che passa davanti a
casa vostra!), ma è anche vero che un
albero è sempre un albero e ha caratteristiche comuni, un tronco, le foglie, i rami.
Lo stesso discorso vale per il DAP.
Il DAP non è quindi semplicemente una
caratteristica individuale, espressione di
quello che voi siete o delle vostre esperienze di vita. Il DAP è una malattia che viene
innescata dagli attacchi di panico, bugie
del cervello – come ben descrive Rosario
Sorrentino nel libro sul Panico appena uscito - espressioni dell’attivazione di falsi
allarmi nel nostro cervello. Gli attacchi di
panico inducono quella brutale spaccatura
nella vostra vita che vi fa perdere la vostra
libertà per i mille condizionamenti che inducono costringendovi a difendervi da loro.
Come ci difendiamo dipende da chi siamo,
dalle nostre esperienze, dalle nostre risorse
personali, da chi ci vive accanto ed in ultima
analisi dalla società stessa e quindi il quadro
finale del DAP diventa unico e differente per
ognuno di voi, ma non è l’espressione delle
vostre debolezze o del vostro io lacerato ma
semplicemente dell’interazione tra un meccanismo malfunzionante del cervello e la
complessità che voi siete.
Ecco perché è necessaria la terapia farmacologica con sostanze che agiscano principalmente sulla serotonina che si sono
dimostrate capaci di bloccare tutti gli attacchi di panico spontanei che ci colpiscono a
tradimento, sia quelli grandi e forti che,
soprattutto, quelli piccoli e subdoli che, in
se stessi, vi fanno forse meno paura ma
mantengono la paura della paura, nell’attesa di poterne avere uno forte, e i comportamenti protettivi di evitamento. Dunque, il
farmaco “aggiusta” l’allarme malfunzionante che scatena l’attacco di panico ma deve
essere dato per tempi e dosaggi giusti,
cosa che spesso non avviene, tali da spazzare via ogni residuo del panico spontaneo,
anche la sua ombra. Ma non basta.
Proprio perché non siamo macchine e ci
emozioniamo e pensiamo, noi – il nostro
corpo e la nostra mente – combattiamo e
ci difendiamo quando c’è qualcosa che
non funziona. E, nel caso del DAP, impariamo a difenderci dall’attacco di panico
utilizzando un meccanismo comune a tutti
gli esseri viventi, animali compresi, che è
l’evitamento fobico (cioè la capacità di
evitare le situazioni associate a dei pericoli, nel caso del DAP, al rischio di avere un
attacco di panico) e l’ansia anticipatoria
che, con il tempo, cristallizzano il nostro
comportamento nelle mille limitazioni che
voi conoscete benissimo. Questi meccanismi di difesa si inseriscono nella personalità di ognuno di voi, che viene plasmata
sia dal temperamento innato che dal
carattere che si sviluppa con le esperienze
di vita e relazionali, e si caratterizza dall’essere unica e personale e che ci spiega
perché il quadro globale del DAP è differente e unico per ognuno pur avendo delle
caratteristiche comuni.
Alla luce di ciò potete comprendere come
talvolta bloccare farmacologicamente la
causa del DAP, cioè il falso allarme rappresentato dall’attacco di panico inatteso,
accompagnata da una corretta psicoeducazione sul disturbo, possa essere necessario e sufficiente a normalizzare la vita e
riacquistare la libertà perduta, la fiducia in
se stesso e la possibilità di tornare a vedere un futuro oltre il panico verso la felicità.
Questo avviene soprattutto quando il
disturbo non sia presente da troppo tempo
e le risorse dell’individuo siano sufficientemente forti ed equilibrate. La maggior parte
delle volte, tuttavia, le fobie e le abitudini
comportamentali e mentali acquisite per
difendersi dal panico possono cristallizzarsi
a tal punto da mantenersi nonostante la
scomparsa degli attacchi e continuare a
condizionare, più o meno subdolamente, la
vita di voi pazienti nonostante la causa iniziale del loro svilupparsi sia scomparsa. In
questi casi, è necessario associare alla
terapia farmacologica specifica una psicoterapia per permettere la guarigione dal
DAP. Situazioni analoghe sono presenti
anche in medicina: per esempio, una persona che abbia avuto un problema al
ginocchio e si sia abituata a zoppicare,
quando faccia passare molto tempo prima
di operarsi, nonostante possa ottenere una
“restituito ad integrum”, cioè una normalizzazione del funzionamento del ginocchio,
continuerà a zoppicare avendo bisogno di
una riabilitazione spesso lunga e faticosa.
Parlare di psicoterapia in maniera generica
non è diverso da quello che facciamo
quando parliamo di psicofarmaci in
maniera generica. Non esiste un tipo di
psicoterapia come non esiste un tipo di
farmaci e analogamente al fatto che alcuni psicofarmaci (le benzodiazepine) sono
inutili e forse dannosi nel trattamento del
DAP mentre altri (i serotoninergici) sono
utili e spesso necessari, allo stesso modo
G E N E T I C A
dobbiamo ragionare sulle psicoterapie.
Perché si alla psicoterapia cognitiva comportamentale come psicoterapia principe
nel trattamento del Disturbo di Panico?
a) Perché è l’unica, e sottolineo unica,
psicoterapia che ha sufficienti prove
scientifiche per essere considerata più
efficace della condizione placebo nel
trattamento del DAP. Indubbiamente altre
psicoterapie fanno star meglio i pazienti ma
non possiamo sapere se questa sia mero
effetto suggestione, un effetto generico
oppure il risultato di un effetto specifico sul
DAP. Questo non vuol dire negare la possibilità che le altre psicoterapie siano efficaci
ma vuol dire semplicemente invitare chi le
sostiene a dare una dimostrazione di efficacia specifica nella cura del DAP con studi
scientifici controllati. Dunque la psicoterapia
cognitivo comportamentale è l’unica che
abbia la garanzia di qualità del mondo
scientifico nel trattamento del DAP, tanto da
essere inserita in tutte le linee guida ufficiali
(es. Associazione Psichiatrica Americana)
per il suo trattamento.
b) Perché, nel trattamento del DAP, è una
terapia breve, durando dai 3 ai 6 mesi, e
si focalizza sia sul superamento dei condizionamenti, che si esprimono nelle condotte di evitamento e nelle fobie che sono
l’espressione dei meccanismi di difesa dall’attacco di panico, che sulla ristrutturazione degli schemi mentali automatici di
pensiero che hanno portato molti di voi a
vivere con allarme un semplice batticuore
da sforzo e ad evitare emozioni per il pensiero che potessero scatenare attacchi, e
che anch’essi sono la semplice espressione
dei meccanismi di difesa che tutti voi avete
attivato quando sono comparsi gli attacchi.
Se è vero che il condizionamento alla
paura è il meccanismo di difesa principe
con cui si sviluppano le fobie e l’agorafobia
e che la catastrofizzazione delle sensazioni fisiche e delle emozioni, il meccanismo di difesa che porta all’ansia anticipatoria e agli attacchi di panico situazionali
(che in realtà sono più delle forti crisi di
ansia che veri e propri attacchi di panico)
non dobbiamo dimenticarci che l’attacco
di panico e questi meccanismi di difesa si
inseriscono su una persona che ha una
personalità propria, esperienze di vita proprie, risorse proprie che definiscono il quadro complesso variegato che è il DAP. E
quando la personalità di chi è colpito dal
DAP sia abnorme o le esperienze di vita
infantile e adulta siano tali da interagire con
il DAP creando una sofferenza maggiore, la
terapia cognitivo comportamentale non
basta ed è utile e necessario integrare altre
psicoterapie, che, pur non agendo direttamente sul DAP, colgono l’evento del DAP
come occasione per ristrutturare la personalità di chi è già disturbato a prescindere
dal panico. In questo caso il DAP diventa la
lente che permette al paziente di vedere
quello squilibrio di fondo della sua personalità che non si era manifestata fino alla
comparsa del DAP, ma che non è in alcun
modo la causa del DAP, la cui terapia si
avvale necessariamente della combinazione tra farmaci anti-panico specifici e terapia cognitivo-comportamentale, come
peraltro la ricerca scientifica ha chiaramente dimostrato.
In conclusione, analogamente a quanto
avviene quando uno soffra di crisi asmatiche o di attacchi di angina cardiaca,
anche per il DAP il quadro clinico finale
sarà la combinazione dei comportamenti
difensivi messi in atto dalla persona in
risposta al segnale patologico, cioè
l’attacco di panico, e dalla sua personalità.
Riaggiustare farmacologicamente il meccanismo d’allarme “guasto” e, quindi,
rimuovere i comportamenti difensivi sostituendoli con comportamenti normali, riinsegnando al paziente a vivere senza
paura sono i due passi necessari e decisivi per uscire dalla trappola del DAP. Negli
infrequenti casi in cui esista un disturbo
della personalità pre-esistente al DAP, e
che per effetto di questi si sia pienamente
manifestato, una psicoterapia più strutturata può essere utile, anche senza avere
un valore specifico nella cura del DAP e
senza potersi in alcun modo sostituire alle
terapie descritte, pena la cronicizzazione
del disturbo stesso.
Analogamente, la psicoanalisi, pur essendo uno strumento valido per approfondire
la conoscenza di se stessi, non può in
alcun modo essere considerata una terapia specifica per il DAP, non avendo alcuna dimostrazione scientifica che ne attesti
la sua validità.
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Per poter intraprendere e gestire con efficacia il percorso integrato che vi ho descritto
è fondamentale la consapevolezza di non
essere soli, che il percorso per vincere il
panico sia possibile e che bisogna avere
fiducia nelle proprie risorse e nelle terapie
proposte, in questo senso i gruppi di automutuo aiuto diventano un momento molto
importante nel percorso che vi condurrà
alla libertà dal panico. Avendo chiaro in
mente che questi gruppi sono momenti di
condivisione delle esperienze e di sostegno
reciproco che tuttavia non possono e non
devono essere momenti di giudizio delle
terapie in atto e neppure possono sostituirle in alcun modo. Diventa infine molto
importante non perdere l’occasione che il
DAP vi offre di diventare consapevoli del
valore della libertà, proprio perché questa
libertà di muoversi, essere autonomi e
poter decidere, scontata per chi non ha
avuto l’esperienza del panico, diventa un
bene prezioso per cui ringraziare la vita ogni
giorno.
Questo è il presente della cura del DAP,
mentre per il futuro, la ricerca neuroscientifica sta già facendo intravedere nella
terapia respiratoria specifica anti-panico (da non confondersi con le varie terapie respiratorie attualmente proposte
senza studi che ne supportino la validità...) un possibile strumento integrativo
o addirittura alternativo alla terapia farmacologica nel blocco della ricorrenza degli
attacchi di panico, nella riabilitazione
psicovestibolare, una tecnica importante per il superamento delle condotte di
evitamento legate alla sensazione di
sbandamento che spesso accompagna
chi soffre di panico e, addirittura, nella
cicloserina, il primo farmaco anti-fobico
capace di potenziare la terapia comportamentale contro le fobie e l’agorafobia.
Tutte queste novità sono allo studio in
diversi centri internazionali di eccellenza
da alcuni anni e promettono nuove armi
per vincere il DAP.
Proprio perché la sofferenza e le limitazioni causate dal DAP sono molto importanti, minando gravemente il benessere e la
libertà di chi ne è colpito, ogni terapeuta,
sia esso psichiatra, neurologo, medico o
psicoterapeuta, ha il dovere etico di offrire
alla persona che soffre di DAP terapie validate scientificamente e non semplici opinioni personali. Perché la via di uscita esiste e molti di voi hanno avuto la possibilità
di tornare a vivere buttandosi alle spalle
l’esperienza di questo disturbo ed è una
possibilità di cui avete diritto tutti voi, cari
GIAMPAOLO PERNA
pazienti.
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T A V O L A
R O T O N D A
Autostima,
assertività e cura di sé
INTERVISTA AL DR. GIANNI LANARI, DR. ANTONIO MINERVINO E DR. PIETRO STEFANINI
Non si può affrontare il tema della “cura” prescindendo dal concetto di “cura di sé”:
è improbabile che una persona incapace di cogliere e rispettare i propri bisogni, sappia
occuparsi in modo sano di un’altra persona.
Ma prima di prendere per buona questa mia affermazione, proviamo ad affrontare
il tema dell’autostima, dell’assertività e della cura con alcuni esperti,
a cui ho rivolto domande che, spero, possano servire a orientarci
in un argomento vasto e delicato.
A CURA DI VALENTINA CULTRERA
Grazie intanto a tutti e tre, per averci regalato un po’ del vostro
tempo: approfitto subito della vostra disponibilità e chiedo, a
ciascuno di voi, una definizione personale di CURA.
DR. LANARI Tutto ciò che noi possiamo fare per trovare il giusto equilibrio tra il voler bene a noi stessi e agli altri. Quindi la nostra
autostima, ma contemporaneamente il rispetto degli altri.
DR. MINERVINO Cura è, secondo me, quell’insieme di atti materiali,
affettivi, professionali e non, che una persona può rivolgere a
un’altra persona oltre che a sé in una condizione di bisogno da
soddisfare.
DR. STEFANINI La cura, nei secoli, è stata una funzione affidata
quasi esclusivamente ai componenti la famiglia e ai vicini di casa (il prossimo). Nel tempo la funzione si è specializzata in molti ambiti e, soprattutto nell’ultimo secolo e nei paesi economicamente sviluppati, si è costruito un vero e proprio sistema di servizi (educativi, sociali, sanitari) che hanno assorbito molte delle
funzioni di cura a suo tempo svolte dai componenti la famiglia allargata. Il senso di insoddisfazione che spesso pervade le persone che entrano in questi sistemi specialistici ripropone il tema
della cura come fattore che ha componenti psico-sociali e relazionali molto importanti. Sovente le persone, infatti, lamentano,
in questo caso, scarsa attenzione a se stessi. Non c’è sufficiente
cura per esempio nei processi massificati o quando “aiuto” e do
aiuto secondo schemi precostituiti, senza curarmi di comprendere i bisogni e i desideri profondi delle persone. Potrebbe capitare che l’essere persone aiutanti sia solo una nostra convinzione.
Un problema specifico riguarda le persone che svolgono professioni di cura: spesso si dice che la scelta di professioni di cura è
motivata, in fondo, dai propri bisogni di cura e, inoltre che essere centrati esclusivamente su processi di cura rivolti agli altri
può provocare vere e proprie malattie professionali o quantomeno la sindrome del burn-out (stress lavorativo specifico delle
helping professions).
DOTTOR MINERVINO, CI PUÒ DARE UNA DEFINIZIONE PRECISA DI
AUTOSTIMA? È UNA PAROLA CHE COMPARE SPESSO NEL LINGUAGGIO COMUNE, MA NON CREDO CHE SIA UN CONCETTO SEMPLICISSIMO E SEMPRE CONDIVISO DA NOI PROFANI...
È vero, si tratta di una parola che, come tante altre, dall’universo delle parole psicologiche è migrata nel linguaggio comune ac-
quistando in familiarità, ma perdendo di specificità. Il concetto
di autostima si riferisce alla considerazione che uno ha di sé, ed
è una complessa confluenza di elementi percettivi, biografici, affettivi di cui si ha una parziale coscienza. Intendo dire che una
buona parte degli elementi che vanno a costituire quella che indichiamo come autostima sono inconsci, o per meglio dire non
sono nel campo della consapevolezza: questo ci rende conto della frequente differenza che si può riscontrare fra la stima che
abbiamo di noi e quella che hanno gli altri.
A LEI, DOTTOR LANARI, CHIEDO INVECE DI INTRODURCI AL CONCETTO DI ASSERTIVITA’...
Per assertività di intende la nostra capacità nelle situazioni conflittuali di rispettare contemporaneamente noi stessi e gli altri,
invece che essere aggressivi (aggressivo è colui che rispetta se
stesso ma non l’altro) o passivi (passivo è colui che rispetta più
l’altro che se stesso).
DOTTOR MINERVINO, DOTTOR LANARI, È SOSTENIBILE A VOSTRO
AVVISO LA TEORIA CHE, ALLA BASE DEL DISAGIO PSICOLOGICO, AL
DI LÀ DEI SINTOMI CON CUI ESSO SI MANIFESTA, CI SIANO PROBLEMI LEGATI ALL’AUTOSTIMA E ALLA CAPACITÀ DI ESSERE ASSERTIVI?
Certamente mi sembra sostenibile e per le ragioni
che in parte ho esposto prima: una collaudata capacità di essere
assertivi e un sano livello di autostima riparano dal rischio di disagi psicologici.
DR. LANARI Sono delle variabili correlate. Di solito, se abbiamo una buona autostima, abbiamo anche la capacità di stare bene.
DR. MINERVINO
DOTTOR STEFANINI, NON SOLO GLI INDIVIDUI, MA ANCHE I GRUPPI
SOCIALI, POSSONO ESSERE INCAPACI DI ESSERE ASSERTIVI: PUÒ
TRACCIARE L’IDENTIKIT DI UN’ORGANIZZAZIONE ANASSERTIVA? CHE
TIPO DI DISAGIO PRODUCE NELLE PERSONE CHE LA COMPONGONO?
Per assertività si intende la capacità di esprimere i propri bisogni e i propri desideri; in una prospettiva relazionale comunicativa (nel senso che l’assertività gioca nelle relazioni e non solo
sulla singola persona), i gruppi sociali possono essere aperti o
chiusi all’espressione dei bisogni e dei desideri dei suoi componenti oppure ne possono frustrare l’espressione con azioni sanzionatorie. Anche le organizzazioni (intese come insieme di relazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi condivisi) sarebbe
T A V O L A
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R O T O N D A
DR. GIANNI LANARI
DR. ANTONINO MINERVINO
DR. PIETRO STEFANINI
PSICOLOGO
MEDICO, PSICHIATRA,
RESPONSABILE SERVIZIO DISABILI
E PSICOTERAPEUTA
PSICOTERAPEUTA
COMUNE DI PARMA E DOCENTE
(ROMA)
(PARMA)
PRINCIPI SERVIZI SOCIALI
UNIVERSITÀ DI PARMA
auspicabile si sviluppassero secondo la logica assertiva e quindi
attenta a che i propri componenti possano, il più liberamente
possibile, esprimere i propri desideri e bisogni e non solo operare in modo finalistico per gli obiettivi neutri dell’organizzazione
stessa. In sostanza, la qualità della organizzazione è definita anche dalla capacità di essa di porre tra i propri obiettivi la soddisfazione dei propri componenti.
Un’organizzazione anassertiva, quindi, produce un senso di malessere e di estraneità nei suoi componenti e, alla lunga, induce
tentativi di fuga dall’organizzazione stessa. Se parliamo di organizzazioni che per mission sono destinate a occuparsi dei bisogni (materiali, sociali, sanitari, educativi, ecc.) delle persone, evidentemente, la loro capacità di ‘ascolto’ dei bisogni e dei desideri più profondi diventa un segno distintivo di qualità. Il porsi,
invece, nella relazione di aiuto come coloro che sanno già tutto,
hanno la risposta pronta e standardizzata, induce processi di
massificazione e di spersonalizzazione. Si pensi alla complessità della cura di fronte a persone ‘nuove’ che esprimono culture,
sistemi di valori e di vita profondamente diversi rispetto a quelli
cui, anche in professionisti della cura, sono abituati. Si impone
una capacità di ascolto nuova.
DOTTOR MINERVINO, L’AUTOSTIMA SI PUÒ IMPARARE DAVVERO?
Si può fare davvero molto per migliorare un livello di autostima
insufficiente e può essere proprio necessario farlo. Di solito è
meglio chiedere aiuto, non cimentarsi da soli in un’impresa che
partirebbe senza i minimi presupposti necessari: primo fra tutti
proprio un livello di autostima sufficiente. Molti sono gli strumenti cui ricorrere, più professionali come una vera e propria
psicoterapia individuale o di gruppo a vario orientamento, o meno professionali come la partecipazione a gruppi di varia esperienza: teatro, danza, meditazione, ecc.
E SECONDO LEI, DOTTOR LANARI, COME SI PUÒ “CURARE” LA
MANCANZA DI ASSERTIVITÀ?
Iniziando un trattamento psicoterapeutico cognitivo-comportamentale.
DOTTOR STEFANINI, CHE RAPPORTO C’È SECONDO LEI TRA LA CAPACITÀ DI AIUTARE L’ALTRO E IL LIVELLO DI AUTOSTIMA E DI ASSERTIVITÀ DI COLUI CHE SI PRESTA A EROGARE TALE AIUTO?
Un professionista (ma non solo) se non ha un buon livello di autostima non può dare aiuto; questo è un problema, ad esempio,
per le professioni di aiuto a scarso valore sociale (che spesso
produce basso livello di autostima), pensiamo alle badanti (termine quanto mai improprio e in sé spregiativo), agli ausiliari, ma
anche agli infermieri rispetto ai medici, ecc. Nello stesso tempo,
proprio nelle relazioni di cura spesso le persone sperimentano emozioni negative connesse all’eccessivo senso di autostima di
certi professionisti (“senza di me, il deserto…”). È difficile definire il livello ‘giusto’ di autostima, se non sulla base dei significati ed emozioni che esso trasmette nelle relazioni tra le persone.
L’assertività, invece, è una componente essenziale della competenza di cura: io sono capace di mettermi in una relazione di cura se, prima di tutto, sono capace di ascoltare, di lasciare spazio
all’altro, di lasciare esprimere emozioni, desideri, aspirazioni,
speranze, dolori e gioie, bisogni, prospettive di vita. Allo stesso
tempo, colui che aiuta deve utilizzare la capacità di esprimere le
proprie sensazioni positive o negative con molto equilibrio e capacità empatica, come competenza a mettersi nei panni dell’altro (che consente di capirlo) con il vantaggio di non essere sopraffatto dal suo problema (che ti consente di pensare e suggerire soluzioni adeguate al bisogno).
SE LA MANCANZA DI AUTOSTIMA E LA DIFFICOLTÀ A ESSERE ASSERTIVI FOSSERO UNA MALATTIA, SAREBBE UNA MALATTIA ALTAMENTE CONTAGIOSA?
A volte ci sono delle false credenze: nella vita di tutti i
giorni bisogna essere aggressivi per esser rispettati. Chi riesce a
ottenere dei successi essendo aggressivi è da rispettare. Chi
pensa questo è miope perché, anche se hanno un apparente successo iniziale, nel breve e lungo termine hanno un effetto di ritorno abbastanza negativo. Forse abbiamo delle convinzioni disfunzionali sull’aggressività o sulla passività.
DR. MINERVINO Il concetto di contagiosità si rifà classicamente ad
agenti patogeni di tipo virale o batterico, ma non è improprio
parlarne anche in termini psicologici: l’ansia ne è il miglior esempio. Per l’autostima e l’assertività, quando difettano, non saprei dire, ma posso immaginare che alcuni atteggiamenti o comportamenti che ne derivano potrebbe essere condizionanti per
chi sta vicino e forse in questo senso si potrebbe parlare di con
DR. STEFANINI Evidentemente esiste la possibilità, soprattutto nelle organizzazioni che si occupano di cura, che si sviluppino sentimenti condivisi di scarsa autostima e assertività. Questo induce a
dare risposte standardizzate e quindi a ‘difendersi’ dal dolore o
dalla malattia altrui utilizzando schemi di riferimento collaudati
(peraltro, anche a tutela dell’ammalato, si pensi ai protocolli di
intervento su molte patologie ed eventi particolari). Se la persona agisce solo in virtù di un protocollo effettuerà una buona (si
spera) prestazione ma questo potrebbe avere scarso valore terapeutico (inteso come capacità di produrre un vero cambiamento).
Segnalo poi un altro aspetto. La persona che si prende cura,
spesso può andare in depressione perché non trova spazi personali di manifestazione dei suoi bisogni e dei suoi desideri: troppo
presa a occuparsi dei bisogni degli altri non riconosce o non si
sente legittimata a parlare dei propri. Questo potrebbe innescare un circuito negativo che, nel tempo, sarebbe molto negativo
per lei stessa oltre che per le persone di cui si cura.
È in funzione di questo, ad esempio, che nella mia attività ho cercato di sviluppare servizi di sostegno alle persone che si debbono
occupare di altre persone. Tra essi, anche un gruppo di auto aiuto
per genitori che hanno figli con deficit gravi: molto spesso il porre
tutta l’attenzione sui bisogni del figlio non consente di avere l’attenzione necessaria ai bisogni delle perone che curano. Dare spazi di assertività credo possa migliorare non solo le relazioni ma
anche il nostro modo di intendere la realtà in cui siamo inseriti.
Allo stesso modo ho sempre considerato importanti i momenti di
confronto e gli spazi riservarti agli operatori per avere la possibilità di parlare di sé, della propria esperienza lavorativa, delle
difficoltà e dei desideri che fanno parte della vita professionale.
DR. LANARI
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A P P R O F O N D I M E N T I
OME SE PER I RAGAZZI GIOCARE FOSSE SEMPRE UNA COSA SEMPLICE. OGGI SPAZI LIBERI ALL’APERTO, VICINI DI CUI
fidarsi, cartoni animati “educativi”, parenti vicini ai quali Il cambiamento totale del corpo e la comparsa dei caratteri sesrivolgersi, tempo per stare insieme con la famiglia appaio- suali secondari possono dunque:
no spesso ai genitori un’utopia e, per quanto mamma e - confermare l’identità positiva già esistente (il bambino è alto e
papà cerchino di cautelare e tutelare i più giovani, non sempre ci atletico e queste caratteristiche restano nell’adolescenza)
riescono. Questo ingenera solitamente un forte senso di frustra- - dare un’identità positiva al posto di un’identità negativa (il
zione che si tramuta per i genitori in senso di colpa e per i figli in “brutto anatroccolo” diventa cigno)
un senso di smarrimento che provoca ansie “motivate” e a volte - danneggiare una precedente identità positiva (il cambiamento
destabilizzanti. È vero che l’età influisce sulle modalità di espres- della voce e l’assenza di peluria nei maschi e l’esuberanza del seno
sione dell’ansia, ma il periodo adolescenziale rappresenta di per o le gambe storte per le ragazze, l’altezza o il peso non adeguati)
sé uno spazio di crescita caotico e irriverente.
- rafforzare un’identità negativa (il bambino brutto, goffo e graL’adolescenza costituisce un lungo ponte tra l’infanzia e l’età adul- cile diventa un adolescente con le stesse caratteristiche).
ta che dura circa 10 anni e rappresenta un vero e proprio Perio- Gli adolescenti sono molto sensibili ai giudizi degli altri nei condo Critico dello sviluppo, in quanto particolarmente stressante.
fronti del loro aspetto fisico e facilmente condizionabili dai criD’altra parte le trasformazioni che si evidenziano in questa fase teri divulgati dai mass-media in merito alla bellezza e alle caratmettono definitivamente in crisi il mondo dell’infanzia che viene teristiche ideali maschili e femminili.
lasciato alle spalle. Tale destrutturazione risulta necessaria Possono infatti emergere grossi problemi legati a una immagine
negativa di se stessi, soprattutto quando non si è riusciti a staper l’ulteriore sviluppo della personalità e del comportamento.
È importante quindi “leggere” gli atteggiamenti e i modi di fare bilire precedentemente una buona identificazione con il genitodei ragazzi considerando i vari passaggi obbligati a cui sono sot- re dello stesso sesso detto anche “genitore omologo”.
La psicoanalisi è una delle prime correnti psicologiche che identoposti anche da un punto di vista fisiologico.
La pubertà (o età della virilità) inizia generalmente intorno ai tifica la pubertà non come “inizio” ma come la “ripresa” o il
secondo inizio della vita sessuale umana.
10/12 anni per completarsi verso i 15/16 e,
L’“inizio in due tempi” della sessualità è
sotto la spinta della maturazione ormonauna scoperta della psicoanalisi, in corrile inizia la crescita graduale delle ovaie e
spondenza dei “due culmini” dello sviluppo
dell’utero nelle femmine, della prostata e
sessuale, il primo intorno ai 3-5 anni (che
delle vescicole seminali (gonadi) per i
fa riferimento al complesso di Edipo per il
maschi; di solito però si fa partire la
maschio e al complesso di Elettra per le
pubertà dalla crescita del seno e dalla
femmine) e il secondo con la pubertà,
prima mestruazione (o menarca ) nelle
inframmezzati dal periodo evolutivo della
ragazze e dalla comparsa dei peli pubici e
“latenza”. Tali fasi dello sviluppo sessuale
dall’aumento di dimensione del pene nei
hanno in sé una connotazione dirompente,
ragazzi. Alla piena maturazione sessuale
perché irrompono violentemente in un
si accompagna la comparsa dei Caratteri
apparato psichico non ancora attrezzato a
Sessuali Secondari. Le trasformazioni
DI ROSARIA GULLO
fare i conti con l’impatto violento di una
morfologiche dipendono da un forte increPSICOLOGA/PSICOTERAPEUTA
spinta sessuale che raggiunge improvvisamento di ormoni a opera di una ghiandomente dei picchi di intensità sorprendente.
la: l’ipofisi. L’ormone ipofisario stimola
l’attività delle gonadi (cioè delle ghiandole seminali) facendo Nella pubertà questo “eccesso” evolutivo diventa ancora più eviaumentare la produzione degli ormoni sessuali e la formazione dente che nel primo culmine in quanto i caratteri sessuali secondari e le spinte ormonali non lasciano più dubbi interpretativi.
di spermatozoi nei maschi e di ovuli maturi nelle femmine.
Gli ormoni sessuali tra cui il TESTOSTERONE nei maschi e gli E- Non è solo una questione “estetica” come si potrebbe pensare,
STROGENI nelle femmine, insieme ad altri ormoni, stimolano la cre- in quanto si propone il tema della costruzione dell’identità del
soggetto che si estende anche all’immagine corporea che divenscita delle ossa e dei muscoli e producono la “Crisi di Crescenza”.
Il ritmo di accrescimento del peso e della statura raggiungono ta il mezzo cui viene affidato il compito di veicolare il desiderio
poi il massimo di accelerazione nei maschi intorno ai 14 anni e dell’altro da sé (che è essenzialmente il desiderio sensuale e
nelle femmine verso i 12 anni. Nel giro di pochi mesi la fisiono- sessuale nei confronti di un altro individuo), che si presenta con
mia cambia e cambia anche la percezione che i ragazzi hanno di un’intensità che non ammette di essere negata.
se stessi e il senso della propria identità. È pur vero però che Sindromi anoressiche e bulimiche, depressioni, alcolismo e uso
negli ultimi 100 anni l’inizio della pubertà ha risentito di note- di stupefacenti, corse in macchina e/o motorino, molti suicidi in
voli cambiamenti tanto da prendere un arco di tempo maggiore età giovanile e altre difficoltà infatti possono essere fatte risalire
oscillando da una Pubertà precoce (8-9 anni) a una Pubertà tar- a gravi problematiche relative a un’identità confusa o negativa.
diva (16-18 anni). Tali variazioni portano l’individuo adolescen- Da un punto di vista intellettivo e cognitivo tra i 12 e i 14 anni
inizia a manifestarsi lo stadio delle operazioni formali seconte in una posizione di DIVERSITA’ nei confronti dei coetanei.
Uno sviluppo precoce può portare all’ostentazione di una sicu- do la classificazione di Piaget, cioè una capacità matura di penrezza determinata da un fatto puramente esteriore e privo di una siero astratto o ipotetico-deduttivo; questa capacità però si
base di maturazione psicologica (ciò può avere conseguenze struttura completamente intorno ai 15-16 anni.
negative soprattutto per quanto riguarda le ragazze). Emergono L’adolescente tende ad analizzare criticamente i fatti, confronta
il reale con il possibile ed elabora alternative, ha difficoltà a
pulsioni interiori, di ordine prevalentemente sessuale.
Mentre nei casi di sviluppo tardivo si possono manifestare sen- impegnarsi con costanza nel tempo.
In questa Crisi Adolescenziale riemergono i bisogni primari già
timenti di inferiorità e valutazioni negative di se stessi.
C
CRESCERE?
È UN
GIOCO DA
RAGAZZI
T E R A P I E
N A T U R A L I
19
Ancora una volta, è proprio dal mondo della
natura che ci arriva un valido aiuto per
superare i nostri problemi legati all’ansia,
alla depressione e agli attacchi di panico.
Dobbiamo ringraziare il Dott. Edwuard
Bach (1886-1936) il quale, dopo numerose
DI SUSANNA CANETTI
ricerche, scoprì che la coscienza funziona
in base a determinati modelli di reazione,
uguali per tutti gli esseri viventi (piante, animali o uomini) e che
nei fiori di alcune piante selvatiche è presente una sostanza capace di riequilibrare questi modelli di reazione, nel momento in cui
essi siano alterati. Elaborò nei primi decenni del nostro secolo
uno dei metodi di cura naturale più semplice ed efficace, cercando di curare il malato nella sua interezza e non nella malattia, che
poi è la filosofia dell’attuale medicina olistica. Bach individuò 38
tipi di reazioni alterate e li suddivise in sette gruppi. Questi gruppi comprendono tutte le forme di paure, rifiuto della realtà, incertezza, solitudine, disagio e atteggiamenti eccessivi verso se stessi e il prossimo. Come ben sappiamo, spesso i disturbi fisici hanno
origine da una disarmonia tra emozioni e sentimenti, tra la psiche
e l’Io, quindi curando il disordine psicologico si può curare anche
la malattia fisica. Bach ebbe la fantastica capacità di intuire che
per ogni problema esiste un rimedio in natura. Trascorse parecchi
anni ricercando questi rimedi uno ad uno, in fiori ed erbe della
campagna inglese. Inventò anche un metodo per estrarre quel
“qualcosa di speciale” contenuto nei fiori, per poi poterlo conservare e utilizzare quando necessario. Questo metodo deve essere
osservato con cura, a partire dalle modalità di raccolta dei fiori
sino all’esposizione al sole, per permettere ai raggi solari di svolgere l’importante compito di trasferire l’energia dai fiori all’acqua.
I fiori di Bach si assumono in gocce da mettere sotto la lingua,
conservate in apposite bottigliette e per l’individuazione della
miscela adatta al nostro problema è bene rivolgersi a una farmacia erboristica specializzata. Solitamente viene chiesto di compilare un questionario per tracciare un profilo della personalità del
paziente. È importante sottolineare che, in presenza di un disturbo fisico o mentale, è sempre opportuno prima rivolgersi a un
medico. In ogni modo, i fiori di Bach possono essere tranquillamente
affiancati a una terapia
medica senza nessuna
controindicazione, spesso migliorando la risposta ai farmaci e ai trattamenti. Può accadere, all’inizio dell’assunzione, di assistere a un breve peggioramento noto come “aggravamento omeopatico”. Questo
fenomeno in realtà è molto
positivo in quanto sta a indicare che è stato centrato un punto importante, poi solitamente scompare
per dare spazio ai miglioramenti. Il metodo di Bach è frutto probabilmente di una intuizione e di costanti ricerche in campo
omeopatico; di certo è innocuo, ma anche economico e adatto ad
adulti e a bambini. In campo scientifico però non ha trovato ancora una spiegazione medica, nonostante i vari esperimenti fatti.
Spesso si è parlato allora di autosuggestione o di effetto placebo,
ma questo non si spiega quando i fiori di Bach si dimostrano efficaci anche sui bambini o sugli animali, i quali non possono subire nessuna influenza. Diversamente da molti farmaci, questo
metodo non ha effetti collaterali a fronte di un costo molto basso.
Circa la metà dei soggetti che iniziano questa terapia affermano
di avere più sogni notturni, sinonimo di cambiamenti in atto a
livelli profondo, di provare maggiore necessità di riposo, come se
fosse giunta l’ora di fermarsi un attimo e di dedicarsi un po’ a se
stessi. Per altri può esserci una “crisi di coscienza”, ossia un
breve peggioramento, come se ci si rendesse conto improvvisamente di cosa non va in se stessi, trovando così la chiave per reagire e autoguarirsi.
Abbiamo accumulato tante ferite, se non ne siamo consapevoli tutte le nostre azioni diventano reazioni a quelle
ferite. Nella conoscenza di sé c’è la fine del dolore e, quinJ. Krishnamurti
di, l’inizio della saggezza.
sperimentati, i tipi di relazione e le fasi dello sviluppo anche se
in maniera diversa:
- la reviviscenza della fase orale: la seconda diede di sicurezza
- la reviviscenza della fase anale: la controdipendenza o fase di
opposizione
- la reviviscenza della fase edipica: diventare grande
- l’investimento libidico narcisistico: la masturbazione.
Ciò che è quindi in questione nell’adolescenza, rimanda alle forme
di controllo che un giovane individuo può mettere in atto per far
fronte a qualcosa che lo sollecita in modo talmente stressante da
essere avvertito come “pericoloso”. A questo pericolo a cui
l’adolescente si può sentire esposto egli risponde con l’Angoscia
che è il segnale per eccellenza e che ha fatto la sua prima apparizione nella vita del soggetto come “segnale d’allarme” già intorno
ai quattro anni (e non semplicemente come reazione riflessa a uno
stimolo esterno come potrebbe malamente essere interpretata).
Attraverso l’ansia e l’angoscia il soggetto si attrezza a far fronte
all’impatto violento e improvviso, “sproporzionato” della pubertà.
Se la costruzione dell’identità dell’adolescente sarà sufficientemente solida, l’angoscia che avvolgerà il soggetto, e che è essenzialmente legata all’elaborazione di una spinta sessuale genitale
“adulta”, potrà essere affrontata ed elaborata. Infatti l’angoscia
della pubertà, in tutte le sue forme palesi e latenti, segnala il
ritorno e la ripresa di una vicenda che il bambino ha già affrontato e che ora lo impegna nel passaggio alla posizione di adulto
impegnato a fronteggiare la minacciosità della figura genitoriale
come strumento di identificazione sia emotiva che fisica.
Ecco perché il corpo dell’adolescente rappresenta in forma teatrale il terreno di gioco più evidente ed esplicito del Cambiamento che per sua natura deve trovare un compromesso tra un
prima già conosciuto ma non più familiare e un dopo agognato e
contemporaneamente “pericoloso” perché sconosciuto.
L’ansia e l’angoscia possono quindi presentarsi come elementi
naturali della vita ma la loro gestione non è altrettanto naturale per
i ragazzi che hanno bisogno di un occhio vigile ma non opprimente, un atteggiamento amorevole di ascolto che non deve sfociare
nella condiscendenza, una partecipazione genitoriale che va calibrata costantemente e con fatica. I ruoli di mamma e papà nella
vita dell’adolescente devono trovare una nuova strada preferenziale perché ricordiamoci che se nessuno insegna a un genitore a
essere tale, è il genitore che insegna al figlio a essere individuo nel
mondo e le sue sono le orme iniziali su cui il figlio si muoverà.
I FIORI
DI
BACH
20
T E R A P I E
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T R A D I Z I O N A L I
IPPOTERAPIA (DAL GRECO HUPPOS=CAVALLO, THERAPEIA=CURA), MEGLIO DEFINITA TERAPIA PER MEZZO DEL CAVALLO
(TMC), mette in contatto cavallo e uomo, nel momento in so tempo anche un’interazione trasversale tra uomo e ambiente,
cui quest’ultimo vive una situazione di disagio fisico, psi- uomo e società, uomo e operatori/gruppo, puntando a un reinchico o entrambe le cose, di diversità e di svantaggio. Si serimento della persona nel tessuto sociale. La persona viene
viene così a formare una relazione-interazione tra questi due vista sotto un’ottica “olistica”, ossia nella sua interezza: corpo,
soggetti con obiettivo finale il benessere di entrambi. Il legame mente, ambiente e relazioni. Si cerca quindi di stimolare
profondo tra uomo e cavallo è presente sin dagli albori dell’u- l’autoguarigione, di riequilibrare anziché curare, di cercare le
manità, ne sono testimonianza i graffiti degli uomini primitivi e cause piuttosto che soffermarsi sui sintomi. Il trattamento per
la presenza massiccia nella mitologia più antica. Una conviven- mezzo del cavallo è una possibilità di riscatto, di re-integrazioza lunga millenni, nella quale il cavallo è stato risorsa alimenta- ne, poiché insegna a gestire i propri limiti, a superare piano
re, mezzo di trasporto, strumento di guerra e alla fine compagno piano le proprie barriere, a gestire le emozioni interagendo con
nello sport, nel divertimento o per la salul’animale e confrontandosi con se stessi e
te. Nell’immaginario collettivo il cavallo
con gli altri. Anche in questo ambito, dove
rappresenta la libertà senza confini, la
si lavora sull’immateriale come affetti ed
forza, l’eleganza e la mancanza di costriemozioni, diventa di vitale importanza la
zioni o di barriere. I benefici effetti correcondivisione; infatti senza un’efficace
lati all’uso del cavallo furono intuiti in
condivisione utente-operatore/utenteepoche remote, la prescrizione dell’equigruppo, i vissuti è come se non fossero
tazione a scopo terapeutico si riscontra
mai accaduti. Ecco quindi la differenza tra
già nel 460-370 a.C. ad opera di Ippocrail semplice cavalcare e l’ippoterapia, la
te di Coo. In Italia l’ippoterapia è stata
quale presuppone la presenza di operatointrodotta negli anni ’70 dalla Dott.ssa
ri-terapisti specializzati, che sappiano
belga Daniele Nicolas Citterio, fornendo
accogliere l’utente, valutare il percorso
un notevole impulso anche attraverso
più idoneo tramite dei colloqui e affianDI SUSANNA CANETTI
l’associazione nazionale per la riabilitacarlo durante il percorso. Se prendiamo il
zione equestre (A.N.I.R.E.). In realtà, nel
vocabolario, alla voce “riabilitare” leggiacongresso di Amburgo del 1982 con il termo: “rendere di nuovo abile… reintegrare
mine ippoterapia viene identificata la prima fase della riabilita- nell’esercizio dei diritti… rendersi nuovamente degni di stima”.
zione equestre, la quale comprende il primo approccio con il Da ciò possiamo dedurre che l’autonomia, non soltanto motoria,
cavallo. Nei centri di riabilitazione sono presenti una serie di ma anche emotiva e mentale, è il principale obiettivo da ragattività che mirano al recupero dell’indipendenza, della dignità e giungere. In situazioni di disarmonia la persona si sente preda
del benessere delle persone che hanno un disagio psicofisico. dei propri stati emotivi, viene aggredita dalle proprie percezioni
Viene prevista un’interazione tra uomo e cavallo, ma nello stes- ed emozioni che vengono tradotte in angoscia. L’individuo sem-
L’
L’IPPOTERAPIA
UNA PASSIONE RITROVATA
di Susanna Canetti
Penso fermamente che il momento in cui
inizia la vera guarigione di una persona
coincida con l’attimo in cui essa finalmente si accorge di avere bisogno di cure,
quando ammette a se stessa di avere un
problema e decide che è giunta l’ora di
correre ai ripari. Sembra la cosa più facile
e logica del mondo, invece non è affatto
così. Ci vuole molto coraggio e molta
umiltà per staccarsi dalla vita di tutti i giorni, da quella che ognuno di noi si è creato
su misura per sfuggire alla paura del futuro, per distrarsi dalle ombre del passato, e
uscire quindi da una realtà fatta di abitudini e compensazioni per tuffarsi piano
piano nella vita “vera”, quella del nostro
animo e delle nostre emozioni. Questo è
vivere il presente; è vivere con noi stessi,
accorgersi di noi stessi, prestarsi delle
attenzioni, ascoltarsi con pazienza e
soprattutto con amore. Bisogna iniziare ad
amarsi e a desiderare con forza di riacquistare la nostra libertà, la nostra serenità, il
nostro benessere e la nostra indipendenza. Ne abbiamo diritto. Ormai è assodato,
la vita, il più delle volte, non va come noi
vorremmo che andasse; l’unica cosa sulla
quale possiamo agire è il presente, cercando di essere felici “qui e adesso”. Può
però accadere che il presente diventi un
incubo dal quale non ci si può svegliare,
una prigione dalla quale non si riesce a
fuggire. A volte anche i nostri stessi pensieri diventano dei nemici e il nostro corpo
una specie di trappola. Non ho avuto una
vita facile, ma anche nei momenti peggiori ho sempre saputo trovare la forza per
combattere e non perdere la speranza. Ma
quando ho iniziato a soffrire di attacchi di
panico c’è stato un periodo durante il
quale pensavo fosse meglio morire, piuttosto che vivere una vita nella quale ti è
stato tolto il sorriso, il piacere del sonno, la
voglia di sognare, la forza per mangiare, la
capacità di godere delle piccole cose.
Penso sia stato solo nel momento in cui
ho toccato davvero il fondo che ho preso
realmente coscienza del fatto che volevo
disperatamente tornare a vivere. Ma non
come prima, questa volta libera dai compromessi, dai sensi di colpa, libera dal mio
non saper vivere le emozioni. Ho iniziato a
essere un po’ “egoista”, ossia a pensare
davvero a me stessa e a volermi bene,
smettendo di ascoltare quel tribunale
interno così spietato che continuava a giudicarmi e a condannarmi. Per essere sincera non posso dimenticarmi di continuare a ripetere che in questo mio percorso
un ruolo fondamentale l’ha avuto il mio
gruppo. È stato indispensabile nell’aiutarmi a sciogliere parecchi nodi sparsi nella
mia mente, a indirizzarmi in un difficile percorso di introspezione e di analisi delle mie
relazioni umane. Ritrovandomi e immedesimandomi nei racconti fatti dai miei compagni di gruppo, condividendo con loro
ansie ed emozioni, provando a raccontarmi, ho riscoperto la vera me stessa. E
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T R A D I Z I O N A L I
bra aver bloccato la comunicazione con se stesso. Pare allora
indispensabile l’introduzione di un mediatore, e questo ruolo di
co-terapeuta può essere svolto dal nostro amico cavallo. Infatti
la comunicazione con l’animale sembra essere più facile in
quanto non verbale, ma basata su un codice diretto ed esplicito
centrato sul presente. Grazie a questa nuova modalità di comunicare, l’individuo sembra tollerare con minor angoscia situazioni e avvenimenti della propria vita. Ma perché ciò avvenga
l’individuo deve entrare, con compassione, in contatto con le
proprie carenze. Per alcune persone i confini rappresentati dal
corpo e dal tempo (spazio-temporali) vengono vissuti come delle
prigioni. Per noi umani la capacità di vivere nel presente, per
quanto sia l’unico tempo a nostra disposizione, non è per nulla
scontata. I cavalli invece vivono solo nel presente, anche se non
scordano niente del passato, e ogni esperienza è fonte di conoscenza. Quindi è come se ci lanciassero una sfida, quella di
imparare a essere come loro: apprendere dal passato, disporci
con curiosità verso il futuro più prossimo, andare incontro a noi
stessi. Tenendo sempre presente che in un viaggio la cosa che
conta non è arrivare alla méta, ma come si percorre la strada
per arrivarci. Il TMC è basato sulle relazioni, su un linguaggio
emozionale. Imparare a piangere, ridere, aggredire fa parte della
terapia. La drammatizzazione, cioè la capacità di dare espressione alle emozioni, è una tecnica riabilitativa. Ma perché le
emozioni sono così importanti? Negli ultimi 15 anni le neuroscienze hanno dimostrato, attraverso l’osservazione del cervello, che le emozioni hanno un ruolo fondamentale nell’apprendimento dalle esperienze e perciò sono indispensabili nelle situazioni di crescita e cambiamento. Si può affermare che il nostro
cervello funziona a emozioni, quindi è da esse e dalla capacità
di viverle che dipende la qualità della nostra vita. Più emozioni
positive riusciamo a vivere e più verrà potenziato e sviluppato il
sistema della capacità cognitive.
ancora oggi mi chiedo dove fosse finita
per tutto quel tempo. Ho ritrovato i miei
desideri, le mie passioni, le mie aspirazioni, i miei pregi e i miei difetti. Ho avuto la
sensazioni di aver perso parecchie occasioni, di essere stata una spettatrice della
mia vita, e ho sentito come mai prima la
necessità di vivere a mille all’ora per poter
recuperare. Ho capito che bisogna dare
spazio alle cose che amiamo, che ci
appassionano, che non bisogna avere
paura di far valere le proprie idee, o temere il giudizio altrui, ma essere orgogliosi di
noi stessi senza soffocarci.
Pensavo di non avere più passioni e invece le avevo soltanto relegate in un angolo per evitare che potessero farmi del
male. Così, a marzo dell’anno scorso, la
mia ricerca ha iniziato a dare i primi frutti
ed è successo in Toscana, in un bellissimo agriturismo. Dopo tanti anni, con
ancora qualche strascico d’ansia, sono
finalmente risalita a cavallo! Quand’ero
bambina e sino all’inizio dell’adolescenza,
la maggior parte del tempo la passavo
nella fattoria di un amico di famiglia, poco
21
Definire l’ippoterapia una terapia alternativa rispetto quelle tradizionali non è corretto. Piuttosto si potrebbe definirla una terapia complementare, da programmare e definire all’interno di un
più ampio progetto riabilitativo personale, il quale deve essere
monitorato periodicamente da diverse figure specialistiche. È
importante sottolineare di evitare le terapia “fai da te” o di
abbandonare terapie farmacologiche senza rivolgersi al medico
di fiducia, ma piuttosto valutare insieme a lui la possibilità di
cogliere questa opportunità, rivolgendosi rigorosamente a centri
specializzati e accreditati. L’effetto terapeutico dell’ippoterapia
si basa sul rapporto dialettico che si instaura tra uomo e cavallo, ricco di sensazioni piacevoli e rassicuranti, coinvolgenti sotto
il profilo emotivo, aiutando a sviluppare il senso di fiducia e di
sicurezza. Ecco alcuni degli aspetti positivi di questa terapia
“non tradizionale”:
è in grado di generare sentimenti ed emozioni intense favorendo
il processo di apprendimento;
il cavallo è un essere che esprime emozioni proprie come la
paura, nelle quali ci si può riconoscere, e dove la persona può
assumere un ruolo rassicurante;
cavalcare offre sensazioni di protezione, autostima, fiducia in se
stessi;
permette di stabilire un contatto fisico “intimo” e di sentirsi gratificati, sia nell’offrire cure e carezze, sia nel ricevere manifestazioni di piacere da parte dell’animale;
il cavallo possiede le qualità (calore, morbidezza, sguardo, movimento ritmico) necessarie a sviluppare il processo di attaccamento fondamentale per lo sviluppo dell’essere umano.
Il cavallo è un essere estremamente sensibile che può donare
all’uomo calma e serenità, condividendo con lui il suo disagio,
regalandogli la formula magica per ritrovare la forza e la dignità.
E donandogli amore e riconoscenza, egli trasmetterà anche un
importante insegnamento: più amore si dà più se ne riceve.
distante da casa mia. Lì c’erano parecchi
cavalli e io spesso me ne stavo per ore a
guardarli pascolare nei prati, oppure
restavo nella scuderia sino a tardi per
spazzolarli. Non vedevo l’ora che arrivasse la domenica perché il proprietario dei
cavalli mi faceva montare e mi dava lezione in maneggio. Ecco, questa per me era
la felicità: l’odore del fieno, l’aria aperta, e
il contatto con quell’animale fantastico
che è il cavallo. Da quel fine settimana in
Toscana non ho più smesso di dedicarmi
alla mia passione per i cavalli, e ho iniziato a frequentare un centro ippico vicino a
casa mia. Quello è diventato il mio rifugio,
il posto dove mi sento in armonia con me
stessa e con il mondo. Spesso sento un
vero e proprio bisogno di prendere la
macchina e correre al maneggio, ed è
questo bisogno che mi fa alzare la domenica mattina presto o uscire la sera
d’inverno con la nebbia. La verità è che
quando sono con i cavalli il tempo sembra fermarsi, la mia mente è così focalizzata sul presente che si svuota completamente, tanto da dimenticare problemi e
pensieri. Penso che in questo modo la
vita mi stia dando una seconda possibilità, mi stia indicando una possibile strada
da percorrere. Non posso non ringraziare
con tutto il cuore i miei amici cavalli, i
quali, durante tutto quest’anno passato
insieme, dopo tanta lontananza, hanno
saputo regalarmi tanto amore e insegnarmi tante cose importanti: il rispetto, la
responsabilità, la sensibilità e il senso
della libertà. Niente più del cavallo può
simboleggiare e rappresentare la libertà,
fisica e mentale, l’armonia e la forza allo
stesso tempo. Grazie alle attività svolte
con i cavalli, il mio carattere insicuro e
pauroso è andato temprandosi piano
piano, e spesso è stato messo a dura
prova. Ho dovuto ogni volta imparare a
gestire le mie emozioni, ad avere autocontrollo e imparare a oltrepassare i miei
limiti. Soprattutto ho scoperto che in una
relazione ci sono vari modi di comunicare, spesso trascurati, come i gesti, il contatto fisico e l’emotività, che si rivelano
spesso più efficaci e diretti delle semplici
parole. Nel cavallo mi sono anche potuta
segue a pagina 30
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E S P E R I E N Z E
Il gruppo d’auto-mutuo aiuto
i chiamo Giuseppe, ho 42 anni e da tempo soffro di
disturbi d’ansia generalizzata; sono dal mese di
novembre 2007 in un gruppo di auto-mutuo aiuto della
Lidap a Parma che si riunisce ogni lunedì alle ore
19:00. Il gruppo di auto-mutuo-aiuto di cui faccio parte è composto da 9 persone accomunate dal desiderio di superare lo stesso
disagio psicologico. Tale disagio viene affrontato ed elaborato in
prima persona attraverso il confronto, la condivisione e lo scambio d’informazioni, emozioni, esperienze e problemi. Nel gruppo
di auto-mutuo-aiuto si ascolta e si è ascoltati, senza pregiudizi,
in un clima armonioso in cui si scoprono e si potenziano le proprie risorse interiori. Il gruppo si autogestisce seguendo un sistema condiviso di obiettivi, regole e valori; rivolge una particolare
attenzione alle origini sociali dei problemi senza però trascurare
i fattori individuali, incrementando le capacità relative alla sfera
emotiva e interpersonale. Le problematiche evidenziate nel gruppo sono molteplici: per esempio c’è chi non si sente in sintonia
con l’ambiente che lo circonda, chi, quando si trova insieme agli
altri, avverte un distacco emotivo e ha difficoltà a comunicare,
chi sente di non riuscire a esprimere a pieno se stesso in famiglia o nell’ambiente di lavoro, chi vive la
depressione, l’insicurezza, l’ansia, il panico, la
malinconia, sentendosi così una persona esclusa rispetto a chi, forse, vive gli stessi problemi,
ma non ha il coraggio di esprimerli.
Nella mia breve esperienza ho capito che tenersi tutto dentro aggrava i problemi. Il nostro facilitatore è il partecipante al gruppo che agevola
i rapporti tra i 9 componenti e aiuta il gruppo a
raggiungere con efficacia i propri obbiettivi. Il
nostro facilitatore della comunicazione ha il
peculiare compito di riuscire a cogliere e riportare al gruppo, in termini espliciti e comprensibili, quei contenuti emotivi che non vengono
comunicati esplicitamente nella discussione dai
membri, ma che invece contraddistinguono
profondamente gli scambi relazionali all’interno della dimensione
gruppale di questa esperienza, al fine di dare il maggiore senso di
completezza ai nostri incontri perché nulla di ciò che viene vissuto all’interno del gruppo vada perso o non utilizzato al meglio in
base alle esigenze di ognuno dei partecipanti. Io so che un gruppo di auto-mutuo-aiuto non è un gruppo terapeutico, ma si pone
come intervento integrato a quelli tradizionali (farmacoterapia e
psicoterapia). Il gruppo offre sostegno emotivo attraverso la rottura dell’isolamento e la condivisione reciproca, permette una crescita personale e l’adattamento a quelle condizioni della nostra
vita che percepiamo emotivamente stressanti, rende chi vi partecipa protagonista attivo della ricerca del proprio benessere e di
quello degli altri membri del gruppo, perché ognuno mette a
disposizione degli altri le proprie capacità. Il gruppo aumenta il
potere e il controllo su noi stessi e sugli altri perché nei nostri
incontri si ha la possibilità di scoprire risorse che non credevamo
di possedere e quindi di attivarle. Inoltre il gruppo di auto-mutuoaiuto per me è un’esperienza altamente coinvolgente che aumenta la propria autostima, attiva l’emotività e ci fornisce gli strumenti per utilizzarla al meglio nei rapporti con gli altri, favorendo
anche la nascita di nuove amicizie.
Il gruppo che io frequento da alcuni mesi è stato per me
M
un’opportunità per stravolgere e modificare la tendenza all’isolamento e alla sensazione di imbarazzo e soggezione, trasformando e diventando un’occasione, una risorsa che mi permette
di riconsiderare la scelta di vita fatta, malgrado contro me stesso, che spesso ripete un “copione” di vita che non mi appartiene. Il gruppo per me è il luogo dove si impara a confrontarsi, a
ritrovare fiducia in se stessi e negli altri, ad acquisire autostima,
ad aprire il cuore e a trasmettere emozioni, sentimenti e pensieri. La depressione, l’ansia, il panico, la malinconia, il dolore,
la confusione, la solitudine non sono vissute come una malattia,
ma come momenti di vita di ognuno di noi; quello che cambia è
il modo di affrontarli e superarli. Nel gruppo si ascolta e si è
ascoltati, senza pregiudizi, senza giudizio, in un clima armonioso, in cui conta non tanto trovare soluzioni istantanee ai problemi ma, scoprendo le proprie risorse interiori, poterli affrontare
positivamente con più forza. Nel gruppo si ritrova così fiducia in
se stessi e negli altri, si acquista autostima e in una risata collettiva si riesce magari ad alleggerire situazioni dolorose o tragiche le quali, una volta espresse, perdono la loro unicità o
drammaticità e ritornano ad essere comuni. Nel gruppo non ci
sono interpretazioni; non si risolve il problema
di nessuno, ma facilita la comunicazione, lo
scambio, la riflessione comune all’insegna del
pensiero positivo per cui ognuno trova da sé la
propria risposta personale.
Il gruppo di auto-mutuo aiuto è un laboratorio
dove si impara a confrontarsi, a ritrovare fiducia in se stessi e negli altri, ad acquisire autostima, ad aprire il cuore e a lasciare trasparire
emozioni, sentimenti, pensieri. La disponibilità
a cambiare diventa già una conquista e un
superamento. Non è il problema che sparisce di
colpo, ma è la persona che, cambiando, sposta
la sua “posizione esistenziale” nei confronti del
problema. Nello spostamento dei termini si
gioca la possibilità di cambiare la propria condizione di vita e si ritrova la forza e il coraggio di essere un po’
più felici. Il problema di patologie come l’ansia generalizzata,
l’ansia fobica e l’attacco di panico ha assunto negli ultimi anni
una rilevanza sociale di incredibile ampiezza. Si tratta in effetti
di sindromi la cui diffusione epidemiologica è in crescita continua. Basta riflettere sul sorprendente dato statistico che ci informa che le forme sindromiche di tipo fobico-ansioso toccano
ormai una percentuale della popolazione globale che si aggira
intorno al 20%. Si perviene a questa drammatica cifra considerando come patologia non solo le fobie più strutturate (cioè
l’agorafobia, la claustrofobia e l’ipocondria), ma anche un disturbo meno visibile e tuttavia non meno invalidante qual è la “fobia
sociale”, cioè la paura, propria di molte persone, di avere un contatto stretto o continuativo con altri esseri umani. Questa fobia
viene spesso confusa con le altre fobie, ma ha un tratto differenziale, perché riguarda le relazioni umane piuttosto che le situazioni. Queste patologie hanno dei costi sociali molto elevati. Considerata la particolare configurazione sintomatologica, è evidente che si tratta di patologie notevolmente invalidanti, che non
solo portano sofferenza ai soggetti colpiti e ai loro congiunti, ma
sono anche causa di rilevanti costi sociali.
GIUSEPPE P. DI PARMA
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E S P E R I E N Z E
Sono Monica, ho 31 anni e sono nata in
Sicilia a Sant’Agata Militello in provincia
di Messina; vivo a Roma da 7 anni. Mi
sono sposata nel 2001, mio marito è nato
e vissuto a Roma ma ha anche lui origini
siciliane.
DI MONICA DI ROMA
Ho cominciato a soffrire di attacchi di
panico circa 13 anni fa, l’anno della maturità. All’inizio pensavo
che la tachicardia dipendesse da problemi fisici ma presto uno
psichiatra amico di famiglia mi ha diagnosticato gli attacchi di
panico. Non avevo idea di cosa si trattasse né tanto meno come
poterli superare; ho assunto per un anno degli ansiolitici che
hanno tamponato per un po’ il problema.
Poi ho conosciuto mio marito e grazie alla spinta che mi dava ad
affrontare i viaggi a Roma e l’amore che nasceva sono riuscita
quasi a dimenticare la mia ansia. Nel 2000, dopo 2 anni che io
e Angelo stavamo insieme, abbiamo preso la decisione di sposarci e mi sono trasferita a Roma. Ho subito trovato lavoro in
una sub agenzia di assicurazioni, dove avevo già un’esperienza
di circa 5 anni perché in Sicilia mia sorella ha un’agenzia assicurativa; però dopo 2 anni la sub agenzia ha chiuso e io sono
rimasta senza lavoro per un po’ ed è proprio in questo periodo
che mi sono tornati con violenza gli attacchi di panico. Ho cercato di tamponarli con l’aiuto degli ansiolitici ma non bastavano: il senso di impotenza e di solitudine non venivano placati da
niente, nessuno poteva capirmi, tanto meno mio marito che
stava cominciando con la sua attività imprenditoriale e non
... MA
ORA
RIPARTO!
aveva molto tempo per me, e nemmeno potevo biasimarlo…
Da allora ho fatto dei lavori saltuari, però nel frattempo avevo
finalmente degli amici miei, e questo mi è stato molto utile; poi
mio marito mi ha sempre spronato ad affrontare il problema e a
non chiudermi in casa. Ho intrapreso una terapia di tipo cognitivo comportamentale e sembrava che tutto funzionasse per il
meglio; ho fatto diversi viaggi in giro per il mondo e ogni volta
mi sentivo più forte fino a questo anno, che infatti è stato piuttosto faticoso: abbiamo cambiato casa. È più grande, più comoda e vicinissimo a dove abitavo prima ma mi ha destabilizzato
tantissimo; i lavori di ristrutturazione e poi un viaggio ad aprile
che forse non volevo fare, a luglio ho ricominciato ad avere i
primi attacchi di panico, ma ancora non mi limitavano in niente.
Ma ad agosto era previsto un viaggio in Perù che non ero convinta di fare perché molto duro dal punto di vista fisico a causa
dell’altura, infatti saremmo stati per la maggior parte del tempo
a una quota di 4000 m. e questo non giovava certo alla mia ansia
che si era rifatta viva. Infatti il viaggio si è risolto in un disastro:
sono stata malissimo con il mal di montagna, probabilmente
associato al panico e siamo dovuti rientrare prima. Da allora mi
sono tornati tutti i disturbi con tutta la loro violenza. Non riesco
più nemmeno a restare sola in casa, ad andare a fare la spesa.
La sensazione di sentirsi male da un momento all’altro, ti manca
il fiato, il cuore sembra impazzire e la vergogna di darlo a vedere ti paralizzano. In questo periodo non riesco più a mettermi in
discussione, a mettere in atto i pensieri funzionali: sono stanca
di dovercela fare da sola….
Avventure nella Serendipity
RAGGI DI SOLE
Nel millenovecentocinquataquattro un sociologo di nome Robert King Merton formalizzò Mi chiamo Maria Giulia e ho 28 anni. Soffro di
all’interno di quella che sarebbe diventata la sua opera magna i concetti fondamentali ansia dal 2004. Il primo attacco di panico l’ho
della sociologia strutturalista. Teoria e Struttura sociale rimane ancora oggi un testo con avuto 2 mesi dopo la morte di mia madre, malacui i sociologi e i loro colleghi dovrebbero confrontarsi; la ricchezza dei contenuti delle ta di tumore da 8 anni. Ricordo benissimo ogni
sue pagine è meravigliosa fonte di riflessioni che scavalcano le barriere della disciplina particolare di quell’attacco, che è stato un vero
e riguardano da vicino tutti quanti coloro che si confrontano con questioni di matrice shock. Per mesi nessuno mi disse che cosa mi
psico-socio-antropologica.
stava succedendo, nonostante sia andata più
Tra i tanti argomenti, l’autore ha affrontato e definito un processo di scoperta scienti- volte dal mio medico di famiglia. Nella mia ignofica che si dice serendipity. Quando leggevo questo libro fui subito incuriosito dalla ranza ero convinta di avere la sclerosi multipla.
stranezza del termine, che emergeva da un indice colmo di concetti/termini scientifi- Non so perché… semplicemente non mi pareva
ci. La mia curiosità mi portò a saltare un blocco di pagine fitte e compatte per arriva- possibile che i disturbi fisici che avevo, così
re subito al paragrafo dedicato a quella
potenti e devastanti, potessero essere creati
parola magnetica. La mia fame di sapere dalla mia mente! Finalmente, dopo 8 mesi, mi è stato detto ciò che avevo e ho cominciato a essee la mia sconsiderata curiosità furono re curata. Sono stata finalmente bene, dopo tanto disagio. Ma la paura era rimasta e un’altra crisi,
saziate, e al tempo stesso le mie idee dopo un anno e mezzo, è tornata. Ho scoperto di non avere più attacchi di panico, ma ansia genesulla scienza subirono un rigoroso rim- ralizzata, più persistente, ma più gestibile. Mi sono fatta forza così, cominciando a capire che
provero: non tutto quello che gli scienzia- l’ansia si può tenere sotto controllo e, se lo voglio, posso avere la meglio su di lei. Certo i momenti scoprono volevano intenzionalmente ti di ansia tornano ancora, ma con il bagaglio di esperienza che mi porto so che posso controllarscoprirlo.
la e impedirle di prendere il sopravvento. Per la prima volta dopo tre anni, anche grazie ad AntoImpossibile a crederci, almeno pensando nella e Margherita della Lidap e a tutti i miei compagni di viaggio (che ho conosciuto nel corso
alla logica sottesa alla forma comune della delle tre conferenze sull’ansia, che si sono tenute a Correggio all’inizio dell’anno, e che incontro
scoperta scientifica. Il caso della serendi- tutti i martedì al gruppo di auto aiuto di Correggio), quest’estate mi sono ritrovata a pensare più
pity significa proprio questo: cercare qual- volte anche alle cose positive che l’ansia mi ha portato (e non solo a quelle negative). Se per tre
cosa e scoprirne un’altra, la quale devia gli anni l’ho sempre e solo vista come un mostro che mi ha causato una grande infelicità e mi ha fatto
interessi del ricercatore verso nuovi e ina- perdere molti dei punti fermi e delle convinzioni che mi ero costruita, da qualche tempo mi accorspettati oggetti di ricerca.
go di essere più vera e di cercare, a differenza di un tempo, la parte profonda di persone e cose,
Per stabilire familiarità con questa nuova con un indubbio miglioramento nei rapporti interpersonali e nel rapporto con me stessa. Dopo il
nozione provai ad applicarla al di fuori buio i primi raggi di sole creano in noi un sentimento di stupore, abituati come siamo a stare male.
degli steccati di un ragionare scientifico e È proprio allora che dobbiamo con forza e senza paura dire il nostro SI’ alla vita. MARIA GIULIA
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E S P E R I E N Z E
LA SCIMMIA E LA CILIEGIA
N UN RACCONTO SUFI SI NARRA: “C’ERA UNA VOLTA UNA SCIMMIA CHE ERA MOLTO GHIOTTA DI CILIEGE. UN GIORNO,
vedendone una particolarmente succosa, scese dall’albero La scimmia si era liberata, ma era prigioniera. Il cacciatore si
per prenderla. Purtroppo il frutto era contenuto in una botti- era servito della ciliegia e della bottiglia, che erano ancora in
glia di vetro trasparente. Dopo alcuni tentativi, la scimmia suo possesso”.
capì che poteva afferrarlo solo infilando la mano dentro la botti- A volte le trappole si nascondono dentro la nostra mente. Chi ci
glia, attraverso il collo. E così fece. Quando richiuse la mano guarda da fuori non comprende perché siamo aggrappati alla ciliesulla ciliegia, si accorse di non poterla tirare fuori perché il gia, qualche saggio consigliere ci suggerisce di abbandonare il
pugno chiuso per prendere il frutto era più grosso del diametro frutto (e si fa anche pagare per questo...) ma il problema rimane.
del collo.
Allora cosa fare, che strategia adottare? L’ansia non è una cilieOra, tutto ciò era stato previsto: la ciliegia nella bottiglia era, gia succosa, ma non cambia l’ottica della questione: la teniamo
infatti, una trappola preparata da un cacciatore di scimmie che stretta nel pugno. Non sappiamo perché, ma inconsciamente lo
conosceva bene il loro modo di ragionare.
facciamo e ci cattura.
Quando sentì i lamenti dell’animale, il cacciatore si avvicinò. La Se la mente è la bottiglia, il nostro inconscio è quella forza che
scimmia tentò di scappare ma, avendo la mano imprigionata ci porta a subire quella stretta mortale.
nella bottiglia, come pensava, non poté spostarsi abbastanza Eppure noi possiamo farcela, occorre aprire il pugno. Il cacciarapidamente per sfuggirgli.
tore conosce il modo di ragionare della scimmia ma non quello
La scimmia, però, aveva ancora in pugno la ciliegia o, perlome- dell’uomo.
no, così credeva. Il cacciatore acchiappò la scimmia e un attimo Se osserviamo bene la bottiglia, possiamo comprendere che
dopo le diede un colpo secco sul gomito facendole mollare la essa contiene solo un inganno.
NINNI GIUNTA
presa.
I
segue da pagina 23
pensai alle volte che nella vita di ogni giorno mi era capitato qualcosa di simile. La
sensazione che provai fu di tremendo,
meravigliato stupore. Non potevo nemmeno contare sulle dita le occasioni in cui lo
svolgersi delle mie faccende aveva intrapreso un simile andamento.
Eccone un esempio, solo il primo; il più
antico che mi torna in mente. Avevo 7 anni
e mi ero perso il portachiavi di Spiderman.
Un tragedia che potete immaginare. Lo
ricercai per un mese, obbligando mio padre
a percorrere ogni giorno la stessa strada,
andata e ritorno del quotidiano tragitto scolastico. Ero sulle tracce di me stesso, passeggiavo ogni mattina sui passi della mattina precedente. Ma niente Spiderman.
Le ricerche, per quanto attente e ragionate, tradivano puntualmente le mie speranze e la mia fiducia.
Poi, in una giornata qualunque, capitò che
il mio sguardo, nella sua traiettoria oscillante e disperata, infantilmente ostinata, fu
attratto da un bagliore metallico che spiccava dal grigio del suolo. SPIDERMAN,
esclamai, HO RITROVATO SPIDERMAN!
Avrete già capito che non poteva essere
andata così. Sarebbe stato bello, ma non
poteva essere andata così.
Quando mi chinai a infilare la mano in
mezzo al fogliame, ai mozziconi di sigarette, alle cartacce e agli altri rifiuti da marciapiede, capii al tatto di aver trovato qualcosa di diverso. E non mi piacque.
Uno stupido anello, d’oro, da femmina
peraltro. Che rabbia. Lo raccolsi, lo guardai, mi schifai e alzai la mano per lanciarlo oltre la strada, contro la vetrina del
negozio di giocattoli, che aveva finito i
portachiavi e precedeva il portone della
scuola. Potete immaginare uno scenario
peggiore?
Certo che sì, vi dico io venti anni dopo.
Avrei potuto ritrovare Spider Man, e farla
finita lì. Avrei ritrovato la mia pace momentanea e sarei stato un bambino contento
fino al giorno successivo, quando avrei
cambiato portachiavi abbandonando
l’uomo ragno per un altro supereroe.
Mio padre, che assisteva all’accaduto, mi
fermò giusto in tempo e mi fece notare
che dentro la mia mano si nascondeva un
piccolo tesoro. Il mio disgusto si fece stupore.
Aprii la mano e guardai: c’era un anello,
d’oro, da donna peraltro. E adesso stavo
per scagliarlo contro mio padre. Ma lui mi
invitò di nuovo a guardare, dentro l’anello.
C’era una scritta: il mio Amore a Valentina.
Il mio stupore si fece rancore.
Ma il rancore si tramutò in ardore quando
colsi il senso del messaggio che mio
padre aveva voluto lanciarmi. Ora avevo
una nuova missione, trovare Valentina e
restituirgli il suo Amore. Ciao Spiderman, è
stato bello finché è durato, ma le nostre
strade si dividono qui. Non occorre raccontarvi il seguito di questa storia. Ero un
bambino, e i bambini quando anche non
sono fortunati hanno la meravigliosa e
potente virtù di saper disaffezionarsi alle
vicende.
Anche se non trovai mai Valentina, che
cercai per due lunghissime settimane,
inciampai durante una delle mie escursioni in un’oreficeria, che acquistò il mio anello ricambiandomi con una cifra sufficiente
per poter acquistare un telescopio. Ora si
trattava di diventare un astronomo. Il
mestiere che a partire da quel momento
avrei sempre voluto fare.
Questa che vi ho raccontato è solo una
delle tante avventure nella serendipity che
ho scoperto di aver intrapreso negli anni, e
le vicende che la compongono, nel loro
intrigo, si prestano perfettamente come
metafora dell’andamento non sempre prevedibile della conoscenza scientifica.
Cercavo una cosa, e ne ho trovata
un’altra, che ha cambiato il corso delle
mie giornate, che sempre più si assomigliavano.
Tornando a discorsi più vicini ai nostri
temi, credo che da questa storiella possano trarsi delle riflessioni.
Nei giorni scorsi mi è capitato di ascoltare
un’amica, spaventata, persa e stremata
dai primi attacchi di panico, che l’hanno
colta di sorpresa nel periodo natalizio. La
mia vita è cambiata, mi diceva, ho perso
quello che avevo e devo trovare il modo di
far tornare tutto come era prima. Il suo
bisogno di riportare la vita al solito ordine
mi ha fatto tornare in mente la lettura di cui
25
E S P E R I E N Z E
Noi appanicati, termine che preferisco a
dappati, siamo molto bravi a immaginarci
in difficoltà per qualcosa che non abbiamo
ancora fatto. A volte ci torturiamo gratis
perché pensiamo a cosa succederebbe se
facessimo quello, se facessimo quell’alDI VINCENZO PATERNUOSTO
tro… Ma se non l’abbiamo ancora fatto,
come facciamo a sapere che andrà sicuramente male? Credo che questo schema di pensiero, diventato per
noi un’abitudine, possa immediatamente essere modificato senza
aspettare mesi o anni. Come? Iniziando a essere consapevoli che
alcuni pensieri o immagini che riproduciamo a memoria li abbiamo appresi da qualche parte o ce li siamo creati apposta. Così
come ci siamo creati quei pensieri parassiti e quelle immagini
deleterie, riproducendoli appena siamo a disagio o non ci sta bene
qualcosa, allo stesso modo abbiamo la possibilità di crearci dei
pensieri utili e delle immagini positive ripescandoli quando vogliamo. E perché quando siamo a disagio, anziché riprodurre il pensiero parassita o l’immagine deleteria non scegliamo di mettere in
scena nella nostra mente un pensiero utile o un’immagine positiva? Da cosa dipende? Dipende da noi e non da qualcun altro. Se lo
vogliamo veramente possiamo farlo, possiamo cambiare ridimensionando notevolmente le inutili sofferenze che ci autoprovochia-
DESIDERARE
DI
FARCELA
mo. Qualcuno potrebbe pensare che io stia esagerando nel dire
questo. In realtà non esagero affatto. Constato la realtà che vedo
coi miei occhi, così come voi siete liberi di constatare la realtà che
vedete con i vostri. E se vedete e sentite quello che vi sto dicendo,
certamente potete iniziare a mettere in pratica ciò che vi ho comunicato. Ebbene, voglio fornirvi un semplice quanto efficace suggerimento. Pensate a un momento della vostra vita passata in cui
eravate felici, gioiosi, allegri. Probabilmente non vi verrà facile
ricordarlo e soprattutto immaginarlo. Questo perché vi siete abituati e convinti di essere incapaci di essere felici e di stare bene.
Non c’è nulla di più falso di questa vostra convinzione! Focalizzate l’immagine in cui eravate felici e memorizzate le sensazioni piacevoli che provavate. Bene! Adesso nel momento in cui iniziate a
sentirvi a disagio e vi accorgete che state riproducendo a memoria i vostri pensieri parassiti e le vostre immagini deleterie, decidete cosa fare. Preferite stare male e procurarvi sofferenza, oppure preferite star bene e provare gioia? Scegliete voi in che direzione andare. Se lo desiderate ardentemente vi riuscirà e avrete compiuto un grande passo in avanti. Se non lo volete, perché esiste
qualche ostacolo interno che ve lo impedisce, lavorate per rimuovere l’ostacolo o gli ostacoli. Assolutamente non commettete
l’errore di giudicarvi per non essere riusciti e per sentirvi ingiustamente in colpa. Spero di esservi stato d’aiuto.
POESIE
prima vi parlavo, che a sua volta, a suo
tempo, mi ricordò questo antico episodio.
In effetti, a pensarci bene, nel vecchio
ordine ci si sta da dio, come sto da dio nel
mio vecchio divano, che ha impressa nella
sua forma la mia personale seduta.
Ma allora quale significato si può dare agli
accadimenti della vita? Non ne vedo di
positivi se tutto quello che cerchiamo è di
far tornare le cose al momento appena
precedente, quando “stavamo bene”,
oppure, ancora meglio (o peggio), “prima
di stare male”.
Ma poi quel tranquillo stato di benessere è
scomparso, così velocemente da non permetterci di riuscire neanche a capire cosa
fosse cambiato tra un momento e quello
subito successivo. Io dico che questo
significa qualcosa. Significa certamente
che le cose dovevano comunque cambiare. Qualcosa doveva perdersi, almeno per
poter di nuovo essere ricercato. Mi piace
l’idea di poter pensare a queste strane
situazioni come a microscopici episodi di
cambiamento.
Il verso, il senso, le ragioni del cambiamento non posso raccontarvele io, ognuno compia le proprie ricerche.
E se proprio c’è bisogno di aggiungere
qualcosa, io solo mi auguro che questa
semplice storia sia di conforto o di
sconforto a tutti quelli che ostinatamente
continuano a cercare qualcosa che è
andato perso.
ALESSIO ESPOSITO
“EMOZIONI DI UN MOMENTO D’AMORE”
Il chiarore del mattino e la forza serena dell’alba
illuminano il mio volto e i miei occhi che stentano ad aprirsi
come se ancora non volessero abbandonare il ricordo di una notte di passione.
Un attimo di sublime felicità
così veloce da non accorgermi che un attimo prima eri solo mio.
Sensazioni che risuonano in me come una gioiosa melodia di note
che accarezzano la mia mente ancora piena di te
e la voglia di soffermarsi a immaginare altri momenti.
Mi rendi forte e inattaccabile perché forte e inattaccabile se tu
caro desiderio
cresci in me come il seme di un’idea sotterrata in un arido deserto.
Perché tu non sia solo un’illusione di un momento d’amore
che come il vento cancella per sempre questi momenti
ma sia come le radici di una quercia che si insidia e cresce.
Fermati e resta qui dentro il mio cuore
affinché l’emozione di un momento d’amore
mi accompagni nel lungo cammino della vita.
Una vita a rincorrere un istante
e un attimo che dà il senso a un’esistenza.
Ti aspetto dolce momento
torna da me
VOGLIO VIVERTI ANCORA.
Patrizia Peretti
Un giorno desiderio e fantasia si incontrarono;
si piacquero; si innamorarono; così decisero di sposarsi.
Allora dalla loro unione, nacquero tanti bellissimi sogni,
di cui le illusioni furono dolci balie.
Erika Pastorelli
26
R E C E N S I O N I
RAGIONEVOLI DUBBI
continua da pagina 3
Dopo tre anni d’assenza, torna l’avvocato
Guerrieri, già protagonista di due legal thriller
editi dalla Sellerio, nell’inconfondibile formato
cartonato nero. L’autore è il Sostituto Procuratore Antimafia presso la Procura della sua
città, Bari Gianrico Carofiglio. I suoi due precedenti romanzi, Testimone inconsapevole e
Ad occhi chiusi, sono stati due successi, e ora
con il terzo Ragionevoli Dubbi, è già in testa
alle classifiche di vendita. Guido Guerrieri, il
protagonista, è un uomo comune, un eroe
“umano” pieno di dubbi e incertezze, con un
passato di depressione e di…. crisi di panico,
ma anche un detective insolito che indaga tra
i segreti dei quartieri e dei vicoli di Bari, indugiando volentieri alla malinconia, all’introspezione e a una salutare e sottile autoironia, grazie alla quale riesce a sopravvivere nei meandri della propria e altrui vita.
Il libro si apre con un Guerrieri che sta vivendo giorni difficili: Margherita, la sua compagna, parte per gli Stati Uniti per un lavoro
importante, e decide di farlo senza prima consultarlo. Una bella soddisfazione per lei, ma il
pensiero della sua lontananza e del mancato
coinvolgimento nella scelta lo angoscia. Giunge un nuovo caso a distoglierlo provvidenzialmente dalle sue preoccupazioni. Un detenuto,
Fabio Paolicelli, condannato pesantemente in
primo grado per traffico di droga, ha ricusato
il suo avvocato e ora vuol nominare lui come
difensore. Al primo colloquio in carcere Guerrieri riconosce immediatamente l’uomo. È
uno dei picchiatori fascisti, soprannominato
Fabio Raybàn, che tanti anni prima, quando
era un ragazzo che frequentava “sporadicamente e senza troppa convinzione i gruppi
della sinistra extraparlamentare”, lo aggredì.
L’uomo però non mostra di riconoscerlo, anzi,
sta affidando a lui la sua sorte. Nonostante
sia stato arrestato con l’automobile imbottita
di droga, e si sia dichiarato colpevole, Paolicelli ora si protesta innocente e vuole affidarsi a Guerrieri che gode fama di professionista
affidabile. Che fare? L’avvocato è combattuto
tra l’antico odio che nutre per il suo potenziale assistito e l’attrazione che prova al primo
sguardo per l’affascinante moglie giapponese
dell’uomo, Natsu Kawabata. Nonostante tutto
decide di accettare…
L’intreccio narrativo è avvincente, la trama
intrigante, i personaggi sono costruiti con
cura: questi sono gli ingredienti vincenti di
questo giallo italiano dove la rispondenza al
vero nella ricostruzione del sistema processuale e dell’inchiesta giudiziaria, dovuti all’esperienza quotidiana dell’autore, conferiscono una marcia in più al racconto.
TZUSEPPE
quella condivisione e solidarietà che porta
un conforto tanto anelato dopo anni di disagi e percorsi di vita accidentati ma che, se
non viene oltrepassata, ci porta nel medesimo “pantano” da cui, invece, vorremmo
uscire. Per sintetizzare al massimo quella
che vuole essere la “linea editoriale” di
Pan, la possiamo indicare con due parole:
condivisione e informazione. Due concetti
che per noi non avrebbe senso far camminare disgiunti!
Pensiamo che questo numero del nostro
periodico possa esprimere la filosofia editoriale che ho cercato di illustrare; la corposa monografia sulla “cura” vuole essere un contributo su un argomento che
definirei vitale nelle scelte individuali di
risoluzione del disagio. Naturalmente non
abbiamo dato “la ricetta” per “guarire”
dal panico, che sappiamo non esistere,
ma abbiamo illustrato varie posizioni sul
problema (dando spazio anche a quelle
meno “vicine” al nostro modo di affrontare il disagio) affinché ognuno possa avere
gli strumenti per trovare la propria “ricetta” di “guarigione”! Tutto questo sta a
fianco delle storie autentiche e vissute di
tutti noi perché anch’esse, aiutandoci a
disvelare le nostre emozioni, ci possono
aiutare a trovare la nostra unica e inimitabile “ricetta di guarigione”.
gia Transpersonale e delegato di zona dell’Associazione Vegetariana Italiana; dal 1983 lavora come psichiatra a Gorizia presso il Centro di
Salute Mentale “Alto Isontino Integrato”.
continua da pagina 8
terapia dialettica non solo agisce nel
mondo con più efficacia, ma col tempo sarà
in grado di ri-narrare la propria storia (a sé
o ad altri) in modo rinnovato.
La psicoterapia umanistica ed esistenziale è incentrata sull’idea dell’alienazione
dell’uomo, sul fatto che ognuno nasce
“perso” in un mondo di valori già esistente,
quindi estraneo alla sua vicenda personale,
la cui verità dovrà pian piano riconquistare.
In questo senso la psicoterapia esistenziale si amalgama naturalmente con la moderna psicofilosofia. La corrente psicofilosofica moderna analizza a fondo la struttura
della soggettività, che è costituita da idee.
In questo senso, si può affermare che le
idee ammalano, ossia esse possono costituire uno sfondo di falsità (personale e
sociale) dal quale dobbiamo emergere con
la nostra verità. In questo senso, la terapia
della psiche è sempre anche una terapia
delle idee. Un’ultima nota. Chi vuol guarire
è anche bene che legga molto, che studi.
Chi vuol guarire deve riuscire a diventare
una persona colta. La differenza tra chi
guarisce e chi no sta soprattutto nelle sue
qualità intellettuali.
continua da pagina 4
continua da pagina 21
strie multinazionali del farmaco che, in
preoccupante sinergia con i potentati della
politica, della cultura e della sanità, esercitano sui professionisti della salute e sui cittadini-utenti uno strapotere che mira ad
aumentare a dismisura il mercato del farmaco, creando un clima di paura che favorisce
il controllo e l’appiattimento sociale.
Psichiatria come Medicina dell’Anima può
anche diventare prezioso strumento per psichiatri, medici, psicologi, altri professionisti
della sanità e operatori della salute che
vogliano conoscere nuovi percorsi, che
interpretino l’essere umano nella sua interezza di corpo, mente e anima.
Biografia di Marco Bertali: Marco Bertali,
medico psichiatra e psicologo, si è formato in
psicoterapia con indirizzo psicosintetico e
logoterapico. Ha inoltre approfondito
l’ipnositerapia e lo studio degli stati modificati
di coscienza, avvicinandosi alla meditazione e
a tecniche psico-somatiche di derivazione yoga
tra cui l’arhatic yoga e il pranic healing. È
membro dell’Associazione Europea di Psicolo-
rispecchiare, in quanto ho riconosciuto
nelle sue paure anche le mie. E nell’aiutarlo a superarle, nel tranquillizzarlo, sono
cresciuta anch’io. Inoltre il mondo dei
cavalli è fatto anche di persone, quindi i
momenti di socializzazione e di confronto
non mancano, e possono anche nascere
vere e proprie amicizie, che aiutano ad
ampliare i nostri orizzonti e a immettere
nuovo ossigeno nella nostra vita. È stupefacente quanta energia immagazziniamo quando facciamo una cosa che ci
appassiona, che ci appaga completamente. Ed è una sensazione di pace
assoluta quella che provo quando sono
sulla schiena del cavallo, è quasi come
sentirsi una libellula, improvvisamente
leggera e libera, senza il peso del corpo,
né della mente, del tempo o dello spazio.
“Non c’è un’ora che vada sprecata
se trascorsa in sella”
Winston Churchill
27
E S P E R I E N Z E
Vivere
NON NEGARE
DI AVERE BISOGNO
29/05/2008 ore 21, stadio Olimpico, concerto di Vasco Rossi: sono mesi che ho fatto
i biglietti, sono mesi che penso a quel giorno, non pensieri di gioia, di emozione, di
La cura ha più significati: prendersi cura di
felicità ma carichi di angoscia, paura, rabbia, tristezza.
Poi il giorno arriva e nonostante tutto IO CI SONO, sono tra quelle 75.000 persone, qualcuno, vestirsi con cura, la cura per guaIO che soffro di attacchi di panico mi ritrovo in mezzo a tutta quella gente a cantare rire una malattia, etc.
a squarciagola. Vorrei sentirmi libera, felice e senza paura; non lo sono totalmente, Ho 38 anni ed è un anno che faccio parte di
un gruppo Lidap. Devo dire che non sono
ma SONO LI’!! Ed è una sensazione magnifica!
Questo è quello che conta ed è per questo che ringrazio prima di tutto me stessa, abituata a esprimere le mie emozioni, i miei
perché ce l’ho fatta, e ringrazio tantissimo le persone che sono nel mio gruppo di dolori. Soprattutto il dolore.
auto-aiuto (una in particolare che in questo giorno così difficile, ma così speciale, non Mi prendo cura del dolore degli altri perché
mi ha lasciata sola) con le quali ho imparato a dirmi: io voglio, io posso, io devo, io... il mio non riesco a sopportarlo, o meglio non
voglio ascoltarlo. Ho imparato presto a
desidero. Io l’ho desiderato e l’ho fatto
ed è stato così bello sentirsi veramente prendermi cura dei miei fratelli più piccoli e, in un certo modo, anche di mia madre.
viva!!!! E poi anche Vasco in una delle sue Ovviamente, con il passare degli anni, il mio prendermi cura degli altri si è esteso a chiuncanzoni diceva: VIVERE... E SENTIRE DI que mi circondi. Mi sono creata il ruolo di “madre di tutti” senza ascoltare il mio bisogno
STAR MEGLIO... VIVERE... VIVERE... E di attenzioni e la mia paura; faccio finta di essere forte e sicura e mi nego di avere bisogno
DEVI ESSERE SEMPRE CONTENTO... di qualcuno che si prenda cura di me.
VIVERE... VIVERE... ED È COME UN Il mio bisogno di prendermi cura a volte diventa persino fastidioso per gli altri, più di una
COMANDAMENTO... VIVERE... VIVE- volta mi sono sentita ferita perché mi è stato rimandato che era una cosa non richiesta. Solo
RE... SENZA PERDERSI D’ANIMO MAI E da poco tempo, con qualche difficoltà e non senza riuscire a non avere sensi di colpa, riesco
LOTTARE CONTRO TUTTO CONTRO... a prendermi più cura di me e a esprimere un po’ meglio i miei bisogni o i miei fastidi, a penVIVERE... VIVERE... E SORRIDERE DEI sare che gli altri devono cavarsela da soli e non hanno per forza bisogno del mio aiuto.
GUAI PROPRIO COME NON HAI FATTO È difficile dopo una vita che sei abituata a soccorrere gli altri, cercare di mettere la stesMAI E POI PENSARE CHE DOMANI sa attenzione ai propri bisogni, ma quando ci riesco, quando riesco a sentire il giusto
SARÀ SEMPRE MEGLIO...”. E sembrava distacco, provo un senso di leggerezza e ho notato che anche gli altri stanno meglio con me.
che ce l’avesse proprio con me e con Per questo vorrei ringraziare, oltre me stessa, il gruppo che mi permette di esprimere tutte
tutte le persone che soffrono come me!!! quelle emozioni e paure che sono rimaste compresse dentro di me per tanti anni.
ANTONELLA, ROMA
ELENA, LA SPEZIA
RECENSIONI
Into the Wild
ALLA RICERCA DELL’ISOLA DI NIM
DI JENNIFER FLACKETT E MARK LEVIN, USA, 2008 - AVVENTURA, COMMEDIA
Ci sono film che non restano rinchiusi nei margini dello schermo Nim ha undici anni, ha smarrito per sempre la madre in fondo al
e magicamente ti entrano dentro, fino a colmarti. Ci sono film che mare e vive sola con il padre, un biologo che si occupa di plancton,
diventano esperienza, nel momento stesso in cui il vedere e in un’isoletta del Pacifico, un vero paradiso terrestre, cui ha dato il
l’ascoltare si trasformano in sentire. Emozioni, vita, dolore, morte, proprio nome. Quando il padre si allontana per le proprie attività di
paura, felicità. Into the Wild è un viaggio di puro splendore. Nel ricerca la bambina resta in compagnia di amici del tutto particolaquale un ragazzo spinge fino ai limiti estremi una sua scelta ri: un’otaria, un’iguana e un pellicano, oltre ai libri di avventure di
morale. La ricerca della solitudine assoluta per misurare il proprio Alex Rover, il suo scrittore preferito. Nel momento del pericolo,
bisogno degli altri. È questo il fine ultimo di tutte le avventure, gli rimasta sola senza riuscire a stabilire alcun contatto per il padre
incontri e le scelte di Chris McCandless (interpretato da un partito sull’Oceano e investito da una tempesta, la piccola chiede
magnifico Emile Hirsch). Un viaggio che trasforma la fisicità del aiuto via e-mail ad Alex Rover in persona. Peccato che dietro lo
movimento in una ricerca interiore, esistenziale e allo stesso pseudonimo e l’immagine di uomo coraggioso all’Indiana Jones, si
tempo letteraria e filosofica. Sean Penn
celi invece una zitella fifona, la bravissima Jodie Foster, preda di
amalgama con grande maestria questi tre una grave forma di ansia, fobie (per l’igiene) e panico con agorafobia, che da settimane non
piani, riportandoli in una forma del raccon- le consente più di uscire nemmeno per ritirare la posta nella casella: “Di che hai paura? –
to che li sappia racchiudere ed esprimere. Di tutto”. Alla chiamata di aiuto della bambina, Alexandra si trova tuttavia costretta ad
E allora a dare continuità al rapporto tra affrontare le proprie paure e si mette in viaggio per aiutarla, scoprendo che il mondo non
vita e scrittura ci pensano le parole in riserva solo paura, ma anche amicizia e amore. A tratti esilarante (il viaggio in aereo di chi
sovrimpressione di Chris, che riempiono lo soffre di panico è comunque sempre un’Odissea) e delicato (come nei bellissimi disegni anischermo e si mescolano con le immagini, mati che illustrano la morte della mamma), il film è un inno al coraggio della rottura con i
diventando un´unica materia, quella di cui propri schemi mentali, per affrontare la vita giorno per giorno, così come si presenta, un
poi è fatto il cinema. E gli autori e i libri invito a tirare fuori “l’eroe che c’è in te”, con un messaggio di ottimismo. Film di genere fanamati da Chris: London, Tolstoj, Il dottor tasy, oltre che per le grandiose immagini del luogo in cui è girato, merita certamente per
Zivago. Le riflessioni filosofiche (Thoreau) ridere un po’ sui nostri limiti e sulle nostre stesse paure, per capire che dobbiamo trovare
che scaturiscono dal rapporto dell’uomo in noi stessi la motivazione profonda per uscire dal guscio falsamente protettivo di cui ci
con la natura, dal suo misurare i propri siamo circondati.
SABINA MOSCATELLI
limiti, dalla sua ricerca della verità.
28
G I T A
T E R A P E U T I C A
IL CORAGGIO DELLA PAURA
Gita ad Assisi 7/8 giugno 2008
D
a un’idea di Patrizia Peretti, Segretario
Regionale del Lazio, è nato un progetto, che
la socia Letizia Ruggiero ha giustamente
nominato “Riabilitarsi all’aria”: ogni anno si organizza una “gita terapeutica” in modo da riabituarsi insieme a fare cose che, chi soffre di dap, da
solo evita di fare. In questo modo il gruppo ha funzione catartica.
Sono partite da Roma 14 persone, alle quali se ne
sono aggiunte 7 a Firenze.
Quest’anno era la terza edizione: luglio 2006
Firenze, giugno 2007 Orvieto, giugno 2008 Assisi;
primavera 2009 ?????. Decidiamo insieme dove!
Ecco alcune testimonianze:
Panico 0 – Gruppo Lid
ap 1: primo risultato del
la stagione.
Positivo.
Come i pensieri che ci
hanno accompagnato in
questa gita ad
Assisi tanto desiderata
quanto paventata da tut
ti noi partecipanti.
La squadra era su di gir
i e nessuno aveva fatto
pronostici su
questa partita.
Ma la Lidap ha vinto.
L’esperienza è stata ric
ca di emozioni, forti, sen
tite.
La gioia nella condivisio
ne degli spazi e dei dis
corsi più intimi,
il timore di “rovinare tut
to”, la dolce consapevo
lezza di essere
“soli” ma “insieme”.
Una bella sfida… che
abbiamo superato brilla
ntemente e che
ci fa comprendere che
ci meritiamo una vita
ricca e vincente
come chiunque altro al
mondo.
Io (mediano della squadr
a) spero di ripetere
l’esperienza. Con affett
o.
Milena Leone Gruppo Lid
ap Roma Cecchignola
to come
e entusiasmante. È sta
Un’esperienza verament
spensiehe,
tic
las
sco
e
git
po, alle
tornare indietro nel tem
e giorDu
.
are
lia di divertirsi e scherz
a mio
rate e con una sana vog
tito
sen
o
ente ricaricato. Mi son
spiLo
ni che mi hanno veram
ei.
ran
est
te
o per la maggior par
sim
fos
e
ant
ost
non
o
agi
rontato ognuno
di essere lì, di aver aff
rito di rivincita, il fatto
ci ha dato una
ficoltà e averla superata
una piccola o grande dif
evolezza di
sap
sentiva nell’aria, la con
carica positiva che si
r ceduto
ave
non
di
to
più. Sono conten
cederaver fatto un gradino in
con
di
to
pos
im
i
ciare, di esserm
sano
un
alla tentazione di rinun
ni,
peg
ante la famiglia e gli im
vicipiù
mi questo spazio, nonost
e
son
per
si sta meglio anche le
o
son
se
egoismo che aiuta. Se
so
non
ne:
sio
eficio. In conclu
ben
o
nn
rra
tra
ne
noi
a
ne
tito in
l’entusiasmo che ho sen
riuscito a trasmettere
ro
spe
to
tut
rat
sop
di sì, e
questi due giorni, spero
i.
ros
me
nu
più
o
sarem
che la prossima volta
ma Cecchignola
Ro
ap
Lid
po
up
Gr
olo
Pa
Salve a tutti, dopo aver partecip
ato alla gita terapeutica
ad Assisi, mi sento di dover tras
mettere a tutti questa
esperienza. Anche se all’inizio erav
amo un po’ impacciati, è
bastato molto poco per scioglier
e l’imbarazzo e integrarci in
un unico grande gruppo. L’esperi
enza è stata sicuramente
positiva, abbiamo trovato un affia
tamento a dir poco familiare
e abbiamo trascorso 2 giornate
in tranquillità e allegria. Ci
siamo conosciuti meglio, ci siamo
raccontati tante cose senza
alcun imbarazzo. Che dire... sono
partita titubante e sono tornata felicissima di essere partita.
Conclusione!!!!!!!!!! Speriamo di rifar
la prima possibile anche
con tutti quelli che non sono potu
ti venire.
Rosella Gruppo Lidap Roma Cecchign
ola
Devo dire che è stata un’occasione
preziosa per
rafforzare alcune amicizie e un’esper
ienza nuova in
un gruppo di persone ricche di umi
ltà...
Simonetta (L’intrusa)
G I T A
T E R A P E U T I C A
29
Dopo tanta attesa, finalmente il giorno della “gita fuori
porta con i picchiatelli” è arrivato.
Eravamo tutti lì alla stazione, con le nostre bottigliette
d’acqua, i nostri panini. Probabilmente i cuori battevano
all’impazzata, ma i sorrisi dimostravano solo contentezza e
voglia di andare.
È andato tutto benissimo: un modo per conoscere altre persone, confrontarsi, misurarci e la cosa più bella e sorprendente
è stata solo una. Nessuno si è sentito male! Una specie di
miracolo. Chissà se il luogo, oltre a essere magico, è anche
taumaturgico; ma sicuramente, per gli scettici e gli agnostici,
eravamo tutti lì insieme, soddisfatti e ci siamo lasciati con la
promessa che ci sarebbe stata un’altra volta ancora.
Letizia Gruppo Lidal Appio-Latino
Sono contenta di aver partecipato alla gita ad Assisi.
Pensavo di non essere più in grado di poter andare, anche
se per soli due giorni, da sola senza mio marito o qualcuno a
me vicino. Mi sono sentita più forte e sicura, cosa che non mi
accadeva da tempo, e cosa più importante mi sono sentita a
mio agio con persone che non conoscevo perché relazionarmi
con gli altri mi è molto difficile.
Questo mio pensiero spero possa aiutare chi soffre come me di
Dap, scoprendo che ci sono tante persone come noi.
Un grazie a tutti voi della LIDAP.
Daniela Gruppo Lidap Roma Appio Latino
Dopo tanto penare, il fatidico giorno è arrivato in
fretta, senza accorgercene. Sabato 27 giugno ore
12 partenza dal binario 5 della Stazione Termini
per Assisi. Per 14 persone, confuse nella folla formicolante della stazione, inizia la grande avventura. Cosa unisce il gruppo? Non sono parenti, né
amici, né turisti o pellegrini, sono solo dei dappisti
o ex tali o amici di dappisti. Confusa tra loro, c’ero
anche io quel giorno e mi rivedo ancora là, di fronte ai binari, con i miei jeans e la mia maglietta verdolina a scrutare i volti sconosciuti degli altri partecipanti. Era la prima volta che mettevo il naso al
di fuori del mio gruppo e non ero accompagnata né
dal mio uomo, né dall’amica del cuore.Ero sola,
infinitamente sola, sperdutamente sola.... eppure
mi sono sentita subito accolta e coccolata ; non
c’era da fingere o da difendermi: gli altri erano
nella mia stessa situazione, miei simili. Insieme
siamo diventati parenti e ci siamo incontrati con i
cugini di Pistoia.
Siamo diventati 22, partecipanti di un gruppo, amici
e poi turisti e.... pellegrini. Insieme a voi, cari compagni ho visitato tutte le chiese di Assisi, assistito
alle Messe, pregato e scritto suppliche per Santa
Chiara. Non mi è pesato farlo anche se io sono atea,
mi sentivo felice di fare le stesse cose di tutti come
se niente fosse... Il pomeriggio della domenica mi
sono ritrovata nel cerchio magico di un gruppo allargato e improvvisato a sentire i vostri frammenti di
storie e a raccontare i miei. È stato esaltante e liberatorio, ho vissuto delle emozioni positive che resteranno nella mia mente e mi aiuteranno quando starò
in altri gruppi, di qualsiasi tipo e mi sentirò spaventata e disorientata. L’esperienza mi è servita per
aprire la mia mente e i miei orizzonti, è bello conoscere nuove persone, è bello incontrarsi e scrutarsi.
Anche uscire dal proprio gruppo di auto-aiuto e
vedere cosa c’è oltre, percepire e sentire che la Lidap
è una grande organizzazione, partecipare alle sue
iniziative e sentirsi protagonista di un’associazione,
anche questo è un modo che ti fa avvicinare ogni
giorno di più alla guarigione! Baci a tutti e soprattutto a chi lavora per il benessere di tutti.
Ciao da Lidia Gruppo Lidap Centocelle
30
C O M I T A T O
S C I E N T I F I C O
LEGITTIMITÀ E AUTOREVOLEZZA:
Nascita di un Comitato Scientifico della Lidap
a scelta di creare un comitato scientifico nasce dall’esigenza di consolidare le basi della nostra azione.
Fondamenta più solide per continuare in modo ancor più completo e
intenso il nostro impegno nei confronti
delle persone che affrontano quotidianamente il DAP.
Se alcuni pregiudizi e preconcetti vedono
la scienza come un qualcosa di freddo e
asetticamente lontano dalla sofferenza
dell’individuo, la Lidap vuole invece
dimostrare che gli esperti, accanto a
tutti noi, sapranno offrire nuove risorse
e nuove strade verso la guarigione. Il
concetto di auto aiuto è il fulcro per
capire e superare l’attacco di panico:
non ci stancheremo mai di ribadire le
eccezionali opportunità legate a questa
metodologia di intervento.
Vediamo ogni giorno persone fare passi
concreti verso un nuovo equilibrio, uscire
da anni interminabili di DAP, trovare nuovi
stimoli e tutto questo grazie anche all’incontro e al confronto nei gruppi di self help.
No, non sto gridando al miracolo ma sto
semplicemente sottolineando quello che un
corretto approccio di cura può e deve fare.
Al comitato spetta il compito di seguire e
accentuare l’ambito della ricerca, offrendo una corretta e completa formazione: lo
studio del DAP deve continuare a crescere ulteriormente in una direzione multidisciplinare, per offrire indicazioni chiare e
coerenti. Sarà dunque un organo che
L
sovrintende, sotto l’autorizzazione del
Presidente, l’attività scientifica dell’associazione.
Il comitato diventa allora punto di incontro e di confronto per superare visioni
(talvolta) contrapposte, integrandole e
arricchendole a vicenda. In questo modo
sapremo offrire risposte e indicare nuove
strade per chi con il panico convive ogni
giorno: sì, perché ogni teoria è quasi
superflua se non aiuta tangibilmente la
singola persona che soffre, che vuole guarire, che vuole continuare a vivere nel
miglior modo possibile ma ogni azione
può diventare un passo verso il benessere
soltanto se ben radicato in ciò che la
scienza dimostra. Niente cattedre quindi,
niente dogmi, niente torri d’avorio ma
risposte, analisi nuove, stimoli da parte di
“scienziati” di grande valore e spessore
umano.
Gli esperti, coinvolti dalla Lidap nel comitato scientifico in virtù del loro curriculum, avranno il compito di proporre una
rosa di candidati che abbiano dimostrato
capacità nell’ambito della ricerca scientifica o siano riconosciuti dall’ambiente
scientifico. La costituzione di un comitato
scientifico che includa tutte le varie
anime esperte di panico: dalle neuroscienze, alla psicoterapia; dai medici agli
psicologi e potranno includere anche
scienziati stranieri di riconosciuta fama
nello studio del DAP. Ciascuno, nella specificità del suo compito e della sua pro-
NUOVE REALTÀ LIDAP
Si sono attivate nuove realtà in Italia: Campobasso (Egidio), Livorno (Lucia), Ostia
(Massimo), Pisa (Flaviana), Reggio Calabria (Loredana e Rosaria), Torino (Veronica).
Un sentito ringraziamento ai soci che hanno permesso l’apertura dei nuovi gruppi!
Inoltre il Dr. Maurizio Montanari, psicologo/psicoterapeuta consulente Lidap, sta svolgendo un importante lavoro nel territorio di Modena e provincia, portando la Lidap a
essere un interlocutore disponibile e dialogante con la struttura pubblica locale (Ausl,
ospedali, consultori, ecc.).
A tale scopo ha organizzato una serie di incontri per promuovere l’approccio multidisciplinare alla sofferenza di persone con attacchi di panico.
Il ciclo di incontri ‘La città sofferente’ è partito a Vignola il 9 giugno.
Il socio Eliseo Bertani, referente locale di Reggio Emilia, era presente in rappresentanza della Lidap e, grazie alla sua simpatia, ha stemperato il clima portando il pubblico a interagire.
Il neo formato gruppo di Modena ha partecipato al completo! Il nostro impegno è
quello di raggiungere quelle zone dove la Lidap ancora non è presente.
fessione, è chiamato a promuovere la
ricerca, in un’ottica più ampia di promozione delle attività del gruppo. Al comitato quindi anche una funzione di “collegamento” tra la nostra associazione e il
mondo scientifico, per dare forma a una
rete di scambio continuo.
Accanto al comitato scientifico, in virtù
dell’esperienza maturata nel campo del
DAP come clinici e didatti, nascerà un
comitato per lo studio e la valenza
terapeutica dei gruppi di self-help che
avrà il compito di rendere coerente
l’attività dei gruppi di auto aiuto e diffondere nella popolazione la consapevolezza
del DAP. Il comitato agirà in sinergia con
il comitato scientifico e in coerenza con
le indicazioni del mondo della scienza e
sarà composto da alcuni collaboratori e
consulenti Lidap che hanno avuto un
ruolo centrale per lo sviluppo dell’associazione
Un ulteriore sviluppo potrà essere la
nascita di un osservatorio permanente
dedicato al disagio da attacchi di panico,
in grado di diventare un punto di riferimento per le persone colpite da DAP. È
evidente che una risorsa come questa
diventa della massima importanza nei
confronti, prima di tutto, di coloro che
vogliono comprendere gli attacchi di
panico, la loro natura e le soluzioni per
superarli.
L’auto aiuto, e sottolinearlo non è mai
eccessivo, è il nucleo vero della Lidap e di
tutta la nostra attività, il concetto cardine
del nostro approccio. Il far conoscere e
capire questa metodologia si conferma
sempre più una priorità fondamentale.
Infine, attenzione anche a progetti di sensibilizzazione della filosofia Lidap: attraverso convegni, conferenze stampa, workshop, l’intenzione è promuovere i gruppi
di auto-mutuo aiuto come risorsa fondamentale per sviluppare nuovi modi comunicativi per una crescita personale, per la
cura del disagio e per sottolineare la
valenza terapeutica di questa metodologia d’intervento.
Parallelamente, la presenza efficace di un
comitato scientifico garantirà una crescente legittimità e autorevolezza della
nostra associazione nei confronti degli
interlocutori esterni.
ANNA PAPPALARDO
D A L
D I R E T T I V O
31
Assemblea nazionale dei soci - 24 maggio
assemblea dei soci è un appuntamento
annuale previsto dallo statuto dell’associazione, ma è anche un momento di
incontro per i soci che provengono da
varie città e che sono portatori di uno spaccato della realtà Lidap della loro zona. Spesso
l’assemblea è la motivazione forte che stimola
a uscire di casa per mettersi in gioco, affrontando il viaggio per dare un volto a persone di
cui spesso non si conosce che il nome e la voce.
E qui è bene fare un distinguo, tra viaggio e viaggio. In una associazione come la nostra, in cui i
soci hanno avuto la vita sconvolta e condizionata dal panico, programmare un viaggio anche di
pochi kilometri non è così semplice e immediato, ma è frutto di una scelta desiderata ma non
scevra da tensioni altalenanti e ansia anticipatoria. Perciò si spiega l’atmosfera allegra che si
registra entrando nella sala assembleare,
l’accoglienza festosa, i sorrisi e gli abbracci di
incoraggiamento con cui i vecchi soci accolgono
i nuovi. Per l’associazione è un momento di
bilanci, non solo contabili ma di confronto, di
linee condivise, di proposte e progetti attuati e
da attuare. Quest’anno il presidente apre
l’assemblea con un benvenuto ai soci un po’
emozionato e invita i soci presenti a esporre la
situazione delle realtà di appartenenza, poi relaziona i soci sull’incontro del Comitato scientifico
da cui è emersa la proposta di aprire sportelli di
informazione sul dap presso gli ospedali, da
effettuare in via sperimentale in tre città pilota:
Genova, Milano e Roma. La discussione si fa
interessante e fanno seguito molte proposte da
L’
parte dei soci, tra cui una formazione a persone
disponibili a una turnazione presso gli sportelli
ospedalieri, la preparazione di un programma
formativo per gli operatori del P.S. al fine di
offrire sostegno e informazione sulle attività
Lidap alle persone che vi ricorrono, una formazione a studenti iscritti a
facoltà a indirizzo psicosociale.
Tutte buone proposte a cui se
ne aggiungono altre per i gruppi di auto aiuto, per le realtà
locali, i coordinamenti, il contatto con i soci e con i Collaboratori Locali che ci si propone
di analizzare e valutare nel
corso dei prossimi incontri di
direttivo per verificare la fattibilità e l’organizzazione.
La tesoriera presenta il bilancio e illustra il rendiconto, che
viene approvato all’unanimità,
e pone l’attenzione sulle spese
riducibili nel prossimo esercizio. La pausa buffet ci trova
riuniti attorno al tavolo preparato con cura da Daniele,
socio e facilitatore di Parma,
nonché cuoco sopraffino, che
ci delizia con le sue torte salate e dolci e altre sfiziosità.
Intanto si approfitta per scambiarci notizie, impressioni e da
tutti i presenti emerge il rammarico per la poca presenza
dei soci a un evento di importanza associativa
quale l’assemblea annuale; su questo ci dobbiamo interrogare per comprenderne motivi e
ragioni. Speriamo di trovarci più numerosi
l’anno prossimo.
MARIA TERESA POZZI
CONSIGLIO DIRETTIVO 5-6 APRILE
Cari amici, vi aggiorno con una breve relazione sui lavori del consiglio direttivo del 5 e 6 aprile 2008. Presenti: Anna Pappalardo,
Maria Teresa Pozzi, Seby Laspina, Carla Caraffini, Giuseppe
Costa, Viola Robert. Uditori Patrizia Arizza e Luciana Martini. Si inizia con la lettura e discussione dei punti all’ordine del giorno come
sempre molto corposo; si esamina il bilancio consuntivo e preventivo, e si decidono i provvedimenti per contenere al massimo
le spese. Si chiede al Coordinamento Ligure di attivarsi per cambiare il gestore telefonico attuale della linea di La Spezia con altro
a minor costo sino allo spostamento della sede legale. Viene riconosciuto ad alcuni membri del direttivo di aver rinunciato ai rimborsi di spese effettuate. Si considera di convocare le riunioni del
direttivo con 30 gg di anticipo per poter usufruire di tariffe agevolate per i viaggi dei consiglieri. Viene illustrato il lavoro svolto sulla
comunicazione e si stabilisce di prendere contatto con il Garante
dell’editoria per una pubblicità gratuita e di cercare spazi sulle riviste distribuite nelle farmacie. Si decide di inserire nel sito la Rassegna Stampa divisa per anno per il passato, e per articolo per il
2007. Si propone di preparare un volume della Rassegna Stampa
2007 che verrà stampato senza spese per elargizione gratuita da
parte di un socio. In seguito alla sbobinatura delle cassette registrate, verranno pubblicati sul sito Lidap gli Atti dei tre convegni
organizzati a Roma presso la Camera dei Deputati. Si tiene conto
di proposte espresse per impegnarsi al miglioramento delle attività
Lidap, tra cui la creazione di gruppi di lavoro con compiti specifici
e l’attivazione di gruppi che richiedono formazione urgente; si delibera di iniziare dalla Toscana con un minimo di tre incontri che
partiranno a settembre. Si prospetta la necessità di incontrare i
referenti e collaboratori per far sentire la vicinanza dell’associazione ai loro problemi. La presidente relaziona sull’incontro del
comitato scientifico e sulla proposta di presentare un progetto
pilota per l’attivazione di uno sportello Lidap; si decide di formare tre gruppi divisi per aree di lavoro: ricerca scientifica, formazione e auto aiuto. Si decide di lavorare alle modifiche statutarie. Si
prende in esame la scadenza a dicembre del contratto dell’
addetta alla segreteria. Si delibera di cooptare in direttivo Marina
Zornio in sostituzione del membro uscente Gerardo Savignano di
MARIA TERESA POZZI
Pistoia.
32
A T T I V I T À
L I D A P
2 0 0 8
7 GIUGNO | Padova, nell’ambito della manife-
CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE
Presidente: Anna Pappalardo (Roma)
Vicepresidenti:
Sebastiano La Spina (Catania)
e Mariateresa Pozzi (Asti)
Consiglieri: Carla Caraffini (Parma),
Vittoria Casadei (Napoli),
Giuseppe Costa (Parma)
Antonino Giunta (Messina),
Patrizia Peretti (Roma),
Paola Rivolta (Monza),
Viola Robert (Genova)
Responsabile Segreteria Operativa:
Carla Caraffini (pro tempore)
Tesoriere: Carla Caraffini
Responsabile servizi on line:
Giuseppe Costa
Webmaster: Massimiliano Iacucci (Roma)
Responsabile Forum:
Mariateresa Pozzi
Moderatori Forum:
Cinzia Dotti, Emanuela, Rosalba
Responsabile Reperibilità Telefonica:
Mariateresa Pozzi
Responsabile elenco iscritti:
Paola Rivolta (Monza)
Addetto stampa e responsabile della
comunicazione: Patrizia Arizza (Roma)
DESTINA il 5xMILLE
alla LIDAP
NELLA TUA DICHIARAZIONE
DEI REDDITI PUOI DESTINARE
IL 5XMILLE ALLA LIDAP
FIRMANDO IL RIQUADRO
DELLE ONLUS E SCRIVENDO
IL C.F. 00941570111
7 MARZO | Roma, il CRLazio è stato invitato
dall’Istituto Superiore di Sanità ad un Focus
Group per la presentazione e discussione dei
risultati del progetto European Coordination
Action for Policy Research on Mental Disorders per l’individuazione di possibili strategie
di intervento e di prevenzione dei disturbi
mentali nella popolazione generale.
24 MAGGIO | Parma, Assemblea nazionale
dei soci Lidap.
29 MAGGIO | Parma, presentazione del libro
di Francesco Rovetto, Panico. Origini, dinamiche, terapie. Dialogano con l’autore, tra gli
altri, la Lidap.
I N F O R M A Z I O N I
Lidap onlus
P.I. 00941570111
Via Piandarana, 4 - 19122 La Spezia
SEGRETERIA OPERATIVA
Via Oradour, 14 - 43100 Parma
Gli uffici sono aperti: dal Lunedì al Venerdì
dalle 8:45 alle 12:00
Tel. 0521-463447 - Fax 0521-465078
[email protected] - www.lidap.it
Con l’intento di agevolare sempre più la comunicazione all’interno dell’Associazione pubblichiamo di seguito gli indirizzi e-mail dei membri
e dei collaboratori del Consiglio Direttivo.
Alma: [email protected]
Anna: [email protected]
Antonino: [email protected]
Carla: [email protected]
Giuseppe: [email protected]
Mariateresa: [email protected]
Marina: [email protected]
Massimiliano: [email protected]
Ombretta: [email protected]
Paola: [email protected]
Patrizia A.: [email protected]
Patrizia B.: [email protected]
Patrizia P.: [email protected]
Sebastiano: [email protected]
Valentina: [email protected]
Viola: [email protected]
Vittoria: [email protected]
U T I L I
stazione “Tutti in piazza – Stare bene in Quartiere” promossa dall’Assessorato alle Politiche
Giovanili del Comune di Padova, la Lidap è
scesa in piazza per fare informazione sul Dap.
7-8 GIUGNO | Assisi, gita terapeutica organizzata dal CRLazio.
9 GIUGNO | Vignola (Mo), “La città sofferente
– Senza prima bussare”, ciclo di incontri aperti alla cittadinanza in cui la Lidap incontra le
istituzioni locali per un progetto di collaborazione.
12 GIUGNO | Napoli, Le nuove dipendenze,
incontro organizzato dal CRCampania.
27 GIUGNO | Partecipazione del Presidente
Lidap alla trasmissione Radio3 Mondo della
Rai sul ruolo dell’ascolto e sui gruppi di automutuo aiuto.
SETTEMBRE 2008 | Vignola (Mo), “La città
sofferente – Evidentemente magre”, ciclo di
incontri aperti alla cittadinanza in cui la
Lidap incontra le istituzioni locali per un progetto di collaborazione.
La rivista Pan, per garantire al massimo l’obiettività dell’informazione,
lascia ampia libertà di trattazione ai
suoi collaboratori, anche se non sempre ne può condividere le opinioni.
S U L L A
Come effettuare versamenti e sottoscrizioni
1) c/c postale n° 10494193 intestato a Lidap,
Via Piandarana, 4 - 19122 La Spezia.
2) On-line nel sito www.lidap.it utilizzando il
servizio “GestPay” di Banca Sella.
3) Bonifico Bancario su C/C n° 3291C00 CARISPE (abi 6030, cab 65690, cin D).
Quote associative 2008
SOCIO ORDINARIO: euro 60,00; TERAPEUTI
e CONSULENTI: euro 60,00; SOSTENITORI
e FAMIGLIARI: contributo libero.
Il nostro giornale Pan sarà inviato, oltre che
agli associati, anche a quanti invieranno un
contributo di almeno euro 10,00.
DETRAIBILITÀ FISCALE: La Lidap è una Onlus: le
sottoscrizioni e le elargizioni liberali a suo favore
sono detraibili dal reddito per le persone fisiche e
per le imprese, in sede di denuncia annuale, ai
sensi dell’art. 13 DL n. 460 del 4/12/97.
ATTENZIONE: Questa agevolazione NON include
le quote associative annuali dei soci ordinari.
IMPORTANTE: Al fine di limitare al massimo i disservizi postali ed amministrativi, vi preghiamo di
indicare, con la massima precisione, l’indirizzo
postale al quale desiderate ricevere: la ricevuta
regolare dell’importo versato, la tessera associativa, la nostra rivista trimestrale “Pan” ed altre
comunicazioni e/o inviti a convegni ed eventi
Lidap, e di specificare, nell’apposito spazio del
bollettino di c/c postale (causale), il titolo del contributo (socio ordinario, sostenitore, abbonamento a Pan) e l’anno solare cui è riferito.
L I D A P
La segreteria chiuderà dal 28 luglio al 24 agosto. Sul sito www.lidap.it nella sezione "Una
voce amica" troverai i recapiti telefonici degli
operatori volontari. Le risposte alle e-mail inviate a [email protected] verranno garantite durante
tutto il periodo estivo.
D. Lgs. 196/03 - ELENCHI ISCRITTI
In riferimento alla legge sulla tutela della privacy n.
196/03, si comunica che il responsabile degli elenchi
degli iscritti della Lidap-Onlus è Paola Rivolta di
Sovico (MI). Il libro dei soci e gli elenchi iscritti sono
custoditi presso la sua abitazione. Qualsiasi richiesta
o comunicazione, da parte dei soci e non, inerente
tali elenchi, dovrà essere inoltrata all’interessata
tramite la mail [email protected] o richiedendo i suoi
recapiti alla segreteria di Parma.
Trimestrale edito da Lidap onlus
Direttore: Giuseppe Costa
Caporedattore: Patrizia Arizza
Direttore Responsabile: Anna Maria Ferrari
Redazione: Susanna Canetti,
Alma Chiavarini, Valentina Cultrera,
Antonino Giunta, Anna Pappalardo,
Patrizia Peretti, Mariateresa Pozzi
Via Oradour 14, 43100 Parma
Tel. e Fax 0521-463447
Grafica: www.imprintingweb.com
Stampa: Stamperia s.c.r.l. - Parma
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