Fuggito dal Sudafrica dell`apartheid ucciso da bianchi a Villa Literno
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Fuggito dal Sudafrica dell`apartheid ucciso da bianchi a Villa Literno
la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 NUMERO 494 Cult La copertina. Tutte uguali le città delle archistar Straparlando. Paolo De Benedetti: “Io e Dio” La poesia del mondo. L’orfano della Cvetaeva Fuggito dal Sudafrica dell’apartheid ucciso da bianchi a Villa Literno Venticinque anni fa l’Italia scopriva così gli immigrati e i razzisti Mai sentito parlare diJerry Masslo? ROBERTO SAVIANO VEVO DIECI ANNI quando uccisero Jerry Masslo a Villa Literno. A colpirmi non fu tanto la morte di un ragazzo sudafricano ammazzato mentre difendeva il suo salario da una rapina, quanto la fiumana dei duecentomila che per lui sfilò poi a Roma. Sfilavano per un uomo ammazzato nel casertano. La sera in casa accendevamo il telegiornale e lì dentro si parlava di Villa Literno. Per me era come se il mondo ci avesse scoperto, come se avesse d’improvviso saputo che esistevamo e che campavamo in un territorio feroce. A quella manifestazione partecipò Tommie Smith, medaglia d’oro nel 1968 a Città del Messico, quello che assieme a Lee Evans era salito sul podio olimpico senza scarpe e alzato il A L’attualità. Le (mezze) confessioni di Roger Federer Spettacoli. Compie cent’anni e non li dimostra la canzone che inventò il pop pugno con il guanto nero al cielo. Era venuto apposta dagli Stati Uniti per sfilare in nome di Jerry Masslo. Il contrappunto lo dava il silenzio di Villa Literno. Spettrale. Gli immigrati scappavano certi che gli omicidi non si sarebbero fermati. L’Italia iniziò a conoscere così l’immigrazione e il mercato dell’oro rosso. Bastava che aumentasse di pochi centesimi il costo del salario dei raccoglitori per rendere fuori mercato i pomodori meridionali. Mille lire a cassetta riempita. Oggi circa tre euro e mezzo. La raccolta si regge sui braccianti africani e slavi, turni pesanti, lunghi, a prezzi bassi. Villa Literno ha diecimila abitanti, in estate seimila in più. La piazza principale è la “piazza degli schiavi” perché è lì che si fa trovare chi vuole essere reclutato dai caporali. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN RICORDO DI RENATO NATALE la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 30 La copertina. 1989 - 2014 Le date 1989 1990 1991 1996 1997 1998 DOPO L’OMICIDIO DI MASSLO PER LA PRIMA VOLTA L’ITALIA SCENDE IN PIAZZA CONTRO IL RAZZISMO MARTELLI FIRMA LA PRIMA LEGGE SULL’IMMIGRAZIONE. LA LEGA IN ASCESA ALIMENTA LA XENOFOBIA LA FOTO DI UNA NAVE CARICA DI MIGRANTI ALBANESI A BARI SIMBOLEGGIA LA SINDROME DA “INVASIONE” NELLA NOTTE DI NATALE LA PRIMA GRANDE STRAGE DI MIGRANTI: NEL CANALE DI SICILIA AFFOGANO IN 283 CANALE DI OTRANTO: UNA MOTOVEDETTA ITALIANA SPERONA LA KATER I RADES PIENA DI MIGRANTI ALBANESI VARATA LA LEGGE TURCONAPOLITANO: NASCONO I “CENTRI DI PERMANENZA TEMPORANEA” <SEGUE DALLA COPERTINA ROB ER T O SAV I ANO E STORIE di quegli anni sono state rimosse, raccolte in una pubblicistica rada e quasi tutta accademica. Poche le eccezioni, tra cui i preziosi saggi di Giulio Di Luzio Non si fitta agli extracomunitari (Eir, 2014) e A un passo dal sogno (Besa Editore, 2006). Raccontano, anche, come l’arrivo dei braccianti stranieri iniziò a mettere in crisi il meccanismo criminale. Per esempio raccontano del 4 dicembre dell’86, di quando la camorra uccide Thomas Quaye e Gorge Anang. Trucidati a Castel Volturno, i loro corpi vengono mostrati nel centro del paese a mo’ di esempio: i due ragazzi — si diceva — avevano deciso di fumarsi una canna laddove questo era tollerato solo per i bianchi. Nell’agosto dell’87, sempre a Villa Literno, Fouad Khaimarouni, muratore marocchino, viene lanciato nel vuoto dalla finestra di una palazzina in costruzione dove aveva trovato riparo. Il 30 settembre 1988 il tanzaniano Juma Iddi Bayar viene ucciso a Mondragone: viveva in una proprietà di uomini vicini ai clan. Il 6 aprile 1989 Ben Alì Hassen, tunisino, ventisei anni, viene ammazzato a Casal di Principe: è accusato dai clan di organizzare il reclutamento di immigrati. Il 3 giugno dell’89 a Cancello Arnone ammazzano il trentunenne Abderrhmann Meftah e il 18 il marocchino Baid Bouchaid a Casapesenna, accusato dal pensionato che gli spara di essere andato a vivere troppo vicino alla sua villa. Eppure gli stranieri arrivano perché i caporali al servizio dei grandi gruppi conservieri offrono lavoro. Diventano una miniera anche per l’economia locale. Che inizia a speculare. Le “cucce” in vecchi casolari abbandonati vengono loro affittate a prezzi da hotel, e nelle rosticcerie i neri pagano il doppio mentre per loro nei bar ci sono solo bicchieri di plastica. Quelli portano le malattie. Jerry Masslo viveva in una masseria abbandonata di Villa Literno quando il 25 agosto 1989 in quattro decidono di rapinare i salari dei braccianti. È un prelievo facile, che “balordi” non camorristi e spesso figli della piccola borghesia locale ogni tanto fanno. Arrivano in motorino all’alba per trovare gli africani ancora intontiti, si mettono una calza in testa e armati urlano ai “negri” di consegnare i soldi. Un ragazzo sudanese prova ad avvertire gli altri di scappare, gli spaccano la testa con il calcio della pistola e gli rubano un milione e mezzo di lire che teneva sotto il cuscino. Decine di ragazzi corrono verso le campagne. Jerry Masslo. Anche lui corre, corre e inciampa ricordano i testimoni, cade quasi in ginocchio davanti ai rapinatori, alza le mani ma non consegna i soldi. Parla in inglese, una sola domanda: «Why?», perché, e lo chiede ancora e ancora e ancora. Troppe volte. Quattro colpi lo colpiscono all’addome, i rapinatori feriscono anche L LE FOTO NEL SERVIZIO DI LUIGI CATERINO VILLA LITERNO OGGI: LA TOMBA DI MASSLO NEL CIMITERO, LE “CUCCE” PER GLI STRANIERI, I CAMPI DI POMODORI. IN COPERTINA L’UNICO RITRATTO DI JERRY ESSAN MASSLO Roberto Saviano ricorda Jerry Masslo che qui venne ucciso un 25 agosto all’alba “Ecco perché non va dimenticato” un ragazzo keniota. Finiti i proiettili scappano sui motorini. Jerry Masslo resta a terra. La sua morte non passa inosservata come quelle degli altri immigrati. Esiste un momento in cui il sangue si cumula, litri su litri, e supera la linea di invisibilità dello sguardo. L’Italia si accorge dell’immigrazione, più di un milione di persone le cui condizioni di vita sono ignorate. Masslo era un rifugiato politico riconosciuto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite. Era fuggito dal regime razzista di Pretoria e riparato in Italia grazie all’intervento di Amnesty International che in un comunicato scriverà: «Jerry Essan Masslo è stato ucciso da alcuni bianchi che riteneva più accoglienti di quelli che aveva imparato a conoscere in Sudafrica». L’intera società civile Ritorno a Villa Literno la Repubblica DOMENICA 24 AGOSTO 2014 31 2002 2008 2010 2013 2014 2015 IL CENTRODESTRA VARA LA BOSSI-FINI: INASPRITE LE NORME PER INGRESSO E SOGGIORNO IN ITALIA CASTEL VOLTURNO: LA CAMORRA UCCIDE SEI RAGAZZI AFRICANI. LA CLANDESTINITÀ È REATO ROSARNO, FERITI ALCUNI LAVORATORI STRANIERI. BRACCIANTI IN RIVOLTA. 1° SCIOPERO DEI MIGRANTI NAUFRAGIO A LAMPEDUSA, ALMENO 366 MIGRANTI MORTI. PARTE L’OPERAZIONE MILITARE “MARE NOSTRUM” L’ITALIA CHIEDE AIUTO ALL’EUROPA PERCHÉ VENGA AFFRONTATA INSIEME LA QUESTIONE DEGLI SBARCHI I “NUOVI ITALIANI” SONO E SARANNO SEMPRE DI PIÙ: SFONDATA ORMAI IN UN SOLO ANNO QUOTA 100MILA prende posizione, preti sindacalisti amministratori ministri tutti si sentono chiamati in causa. L’indignazione porta alla legge Martelli che per la prima volta regolamenterà l’immigrazione ridefinendo lo status di rifugiato. Masslo muore che aveva trentanove anni. Prima di arrivare a Villa Literno era stato ospitato a Roma, nella casa di accoglienza “La tenda di Abramo”. Aveva partecipato alla sua inaugurazione alla presenza dell’arcivescovo Desmond Tutu. Aveva cantanto Cry Freedom, inno contro l’apartheid. In Sudafrica aveva perso il padre e un figlio, Jeremy, che aveva sette anni, uccisi a Soweto durante una manifestazione. Fu allora che, con suo fratello, decise di scappare. La moglie e gli altri figli fuggono in Zambia. Loro si imbarcano a Cape Town. Il fratello si ammala. Quando la nave fa una sosta in Nigeria, Jerry scende per procurarsi i medicinali. Non lo fanno più risalire, resta lì, vende tutto ciò che ha. Un orologio, un braccialetto d’oro, riesce a comprare un biglietto aereo per l’Italia. Quando atterra a Fiumicino la polizia lo trattiene in aeroporto, ci starà un mese, il tempo di riuscire a far valere la sua condizione di rifugiato politico. L’Italia doveva essere solo una tappa nel suo progetto di nuova vita. Il vero obiettivo è il Canada, certo che laggiù ci sarà pieno riconoscimento dei suoi diritti mentre l’Italia concede l’asilo politico solo ai richiedenti dell’Est europeo. Per questo motivo il rifugiato Jerry Essan Masslo non potrà cercare un lavoro regolare. Ma potrà andare a raccogliere pomodori a Villa Literno per quattordici ore al giorno. Venticinque anni sono passati. Non sembrano così tanti. La memoria dei sentimenti dilata se stessa incurante della dimensione temporale, vive in un continuo presente. Molte cose sono cambiate e molte sono rimaste immobili. Le accuse generiche nei confronti Il ragazzo fuggito dall’Africa che ci fece aprire gli occhi R E N A T O N A T A LE L 25 agosto 1989, come ogni mattina, ascoltavo il giornale radio. Appresi così la notizia di un giovane sudafricano, Jerry Essan Masslo, ucciso nel corso di una rapina nelle campagne di Villa Literno. Io ero segretario della sezione Pci e capogruppo in consiglio comunale a Casal di Principe. Da qualche mese a livello locale si era avviata una riflessione nel partito sul tema dell’immigrazione. Non tutti i dirigenti sembravano avere piena coscienza del fenomeno. Quella morte era la dimostrazione drammatica che non si poteva più perdere tempo in chiacchiere. Ai funerali andai in rappresentanza della sezione ma anche perché sentivo la responsabilità di quella morte: forse avremmo dovuto fare di più. Ricordo la piazza antistante la chiesa stracolma. Rimasi ad ascoltare fuori, un nodo alla gola. Mentre ascoltavo le parole del parroco, che tentava solo di difendere l’onore della sua terra senza condannare quell’azione violenta che aveva messo fine alla vita di un ragazzo, mi ritornavano alla mente le parole di Masslo durante un’intervista di qualche settimana prima, ritrasmesse dalla tv. Diceva di aver ritrovato anche qui, nella civile Europa, il razzismo da cui era fuggito. Fu in quella piazza che decisi che quel nome non doveva essere dimenticato. Fondammo così l’Associazione Jerry Masslo. E fu un po’ come pagare un debito. L’autore oggi è sindaco di Casal di Principe. (Testo raccolto da Raffaele Sardo) I © RIPRODUZIONE RISERVATA degli immigrati sono le stesse di allora. Lo ius soli è un miraggio. Migliaia di ragazzi nascono in Italia, studiano in Italia, vivono formandosi come italiani e ancora non hanno passaporto italiano perché figli di stranieri. Eppure. Nell’Italia del sud, cerniera tra Europa e Africa, i migranti arrivano là dove gli italiani abbandonano, costruiscono lavoro e mercato. Portano diritti. Yvan Saignet, per esempio, ingegnere camerunense, raccoglitore di pomodori in Puglia: è riuscito a ottenere che in Italia venisse introdotto il reato di caporalato. Ed è proprio dalla lotta contro razzismo e caporalato che al Sud sono nate le esperienze politiche migliori. L’impegno del vescovo Nogaro, faro di saggezza nei momenti più duri della storia del casertano. Renato Natale oggi sindaco a Casal di Principe. Dimitri Russo sindaco di Castel Volturno. Castel Volturno è la città più africana d’occidente. Dovrebbe essere un laboratorio prezioso, rischia di essere un ghetto dove anche gli amministratori perbene non riusciranno, soli, a mutare il corso delle cose. La storia di Masslo non va dimenticata non solo per conservare il dolore per lo spreco di una vita preziosa colma di forza. Ma per mostrare che il percorso iniziato è ancora lontano da compiersi. I conflitti innescati dai flussi migratori sono naturali, innaturale è che in Italia non ci sia ancora una vera strada per stabilizzare la presenza migrante considerandola una risorsa preziosa. Siamo ancora lontani dall’avere un numero importante di imprenditori, medici, poliziotti, africani o di origine africana in grado di nutrire un nuovo percorso di integrazione. L’unica strada per risolvere le contraddizioni è quella semplice da individuare e ardimentosissima da realizzare: il riconoscimento dei diritti. E questo Jerry Essan Masslo lo aveva capito sino in fondo. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 32 L’attualità. Match ball Champagne, camicia griffata e quattro gemelli al seguito Alla vigilia degli Us Open e dell’ennesima sfida con Djokovic il campione svizzero si racconta: “Non sono un perfettino Voglio solo che anche in campo l’eleganza prevalga sulla forza” IL PROTAGONISTA QUINO PETIT ÉPERNAY (FRANCIA) L SEI LUGLIO scorso il tennista serbo Novak Djokovic sollevava tra i singhiozzi lo I STAVO PASSEGGIANDO CON I MIEI FIGLI IN UN BOSCO SVIZZERO QUANDO QUALCUNO MI HA DETTO CHE LA FINALE DEGLI INTERNAZIONALI DI ROMA L’AVEVA VINTA DJOKOVIC. GLI HO RISPOSTO: BENE. PERCHÉ QUANDO NON SONO IN CAMPO SPENGO L’INTERRUTTORE QUANDO SMETTERÒ DI GIOCARE DEDICHERÒ PIÙ TEMPO ALLE COSE CHE NON HO POTUTO FARE PRIMA ANDARE A SCIARE, PARTIRE PER UN WEEKEND A SORPRESA CON MIA MOGLIE. STARE DI PIÙ CON I BAMBINI. SONO QUESTE LE COSE CHE FARÒ QUANDO ANDRÒ IN PENSIONE splendente trofeo da vincitore di Wimbledon e al microfono diceva, tra il serio e il faceto: «Grazie per avermi permesso di vincere, oggi». Il destinatario del messaggio, un sorridente Roger Federer, era a pochi metri da lui e teneva tra le mani il trofeo del finalista. Indossava un completo bianco immacolato, quasi nessuna traccia di sudore, dopo ore estenuanti di gioco in cui aveva dato un’esibizione di classicismo che aveva costretto il suo avversario a giocare un combattutissimo quinto set nell’ultima finale del torneo di tennis più prestigioso del mondo. «Per questo vanta diciassette vittorie nei tornei Grand Slam, e per questo è stato il miglior giocatore di tutti i tempi», proseguiva Djokovic rendendo onore al suo avversario, sette volte vincitore di Wimbledon. Federer annuiva. Aveva appena dimostrato al mondo, con una sconfitta di stretta misura all’ultimo set, perché a trentatré anni appena compiuti e dopo sedici da professionista, continua a essere uno dei re di questo sport. E probabilmente l’ultimo esponente dell’eleganza nel tennis. Un ottimo modo per verificarlo di persona è stato recarmi nella località francese di Épernay, che ospita le cantine del più famoso produttore di champagne, una marca di cui Federer è l’ambasciatore. Il genio di Basilea si è presentato, dopo aver aperto lui stesso le porte a specchi in stile Versailles che danno accesso a un maestoso salone della residenza del Trianon, la palazzina fatta costruire da Jean-Rémy Moët, nipote del fondatore della casa Moët & Chandon. Fisico slanciato di un metro e ottantasei, è entrato in abito blu scuro Dior e camicia Louis Vuitton bianca con pois bordeaux. I suoi modi da principe e la sua bonarietà sembrano confermare la qualifica attribuitagli tre anni fa da un sondaggio del Reputation Institute di “uomo che suscitava più fiducia” al mondo dopo Nelson Mandela. Non si stanca di sembrare così perfetto? «La cosa non mi tocca, io sono quello che altissimo livello? sono. La gente può pensare che io sia perfet«Mi sembra difficile. Non mi pare che queto, ma non lo sono affatto. Ho i miei proble- sto sport stia tornando a quello che era. Ogmi, faccio tanti sbagli, grazie ad essi imparo. gi tutti si muovono molto bene, battono con Sono fiero di rappresentare bene il tennis e grande potenza... Forse accadrà tra vent’andi prestare la mia immagine a grandi mar- ni, ma non oggi». chi. Se non mi divertissi a farlo, giuro che Oltre ad essere il giocatore che ha intamollerei. A questo punto della mia vita, ho scato più soldi grazie ai titoli vinti (sessanta bisogno di fare cose che mi piacciano davve- milioni di euro), Forbes ha stimato che i suoi ro. È vero che sono educato e rispettoso, e cer- sponsor gli facciano guadagnare più di trenco di essere un esempio per i bambini. Ma se ta milioni di euro l’anno. Nonostante la tentazione di continuare a questo fa pensare che io finga o che sia pervivere solo dei proventi della sua immafetto, beh non è affatto così». gine, lei è convinto di avere ancora molto La nascita dei gemelli Leo e Lenny gli ha da dire sul campo. regalato altri pensieri, di recente. Ma allo «Non vedo ancora la fine della mia carriestesso tempo Wimbledon gli ha ricordato l’avanzata di un nuovo stereotipo che cerca di ra. Ho dei figli, sono loro la mia priorità, ma farsi largo in classifica. Raonic, Dimitrov, amo il tennis e spero di continuare ancora a Kyrgios... Alti (oltre il metro e novanta), ro- lungo. Poi, chissà cosa accadrà fra uno, tre o busti, una potenza nella battuta difficile da cinque anni? Non so quando andrò in pencontenere. Di fronte a questo cambiamento sione, ma vivo la cosa serenamente e spero di continuare a giocare il di paradigma e alla pressione dei giovani, più a lungo possibile. continua a brillare l’anzianità di Federer, atTutto dipende da come tuale numero tre del mondo, il tennista che ti senti fisicamente e è rimasto numero uno della disciplina più a mentalmente. Molti lungo di tutti: 302 settimane. Il segreto del si stancano, sono tensuo successo sta ancora nel suo impegno nel tati di fare altro. Per mantenere la forza della battuta e nel dome l’importante è risare i passi per avanzare come una gazzella a rete, dimostrando chi comanda sul campo e imponendo il suo gioco di alta precisione che cerca l’avversario in contropiede con colpi vincenti e angoli impossibili di estrema bellezza, sia se eseguito con il suo diritto implacabile che con il suo rovescio. Colpi che David Foster Wallace, in un articolo del 2006, considerava così sublimi che nel vederli “rimani a bocca aperta e con gli occhi spalancati e cominci a fare dei rumori tanto che tua moglie viene di corsa dalla stanza accanto per vedere se stai bene”. Li definiva i “momenti Federer”. Si sente l’ultimo esponente dell’eleganza nel mondo del tennis? «Non direi. Ma è vero che guardandomi indietro, a quello che era questo sport cinquanta o venticinque anni fa, quando arrivai a giocare contro Sampras, mi sento più vicino a quelli che giocavano in un modo molto classico. Oggi sono tutti ugualmente forti. Nella battuta, a rete, da fondo campo, nei movimenti... Il tennis è diventato uno sport più di movimento che di tiri e di talento. È più il lavoro che la bravura che ti porta al vertice oggi. In questo senso, mi trovo svantaggiato rispetto allo stile attuale. Ho dovuto correggere molte cose nella mia carriera, ma sono fiero di averlo fatto in un modo che mi ha permesso di mantenere la mia eleganza». Pensa che questo modo di giocare che lei rappresenta si tornerà a vedere ad NATO A BASILEA, 33 ANNI, ROGER FEDERER HA DEDICATO LA SUA VITA AL TENNIS: APPRODATO AL PROFESSIONISMO A 17 ANNI NON ANCORA COMPIUTI, HA VINTO DICIASSETTE TORNEI GRAND SLAM. ED È RIMASTO IL NUMERO UNO AL MONDO PER 302 SETTIMANE: UN TEMPO RECORD CHE FA DI LUI IL TENNISTA PIÙ GRANDE DI SEMPRE. NELLE FOTOGRAFIE PICCOLE A SINISTRA FEDERER CON IL SUO ETERNO RIVALE DJOKOVIC E, IN BASSO, CON LA MOGLIE MIRKA E I DUE GEMELLINI APPENA NATI manere il più a lungo possibile vincente sul campo e continuare a divertirmi nel farlo; finora, lo sforzo vale ancora la pena. Amo questo gioco, e amo vincere. Oggi più che mai posso scegliere i tornei che voglio, non mi sento in dovere di partecipare a quelli dove non mi va di andare. È tutto più rilassato. Così voglio giocare: senza la sensazione di doverlo fare». Una questione di principio che la conduce al punto di vantarsi di non guardare più le partite di un torneo, quando viene eliminato. «Durante la finale degli ultimi Internazionali d’Italia a Roma stavo passeggiando con i miei figli in un bosco svizzero. Qualcuno mi ha detto: “Ha vinto Djokovic”. E io ho risposto: “Bene, bene”. Non mi suscita niente, nessuna sensazione. Mentre partecipo a un torneo, vedo tutte le partite. Studio i miei rivali, il terreno di gioco, il clima... Tutti gli elementi che contano. Ma quando la mia partecipazione a un campionato giunge al termine, spengo l’interruttore. Smetto di vedere le partite. Non mi interessa chi arriva alla finale, né chi la vince». Sua moglie, Mirka Vavrinec, è stata una tennista come lui e, dopo essersi ritirata per un infortunio al piede, è diventata la sua ferrea rappresentante. Le sue figlie gemelle, Myla Rose e Charlene Riva, stanno per compiere cinque anni e hanno da poco avuto dei fratellini, gemelli anche loro, Leo e Lenny. Cosa vede oggi, quando si guarda allo specchio? «Semplice: un giocatore di tennis professionista, un marito, il padre di quattro figli». E chi vuole essere dopo il tennis? «Un uomo dedito alla famiglia. Come lo sono adesso, ma forse dopo potrò godere di più momenti intimi con le persone a me più care, in Svizzera. E voglio dedicare più tempo a cose che non ho potuto fare. Oggi il più delle volte non posso decidere se voglio andare a sciare o partire per un weekend a sorpresa con mia moglie. O trascorrere una serata romantica con lei. Forse questo è il tipo di cose che spero di poter fare quando andrò in pensione». © El Pais (traduzione di Luis E. Moriones) © RIPRODUZIONE RISERVATA Federer Sono io il bello la Repubblica DOMENICA 24 AGOSTO 2014 33 Quello che i biografi non dicono GIANNI CLERICI FOTO © PETER HAPAK/TRUNK/CONTRASTO UANDO UNO DEI TRE maggiori editori italiani mi del tennis Q propose di scrivere una biografia di Federer, rimasi in forse per non più di trenta secondi. Lo stesso mi era accaduto con Pelè, ai tempi in cui sciaguratamente mi occupavo di calcio, e con Pietrangeli, uno dei modelli della religione detta tennis. Sospetto che le migliori biografie vadano dedicate ai defunti. Se si parla con il biografato, entrano in gioco altri elementi disadatti all’oggettività: simpatia o antipatia, umano rispetto per l’intimità, comprensione dei difetti, o eccesso di ammirazione per l’attività del “personaggio”, molto raramente simile alla “persona”. Così, per comporre qualcosa che riguardasse Federer, non mi sono limitato a tutte le partite in cui, a partire dal Torneo di Milano 2001, Roger mi aveva incantato con i suoi gesti sublimi, non meno sublimi di un Nurejev o, per rimanere nel tennis, di un Hoad o di un Laver, che hanno vinto molto meno di Federer soltanto perché, ai loro tempi, ancora vigeva la distinzione di casta tra i signori dilettanti, che giocavano a Wimbledon, e i professionisti, che intascavano quattro dollari. Sono invece salito sullo sgabello della mia libreria, e ne ho tratto sei libri scritti su Federer. Di queste biografie avevo chiesto una volta a Roger, con cui non ho mai avuto l’onore di conversare, al di fuori delle pubbliche conferenze stampa, sempre in inglese, la lingua di sua mamma sudafricana. E Federer mi aveva risposto, a proposito di una di esse: «Più che leggerla, l’ho sfogliata. Non ho molto tempo». Simile risposta mi aveva causato qualche dubbio. Capivo che non si può più essere un campione se non si inizia ad allenarsi intorno ai quattro anni, e si continua, poi, dai dieci, a restare in campo cinque o sei ore al giorno. Mi dicevo tuttavia, delle due l’una: o la biografia doveva essere infedele o mal scritta, oppure la lettura non faceva parte delle abitudini del campione. La biografia, del 2004, era stata scritta da un mio collega e amico, Roger Jaunin, del Journal de Genève che, per la verità, più che i tennisti ama i cavalli. Ma Roger è un buon giornalista, e la sua biografia meritava quantomeno un cenno, era preceduta da prefazione di Marc Rosset, l’unico tennista svizzero segnalatosi nella storia prima di Federer con la vittoria alle Olimpiadi di Barcellona; dalla quale si apprendeva che, non fosse stato tennista e fin troppo dedito alla playstation, Roger sarebbe divenuto un buonissimo sciatore, guarda caso per uno svizzero. Dal libro, venivo a sapere che Roger sarebbe stato anche un ottimo diplomatico: «Devo sempre dare di me l’immagine di qualcuno dabbene», affermava infatti dopo la vittoria a Wimbledon del 2003. La seconda delle biografie sarebbe stata composta da René Stauffer, altro amico del Tages-Anzeiger, intitolata in Germania Il Genio del Tennis, e tradotta in inglese, come tutti i libri di interesse mondiale. Dalle ben 252 pagine emerge nuovamente un aspetto, diciamo così, “ufficiale”, nel quale ammiriamo Roger nella sua attività di ambasciatore dell’Unicef, ma non solo tale. Infatti, sua mamma Linette diceva: «Il primato ha fatto di mio figlio un perfezionista. Prima non prendeva niente sul serio e era sempre in ritardo. Ora prende il suo ruolo con molta serietà». Ma passiamo a Federer come esperienza religiosa, scritto dal famoso David Foster Wallace dopo ben una settimana passata a Wimbledon nel 2006. «Ci sono ben tre spiegazioni valide per l’ascesa di Federer», ci dice il Grande Scrittore mentre noi attendiamo in ginocchio. «La prima ha a che vedere col mistero e la metafisica, ed è, a mio avviso, la più vicina alla realtà. Le altre sono più tecniche, e funzionano meglio come giornalismo». Ricordo di essermi permesso di chiedere a quel Maestro se, dopo aver visto 50 volte il torneo di Wimbledon e scritto 20 libri, potessi ritenermi in grado di accedere all’illuminazione. Non capì. Non meno misterioso I silenzi di Federer, del francese André Scala che, a proposito del Nostro Eroe, cita addirittura Epitteto. «I bravi giocatori di palla, come gli attori e i saggi, giungono a fare questa cosa difficilissima: porre un’attenzione immensa in ciò che non dà pensiero, ciò che è indifferente». Mi pare a questo punto di poter sorvolare su altri due immortali testi: Quello che imparo da Federer, di Marc Aebersold, e Comment j’ai couché avec Roger Federer? (che in italiano suona “Come sono finito a letto con Federer?”) di Philippe Roi. Temo che, da tutto quanto ho scritto, non emergano maggiori informazioni private sulla natura di un grande campione, e continuo a ritenere agiografie quelle che sono spacciate per biografie. Federer, chi sarà costui? © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 34 La storia. Niente squali MARE MONSTRUM Draghi & Co., la paura dell’ignoto prima di Google Maps D A NI E L E CA STE L L A NI P E RE L L I IÙ DI CINQUECENTO anni prima di Google Maps, strani e affascinanti mostri marini popolavano le mappe dei più autorevoli cartografi d’Occidente. Draghi, pesci-leoni, conigli marini. O il leggendario kraken, mega calamaro groenlandese che appare anche nella strabiliante mappa dell’Islanda del fiammingo Abraham Ortelius. Oppure quel simpatico maialino marino della Descriptione dela Puglia di Giacomo Gastaldi. Per noi gli oceani non hanno quasi più segreti, al punto che grazie a Google Maps Ocean possiamo “passeggiare” in sei fondali marini. Ma allora vi si continuavano a vedere mostri di ogni tipo. «Anche se quei disegni possono sembrarci bizzarri, in molti casi si fondavano su informazioni che si credevano affidabili, scientifiche, come le enciclopedie illustrate. Insomma, i cartografi dipingevano animali che allora si credevano realmente esistenti», ci racconta lo studioso Chet Van Duzer, che ora fa rivivere quelle creature degne di Bosch in un volume illustrato pubblicato dalla British Library, Sea Monsters on Medieval and Renaissance Maps, una raccolta di mappe geografiche che vanno dal decimo al sedicesimo secolo. Il confine tra realtà, mito e sentito dire era allora assai labile. Anzitutto c’erano da rispettare le tradizioni, bibliche e non. Se ne sente l’eco in quelle illustrazioni che dipingono un uomo nel ventre di una bestia marina, reminiscenza del racconto di Giona. O in quelle che si rifanno alla storia dell’aspidoceleon, una balena enorme, con il guscio simile a quello di una tartaruga, che viene scambiata per un’isola e fa affondare la barca quando i marinai vi accendono un fuoco per cucinare: a lungo si ritenne che il primo a imbattervisi fosse stato San Brendano di Clonfert, abate irlandese del VI secolo detto il Viaggiatore. In fondo, per Sant’Agostino e Isidoro di Siviglia i mostri erano anch’essi parte del piano P LA MAPPA DISEGNATA DA ORTELIUS, GRANDE CARTOGRAFO FIAMMINGO DEL ’500, VIENE CONSIDERATA UNA DELLE PIÙ BELLE DI TUTTI I TEMPI. RAPPRESENTA L’ISLANDA CIRCONDATA DA MOSTRI MARINI: MANTE, LEONI MARINI, BALENE E TRICHECHI. È TRATTA DAL VOLUME “SEA MONSTERS ON MEDIEVAL AND RENAISSANCE MAPS” (BRITISH LIBRARY) la Repubblica DOMENICA 24 AGOSTO 2014 di Dio, ed erano particolarmente atti ad ammonire dai pericoli del peccato. Molti di quegli esseri, poi, erano stati descritti dai grandi classici, come Plinio il Vecchio, secondo il quale tutto ciò che la Natura aveva creato sulla Terra l’aveva creato anche nel mare (da cui i cavalli e i leoni marini, mentre sono usciti nel frattempo dal catalogo i maiali e le lepri, e quei topolini di mare che, per Plinio, indicavano la via alle balene, ostruite agli occhi da folte sopracciglia). Chi erano i cartografi per discutere simili autorità? Altre volte i disegni erano il frutto delle deformazioni dei racconti dei marinai. È una specie di pesce sega, ad esempio, quello che taglia in due le navi nel manoscritto Gerona Beatus del 975. I “testimoni” non erano allora le telecamere itineranti di Google Street View ma, oltre ai marinai, i viaggiatori come Marco Polo, i pellegrini, persino Francesco Petrarca, citato per la descrizione di una remora. Van Duzer spiega che quelle bestie erano disegnate sulle mappe sia perché ci si credeva veramente, e sia perché era un modo per segnalare i pericoli ai marinai (si scopre così che l’Oceano Indiano era il più temuto). Ma potevano esserci anche ragioni economiche: illustrazioni particolarmente immaginifiche potevano infatti alzare il prezzo della mappa, e dunque il compenso dell’autore. Così vedevano il mondo nel Medioevo e nel Rinascimento, quando non tutto era noto. Era un globo però in rapido mutamento, come confermano le due mappe, del 1507 e del 1516, con cui Martin Waldseemüller, cartografo tedesco, diede agli europei una nuova visione del mondo rivelato di recente dai navigatori. Quella del 1507 è la prima a mostrare, separata dall’Asia, l’“America” (così etichettata per la prima volta). Nella seconda compare invece, sotto l’Africa, una bestia tranquillamente cavalcata da re Manuele I del Portogallo, che stava diventando il padrone del traffico marittimo dall’Africa alle Indie. Van Duzer fa parte di una ristretta cerchia di studiosi mondiali che su riviste specializzate discetta di mappe antiche. Un altro, Joseph Nigg, ha pubblicato un libro simile in questi stessi mesi, per la University of Chicago Press, concentrandosi però solo su una carta, quella della Scandinavia e dell’Islanda prodotta tra il 1527 e il 1539 da Olaus Magnus. Californiano di 47 anni, Van Duzer è stato anche cartografo alla Biblioteca del Con- gresso americano, a Washington. La sua passione per le mappe antiche è nata a Roma, ai Musei Vaticani, e quella per i mostri marini alla Biblioteca nazionale spagnola di Madrid, dove se ne trovò di fronte 476 su un manoscritto rinascimentale italiano della Geografia di Tolomeo, il famoso matematico vissuto ad Alessandria d’Egitto nel II secolo d. C. L’Italia e i suoi cartografi rivestono un ruolo centrale in questa storia: «Nel Medioevo esistevano tre tipi principali di mappa, ovvero i generici mappae mundi, le carte nautiche e quelle che comparivano nei manoscritti della Geografia di Tolomeo. Molti degli ultimi due tipi vennero prodotti nel vostro Paese». Era nato nel 1530 a Castiglion Fiorentino, ad esempio, uno dei più grandi innovatori del settore, ovvero Tommaso Porcacchi, che a Venezia nel 1572 pubblicò L’isole più famose del mondo, un volume che oggi si può sfogliare su Google Books, e dove si legge ad esempio la “descrittione dell’isola Iamaica, ora detta di S. Iacopo”, che “ha nel mezo un monte, ma tanto piacevole, che chi lo sale non par punto che salga”. La vera svolta si ha nella seconda metà del sedicesimo secolo, quando appaiono mostri totalmente inventati. In altre parole, iniziano ad avere una funzione meramente decorativa sulle mappe. Nel diciassettesimo i ritratti dei giganti del mare si fanno sempre più realistici, l’uomo sta imparando a dominare le acque e le loro bestie, che infatti pian piano escono di scena. Ma allora perché, da Moby Dick a Jules Verne a Pinocchio, da Godzilla a Cloverfield e fino ai Pirati dei Caraibi, i mostri marini hanno continuato a popolare il nostro immaginario? «Sono l’incarnazione della nostra paura dell’ignoto. E a dirla tutta non abbiamo del tutto smesso di crederci davvero», risponde Van Duzer: «Basta pensare a quello di Loch Ness, in Scozia, oppure a Tahoe Tessie, che abiterebbe il lago Tahoe tra California e Nevada». Nelle mappe medievali comparivano anche mostri irreali come i dumbo octopuses, i granchi yeti, le aragoste cieche e i gamberetti fantasma… Anzi no, pardon, questi ultimi quattro esistono davvero, e sono stati scoperti nell’ultimo decennio dalla rete internazionale Census of Marine Life. Aggiornate le mappe, please. I mostri marini sono ancora tra noi. © RIPRODUZIONE RISERVATA 35 Nessun kraken è un’isola MICHELE MARI EL Manuale di zoologia fantastica, scritto in collaborazione con Margarita Guerrero, Borges inventò solo pochi animali: perlopiù attinse ai favolosi bestiari della tradizione classica e medioevale, e alle opere di due autori insospettabili come il vescovo svedese Olao Magno e il vescovo danese Erik Pontoppidan. Dall’alto della loro autorità i due prelati autorizzarono numerose dicerie popolari trasmettendo il brivido della teratologia agli ambienti accademici: il primo con una Historia de gentibus septentrionalibus (1555) traboccante di mostri marini, il secondo con una ponderosa Storia naturale della Norvegia (1753-69), nei cui volumi il discorso torna più volte, quasi ossessivamente, sul leggendario kraken, le cui dimensioni e la cui subdola immobilità sarebbero state responsabili dell’individuazione di isole inesistenti. Se nella cartografia antica subito sotto le cose del Nordafrica c’era scritto “Hic sunt leones”, all’altezza dell’Islanda e della Scandinavia incominciava la terra dei mostri, preferibilmente marini. Ma a differenza dei mostri biblici e di quelli classici, con i quali Dio o gli Dei puniscono i reprobi o cimentano gli scettici (dal leviatano al pesce di Giona, dal drago di Andromeda alle sirene di Ulisse), i mostri del nord sono laici, e appartenendo al clima e al paesaggio, esprimono la normalità delle cose. Questa fisiologica continuità con lo spazio e nello spazio è testimoniata dalla grande quantità di mostri marini che popolano le mappe rinascimentali e barocche; in molti casi l’archetipo grafico di queste figure è una delle magnifiche xilografie con cui Ulisse Aldrovandi illustrò la propria Monstrorum Historia, pubblicata postuma nel 1642. Stilizzato e dunque esorcizzato, il mostro diventa un fregio grazioso al pari di una rosa dei venti o di una cornucopia, e ci vorrà molto tempo perché riacquisti il suo originario potere di perturbare. Paradossalmente questo avverrà solo quando la moderna cartografia, escludendo i mostri dal proprio orizzonte, avrà restituito loro la libertà. A pronunciare parole decisive sulle gigantesche e micidiali creature dei mari, allora, non saranno più i teologi e i naturalisti, ma i romanzieri come Melville, che non a caso, nei capitoli 55-57 di Moby Dick, esercitò un certo sarcasmo sulle raffigurazioni tradizionali dei capodogli, troppo spaventosi in essenza per aver bisogno di decorazioni. N © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 36 Spettacoli.Leitmotiv Gli interpreti Mai titolo fu più profetico: “They Didn’t Believe Me” Jerome Kern la compose esattamente cent’anni fa e nessuno credeva che avrebbe rivoluzionato la musica 1915 - OLIVE KLINE La soprano insieme al tenore Harry Macdonough canta la versione più antica di “They Didn’t Believe Me” 1930 - CORINNE GRIFFITH ANGELO AQUARO Il debutto sul grande schermo del brano: a cantarlo è l’attrice statunitense Corinne Griffith con il suo partner Grant Withers nel film “Back Pay” L 1949 - MARIO LANZA L’italoamericano la interpreta in forma di serenata nel musical “That Midnight Kiss”. Nello stesso anno, Harry Belafonte incide una versione coi ricchi arrangiamenti di Pete Rugolo 1951 - FRANK SINATRA Anche lui, classe 1915, interpretò il brano di Kern Un matrimonio perfetto, quello fra The Voice e The Song, nati a un solo anno di distanza told them how beautiful you are / They didn’t believe me. They didn’t believe me!”. “E quando raccontavo quant’eri bella / Non mi volevano credere: non mi volevano credere!”. Risultato: «Cole Porter, George Gerswhin e Richard Rodgers si innamorarono così tanto di quel sound che per le loro composizioni usarono lo stesso format: abbandonando per sempre il modello dell’operetta europea». Insomma uno straordinario successo (postumo). E segnato — come si conviene a tutti i successi pop che da qui in poi verranno — anche dalla prima parodia. Perché proprio quella canzone, nata sui palcoscenici di Broadway mentre l’Europa affondava nella Prima guerra mondiale, diventò l’inno non ufficiale degli yankees che nel 1917 avevano finalmente invaso le trincee continentali, rompendo la splendid isolation dell’America. Proprio così: a tre anni dal debutto a Broadway They Didn’t Believe Me era diventata così famosa da dare vita a una versione — oggi diremmo pirata — che sostituiva i versi della lovestory della Ragazza dello Utah con le confessioni degli imboscati americani: quelli che invece del fuoco delle trincee si erano fermati a respirare il più inebriante fumo dei caffè di Parigi. “And when they ask us how dangerous it was / We never will tell them, we never will tell them”. “E L zo a n c a che inventò il pop spuntò quasi per caso, giusto cent’anni fa, nascosta in un polpettone di Broadway che sui giornali dell’epoca si meritò soltanto poche righe in cronaca. Quando dici il destino nel nome, anzi nel titolo: They Didn’t Believe Me — Non mi volevano credere. Infatti. Il primo a non volerci credere fu il New York Times, pronto a stroncare quel musical importato dal West End londinese, The Girl From Utah, senza neppure menzionare la canzone che il giovane Jerome Kern, il figlio di un immigrato ebreo venditore di strumenti musicali, aveva aggiunto per far digerire meglio la commediola inglese al pubblico americano. Per carità: il mondo, e pure il New York Times, avevano ben altre priorità all’indomani di quel debutto al Knickerbocker Theatre, 38esima strada e Broadway. “I tedeschi prendono Namur e invadono la Francia: le truppe alleate respinte dietro i nuovi confini”: così titolava la mattina del 25 agosto 1914 il giornale del mitico Adolph Ochs, l’inventore del motto “Tutte le notizie che meritano di essere stampate”: tutte — evidentemente — meno una. «Nessuno aveva mai composto una canzone in quello stile», scrive Wilfrid Sheed in The House that George Built. «E all’improvviso eccola qui, rilassata e sincopata: ottimisticamente intrisa di americanissimo jazz». George Gershwin non ha neppure sedici anni ma appena la sente giura che un giorno scriverà così: e per farsi l’orecchio si impiega come aiuto-pianista di Kern a Broadway. Lloyd George due anni dopo diventerà premier d’Inghilterra ma per ora — ricorda David Lehman in A Fine Romance — si inchina di fronte all’americanissima melodia: «La più accattivante e sublime mai ascoltata». Sarà Mel Tormé, l’autore dell’indimenticabile Merry Christmas, a tagliare più che corto: «L’American Song nasce con They Didn’t Believe Me». E quanti padrini dopo il battesimo. Frank Sinatra e Mario Lanza, Ella Fitzgerald e Dean Martin, Charlie Parker e Chet Baker, Elvis Costello e Dinah Washington: la canzone che vanta innumerevoli tentativi (riuscitissimi) di interpretazione. Ma allora com’è possibile che all’inizio fu letteralmente ignorata? Spiega a Repubblica Thomas Hischak, autore dell’Enciclopedia di Jerome Kern e grande studioso del musical, che a quei tempi Broadway era ancora legata a filo doppio alla tradizione musicale europea, gli show infarciti di melodie rubate alle operette viennesi, Vedove Allegre e Paesi dei Campanelli: «Ritmo di valzer e note lunghe e sostenute. Testi poeticamente formali e vocali sempre più aperte per permettere al cantante di turno di allungarsi tra gli applausi». Arriva Kern e con una canzone cambia tutto. «Sì, i critici la ignorarono: ma proprio perché non rientrava negli standard dell’epoca. Piacque invece al pubblico. E fu un successo lento e travolgente». Vende più di due milioni di “sheet music”: un record per quell’epoca in cui la radio era ancora soprammobile per ricchi e l’hit parade la decretavano appunto gli spartiti per il pianoforte di casa. «I più giovani realizzarono che le canzoni non avevano più bisogno di essere altisonanti e forzatamente poetiche: potevano invece essere più casual senza perdere di romanticismo». Già, casual: “And when I A CANZONE ne 1952 - PARKER & BAKER Il sassofono di Charlie Parker, la tromba di Chet Baker: metalli preziosi e un duetto d’eccezione, a inaugurare una versione “bop” della canzone che 1956 - DINAH WASHINGTON Ancora jazz, ma con un timbro unico: la voce black di Dinah Washington si impossessa del brano di Kern per poi restituirlo in una versione unica Ritmi latineggianti, mood travolgente Ed è subito classico la Repubblica DOMENICA 24 AGOSTO 2014 2005 - ELVIS COSTELLO Tra i 100 più grandi artisti di tutti i tempi secondo Rolling Stone: anche lui non resiste al fascino della “canzone che inventò il pop” 37 Lasciò indifferenti i critici ma fece innamorare il pubblico E così di lì in poia cantarla saranno i più grandi: da Sinatra a Chet Baker, da Barbra Streisand a Elvis Costello 1989 - GLENN CLOSE tò i l po p Nella Hollywood Walk of Fame c’è una stella per Glenn Close Ma le sue interpretazioni non comprendono solo film e teatro. Per la canzone del secolo Glenn accetta di cantare v in n e 1964 - OSCAR PETERSON La canzone prende quasi il volo, con i tocchi rapidi e intensi del “maharaja” del piano: così Duke Ellington chiamava Oscar Peterson, canadese, pianista jazz tra i più grandi 1963 - MARVIN GAYE I ’60 sono gli anni delle hit, per la casa discografica Motown: merito anche del talento di Marvin Gaye. Anche per lui l’interpretazione del classico è una tappa quasi obbligata They Didn’t Believe Me 1966 - BARBRA STREISAND Una canzone eclettica almeno quanto lei: l’icona pop registra l’album Color Me Barbra Tra le tracce immancabili, la canzone di Kern And when I told them how beautiful you are, They didn’t believe me They didn’t believe me! Your lips, your eyes, your cheeks, your hair, Are in a class beyond compare, You’re the loviest girl that one could see! And when I tell them, And I cert’nly am goin’ to tell them, That I’m the man whose wife one day you’ll be They’ll never believe me They’ll never believe m. That from this great big world you’ve chosen me! 1965 - DEAN MARTIN Sulle tv d’America va in onda il suo show. Sigaretta in mano, sorriso beffardo e fazzoletto rosso nel taschino: è lui a rispolverare il tormentone in versione giocosa quando ci chiederanno quant’era pericoloso/non lo diremo mai, non lo diremo mai”. “There was a front, but damned if we knew where ”: “Un fronte c’era: ma chi diavolo sapeva dov’era?”. La canzone fu rititolata War Song e mezzo secolo dopo finirà pure in Oh! Che bella Guerra, il film antimilitarista di Richard Attenborough con Dick Bogarde e Vanessa Redgrave. E quel testo irriverente era firmato indovinate da chi? Da un giovanotto arruolatosi nella Legione Straniera e di stanza in Francia: che di nome faceva Cole Porter. Sì, la canzone che inventò il pop spuntò quasi per caso: ma quanta strada da allora. E il suo autore? Ancora una volta quasi per caso, quarant’anni dopo lo sfortunato debutto, il mondo scoprì che quell’uomo crollato sul marciapiede davanti al 450 di Park Avenue, nel cuore di New York, colpito da un’emorragia cerebrale mentre curiosava in un negozio di antiquariato, era proprio lui: Jerome Kern. L’anziano signore non aveva con sé documenti d’identità: soltanto la tessera dell’Ascap, il sindacato dei compositori. Dal City Hospital di Welfare Island qualcuno chiamò gli uffici dell’associazione, al centralino gli passarono il funzionario di turno e un certo Oscar Hammerstein, di professione paroliere, si precipitò in ospedale: per scoprire che quel po- ONLINE Oggi su Repubblica.it è possibile ascoltare alcune delle versioni di They Didn’t Believe Me veretto spacciato era il genio con cui lui stesso aveva scritto Ol’Man River. Era l’11 novembre del 1945, un’altra guerra mondiale era appena finita, e questa volta il New York Times non mancò di celebrare “uno dei più famosi compositori d’America”, l’autore di “melodie che sgorgavano dalla sua tastiera con una regolarità che era l’invidia e lo stupore dei suoi contemporanei”, Smoke Gets In Your Eyes, The Last Time I Saw Paris, All The Things You Are. Sulla sua tomba al Ferncliff Cemetery di Hartdsale, New York, dove già riposava Béla Bartók e verrà un giorno cremato John Lennon, la moglie fece scrivere solo il nome e gli anni di nascita e morte, 1885-1945. Risparmiandoci l’epigrafe che l’autore della canzone che inventò il pop — vendetta benedetta vendetta — avrebbe potuto benissimo sbandierare: “They Didn’t Believe Me”. No, non gli avevano proprio voluto credere. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 38 Next. Pronti via Robolympics h1.86 BAXTER PR2 WALK-MAN SHAFT K6 ROBO SIMIAN h 190 cm Willow Garage h 165 cm Istituto Italiano di Tecnologia h 170 cm Google h 146 cm Kuka h203 cm (max estensione) Nasa - Jpl h 120 - 170 cm Progettato per un’elevata facilità di programmazione e flessibilità. Rivolto ai piccoli produttori PR sta per Personal Robot. Si tratta di un androide ancora sperimentale e per lo più destinato ai laboratori Un robot umanoide in grado di intervenire In disastri ambientali e incidenti al posto dell’uomo Il robot vincitore della Drc, le cui prestazioni beneficiano della lunga esperienza giapponese con i robot umanoidi Un robot industriale molto diffuso, ideale per la concezione di impianti a basso costo e di ingombro ridotto Sperimentale con arti multifunzione composti da segmenti identici Progettato per missioni di ricerca e soccorso Rethink Robotics Le discipline LE PRINCIPALI ABILITÀ RICHIESTE AI ROBOT PER ACCEDERE AL DARPA CHALLENGE E A ALTRE SFIDE INTERNAZIONALI GUIDA DI UN VEICOLO SUPERAMENTO OSTACOLI RIMOZIONE OSTACOLI APERTURA PORTA RICCARDO LUNA E SIETE fra coloro che vedono l’avanzata dei robot nelle nostre vite — e nel mondo del lavoro — come una sciagura inevitabile, questa storia non fa per voi. Nel 2020 a Tokyo, proprio durante i Giochi Olimpici che tornano in Giappone dopo cinquantasei anni, si faranno anche le Olimpiadi dei robot. In stadi diversi, almeno. Infatti non siamo ancora al punto di far gareggiare umani e robot assieme, ma già la contemporaneità dei due eventi sarà altamente simbolica. E non poteva non accadere nel paese che più di tutti gli altri vive da sempre una autentica fascinazione per la robotica: a partire dai cartoni animati per bambini (nel 2019 sarà realizzato un robot di 18 metri di altezza a immagine e somiglianza del celebre Gundam, protagonista della serie tv che compirà quarant’anni); per finire con le “badanti elettroniche” (non solo per anziani: sulla Stazione spaziale internazionale nell’agosto scorso è arrivato Kirobo, il robot della speranza, un simpatico umanoide parlante di 34 centimetri creato — in definitiva — per far compagnia agli astronauti). Il premier Shinzo Abe ne fa una questione di orgoglio nazionale ma soprattutto di crescita economica: «Triplicheremo il mercato!» ha detto qualche settimana fa visitando una fabbrica a Saitama dove ha annunciato le RobOlimpiadi, subito dopo aver personalmente provato il famoso letto della Panasonic che con un semplice comando vocale si trasforma in una sedia a rotelle. Facendo due conti, i cronisti nipponici hanno tradotto l’obiettivo del capo del governo in un fatturato di 2,4 trilioni di yen (circa venti miliardi di euro): altro che medaglie d’oro. Di gare di robot se ne fanno già molte nel mondo ma nessuna con il fascino di una Olimpiade. La più importante è il Drc, Darpa Robotic Challenge, promosso dall’Agenzia americana che si occupa di sviluppare progetti speciali e innovativi per il Pentagono, un fatto che la dice lunga sugli interessi del mondo militare verso le prestazioni dei robot. Il primo round, con un milione di dollari in palio al vincitore, si è svolto lo scorso dicembre: diciassette S team da tutto il mondo si sono dati appuntamento dalle parti di Miami, in Florida, per sfidarsi in discipline come “salire le scale”, “aprire una porta”, “guidare una jeep”, “fare un buco nel muro”, “spegnere un incendio” e simili. Dopo due giorni di gare — definite “mozzafiato” per il pubblico presente — ha vinto Schaft, un umanoide di 146 centimetri di altezza realizzato — vi sorprende? — in Giappone. Ma la vera notizia si è saputa qualche giorno dopo quando Google ha annunciato di aver comprato in un colpo solo otto dei team finalisti, compreso Schaft ovviamente e un inquietante cane-robot sviluppato da Boston Dynamics. Per farne che? La guerra, ha commentato qualcuno visto il contesto; oppure uno sbarco sulla Luna cinquant’anni dopo il primo allunaggio dell’Apollo 11, secondo altri. Lo vedremo presto: del resto l’interesse di Google per la robotica è ormai cosa nota, a partire dall’auto che si guida da sola (un pro- getto che si può far risalire a un’altra competizione simile, il Darpa Grand Challenge che nel 2004 puntava a premiare l’auto che avesse percorso 240 miglia nel deserto senza pilota: non ci riuscì nessun candidato, ma dieci anni dopo la Google Car è una realtà). In attesa delle Olimpiadi di Tokyo, quindi, fra meno di un anno gli otto migliori robot del mondo torneranno in Florida per la seconda tappa del Darpa Challenge. E — questa sì è una lieta sorpresa — in gara ci potrebbe essere anche un robot italiano. Si chiama Walk-Man, letteralmente “uomo che cammina”, come il celebre riproduttore musicale della Sony soppiantato dagli iPod della Apple. Ma sarà un robot, un vero robot. È l’evoluzione di Coman, un acronimo che sta per COmplaint HuMANoid Platform: una piattaforma aperta lanciata nel 2004 dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova, che vede ormai decine di centri di ricerca in tutto il mondo collaborare allo sviluppo a partire da iCub, il celebre “robot bambino” made in Italy che ha emozionato chiunque lo abbia visto all’opera. Non a caso “Amarsi” è il nome del progetto europeo guidato dall’IIT da cui è nato Coman: simile ad un bambino (95 centimetri per 31 chili), è considerato un gioiellino Le competizioni SALITA SCALE PERFORAZIONE MURI RIPARAZIONE TUBATURE UTILIZZO DI UN IDRANTE IN AZIONE ROBOCUP ATLAS, IL ROBOT DI BOSTON DYNAMICS E GOOGLE IDEATA NEL 1993, È UNA GARA CHE INTENDE REALIZZARE, ENTRO IL 2050, UNA SQUADRA DI ROBOT PER BATTERE LA SQUADRA DI CALCIO CAMPIONE DEL MONDO la Repubblica DOMENICA 24 AGOSTO 2014 PHANTOM Kaist h 130 cm Sviluppato dal Korea Advanced Institute of Science & Technology come piattaforma per vari progetti di ricerca REAPER MQ-9 Dji 35 cm General Atomics 361 cm 2.012 apertura alare Un sistema di inquadratura in grado di volare dappertutto e fotografare qualsiasi cosa. Apre la fotografia aerea a nuovi mercati e appassionati Drone d’assalto, capace di volare per ore, può essere armato di missili Hellfire radiocomandati HUBO 39 TUG ASIMO UBR-1 PACKBOT PARO ROOMBA Aethon h 120 cm Honda h 120 cm Unboundend Robotics h 97 cm iRobot h 200 cm Aist l. 57 cm iRobot 200 cm (diametro) Un traina-carrelli automatizzato per ospedale, poco carismatico ma fieramente funzionale Il frutto più recente della lunga ricerca della casa nipponica nello sviluppo di robot “da compagnia” Un robot di servizio mobile con un braccio, sfruttabile (sperano i suoi costruttori) per diversi compiti Fa parte di una serie di robot molto usati in Iraq e in Afghanistan per disinnescare ordigni Un compagno per le persone più anziane che può portare benefici terapeutici e sociali Il robot più popolare del mondo acquistabile nelle maggiori catene di elettronica pulisce i pavimenti dal 2002 Nel 2020, insieme alle Olimpiadi, Tokyo organizzerà anche i primi Giochi Olimpici per robot Non gareggeranno con gli atleti, almeno non per ora, ma intanto gli umanoidi si allenano in altre sfide internazionali Dove potrebbe scendere in campo anche l’Italia tecnologico, al punto che quando diciotto mesi fa il capo del Darpa Challenge, Gill Pratt, lo ha visto, se ne è subito innamorato caldeggiando la nascita di Walk-Man, 170 centimetri di intelligenza artificiale. La differenza fra i due non sta solo nell’altezza, ma anche nelle prestazioni, nella forza e nella resistenza. In comune avranno il fatto di essere fra i pochissimi robot a considerare i movimenti delle braccia e della gambe in maniera coordinata e simultanea e non come operazioni distinte. In pratica, sostengono dal team che sta lavorando al progetto, oggi un umanoide se cammina non può fare nient’altro altro; con Walk-Man sarà diverso. Lo vedremo alle finali del Darpa Challenge? Forse sì, un po’ di cautela è indispensabile visto che il progetto è iniziato appena un anno fa, e quindi con notevole ritardo sugli altri finalisti. Il primo prototipo sarà pronto in autunno; nel frattempo tutti i test (e le relative righe di codice) vengono fatti su Coman. Che senso ha tutto questo? Secondo il direttore dell’IIT Roberto Cingolani moltissimo: «Indipendentemente dal fatto di competere con il gotha mondiale, la gara ti impone ritmi e soluzioni innovative che non cercheresti. Insomma, come le prestazioni degli umani crescono grazie alle sport, anche quelle degli umanoidi miglioreranno grazie a competizioni mirate». Preparate l’inno di Mameli, insomma: Walkman sta per scendere in campo. © RIPRODUZIONE RISERVATA DARPA ROBOTIC CHALLENGE ROBOGAMES TEAM DA TUTTO IL MONDO SI SFIDANO IN PROVE QUALI “SALIRE LE SCALE, “FARE UN BUCO NEL MURO”, “SPEGNERE UN INCENDIO” SFIDA ANNUALE CHE, DAL 2004, SI TIENE A SAN MATEO, CALIFORNIA. I ROBOT SI SFIDANO ANCHE IN VERI E PROPRI SPETTACOLARI COMBATTIMENTI la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 40 Sapori. Frigo vuoto FRUTTA, CARNE, PESCE E VERDURA: NIENTE SFUGGE AL DOMINIO DELLA LATTA CHE NON È PIÙ QUELLA “CHEAP” DI UNA VOLTA. A PATTO DI CONTROLLARE COLORANTI, CONSERVANTI E ALTRI ARTIFICI. PERCHE SOTTO IL COPERCHIO POTREBBE NASCONDERSI LA FREGATURA Tonno Carne Alici Diverse le varietà (rosso, alalunga, pinna gialla) e le parti utilizzate (filetti, ventresca) Conservare in acqua di cottura, olio di semi o extravergine d’oliva Privata di tendini, cartilagini, pelle e grasso, poi tagliata a pezzetti, cotta in acqua, messa in salamoia, inscatolata e sterilizzata in autoclave Mai cotte. Le reginette del pesce azzurro, pulite e coperte di sale grosso per tre mesi, poi sciacquate, diliscate conservate in olio di semi o extravergine Rompete le scatolette. Saranno diventate tanto cool ma meglio guardarci dentro La storia Le scatolette made in Italy portano la firma del piemontese Francesco Cirio, il commerciante agricolo che nel 1857 lanciò sul mercato le prime scatolette di piselli e pomodori, produzione premiata all’esposizione di Parigi del 1867 LICIA GRANELLO «S Le cugine Tra gli alimenti in scatola, le conserve sono sottoposte a sterilizzazione, che ne permette la conservazione per anni a temperatura ambiente Le semiconserve, invece, sfruttano principi diversi, come la salagione, e non necessitano di cottura Il libro Si chiama Benedette scatolette, edizioni Endemunde, il manuale del giornalista enogastronomico Antonio Mungai. All’interno, preparazioni sfiziose dedicate a “giovani imbranati, lavoratrici affrante, velisti duri&puri e gourmet dissoluti” CUSATE SIGNORE, si mangiano dei buoni spinaci qui?». La domanda di Braccio di Ferro apre una delle strisce più popolari del fumetto americano negli anni ‘30. All’obiezione polemica dell’oste “Gli spinaci sono cibo da signorine, roba per gente debole!”, segue l’inevitabile scazzottata e conseguente riappacificazione, naturalmente davanti a una doppia porzione delle portentose verdure attiva-muscoli. Ma gli spinaci preferiti da Popeye sono quelli in scatola: facili da portarsi appresso, economici, pronti alla bisogna. Se i coltivatori di spinaci saranno grati in eterno alla creatura di Elzie Segar per lo straordinario messaggio per nulla subliminale lanciato in anni in cui il consumo dei vegetali non era certo associato a energia e benessere, ad avvantaggiarsene assai fu l’intera, nascente industria dello scatolame. Il binomio cibo pronto-lattina ha conquistato il mondo, attraversando l’ultimo secolo dell’alimentazione mondiale senza mai conoscere crisi. Alzi la mano chi non ha una scatoletta di cibo in dispensa, salvezza culinaria a portata di un clac (suono rassicurante che certifica l’apertua lui si deve l’istituzione delle brigate di militari-cuora senza capricci della lattina, disvelandone il conchi, termine ancora in uso oggi per definire le squatenuto più o meno appetitoso). Buone per tutte le dre di lavoro nelle cucine dei ristoranti — che aveva stagioni, quasi indispensabili in estate, quando la addirittura lanciato un bando con sostanzioso prevoglia di cucinare precipita e andare a fare la spemio in denaro. A vincerlo, il pasticcere Nicolas Fransa nei negozi preferiti è una gimkana tra serrande cois Appert, il cui metodo di doppia sterilizzazione chiuse e riaperture zoppicanti. messo a punto nel 1795 — carni e verdure bolliti, Tutto merito di un’intuizione, figlia della necesmessi in contenitori sigillati con la pece, e bolliti sità di conservare e trasportare il cibo. Nutrire adenuovamente — prese il nome dal suo inventore: apguatamente il suo esercito lontano dalla Francia, inpertizzazione. Certo, le qualità organolettiche e nufatti, era uno dei rovelli di Napoleone Bonaparte — trizionali dei cibi stracotti lasciavano un po’ a desi- derare, ma il primo passo era stato compiuto. Solo molti anni dopo, Louis Pasteur avrebbe dato dignità scientifica all’idea di Appert. Contemporaneamente allo scienziato francese, intorno al 1870 l’italiano Francesco Cirio e l’americano Joseph Campbell cominciarono la produzione di alimenti in scatola da una parte all’altra dell’oceano, dando l’imprimatur a due marchi che hanno fatto la storia dell’industria del cibo in scatola. Ma non è tutto oro, ciò che luccica sotto i coperchietti. A partire dalle sbriciolature vendute come consistenza pregiata del pesce, alle montagne di gelatina in cui affondano pochi pezzi di carne a basso costo, fino ai liquidi di conservazione, arricchiti di sale, glutammato, aromi artificiali, coloranti e conservanti. Non a caso, i produttori virtuosi raccomandano di scolare soprattutto i pesci dal liquido di inscatolamento subito dopo l’apertura e sostituirlo con un buon extravergine... Altro argomento spinoso, quello del Bisfenolo A (BPA) un interferente endocrino ampiamente usato nell’industria delle materie plastiche e dei contenitori alimentari. Leggere bene le etichette e privilegiare le scatolette — ma anche pentole, thermos, biberon — «Bpa-free» è un buon modo di difendere la salute e apprezzare le zuppe d’astice. Con buona pace delle riproduzioni geniali di Andy Wharol. © RIPRODUZIONE RISERVATA Minestra Ananas Piselli A fine ‘800 la prima “Campbell’s Soup”, elaborata eliminando parte dell’acqua. Centinaia le ricette, dalla zuppa di pomodoro a quella d’aragosta Sbucciato, affettato, privato del gambo (contiene la preziosa bromelina) e confezionato con acqua e zucchero o al naturale Da extrafini a medi, una volta selezionati sono sottoposti a cottura con vapore surriscaldato e inscatolati addizionando acqua e sale la Repubblica DOMENICA 24 AGOSTO 2014 41 No, disse la lattina, tu non mi meriti GUIA SONCINI Fagioli Essiccati, lavati, coperti d’acqua e scottati per bollitura o con vapore Dopo l’inscatolamento con liquido di governo, chiusura ermetica e sterilizzazione 1 2 ANNALISA DISEGNO zucchero La ricetta Moscioli di Portonovo INGREDIENTI: 1 KG. DI MOSCIOLI SELVATICI, 150 G. DI OLIO EXTRAVERGINE NON AMARO E NON PICCANTE, 5 G. DI FOGLIE DI PREZZEMOLO, 50 G. DI LIMONE, 1/2 LITRO D’ACQUA , 400 G. DI ZUCCHERO, 10 G. DI SPICCHI D’AGLIO SCHIACCIATI ollire per 5’ in un pentolino 250 g. di acqua con 150 g. di zucchero più il limone tagliato a dadini da 1/2 cm l’uno. Scolare e rimettere il limone altri 5’ in uno sciroppo bollente fatto come il precedente. Raffreddare e prendere un tegame capiente, versarci l’olio, gli spicchi d’aglio in camicia, le cozze ben pulite, il limone candito scolato, coprire con il coperchio e far scaltrire i molluschi a fuoco medio. Una volta aperti aggiungere il prezzemolo tagliato grosso e pepe bianco. Da degustare con le bruschette, oppure sgusciare e mettere nelle scatolette con il loro sughetto, chiudendo e sterilizzando in autoclave a 120° per mezz’ora B LO CHEF MORENO CEDRONI CHEF PATRON DE “LA MADONNINA DEL PESCATORE” DI SENIGALLIA, DUE STELLE MICHELIN. QUESTA LA SUA RICETTA “IN SCATOLA ”PER I LETTORI DI REPUBBLICA Gourmand Nella foto grande “In scatola” di Moreno Cedroni, ultima ricetta della linea di scatolette gourmand inaugurata con la storica “Finta Simmenthal di tonno” Pelati Pomodori lavati, scottati, pelati, privati di semi e di parte dell’acqua. Acido citrico se l’acidità è troppo bassa (rischio botulino) S ONO RAGIONEVOLMENTE CERTA che il primo microonde venduto a Bologna sia stato quello in cui, negli anni successivi, ho a ogni ritorno da scuola infilato piatti di pasta che mia madre aveva scotto la settimana prima. Sono altresì certa che, in quegli anni Ottanta in cui il genere non era diffuso, gli unici surgelati venduti in Italia li acquistasse la mia famiglia. Tornavo da scuola e trovavo un hamburger che mia madre era riuscita a bruciare scongelandolo. Un talento che ho ereditato. Poiché non c’è indulgenza che non si ottenga a mezzo infanzia infelice, sempre più spesso mi trovo a spacciare queste scene di formazione: giustificano la mia scarsa vocazione culinaria. Prima, non era necessario. Prima, non cucinare si poteva. Anzi: era una gara a chi per primo ti citava Woody Allen (quella scena di Provaci ancora, Sam in cui spiega che lui i surgelati non li cuoce: li ciuccia come ghiaccioli). Prima, non eravamo una repubblica fondata sui programmi di cuochi. A salvarmi sarà quella stessa gastrocrazia per cui gli uomini ti parlano del sale dell’Himalaya con la voluttà con cui un tempo ti descrivevano le gesta di un centravanti; la stessa ossessione per i fornelli che rende un’inaccettabile provocazione apprezzare la carbonara Findus; la stessa mania collettiva per cui se dici che mangi solo cibi pronti ti guardano con l’aria di chi stia per raccomandarti una clinica di disintossicazione. È il meccanismo a produrre la via di salvezza dal meccanismo stesso. Giacché ora si pensa solo al cibo — sembra che usciamo da una guerra o che abbiamo appena scoperto i sapori — era inevitabile accadesse: i tempi erano maturi perché anche il cibo pronto si desse un tono. Conosco alla perfezione l’angolo di Eataly dove tengono quei barattoli. Passo con disinvoltura in mezzo a gourmet che si chiedono quali capperi di Pantelleria siano più adatti a decorare il pesce; scanso coppie che discutono del formaggio di fossa con l’enfasi con cui all’università si scannavano su Truffaut e Godard; supero le correnti gravitazionali e soprattutto i temibili banchi del fresco, dove comprano gli ingredienti quelli che poi a casa usano le pentole, e arrivo lì. Il barattolo di polpettine al pomodoro e piselli mi guarda e sembra dirmi: tu non mi meriti, so benissimo che non sai di che pregiatissima carne piemontese io sia, che mi consideri solo una versione chic della Simmenthal. Il vaso di bocconcini di pollo mi aspetta già bello cotto e quasi persino masticato. E la ratatouille: quell’untuosità già pronta che garantisce le indispensabili porzioni di verdura anche a noi che consideriamo l’insalata già lavata un po’ faticosa (devi pur sempre condirla). Sulle confezioni ci sono le istruzioni per scaldare tutto in pentola: l’accordo tra le parti sociali è di fingere di non sapere che si mangerà direttamente dal barattolo. Mantenere un contegno, e giurare d’aver sporcato almeno un piatto. Ciucciare un hamburger ancora surgelato, e poi dire agli amici che per cena c’era tartare di manzo. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 24 AGOSTO 2014 42 L’incontro.Maestri NON IMPONGO INTERPRETAZIONI, SUGGERISCO IMMAGINI QUELLO CHE VEDETE È IMPORTANTE ALMENO QUANTO LA PAROLA SUL PALCOSCENICO COME NELLA VITA SOTTO ILVELO DI CIÒ CHE PRONUNCIAMO SI NASCONDE ALTRO Dominare le mode, ignorare le rughe. Il grande regista e drammaturgo, sul palco come nella vita, sfida il tempo. E vince. I suoi spettacoli sono come lui, senza scadenze né pause. Settantenne iperproduttivo, non si accontenta di aver rivoluzionato il teatro e ora ha in cantiere un nuovo progetto con un suo vecchio amico, Philip Glass. Statunitense “infedele”, tradirebbe il nuovo per il vecchio continente: “L’America è troppo giovane, rie, datata 1902, con i suoi climi tenebrosi e i suoi voli impressionanti». Guardando dalla platea, l’estetica di Wilson ci investe di volta in volta come ubriacatura iconografica. Ogni produzione si alimenta di un magigli americani limitati. Col pub- un’esaltante strale gioco di luci, di cadenze musicali e gestuali esatte e degli strepitosi trucchi degli attori, trasformati in suggestivi affreschi che respirano, agiscono e parla(o cantano). Tutto in lui si svuota di psicologismo: il mix dei fattori genera l’abblico europeo ho un rapporto più nobagliante coreografia di un universo alieno. «Lungi da me l’idea di proporre un testo dal punto di vista delle emozioni e dei sentimenti. Suggerisco al pubblico aperte, come dicendo: il testo è vostro, usatelo come vi pare». È conintenso”. E lo scambio con lo immagini vinto che il teatro occidentale sia stato condizionato dalla letteratura in modo devastante: «Si fa solo la regia di parole scritte, mentre io rivendico l’importanza di che si vede, pari a quella di ciò che si sente. Come nella vita». spettatore per lui è un vero patto ciòL’identificazione emotiva con i personaggi è bandita dal suo pianeta illusionistico: «A chi sta in scena chiedo di evitare l’eccesso d’espressività. Movimenti mipossono dare risultati massimi, come in Charlie Chaplin e in Buster Keaton». di libertà: “Il testo è vostro, usa- nimi Su tali presupposti costruisce una dimensione “altra”, proiettata in ambienti fantasmagorici e in gestualità cronometriche. L’effetto è di magia siderale: «Non dico mai a un interprete: questo significa la tale cosa. Così come non impongo mai telo un po’come vi pare” agli spettatori una narrazione didascalica. Metto a disposizione strutture rigo- Bob Wilson L EO NET T A B EN T I VO G LI O SPOLETO OMUNICA un forte e immediato carisma l’uomo imponente e vestito di C nero che entra nel ristorante con andatura flemmatica, come se non dormisse da giorni, e che una volta seduto al tavolo s’avventa sopra un filetto al sangue come se non mangiasse da mesi. Bello lo è sempre stato ,Robert Wilson, regista tra i più fertili e acclamati d’Occidente. Iperproduttivo e ormai “classico”, cioè consacrato come fenomeno estraneo alle mode (è in pista dagli anni Settanta), ha fama di geniale rinnovatore dei linguaggi, essendo operativo, oltre che come metteur en scène, come designer, videoartista, scenografo, pittore, scultore… “Non esiste un contemporaneo la cui opera sia stata altrettanto ampia e influente”, scrisse Susan Sontag. Da giovane, fisicamente, pareva un modello di Armani: perfetto e gelido. Ora che ha superato i settant’anni (è nato nel 1941 a Waco, in Texas, «dove proliferavano i rodei e non c’erano teatri né gallerie d’arte»), è più segnato in volto e dunque migliorato nel senso dell’umanizzazione. Ma qualcosa di laconico e sprezzante nutre il suo fascino ombroso. «Dell’età non mi curo: non ne ho il tempo», dice. «Creo spettacoli senza pause, vivo catturato tra prove e allestimenti, in un viavai di viaggi tra l’Europa e lo stato di New York, dove guido un grande laboratorio artistico a Watermill, nella zona di Long Island. Comunque so di avere un rapporto più intenso col pubblico europeo, legato all’arte da radici multisecolari. Gli americani sono sciovinisti e limitati, figli di un Paese troppo giovane per avere un’autentica consapevolezza culturale. Invece qui, in una cittadina come Spoleto, ci sono tre o quattro splendidi teatri». Al festival umbro, che lo ha accolto in tutte le edizioni degli ultimi anni (il direttore artistico Giorgio Ferrara adora le sue messinscene, e ogni suo arrivo in Italia è un evento), SONO NATO A WACO, IN TEXAS, CITTÀ IN CUI DA RAGAZZO ERA FACILISSIMO IMBATTERSI IN UN RODEO MA DOVE DI TEATRI NON C’ERA TRACCIA. MENTRE QUI NELLA PICCOLA SPOLETO CE NE SONO BEN TRE O QUATTRO ha presentato un Peter Pan avvincente per prodigi surreali, invenzioni gotiche, stuoli di feroci esseri polimorfici: «Da ragazzo sono stato assistente di Jerome Robbins quando montava a Broadway un musical su Peter Pan. Ora ho preso le distanze da quella fiabesca leggerezza, né m’interessa la versione di Walt Disney. Il mio è un racconto dark che torna alla storia originale di James Matthew Bar- rose, basate su suddivisioni aritmetiche. L’insieme viene solidamente definito stabilendo il numero di scene, i cambiamenti ritmici e le simmetrie visive». Dal Texas, dov’era studente di architettura, Wilson approdò a New York negli anni Sessanta, ignorando cosa fosse il teatro: «Trovai detestabile e noiosa la prosa tradizionale, e lo stesso mi accadde davanti all’opera lirica, con tutto quel gorgheggiare melodrammatico. Poi mi capitò di assistere ai balletti neoclassici di Balanchine: musica, figure, geometrie spaziali, un tessuto di linee regolari e astratte come i disegni delle stoffe peruviane. Questo sì che era affascinante. In seguito mi piacque anche Merce Cunningham: dissociava quel che si vedeva da ciò che si ascoltava, musica e danza esistevano separatamente. Era lì che volevo andare per scoprire nuove percezioni». Nacquero i suoi pezzi vasti e struggenti, considerati capolavori di fine secolo e spesso dilatati in tempi mostruosi. Sette ore di potenza onirica formavano l’opera muta Lo sguardo del sordo, che nel ‘70 fece scrivere a Louis Aragon (in una lettera ad André Breton): «Non ho mai visto niente di più bello». Occupava l’arco di dodici ore The Life and Times of Joseph Stalin, e con Ka Mountain and Gardenia Terrace Wilson riversò sull’altipiano di Shiraz, in Iran, la follia di una rappresentazione che si consumava in sette giorni e sette notti. Negli anni Settanta queste avventure impressero una svolta radicale alla concezione del teatro, come anche l’esito allucinato e ipnotico di Einstein on the Beach, vera rivoluzione nell’ambito dell’opera musicale, scaturita dall’incontro con il compositore Philip Glass. «Ora con lui sto progettando di mettere in scena Le mille e una notte», rivela Bob in anteprima. «Sarà una coproduzione internazionale che coinvolgerà l’America e Parigi, con debutto nel 2017». Crede che l’espansione e frammentazione temporale possa farci cogliere una realtà diversa da quella sperimentata ogni giorno: «Preparando Lo sguardo del sordo visionai filmati dello psicologo Dan Stern, che mostravano una madre mentre prendeva in braccio il suo bimbo piangente. Ogni secondo includeva 24 foto- PREOCCUPARMI DELL’ETÀ? ANCHE VOLENDO NON NE AVREI IL TEMPO. VIAGGIO E CREO SPETTACOLI SENZA INTERRUZIONI: LA MIA VITA È UN VIA VAI DI MESSE IN SCENA, PROVE, ALLESTIMENTI grammi, ma solo osservando l’azione al rallentatore si capiva che l’approccio iniziale della mamma verso il figlio era carico di aggressività. Nei miei spettacoli indago la comunicazione nascosta, non verbale, celata oltre la superficie della quotidianità». Dopo i primi, travolgenti exploit, Wilson ha moltiplicato le sue imprese: regie operistiche nei teatri lirici più prestigiosi al mondo, installazioni nei massimi musei, epopee ispirate a poemi orientali, collaborazioni con artisti di vari campi (Lou Reed, Tom Waits, David Byrne), rivisitazioni di titoli monumentali e noti (da Shakespeare a Beckett) e lunghi periodi di lavoro con il Berliner Ensemble che è poi la stessa straordinaria compagnia con cui ha appena realizzato Peter Pan. Celebri e richiestissimi sono i suoi videoritratti, incantatori come il suo teatro: «Cominciai anni fa con cento episodi di trenta secondi che potevano essere visti, l’uno staccato dall’altro, sul quadrante di un orologio così come alla fermata di un autobus, sul retro dei sedili in aereo come sulla metropolitana e sulle scale mobili. Oggetti, animali, persone. Un’anatra, una sedia, un prete, un barista, un meccanico. Divi come Johnny Depp, Isabelle Huppert, Jeanne Moreau, Brad Pitt. Famiglie di sovrani e gente comune. Nel 2000 la Sony ha messo a punto per me un particolare schermo verticale, e ho proseguito questa mia ricerca appassionante e inesauribile. L’occhio s’affaccia su una stanza dove c’è la persona o la cosa. Il mutamento del quadro è un processo impercettibile. Se ci stai davanti non te ne accorgi, ma se torni dopo cinque ore la luce si è modificata, e quell’automobile che prima era dietro adesso non c’è più. Il soggetto è sempre lì, eppure tutto cambia. Questa è la verità del tempo». © RIPRODUZIONE RISERVATA