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Fuggito dal Sudafrica dell`apartheid ucciso da bianchi a Villa Literno

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Fuggito dal Sudafrica dell`apartheid ucciso da bianchi a Villa Literno
la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 AGOSTO 2014 NUMERO 494
Cult
La copertina. Tutte uguali le città delle archistar
Straparlando. Paolo De Benedetti: “Io e Dio”
La poesia del mondo. L’orfano della Cvetaeva
Fuggito dal Sudafrica
dell’apartheid
ucciso da bianchi
a Villa Literno
Venticinque anni fa
l’Italia scopriva così
gli immigrati
e i razzisti
Mai
sentito
parlare
diJerry Masslo?
ROBERTO SAVIANO
VEVO DIECI ANNI quando uccisero Jerry Masslo a Villa Literno. A
colpirmi non fu tanto la morte di un ragazzo sudafricano
ammazzato mentre difendeva il suo salario da una rapina, quanto
la fiumana dei duecentomila che per lui sfilò poi a Roma. Sfilavano
per un uomo ammazzato nel casertano. La sera in casa
accendevamo il telegiornale e lì dentro si parlava di Villa Literno. Per me era
come se il mondo ci avesse scoperto, come se avesse d’improvviso saputo che
esistevamo e che campavamo in un territorio feroce. A quella manifestazione
partecipò Tommie Smith, medaglia d’oro nel 1968 a Città del Messico, quello
che assieme a Lee Evans era salito sul podio olimpico senza scarpe e alzato il
A
L’attualità.
Le (mezze)
confessioni
di Roger Federer
Spettacoli.
Compie cent’anni
e non li dimostra
la canzone
che inventò il pop
pugno con il guanto nero al cielo. Era venuto apposta dagli Stati Uniti per sfilare
in nome di Jerry Masslo.
Il contrappunto lo dava il silenzio di Villa Literno. Spettrale. Gli immigrati
scappavano certi che gli omicidi non si sarebbero fermati.
L’Italia iniziò a conoscere così l’immigrazione e il mercato dell’oro rosso. Bastava che aumentasse di pochi centesimi il costo del salario dei raccoglitori per
rendere fuori mercato i pomodori meridionali. Mille lire a cassetta riempita. Oggi circa tre euro e mezzo. La raccolta si regge sui braccianti africani e slavi, turni
pesanti, lunghi, a prezzi bassi. Villa Literno ha diecimila abitanti, in estate seimila in più. La piazza principale è la “piazza degli schiavi” perché è lì che si fa trovare chi vuole essere reclutato dai caporali.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN RICORDO DI RENATO NATALE
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
30
La copertina. 1989 - 2014
Le date
1989
1990
1991
1996
1997
1998
DOPO L’OMICIDIO DI MASSLO
PER LA PRIMA VOLTA
L’ITALIA SCENDE IN PIAZZA
CONTRO IL RAZZISMO
MARTELLI FIRMA LA PRIMA
LEGGE SULL’IMMIGRAZIONE.
LA LEGA IN ASCESA
ALIMENTA LA XENOFOBIA
LA FOTO DI UNA NAVE CARICA
DI MIGRANTI ALBANESI A BARI
SIMBOLEGGIA LA SINDROME
DA “INVASIONE”
NELLA NOTTE DI NATALE
LA PRIMA GRANDE STRAGE
DI MIGRANTI: NEL CANALE
DI SICILIA AFFOGANO IN 283
CANALE DI OTRANTO:
UNA MOTOVEDETTA ITALIANA
SPERONA LA KATER I RADES
PIENA DI MIGRANTI ALBANESI
VARATA LA LEGGE TURCONAPOLITANO: NASCONO
I “CENTRI DI PERMANENZA
TEMPORANEA”
<SEGUE DALLA COPERTINA
ROB ER T O SAV I ANO
E STORIE di quegli anni sono state rimosse, raccolte in una pubblicistica rada e quasi tutta accademica. Poche le eccezioni, tra cui i preziosi saggi di Giulio Di Luzio Non si fitta agli extracomunitari (Eir,
2014) e A un passo dal sogno (Besa Editore, 2006). Raccontano, anche, come l’arrivo dei braccianti stranieri iniziò a mettere in crisi il
meccanismo criminale. Per esempio raccontano del 4 dicembre
dell’86, di quando la camorra uccide Thomas Quaye e Gorge Anang.
Trucidati a Castel Volturno, i loro corpi vengono mostrati nel centro
del paese a mo’ di esempio: i due ragazzi — si diceva — avevano deciso di fumarsi una canna laddove questo era tollerato solo per i bianchi. Nell’agosto dell’87, sempre a Villa Literno, Fouad Khaimarouni,
muratore marocchino, viene lanciato nel vuoto dalla finestra di una
palazzina in costruzione dove aveva trovato riparo. Il 30 settembre 1988 il tanzaniano Juma Iddi Bayar viene ucciso a Mondragone: viveva in una proprietà di uomini vicini ai clan. Il
6 aprile 1989 Ben Alì Hassen, tunisino, ventisei anni, viene ammazzato a Casal di Principe:
è accusato dai clan di organizzare il reclutamento di immigrati. Il 3 giugno dell’89 a Cancello Arnone ammazzano il trentunenne Abderrhmann Meftah e il 18 il marocchino Baid Bouchaid a Casapesenna, accusato dal pensionato che gli spara di essere andato a vivere troppo vicino alla sua villa. Eppure gli stranieri arrivano perché i caporali al servizio dei grandi
gruppi conservieri offrono lavoro. Diventano una miniera anche per l’economia locale. Che
inizia a speculare. Le “cucce” in vecchi casolari abbandonati vengono loro affittate a prezzi
da hotel, e nelle rosticcerie i neri pagano il doppio mentre per loro nei bar ci sono solo bicchieri di plastica. Quelli portano le malattie.
Jerry Masslo viveva in una masseria abbandonata di Villa Literno quando il 25 agosto 1989
in quattro decidono di rapinare i salari dei braccianti. È un prelievo facile, che “balordi” non
camorristi e spesso figli della piccola borghesia locale ogni tanto fanno. Arrivano in motorino all’alba per trovare gli africani ancora intontiti, si mettono una calza in testa e armati urlano ai “negri” di consegnare i soldi. Un ragazzo sudanese prova ad avvertire gli altri di scappare, gli spaccano la testa con il calcio della pistola e gli rubano un milione e mezzo di lire che
teneva sotto il cuscino. Decine di ragazzi corrono verso le campagne. Jerry Masslo. Anche
lui corre, corre e inciampa ricordano i testimoni, cade quasi in ginocchio davanti ai rapinatori, alza le mani ma non consegna i soldi.
Parla in inglese, una sola domanda: «Why?»,
perché, e lo chiede ancora e ancora e
ancora. Troppe volte. Quattro
colpi lo colpiscono all’addome,
i rapinatori feriscono anche
L
LE FOTO
NEL SERVIZIO
DI LUIGI
CATERINO
VILLA LITERNO
OGGI: LA TOMBA
DI MASSLO
NEL CIMITERO,
LE “CUCCE”
PER GLI
STRANIERI,
I CAMPI
DI POMODORI.
IN COPERTINA
L’UNICO
RITRATTO
DI JERRY ESSAN
MASSLO
Roberto Saviano
ricorda Jerry Masslo
che qui venne ucciso
un 25 agosto all’alba
“Ecco perché
non va dimenticato”
un ragazzo keniota. Finiti i proiettili scappano
sui motorini. Jerry Masslo resta a terra.
La sua morte non passa inosservata come
quelle degli altri immigrati. Esiste un momento in cui il sangue si cumula, litri su litri, e
supera la linea di invisibilità dello sguardo.
L’Italia si accorge dell’immigrazione, più di
un milione di persone le cui condizioni di vita
sono ignorate. Masslo era un rifugiato politico
riconosciuto dall’Alto commissariato delle
Nazioni Unite. Era fuggito dal regime razzista
di Pretoria e riparato in Italia grazie all’intervento di Amnesty International che in un comunicato scriverà: «Jerry Essan Masslo è stato ucciso da alcuni bianchi che riteneva più accoglienti di quelli che aveva imparato a conoscere in Sudafrica». L’intera società civile
Ritorno
a
Villa Literno
la Repubblica
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
31
2002
2008
2010
2013
2014
2015
IL CENTRODESTRA VARA
LA BOSSI-FINI: INASPRITE
LE NORME PER INGRESSO
E SOGGIORNO IN ITALIA
CASTEL VOLTURNO:
LA CAMORRA UCCIDE
SEI RAGAZZI AFRICANI.
LA CLANDESTINITÀ È REATO
ROSARNO, FERITI ALCUNI
LAVORATORI STRANIERI.
BRACCIANTI IN RIVOLTA.
1° SCIOPERO DEI MIGRANTI
NAUFRAGIO A LAMPEDUSA,
ALMENO 366 MIGRANTI MORTI.
PARTE L’OPERAZIONE
MILITARE “MARE NOSTRUM”
L’ITALIA CHIEDE AIUTO
ALL’EUROPA PERCHÉ VENGA
AFFRONTATA INSIEME
LA QUESTIONE DEGLI SBARCHI
I “NUOVI ITALIANI” SONO
E SARANNO SEMPRE DI PIÙ:
SFONDATA ORMAI IN UN SOLO
ANNO QUOTA 100MILA
prende posizione, preti sindacalisti amministratori ministri tutti si sentono chiamati in
causa. L’indignazione porta alla legge Martelli che per la prima volta regolamenterà l’immigrazione ridefinendo lo status di rifugiato.
Masslo muore che aveva trentanove anni. Prima di arrivare a Villa Literno era stato ospitato a Roma, nella casa di accoglienza “La tenda
di Abramo”. Aveva partecipato alla sua inaugurazione alla presenza dell’arcivescovo Desmond Tutu. Aveva cantanto Cry Freedom,
inno contro l’apartheid. In Sudafrica aveva
perso il padre e un figlio, Jeremy, che aveva
sette anni, uccisi a Soweto durante una manifestazione. Fu allora che, con suo fratello, decise di scappare. La moglie e gli altri figli fuggono in Zambia. Loro si imbarcano a Cape
Town. Il fratello si ammala. Quando la nave fa
una sosta in Nigeria, Jerry scende per procurarsi i medicinali. Non lo fanno più risalire, resta lì, vende tutto ciò che ha. Un orologio, un
braccialetto d’oro, riesce a comprare un biglietto aereo per l’Italia. Quando atterra a
Fiumicino la polizia lo trattiene in aeroporto,
ci starà un mese, il tempo di riuscire a far valere la sua condizione di rifugiato politico. L’Italia doveva essere solo una tappa nel suo progetto di nuova vita. Il vero obiettivo è il Canada, certo che laggiù ci sarà pieno riconoscimento dei suoi diritti mentre l’Italia concede
l’asilo politico solo ai richiedenti dell’Est europeo. Per questo motivo il rifugiato Jerry Essan
Masslo non potrà cercare un lavoro regolare.
Ma potrà andare a raccogliere pomodori a Villa Literno per quattordici ore al giorno.
Venticinque anni sono passati. Non sembrano così tanti. La memoria dei sentimenti
dilata se stessa incurante della dimensione
temporale, vive in un continuo presente. Molte cose sono cambiate e molte sono rimaste
immobili. Le accuse generiche nei confronti
Il ragazzo fuggito dall’Africa
che ci fece aprire gli occhi
R E N A T O N A T A LE
L 25 agosto 1989, come ogni mattina, ascoltavo il giornale radio.
Appresi così la notizia di un giovane sudafricano, Jerry Essan
Masslo, ucciso nel corso di una rapina nelle campagne di Villa
Literno. Io ero segretario della sezione Pci e capogruppo in consiglio
comunale a Casal di Principe. Da qualche mese a livello locale si era
avviata una riflessione nel partito sul tema dell’immigrazione. Non tutti i
dirigenti sembravano avere piena coscienza del fenomeno. Quella morte
era la dimostrazione drammatica che non si poteva più perdere tempo in
chiacchiere. Ai funerali andai in rappresentanza della sezione ma anche
perché sentivo la responsabilità di quella morte: forse avremmo dovuto
fare di più. Ricordo la piazza antistante la chiesa stracolma. Rimasi ad
ascoltare fuori, un nodo alla gola. Mentre ascoltavo le parole del parroco,
che tentava solo di difendere l’onore della sua terra senza condannare
quell’azione violenta che aveva messo fine alla vita di un ragazzo, mi
ritornavano alla mente le parole di Masslo durante un’intervista di
qualche settimana prima, ritrasmesse dalla tv. Diceva di aver ritrovato
anche qui, nella civile Europa, il razzismo da cui era fuggito. Fu in quella
piazza che decisi che quel nome non doveva essere dimenticato.
Fondammo così l’Associazione Jerry Masslo. E fu un po’ come pagare un
debito.
L’autore oggi è sindaco di Casal di Principe.
(Testo raccolto da Raffaele Sardo)
I
© RIPRODUZIONE RISERVATA
degli immigrati sono le stesse di allora. Lo ius
soli è un miraggio. Migliaia di ragazzi nascono
in Italia, studiano in Italia, vivono formandosi come italiani e ancora non hanno passaporto italiano perché figli di stranieri. Eppure.
Nell’Italia del sud, cerniera tra Europa e Africa, i migranti arrivano là dove gli italiani abbandonano, costruiscono lavoro e mercato.
Portano diritti. Yvan Saignet, per esempio, ingegnere camerunense, raccoglitore di pomodori in Puglia: è riuscito a ottenere che in Italia venisse introdotto il reato di caporalato. Ed
è proprio dalla lotta contro razzismo e caporalato che al Sud sono nate le esperienze politiche migliori. L’impegno del vescovo Nogaro,
faro di saggezza nei momenti più duri della
storia del casertano. Renato Natale oggi sindaco a Casal di Principe. Dimitri Russo sindaco di Castel Volturno. Castel Volturno è la città
più africana d’occidente. Dovrebbe essere un
laboratorio prezioso, rischia di essere un ghetto dove anche gli amministratori perbene non
riusciranno, soli, a mutare il corso delle cose.
La storia di Masslo non va dimenticata non
solo per conservare il dolore per lo spreco di
una vita preziosa colma di forza. Ma per mostrare che il percorso iniziato è ancora lontano
da compiersi. I conflitti innescati dai flussi migratori sono naturali, innaturale è che in Italia non ci sia ancora una vera strada per stabilizzare la presenza migrante considerandola
una risorsa preziosa. Siamo ancora lontani
dall’avere un numero importante di imprenditori, medici, poliziotti, africani o di origine
africana in grado di nutrire un nuovo percorso di integrazione. L’unica strada per risolvere le contraddizioni è quella semplice da individuare e ardimentosissima da realizzare: il
riconoscimento dei diritti. E questo Jerry Essan Masslo lo aveva capito sino in fondo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
32
L’attualità. Match ball
Champagne, camicia griffata e quattro gemelli al seguito
Alla vigilia degli Us Open e dell’ennesima sfida con Djokovic
il campione svizzero si racconta: “Non sono un perfettino
Voglio solo che anche in campo l’eleganza prevalga sulla forza”
IL PROTAGONISTA
QUINO PETIT
ÉPERNAY (FRANCIA)
L SEI LUGLIO scorso il tennista serbo Novak Djokovic sollevava tra i singhiozzi lo
I
STAVO PASSEGGIANDO
CON I MIEI FIGLI
IN UN BOSCO SVIZZERO
QUANDO QUALCUNO
MI HA DETTO
CHE LA FINALE
DEGLI INTERNAZIONALI
DI ROMA L’AVEVA VINTA
DJOKOVIC.
GLI HO RISPOSTO: BENE.
PERCHÉ QUANDO
NON SONO IN CAMPO
SPENGO L’INTERRUTTORE
QUANDO SMETTERÒ
DI GIOCARE DEDICHERÒ
PIÙ TEMPO ALLE COSE
CHE NON HO POTUTO
FARE PRIMA
ANDARE A SCIARE,
PARTIRE PER UN WEEKEND
A SORPRESA CON MIA
MOGLIE. STARE DI PIÙ
CON I BAMBINI.
SONO QUESTE LE COSE
CHE FARÒ QUANDO ANDRÒ
IN PENSIONE
splendente trofeo da vincitore di Wimbledon e al microfono diceva, tra il serio
e il faceto: «Grazie per avermi permesso di vincere, oggi». Il destinatario del
messaggio, un sorridente Roger Federer, era a pochi metri da lui e teneva tra
le mani il trofeo del finalista. Indossava un completo bianco immacolato, quasi nessuna traccia di sudore, dopo ore estenuanti di gioco in cui aveva dato un’esibizione di classicismo che aveva costretto il suo avversario a giocare un combattutissimo quinto set nell’ultima finale del torneo di tennis più prestigioso
del mondo. «Per questo vanta diciassette vittorie nei tornei Grand Slam, e per
questo è stato il miglior giocatore di tutti i tempi», proseguiva Djokovic rendendo onore al suo avversario, sette volte vincitore di Wimbledon. Federer annuiva. Aveva appena dimostrato al mondo, con una sconfitta di stretta misura
all’ultimo set, perché a trentatré anni appena compiuti e dopo sedici da professionista, continua a essere uno dei re di questo sport. E probabilmente l’ultimo esponente dell’eleganza
nel tennis. Un ottimo modo per verificarlo di persona è stato recarmi nella località francese
di Épernay, che ospita le cantine del più famoso produttore di champagne, una marca di cui
Federer è l’ambasciatore. Il genio di Basilea si è presentato, dopo aver aperto lui stesso le
porte a specchi in stile Versailles che danno accesso a un maestoso salone della residenza
del Trianon, la palazzina fatta costruire da Jean-Rémy Moët, nipote del fondatore della casa Moët & Chandon. Fisico slanciato di un metro e ottantasei, è entrato in abito blu scuro
Dior e camicia Louis Vuitton bianca con pois bordeaux. I suoi modi da principe e la sua bonarietà sembrano confermare la qualifica attribuitagli tre anni fa da un sondaggio del Reputation Institute di “uomo che suscitava più fiducia” al mondo dopo Nelson Mandela.
Non si stanca di sembrare così perfetto?
«La cosa non mi tocca, io sono quello che
altissimo livello?
sono. La gente può pensare che io sia perfet«Mi sembra difficile. Non mi pare che queto, ma non lo sono affatto. Ho i miei proble- sto sport stia tornando a quello che era. Ogmi, faccio tanti sbagli, grazie ad essi imparo. gi tutti si muovono molto bene, battono con
Sono fiero di rappresentare bene il tennis e grande potenza... Forse accadrà tra vent’andi prestare la mia immagine a grandi mar- ni, ma non oggi».
chi. Se non mi divertissi a farlo, giuro che
Oltre ad essere il giocatore che ha intamollerei. A questo punto della mia vita, ho scato più soldi grazie ai titoli vinti (sessanta
bisogno di fare cose che mi piacciano davve- milioni di euro), Forbes ha stimato che i suoi
ro. È vero che sono educato e rispettoso, e cer- sponsor gli facciano guadagnare più di trenco di essere un esempio per i bambini. Ma se ta milioni di euro l’anno.
Nonostante la tentazione di continuare a
questo fa pensare che io finga o che sia pervivere solo dei proventi della sua immafetto, beh non è affatto così».
gine, lei è convinto di avere ancora molto
La nascita dei gemelli Leo e Lenny gli ha
da dire sul campo.
regalato altri pensieri, di recente. Ma allo
«Non vedo ancora la fine della mia carriestesso tempo Wimbledon gli ha ricordato l’avanzata di un nuovo stereotipo che cerca di ra. Ho dei figli, sono loro la mia priorità, ma
farsi largo in classifica. Raonic, Dimitrov, amo il tennis e spero di continuare ancora a
Kyrgios... Alti (oltre il metro e novanta), ro- lungo. Poi, chissà cosa accadrà fra uno, tre o
busti, una potenza nella battuta difficile da cinque anni? Non so quando andrò in pencontenere. Di fronte a questo cambiamento sione, ma vivo la cosa serenamente e spero
di continuare a giocare il
di paradigma e alla pressione dei giovani,
più a lungo possibile.
continua a brillare l’anzianità di Federer, atTutto dipende da come
tuale numero tre del mondo, il tennista che
ti senti fisicamente e
è rimasto numero uno della disciplina più a
mentalmente. Molti
lungo di tutti: 302 settimane. Il segreto del
si stancano, sono tensuo successo sta ancora nel suo impegno nel
tati di fare altro. Per
mantenere la forza della battuta e nel dome l’importante è risare i passi per avanzare come una gazzella a rete, dimostrando chi comanda sul
campo e imponendo il suo gioco di alta
precisione che cerca l’avversario in contropiede con colpi vincenti e angoli impossibili di estrema bellezza, sia se eseguito con il suo diritto implacabile che
con il suo rovescio. Colpi che David Foster Wallace, in un articolo del 2006,
considerava così sublimi che nel vederli “rimani a bocca aperta e con gli
occhi spalancati e cominci a fare dei
rumori tanto che tua moglie viene di
corsa dalla stanza accanto per vedere
se stai bene”. Li definiva i “momenti
Federer”.
Si sente l’ultimo esponente dell’eleganza nel mondo del tennis?
«Non direi. Ma è vero che guardandomi indietro, a quello che era questo sport
cinquanta o venticinque anni fa, quando arrivai a giocare contro Sampras, mi sento più
vicino a quelli che giocavano in un modo molto classico. Oggi sono tutti ugualmente forti. Nella battuta, a rete, da fondo campo, nei
movimenti... Il tennis è diventato uno sport
più di movimento che di tiri e di talento. È più
il lavoro che la bravura che ti porta al vertice
oggi. In questo senso, mi trovo svantaggiato
rispetto allo stile attuale. Ho dovuto correggere molte cose nella mia carriera,
ma sono fiero di averlo fatto in un
modo che mi ha permesso di
mantenere la mia eleganza».
Pensa che questo modo
di giocare che lei rappresenta si tornerà a vedere ad
NATO A BASILEA,
33 ANNI,
ROGER FEDERER
HA DEDICATO
LA SUA VITA
AL TENNIS:
APPRODATO AL
PROFESSIONISMO
A 17 ANNI
NON ANCORA
COMPIUTI,
HA VINTO
DICIASSETTE
TORNEI GRAND
SLAM.
ED È RIMASTO
IL NUMERO
UNO AL MONDO
PER 302 SETTIMANE:
UN TEMPO
RECORD CHE FA
DI LUI IL TENNISTA
PIÙ GRANDE
DI SEMPRE.
NELLE FOTOGRAFIE
PICCOLE
A SINISTRA
FEDERER
CON IL SUO
ETERNO RIVALE
DJOKOVIC
E, IN BASSO,
CON LA MOGLIE
MIRKA
E I DUE
GEMELLINI
APPENA NATI
manere il più a lungo possibile vincente sul
campo e continuare a divertirmi nel farlo; finora, lo sforzo vale ancora la pena. Amo questo gioco, e amo vincere. Oggi più che mai
posso scegliere i tornei che voglio, non mi
sento in dovere di partecipare a quelli dove
non mi va di andare. È tutto più rilassato. Così voglio giocare: senza la sensazione di doverlo fare».
Una questione di principio che la conduce
al punto di vantarsi di non guardare più le
partite di un torneo, quando viene eliminato.
«Durante la finale degli ultimi Internazionali d’Italia a Roma stavo passeggiando con
i miei figli in un bosco svizzero. Qualcuno mi
ha detto: “Ha vinto Djokovic”. E io ho risposto: “Bene, bene”. Non mi suscita niente,
nessuna sensazione. Mentre partecipo a un
torneo, vedo tutte le partite. Studio i miei rivali, il terreno di gioco, il clima... Tutti gli elementi che contano. Ma quando la mia partecipazione a un campionato giunge al termine, spengo l’interruttore. Smetto di vedere
le partite. Non mi interessa chi arriva alla finale, né chi la vince».
Sua moglie, Mirka Vavrinec, è stata una
tennista come lui e, dopo essersi ritirata per
un infortunio al piede, è diventata la sua ferrea rappresentante. Le sue figlie gemelle,
Myla Rose e Charlene Riva, stanno per compiere cinque anni e hanno da poco avuto dei
fratellini, gemelli anche loro, Leo e Lenny.
Cosa vede oggi, quando si guarda allo
specchio?
«Semplice: un giocatore di tennis professionista, un marito, il padre di quattro figli».
E chi vuole essere dopo il tennis?
«Un uomo dedito alla famiglia. Come lo
sono adesso, ma forse dopo potrò godere
di più momenti intimi con le persone a me
più care, in Svizzera. E voglio dedicare
più tempo a cose che non ho potuto fare.
Oggi il più delle volte non posso decidere
se voglio andare a sciare o partire per un
weekend a sorpresa con mia moglie. O
trascorrere una serata romantica con
lei. Forse questo è il tipo di cose che
spero di poter fare quando andrò
in pensione».
© El Pais
(traduzione
di Luis E. Moriones)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Federer
Sono io
il bello
la Repubblica
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
33
Quello che
i biografi
non dicono
GIANNI CLERICI
FOTO © PETER HAPAK/TRUNK/CONTRASTO
UANDO UNO DEI TRE maggiori editori italiani mi
del tennis
Q
propose di scrivere una biografia di Federer,
rimasi in forse per non più di trenta secondi. Lo
stesso mi era accaduto con Pelè, ai tempi in cui
sciaguratamente mi occupavo di calcio, e con
Pietrangeli, uno dei modelli della religione detta tennis.
Sospetto che le migliori biografie vadano dedicate ai defunti. Se
si parla con il biografato, entrano in gioco altri elementi
disadatti all’oggettività: simpatia o antipatia, umano rispetto
per l’intimità, comprensione dei difetti, o eccesso di
ammirazione per l’attività del “personaggio”, molto raramente
simile alla “persona”.
Così, per comporre qualcosa che riguardasse Federer, non mi
sono limitato a tutte le partite in cui, a partire dal Torneo di
Milano 2001, Roger mi aveva incantato con i suoi gesti sublimi,
non meno sublimi di un Nurejev o, per rimanere nel tennis, di
un Hoad o di un Laver, che hanno vinto molto meno di Federer
soltanto perché, ai loro tempi, ancora vigeva la distinzione di
casta tra i signori dilettanti, che giocavano a Wimbledon, e i
professionisti, che intascavano quattro dollari. Sono invece
salito sullo sgabello della mia libreria, e ne ho tratto sei libri
scritti su Federer. Di queste biografie avevo chiesto una volta a
Roger, con cui non ho mai avuto l’onore di conversare, al di
fuori delle pubbliche conferenze stampa, sempre in inglese, la
lingua di sua mamma sudafricana. E Federer mi aveva risposto,
a proposito di una di esse: «Più che leggerla, l’ho sfogliata. Non
ho molto tempo». Simile risposta mi aveva causato qualche
dubbio. Capivo che non si può più essere un campione se non si
inizia ad allenarsi intorno ai quattro anni, e si continua, poi, dai
dieci, a restare in campo cinque o sei ore al giorno. Mi dicevo
tuttavia, delle due l’una: o la biografia doveva essere infedele o
mal scritta, oppure la lettura non faceva parte delle abitudini
del campione.
La biografia, del 2004, era stata scritta da un mio collega e
amico, Roger Jaunin, del Journal de Genève che, per la verità,
più che i tennisti ama i cavalli. Ma Roger è un buon giornalista,
e la sua biografia meritava quantomeno un cenno, era
preceduta da prefazione di Marc Rosset, l’unico tennista
svizzero segnalatosi nella storia prima di Federer con la vittoria
alle Olimpiadi di Barcellona; dalla quale si apprendeva che, non
fosse stato tennista e fin troppo dedito alla playstation, Roger
sarebbe divenuto un buonissimo sciatore, guarda caso per uno
svizzero. Dal libro, venivo a sapere che Roger sarebbe stato
anche un ottimo diplomatico: «Devo sempre dare di me
l’immagine di qualcuno dabbene», affermava infatti dopo la
vittoria a Wimbledon del 2003. La seconda delle biografie
sarebbe stata composta da René Stauffer, altro amico del
Tages-Anzeiger, intitolata in Germania Il Genio del Tennis,
e tradotta in inglese, come tutti i libri di interesse mondiale.
Dalle ben 252 pagine emerge nuovamente un aspetto, diciamo
così, “ufficiale”, nel quale ammiriamo Roger nella sua attività di
ambasciatore dell’Unicef, ma non solo tale. Infatti, sua mamma
Linette diceva: «Il primato ha fatto di mio figlio un
perfezionista. Prima non prendeva niente sul serio e era
sempre in ritardo. Ora prende il suo ruolo con molta serietà».
Ma passiamo a Federer come esperienza religiosa, scritto dal
famoso David Foster Wallace dopo ben una settimana passata a
Wimbledon nel 2006. «Ci sono ben tre spiegazioni valide per
l’ascesa di Federer», ci dice il Grande Scrittore mentre noi
attendiamo in ginocchio. «La prima ha a che vedere col mistero
e la metafisica, ed è, a mio avviso, la più vicina alla realtà. Le
altre sono più tecniche, e funzionano meglio come
giornalismo». Ricordo di essermi permesso di chiedere a quel
Maestro se, dopo aver visto 50 volte il torneo di Wimbledon e
scritto 20 libri, potessi ritenermi in grado di accedere
all’illuminazione. Non capì.
Non meno misterioso I silenzi di Federer, del francese André
Scala che, a proposito del Nostro Eroe, cita addirittura Epitteto.
«I bravi giocatori di palla, come gli attori e i saggi, giungono a
fare questa cosa difficilissima: porre un’attenzione immensa in
ciò che non dà pensiero, ciò che è indifferente». Mi pare a
questo punto di poter sorvolare su altri due immortali testi:
Quello che imparo da Federer, di Marc Aebersold, e Comment
j’ai couché avec Roger Federer? (che in italiano suona “Come
sono finito a letto con Federer?”) di Philippe Roi. Temo che, da
tutto quanto ho scritto, non emergano maggiori informazioni
private sulla natura di un grande campione, e continuo a
ritenere agiografie quelle che sono spacciate per biografie.
Federer, chi sarà costui?
© RIPRODUZIONE RISERVATA
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
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La storia. Niente squali
MARE
MONSTRUM
Draghi & Co., la paura dell’ignoto prima di Google Maps
D A NI E L E CA STE L L A NI P E RE L L I
IÙ DI CINQUECENTO anni prima di Google Maps, strani e affascinanti mostri marini popolavano le mappe dei più autorevoli
cartografi d’Occidente. Draghi, pesci-leoni, conigli marini. O il
leggendario kraken, mega calamaro groenlandese che appare
anche nella strabiliante mappa dell’Islanda del fiammingo
Abraham Ortelius. Oppure quel simpatico maialino marino
della Descriptione dela Puglia di Giacomo Gastaldi. Per noi gli
oceani non hanno quasi più segreti, al punto che grazie a Google Maps Ocean possiamo “passeggiare” in sei fondali marini.
Ma allora vi si continuavano a vedere mostri di ogni tipo. «Anche se quei disegni possono sembrarci bizzarri, in molti casi si
fondavano su informazioni che si credevano affidabili, scientifiche, come le enciclopedie illustrate. Insomma, i cartografi dipingevano animali che allora si credevano realmente esistenti», ci racconta lo studioso Chet Van Duzer, che ora fa
rivivere quelle creature degne di Bosch in un volume illustrato pubblicato dalla British Library, Sea Monsters on Medieval and Renaissance Maps, una raccolta di mappe geografiche che vanno dal decimo al sedicesimo secolo.
Il confine tra realtà, mito e sentito dire era allora assai labile. Anzitutto c’erano da rispettare le tradizioni, bibliche e non. Se ne sente l’eco in quelle illustrazioni che dipingono un uomo nel ventre di una bestia marina, reminiscenza del racconto di Giona. O in quelle che si rifanno alla storia dell’aspidoceleon, una balena enorme, con il guscio simile a
quello di una tartaruga, che viene scambiata per un’isola e fa affondare la barca quando i
marinai vi accendono un fuoco per cucinare: a lungo si ritenne che il primo a imbattervisi
fosse stato San Brendano di Clonfert, abate irlandese del VI secolo detto il Viaggiatore.
In fondo, per Sant’Agostino e Isidoro di Siviglia i mostri erano anch’essi parte del piano
P
LA MAPPA
DISEGNATA DA ORTELIUS,
GRANDE CARTOGRAFO FIAMMINGO
DEL ’500, VIENE CONSIDERATA
UNA DELLE PIÙ BELLE DI TUTTI
I TEMPI. RAPPRESENTA L’ISLANDA
CIRCONDATA DA MOSTRI MARINI:
MANTE, LEONI MARINI, BALENE
E TRICHECHI. È TRATTA DAL VOLUME
“SEA MONSTERS ON MEDIEVAL
AND RENAISSANCE MAPS”
(BRITISH LIBRARY)
la Repubblica
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
di Dio, ed erano particolarmente atti ad ammonire dai pericoli del peccato. Molti di quegli
esseri, poi, erano stati descritti dai grandi classici, come Plinio il Vecchio, secondo il quale tutto ciò che la Natura aveva creato sulla Terra l’aveva creato anche nel
mare (da cui i cavalli e i leoni marini, mentre sono usciti nel frattempo dal catalogo i maiali e le lepri, e quei topolini di mare che, per Plinio, indicavano la via alle balene, ostruite agli occhi da folte sopracciglia). Chi erano i cartografi per discutere simili autorità? Altre volte i disegni erano il frutto delle deformazioni dei racconti dei marinai. È una specie di pesce sega, ad esempio, quello che taglia in due le navi nel manoscritto
Gerona Beatus del 975. I “testimoni” non erano allora
le telecamere itineranti di Google Street View ma, oltre ai marinai, i viaggiatori come Marco Polo, i pellegrini, persino Francesco Petrarca, citato per la descrizione di una remora. Van Duzer spiega che quelle bestie erano disegnate sulle mappe sia perché ci si credeva veramente, e sia perché era un modo per segnalare i pericoli ai marinai (si scopre così che l’Oceano Indiano era il più temuto). Ma potevano esserci anche
ragioni economiche: illustrazioni particolarmente immaginifiche potevano infatti alzare il prezzo della
mappa, e dunque il compenso dell’autore.
Così vedevano il mondo nel Medioevo e nel Rinascimento, quando non tutto era noto. Era un globo però in
rapido mutamento, come confermano le due mappe,
del 1507 e del 1516, con cui Martin Waldseemüller,
cartografo tedesco, diede agli europei una nuova visione del mondo rivelato di recente dai navigatori.
Quella del 1507 è la prima a mostrare, separata dall’Asia, l’“America” (così etichettata per la prima volta). Nella seconda compare invece, sotto l’Africa, una
bestia tranquillamente cavalcata da re Manuele I del
Portogallo, che stava diventando il padrone del traffico marittimo dall’Africa alle Indie.
Van Duzer fa parte di una ristretta cerchia di studiosi
mondiali che su riviste specializzate discetta di mappe
antiche. Un altro, Joseph Nigg, ha pubblicato un libro
simile in questi stessi mesi, per la University of Chicago Press, concentrandosi però solo su una carta, quella della Scandinavia e dell’Islanda prodotta tra il 1527
e il 1539 da Olaus Magnus. Californiano di 47 anni, Van
Duzer è stato anche cartografo alla Biblioteca del Con-
gresso americano, a Washington. La sua passione per
le mappe antiche è nata a Roma, ai Musei Vaticani, e
quella per i mostri marini alla Biblioteca nazionale spagnola di Madrid, dove se ne trovò di fronte 476 su un
manoscritto rinascimentale italiano della Geografia di
Tolomeo, il famoso matematico vissuto ad Alessandria
d’Egitto nel II secolo d. C. L’Italia e i suoi cartografi rivestono un ruolo centrale in questa storia: «Nel Medioevo esistevano tre tipi principali di mappa, ovvero i
generici mappae mundi, le carte nautiche e quelle che
comparivano nei manoscritti della Geografia di Tolomeo. Molti degli ultimi due tipi vennero prodotti nel vostro Paese».
Era nato nel 1530 a Castiglion Fiorentino, ad esempio, uno dei più grandi innovatori del settore, ovvero
Tommaso Porcacchi, che a Venezia nel 1572 pubblicò
L’isole più famose del mondo, un volume che oggi si
può sfogliare su Google Books, e dove si legge ad esempio la “descrittione dell’isola Iamaica, ora detta di S. Iacopo”, che “ha nel mezo un monte, ma tanto piacevole, che chi lo sale non par punto che salga”.
La vera svolta si ha nella seconda metà del sedicesimo secolo, quando appaiono mostri totalmente inventati. In altre parole, iniziano ad avere una funzione meramente decorativa sulle mappe. Nel diciassettesimo
i ritratti dei giganti del mare si fanno sempre più realistici, l’uomo sta imparando a dominare le acque e le loro bestie, che infatti pian piano escono di scena. Ma allora perché, da Moby Dick a Jules Verne a Pinocchio, da
Godzilla a Cloverfield e fino ai Pirati dei Caraibi, i mostri marini hanno continuato a popolare il nostro immaginario? «Sono l’incarnazione della nostra paura
dell’ignoto. E a dirla tutta non abbiamo del tutto smesso di crederci davvero», risponde Van Duzer: «Basta
pensare a quello di Loch Ness, in Scozia, oppure a
Tahoe Tessie, che abiterebbe il lago Tahoe tra California e Nevada».
Nelle mappe medievali comparivano anche mostri
irreali come i dumbo octopuses, i granchi yeti, le aragoste cieche e i gamberetti fantasma… Anzi no, pardon, questi ultimi quattro esistono davvero, e sono stati scoperti nell’ultimo decennio dalla rete internazionale Census of Marine Life. Aggiornate le mappe, please. I mostri marini sono ancora tra noi.
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35
Nessun
kraken
è un’isola
MICHELE MARI
EL Manuale di zoologia fantastica,
scritto in collaborazione con
Margarita Guerrero, Borges inventò
solo pochi animali: perlopiù attinse ai
favolosi bestiari della tradizione
classica e medioevale, e alle opere di due autori
insospettabili come il vescovo svedese Olao Magno
e il vescovo danese Erik Pontoppidan. Dall’alto
della loro autorità i due prelati autorizzarono
numerose dicerie popolari trasmettendo il brivido
della teratologia agli ambienti accademici: il primo
con una Historia de gentibus septentrionalibus
(1555) traboccante di mostri marini, il secondo
con una ponderosa Storia naturale della Norvegia
(1753-69), nei cui volumi il discorso torna più
volte, quasi ossessivamente, sul leggendario
kraken, le cui dimensioni e la cui subdola
immobilità sarebbero state responsabili
dell’individuazione di isole inesistenti. Se nella
cartografia antica subito sotto le cose del
Nordafrica c’era scritto “Hic sunt leones”,
all’altezza dell’Islanda e della Scandinavia
incominciava la terra dei mostri, preferibilmente
marini. Ma a differenza dei mostri biblici e di quelli
classici, con i quali Dio o gli Dei puniscono i reprobi
o cimentano gli scettici (dal leviatano al pesce di
Giona, dal drago di Andromeda alle sirene di
Ulisse), i mostri del nord sono laici, e
appartenendo al clima e al paesaggio, esprimono
la normalità delle cose. Questa fisiologica
continuità con lo spazio e nello spazio è
testimoniata dalla grande quantità di mostri
marini che popolano le mappe rinascimentali e
barocche; in molti casi l’archetipo grafico di queste
figure è una delle magnifiche xilografie con cui
Ulisse Aldrovandi illustrò la propria Monstrorum
Historia, pubblicata postuma nel 1642. Stilizzato e
dunque esorcizzato, il mostro diventa un fregio
grazioso al pari di una rosa dei venti o di una
cornucopia, e ci vorrà molto tempo perché
riacquisti il suo originario potere di perturbare.
Paradossalmente questo avverrà solo quando la
moderna cartografia, escludendo i mostri dal
proprio orizzonte, avrà restituito loro la libertà. A
pronunciare parole decisive sulle gigantesche e
micidiali creature dei mari, allora, non saranno più
i teologi e i naturalisti, ma i romanzieri come
Melville, che non a caso, nei capitoli 55-57 di Moby
Dick, esercitò un certo sarcasmo sulle
raffigurazioni tradizionali dei capodogli, troppo
spaventosi in essenza per aver bisogno di
decorazioni.
N
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
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Spettacoli.Leitmotiv
Gli interpreti
Mai titolo fu più profetico: “They Didn’t Believe Me”
Jerome Kern la compose esattamente cent’anni fa
e nessuno credeva che avrebbe rivoluzionato la musica
1915 - OLIVE KLINE
La soprano insieme
al tenore Harry Macdonough
canta la versione più antica
di “They Didn’t Believe Me”
1930 - CORINNE GRIFFITH
ANGELO AQUARO
Il debutto sul grande schermo
del brano: a cantarlo è l’attrice
statunitense Corinne Griffith
con il suo partner Grant Withers
nel film “Back Pay”
L
1949 - MARIO LANZA
L’italoamericano la interpreta
in forma di serenata nel musical
“That Midnight Kiss”. Nello stesso
anno, Harry Belafonte incide
una versione coi ricchi
arrangiamenti di Pete Rugolo
1951 - FRANK SINATRA
Anche lui, classe 1915, interpretò
il brano di Kern
Un matrimonio perfetto,
quello fra The Voice e The Song,
nati a un solo anno di distanza
told them how beautiful you are / They
didn’t believe me. They didn’t believe
me!”. “E quando raccontavo quant’eri bella / Non mi volevano credere: non mi volevano credere!”. Risultato: «Cole Porter,
George Gerswhin e Richard Rodgers si innamorarono così tanto di quel sound che
per le loro composizioni usarono lo stesso
format: abbandonando per sempre il modello dell’operetta europea».
Insomma uno straordinario successo
(postumo). E segnato — come si conviene
a tutti i successi pop che da qui in poi verranno — anche dalla prima parodia. Perché proprio quella canzone, nata sui palcoscenici di Broadway mentre l’Europa
affondava nella Prima guerra mondiale,
diventò l’inno non ufficiale degli yankees
che nel 1917 avevano finalmente invaso le
trincee continentali, rompendo la splendid isolation dell’America. Proprio così: a
tre anni dal debutto a Broadway They
Didn’t Believe Me era diventata così famosa da dare vita a una versione — oggi diremmo pirata — che sostituiva i versi della lovestory della Ragazza dello Utah con
le confessioni degli imboscati americani:
quelli che invece del fuoco delle trincee si
erano fermati a respirare il più inebriante
fumo dei caffè di Parigi. “And when they
ask us how dangerous it was / We never
will tell them, we never will tell them”. “E
L
zo
a
n
c
a
che inventò il pop spuntò
quasi per caso, giusto cent’anni fa, nascosta in un polpettone di Broadway
che sui giornali dell’epoca si meritò
soltanto poche righe in cronaca.
Quando dici il destino nel nome, anzi
nel titolo: They Didn’t Believe Me — Non
mi volevano credere. Infatti.
Il primo a non volerci credere fu il New
York Times, pronto a stroncare quel musical importato dal West End londinese, The
Girl From Utah, senza neppure menzionare la canzone che il giovane Jerome Kern,
il figlio di un immigrato ebreo venditore di
strumenti musicali, aveva aggiunto per
far digerire meglio la commediola inglese
al pubblico americano. Per carità: il mondo, e pure il New York Times, avevano ben
altre priorità all’indomani di quel debutto
al Knickerbocker Theatre, 38esima strada
e Broadway. “I tedeschi prendono Namur
e invadono la Francia: le truppe alleate respinte dietro i nuovi confini”: così titolava
la mattina del 25 agosto 1914 il giornale
del mitico Adolph Ochs, l’inventore del
motto “Tutte le notizie che meritano di essere stampate”: tutte — evidentemente —
meno una.
«Nessuno aveva mai composto una canzone in quello stile», scrive Wilfrid Sheed
in The House that George Built. «E all’improvviso eccola qui, rilassata e sincopata:
ottimisticamente intrisa di americanissimo jazz». George Gershwin non ha neppure sedici anni ma appena la sente giura che
un giorno scriverà così: e per farsi l’orecchio si impiega come aiuto-pianista di
Kern a Broadway. Lloyd George due anni
dopo diventerà premier d’Inghilterra ma
per ora — ricorda David Lehman in A Fine
Romance — si inchina di fronte all’americanissima melodia: «La più accattivante e
sublime mai ascoltata». Sarà Mel Tormé,
l’autore dell’indimenticabile Merry Christmas, a tagliare più che corto: «L’American Song nasce con They Didn’t Believe
Me». E quanti padrini dopo il battesimo.
Frank Sinatra e Mario Lanza, Ella Fitzgerald e Dean Martin, Charlie Parker e Chet
Baker, Elvis Costello e Dinah Washington:
la canzone che vanta innumerevoli tentativi (riuscitissimi) di interpretazione. Ma
allora com’è possibile che all’inizio fu letteralmente ignorata?
Spiega a Repubblica Thomas Hischak,
autore dell’Enciclopedia di Jerome Kern e
grande studioso del musical, che a quei
tempi Broadway era ancora legata a filo
doppio alla tradizione musicale europea,
gli show infarciti di melodie rubate alle
operette viennesi, Vedove Allegre e Paesi
dei Campanelli: «Ritmo di valzer e note
lunghe e sostenute. Testi poeticamente
formali e vocali sempre più aperte per
permettere al cantante di turno di allungarsi tra gli applausi». Arriva Kern e con
una canzone cambia tutto. «Sì, i critici la
ignorarono: ma proprio perché non rientrava negli standard dell’epoca. Piacque
invece al pubblico. E fu un successo lento e
travolgente». Vende più di due milioni di
“sheet music”: un record per quell’epoca
in cui la radio era ancora soprammobile
per ricchi e l’hit parade la decretavano appunto gli spartiti per il pianoforte di casa.
«I più giovani realizzarono che le canzoni
non avevano più bisogno di essere altisonanti e forzatamente poetiche: potevano
invece essere più casual senza perdere di
romanticismo». Già, casual: “And when I
A CANZONE
ne
1952 - PARKER & BAKER
Il sassofono di Charlie Parker,
la tromba di Chet Baker: metalli
preziosi e un duetto d’eccezione,
a inaugurare una versione “bop”
della canzone
che
1956 - DINAH WASHINGTON
Ancora jazz, ma con un timbro unico:
la voce black di Dinah Washington
si impossessa del brano di Kern
per poi restituirlo in una versione unica
Ritmi latineggianti, mood travolgente
Ed è subito classico
la Repubblica
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
2005 - ELVIS COSTELLO
Tra i 100 più grandi artisti di tutti
i tempi secondo Rolling Stone:
anche lui non resiste al fascino
della “canzone che inventò il pop”
37
Lasciò indifferenti i critici ma fece innamorare il pubblico
E così di lì in poia cantarla saranno i più grandi: da Sinatra
a Chet Baker, da Barbra Streisand a Elvis Costello
1989 - GLENN CLOSE
tò
i
l po p
Nella Hollywood Walk of Fame
c’è una stella per Glenn Close
Ma le sue interpretazioni
non comprendono solo film
e teatro. Per la canzone del secolo
Glenn accetta di cantare
v
in
n
e
1964 - OSCAR PETERSON
La canzone prende quasi il volo,
con i tocchi rapidi e intensi
del “maharaja” del piano: così Duke
Ellington chiamava Oscar Peterson,
canadese, pianista jazz tra i più grandi
1963 - MARVIN GAYE
I ’60 sono gli anni delle hit,
per la casa discografica Motown:
merito anche del talento
di Marvin Gaye. Anche per lui
l’interpretazione del classico
è una tappa quasi obbligata
They Didn’t
Believe Me
1966 - BARBRA STREISAND
Una canzone eclettica almeno
quanto lei: l’icona pop registra
l’album Color Me Barbra
Tra le tracce immancabili,
la canzone di Kern
And when I told them
how beautiful you are,
They didn’t believe me
They didn’t believe me!
Your lips, your eyes,
your cheeks, your hair,
Are in a class
beyond compare,
You’re the loviest girl
that one could see!
And when I tell them,
And I cert’nly am goin’
to tell them,
That I’m the man whose
wife one day you’ll be
They’ll never believe me
They’ll never believe m.
That from this great
big world
you’ve chosen me!
1965 - DEAN MARTIN
Sulle tv d’America va in onda
il suo show. Sigaretta
in mano, sorriso beffardo e fazzoletto
rosso nel taschino: è lui a rispolverare
il tormentone in versione giocosa
quando ci chiederanno quant’era pericoloso/non lo diremo mai, non lo diremo
mai”. “There was a front, but damned if we
knew where ”: “Un fronte c’era: ma chi diavolo sapeva dov’era?”.
La canzone fu rititolata War Song e mezzo secolo dopo finirà pure in Oh! Che bella
Guerra, il film antimilitarista di Richard
Attenborough con Dick Bogarde e Vanessa Redgrave. E quel testo irriverente era
firmato indovinate da chi? Da un giovanotto arruolatosi nella Legione Straniera
e di stanza in Francia: che di nome faceva
Cole Porter.
Sì, la canzone che inventò il pop spuntò
quasi per caso: ma quanta strada da allora.
E il suo autore? Ancora una volta quasi per
caso, quarant’anni dopo lo sfortunato debutto, il mondo scoprì che quell’uomo crollato sul marciapiede davanti al 450 di Park
Avenue, nel cuore di New York, colpito da
un’emorragia cerebrale mentre curiosava
in un negozio di antiquariato, era proprio
lui: Jerome Kern. L’anziano signore non
aveva con sé documenti d’identità: soltanto la tessera dell’Ascap, il sindacato dei
compositori. Dal City Hospital di Welfare
Island qualcuno chiamò gli uffici dell’associazione, al centralino gli passarono il
funzionario di turno e un certo Oscar Hammerstein, di professione paroliere, si precipitò in ospedale: per scoprire che quel po-
ONLINE
Oggi su Repubblica.it è possibile
ascoltare alcune delle versioni
di They Didn’t Believe Me
veretto spacciato era il genio con cui lui
stesso aveva scritto Ol’Man River.
Era l’11 novembre del 1945, un’altra
guerra mondiale era appena finita, e questa volta il New York Times non mancò di
celebrare “uno dei più famosi compositori
d’America”, l’autore di “melodie che sgorgavano dalla sua tastiera con una regolarità che era l’invidia e lo stupore dei suoi
contemporanei”, Smoke Gets In Your
Eyes, The Last Time I Saw Paris, All The
Things You Are. Sulla sua tomba al Ferncliff Cemetery di Hartdsale, New York, dove già riposava Béla Bartók e verrà un giorno cremato John Lennon, la moglie fece
scrivere solo il nome e gli anni di nascita e
morte, 1885-1945. Risparmiandoci l’epigrafe che l’autore della canzone che inventò il pop — vendetta benedetta vendetta — avrebbe potuto benissimo sbandierare: “They Didn’t Believe Me”. No, non
gli avevano proprio voluto credere.
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Next. Pronti via
Robolympics
h1.86
BAXTER
PR2
WALK-MAN
SHAFT
K6
ROBO SIMIAN
h 190 cm
Willow Garage
h 165 cm
Istituto Italiano di Tecnologia
h 170 cm
Google
h 146 cm
Kuka
h203 cm (max estensione)
Nasa - Jpl
h 120 - 170 cm
Progettato
per un’elevata facilità
di programmazione
e flessibilità. Rivolto
ai piccoli produttori
PR sta per Personal
Robot. Si tratta
di un androide ancora
sperimentale e per lo più
destinato ai laboratori
Un robot umanoide
in grado di intervenire
In disastri ambientali
e incidenti al posto
dell’uomo
Il robot vincitore della
Drc, le cui prestazioni
beneficiano della lunga
esperienza giapponese
con i robot umanoidi
Un robot industriale
molto diffuso, ideale
per la concezione
di impianti a basso costo
e di ingombro ridotto
Sperimentale con arti
multifunzione composti
da segmenti identici
Progettato per missioni
di ricerca e soccorso
Rethink Robotics
Le discipline
LE PRINCIPALI ABILITÀ RICHIESTE
AI ROBOT PER ACCEDERE
AL DARPA CHALLENGE
E A ALTRE SFIDE INTERNAZIONALI
GUIDA
DI UN VEICOLO
SUPERAMENTO
OSTACOLI
RIMOZIONE
OSTACOLI
APERTURA
PORTA
RICCARDO LUNA
E SIETE fra coloro che vedono l’avanzata dei robot nelle
nostre vite — e nel mondo del lavoro — come una sciagura inevitabile, questa storia non fa per voi. Nel 2020
a Tokyo, proprio durante i Giochi Olimpici che tornano
in Giappone dopo cinquantasei anni, si faranno anche
le Olimpiadi dei robot. In stadi diversi, almeno. Infatti
non siamo ancora al punto di far gareggiare umani e robot assieme, ma già la contemporaneità dei due eventi
sarà altamente simbolica. E non poteva non accadere
nel paese che più di tutti gli altri vive da sempre una autentica fascinazione per la robotica: a partire dai cartoni animati per bambini (nel 2019 sarà realizzato un robot di 18 metri di altezza a immagine e somiglianza del celebre Gundam, protagonista della serie tv che compirà quarant’anni); per finire con le “badanti
elettroniche” (non solo per anziani: sulla Stazione spaziale internazionale nell’agosto scorso è arrivato Kirobo, il robot della speranza, un simpatico umanoide parlante di 34 centimetri creato — in definitiva — per far compagnia agli
astronauti). Il premier Shinzo Abe ne fa una questione di orgoglio nazionale ma
soprattutto di crescita economica: «Triplicheremo il mercato!» ha detto qualche settimana fa visitando una fabbrica a Saitama dove ha annunciato le RobOlimpiadi, subito dopo aver personalmente provato il famoso letto della Panasonic che con un semplice comando vocale si trasforma in una sedia a rotelle.
Facendo due conti, i cronisti nipponici hanno tradotto l’obiettivo del capo del
governo in un fatturato di 2,4 trilioni di yen (circa venti miliardi di euro): altro
che medaglie d’oro.
Di gare di robot se ne fanno già molte nel
mondo ma nessuna con il fascino di una
Olimpiade. La più importante è il Drc, Darpa Robotic Challenge, promosso dall’Agenzia americana che si occupa di sviluppare
progetti speciali e innovativi per il Pentagono, un fatto che la dice lunga sugli interessi del mondo militare verso le
prestazioni dei robot. Il primo
round, con un milione di dollari in
palio al vincitore, si è svolto lo
scorso dicembre: diciassette
S
team da tutto il mondo si sono dati appuntamento dalle parti di Miami, in
Florida, per sfidarsi in discipline come “salire le scale”, “aprire una porta”, “guidare una jeep”, “fare un buco
nel muro”, “spegnere un incendio” e
simili. Dopo due giorni di gare — definite “mozzafiato” per il pubblico presente — ha vinto Schaft, un umanoide di 146 centimetri di altezza realizzato — vi sorprende? — in Giappone.
Ma la vera notizia si è saputa qualche
giorno dopo quando Google ha annunciato di aver comprato in un colpo
solo otto dei team finalisti, compreso
Schaft ovviamente e un inquietante
cane-robot sviluppato da Boston Dynamics. Per farne che? La guerra, ha
commentato qualcuno visto il contesto; oppure uno sbarco sulla Luna cinquant’anni dopo il primo allunaggio
dell’Apollo 11, secondo altri. Lo vedremo presto: del resto l’interesse di
Google per la robotica è ormai cosa
nota, a partire dall’auto che si guida
da sola (un pro-
getto che si può far risalire a un’altra
competizione simile, il Darpa Grand
Challenge che nel 2004 puntava a
premiare l’auto che avesse percorso
240 miglia nel deserto senza pilota:
non ci riuscì nessun candidato, ma
dieci anni dopo la Google Car è una
realtà). In attesa delle Olimpiadi di
Tokyo, quindi, fra meno di un anno gli
otto migliori robot del mondo torneranno in Florida per la seconda tappa
del Darpa Challenge. E — questa sì è
una lieta sorpresa — in gara ci potrebbe essere anche un robot italiano. Si chiama Walk-Man, letteralmente “uomo che cammina”, come il
celebre riproduttore musicale della
Sony soppiantato dagli iPod della Apple. Ma sarà un robot, un vero robot. È
l’evoluzione di Coman, un acronimo
che sta per COmplaint HuMANoid
Platform: una piattaforma aperta
lanciata nel 2004 dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova, che vede
ormai decine di centri di ricerca in tutto il mondo collaborare allo sviluppo a
partire da iCub, il celebre “robot
bambino” made in Italy che
ha emozionato chiunque lo
abbia visto all’opera. Non a
caso “Amarsi” è il nome
del progetto europeo
guidato dall’IIT da
cui è nato Coman:
simile ad un bambino (95 centimetri per 31 chili), è considerato un gioiellino
Le competizioni
SALITA
SCALE
PERFORAZIONE
MURI
RIPARAZIONE
TUBATURE
UTILIZZO
DI UN IDRANTE
IN AZIONE
ROBOCUP
ATLAS,
IL ROBOT
DI BOSTON
DYNAMICS
E GOOGLE
IDEATA NEL 1993, È UNA GARA
CHE INTENDE REALIZZARE, ENTRO
IL 2050, UNA SQUADRA DI ROBOT
PER BATTERE LA SQUADRA
DI CALCIO CAMPIONE DEL MONDO
la Repubblica
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
PHANTOM
Kaist
h 130
cm
Sviluppato dal Korea
Advanced Institute of
Science & Technology
come piattaforma per
vari progetti di ricerca
REAPER MQ-9
Dji
35 cm
General Atomics
361 cm 2.012 apertura alare
Un sistema di inquadratura in grado
di volare dappertutto e fotografare
qualsiasi cosa. Apre la fotografia aerea
a nuovi mercati e appassionati
Drone d’assalto, capace di volare
per ore, può essere armato di missili
Hellfire radiocomandati
HUBO
39
TUG
ASIMO
UBR-1
PACKBOT
PARO
ROOMBA
Aethon
h 120 cm
Honda
h 120 cm
Unboundend Robotics
h 97 cm
iRobot
h 200 cm
Aist
l. 57 cm
iRobot
200 cm (diametro)
Un traina-carrelli
automatizzato
per ospedale,
poco carismatico ma
fieramente funzionale
Il frutto più recente
della lunga ricerca
della casa nipponica
nello sviluppo
di robot “da compagnia”
Un robot di servizio
mobile con un braccio,
sfruttabile (sperano
i suoi costruttori)
per diversi compiti
Fa parte di una serie
di robot molto usati
in Iraq e in Afghanistan
per disinnescare
ordigni
Un compagno
per le persone
più anziane
che può portare benefici
terapeutici e sociali
Il robot più popolare
del mondo acquistabile
nelle maggiori catene
di elettronica pulisce
i pavimenti dal 2002
Nel 2020, insieme
alle Olimpiadi,
Tokyo organizzerà
anche i primi
Giochi Olimpici
per robot
Non gareggeranno
con gli atleti,
almeno non per ora,
ma intanto gli umanoidi
si allenano in altre
sfide internazionali
Dove potrebbe scendere
in campo anche l’Italia
tecnologico, al punto che quando diciotto mesi fa il capo del Darpa Challenge, Gill Pratt, lo ha visto, se ne è subito innamorato caldeggiando la nascita di Walk-Man, 170 centimetri di intelligenza artificiale. La differenza fra i
due non sta solo nell’altezza, ma anche
nelle prestazioni, nella forza e nella resistenza. In comune avranno il fatto di
essere fra i pochissimi robot a considerare i movimenti delle braccia e della
gambe in maniera coordinata e simultanea e non come operazioni distinte.
In pratica, sostengono dal team che sta
lavorando al progetto, oggi un umanoide se cammina non può fare
nient’altro altro; con Walk-Man sarà diverso. Lo vedremo alle finali del Darpa
Challenge? Forse sì, un po’ di cautela è
indispensabile visto che il progetto è
iniziato appena un anno fa, e quindi con
notevole ritardo sugli altri finalisti. Il
primo prototipo sarà pronto in autunno; nel frattempo tutti i test (e le relative righe di codice) vengono fatti su
Coman. Che senso ha tutto questo? Secondo il direttore dell’IIT Roberto Cingolani moltissimo: «Indipendentemente dal fatto di competere con il
gotha mondiale, la gara ti impone ritmi
e soluzioni innovative che non cercheresti. Insomma, come le prestazioni degli umani crescono grazie alle sport, anche quelle degli umanoidi miglioreranno grazie a competizioni mirate». Preparate l’inno di Mameli, insomma:
Walkman sta per scendere in campo.
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DARPA ROBOTIC CHALLENGE
ROBOGAMES
TEAM DA TUTTO IL MONDO
SI SFIDANO IN PROVE
QUALI “SALIRE LE SCALE,
“FARE UN BUCO NEL MURO”,
“SPEGNERE UN INCENDIO”
SFIDA ANNUALE CHE, DAL 2004,
SI TIENE A SAN MATEO,
CALIFORNIA. I ROBOT SI SFIDANO
ANCHE IN VERI E PROPRI
SPETTACOLARI COMBATTIMENTI
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 24 AGOSTO 2014
40
Sapori. Frigo vuoto
FRUTTA,
CARNE,
PESCE
E VERDURA:
NIENTE
SFUGGE
AL DOMINIO
DELLA LATTA
CHE NON È PIÙ
QUELLA “CHEAP”
DI UNA VOLTA.
A PATTO
DI CONTROLLARE
COLORANTI,
CONSERVANTI
E ALTRI ARTIFICI.
PERCHE SOTTO IL
COPERCHIO
POTREBBE
NASCONDERSI
LA FREGATURA
Tonno
Carne
Alici
Diverse le varietà
(rosso, alalunga, pinna
gialla) e le parti utilizzate
(filetti, ventresca)
Conservare in acqua
di cottura, olio di semi
o extravergine d’oliva
Privata di tendini,
cartilagini, pelle e grasso,
poi tagliata a pezzetti,
cotta in acqua, messa
in salamoia, inscatolata
e sterilizzata
in autoclave
Mai cotte. Le reginette
del pesce azzurro, pulite
e coperte di sale grosso
per tre mesi, poi
sciacquate, diliscate
conservate in olio di semi
o extravergine
Rompete le scatolette.
Saranno diventate tanto cool
ma meglio guardarci dentro
La storia
Le scatolette made in Italy
portano la firma del piemontese
Francesco Cirio,
il commerciante agricolo
che nel 1857 lanciò sul mercato
le prime scatolette di piselli
e pomodori, produzione
premiata all’esposizione
di Parigi del 1867
LICIA GRANELLO
«S
Le cugine
Tra gli alimenti in scatola,
le conserve sono sottoposte
a sterilizzazione,
che ne permette
la conservazione per anni
a temperatura ambiente
Le semiconserve, invece,
sfruttano principi diversi,
come la salagione,
e non necessitano di cottura
Il libro
Si chiama Benedette scatolette,
edizioni Endemunde,
il manuale del giornalista
enogastronomico
Antonio Mungai. All’interno,
preparazioni sfiziose dedicate
a “giovani imbranati, lavoratrici
affrante, velisti duri&puri
e gourmet dissoluti”
CUSATE SIGNORE, si mangiano dei buoni spinaci qui?». La domanda di Braccio di Ferro apre una delle strisce più popolari del fumetto americano negli anni ‘30. All’obiezione
polemica dell’oste “Gli spinaci sono cibo da signorine, roba per gente debole!”, segue l’inevitabile scazzottata e
conseguente riappacificazione, naturalmente davanti a
una doppia porzione delle portentose verdure attiva-muscoli. Ma gli spinaci preferiti da Popeye sono quelli in scatola: facili da portarsi appresso, economici, pronti alla bisogna. Se i coltivatori di spinaci saranno grati in eterno alla creatura di Elzie Segar per lo straordinario messaggio
per nulla subliminale lanciato in anni in cui il consumo dei
vegetali non era certo associato a energia e benessere, ad avvantaggiarsene assai fu l’intera, nascente
industria dello scatolame. Il binomio cibo pronto-lattina ha conquistato il mondo, attraversando l’ultimo secolo dell’alimentazione mondiale senza mai conoscere crisi. Alzi la mano chi non ha una scatoletta
di cibo in dispensa, salvezza culinaria a portata di
un clac (suono rassicurante che certifica l’apertua lui si deve l’istituzione delle brigate di militari-cuora senza capricci della lattina, disvelandone il conchi, termine ancora in uso oggi per definire le squatenuto più o meno appetitoso). Buone per tutte le
dre di lavoro nelle cucine dei ristoranti — che aveva
stagioni, quasi indispensabili in estate, quando la
addirittura lanciato un bando con sostanzioso prevoglia di cucinare precipita e andare a fare la spemio in denaro. A vincerlo, il pasticcere Nicolas Fransa nei negozi preferiti è una gimkana tra serrande
cois Appert, il cui metodo di doppia sterilizzazione
chiuse e riaperture zoppicanti.
messo a punto nel 1795 — carni e verdure bolliti,
Tutto merito di un’intuizione, figlia della necesmessi in contenitori sigillati con la pece, e bolliti
sità di conservare e trasportare il cibo. Nutrire adenuovamente — prese il nome dal suo inventore: apguatamente il suo esercito lontano dalla Francia, inpertizzazione. Certo, le qualità organolettiche e nufatti, era uno dei rovelli di Napoleone Bonaparte —
trizionali dei cibi stracotti lasciavano un po’ a desi-
derare, ma il primo passo era stato compiuto. Solo
molti anni dopo, Louis Pasteur avrebbe dato dignità
scientifica all’idea di Appert. Contemporaneamente allo scienziato francese, intorno al 1870 l’italiano
Francesco Cirio e l’americano Joseph Campbell cominciarono la produzione di alimenti in scatola da
una parte all’altra dell’oceano, dando l’imprimatur
a due marchi che hanno fatto la storia dell’industria
del cibo in scatola.
Ma non è tutto oro, ciò che luccica sotto i coperchietti. A partire dalle sbriciolature vendute come
consistenza pregiata del pesce, alle montagne di gelatina in cui affondano pochi pezzi di carne a basso
costo, fino ai liquidi di conservazione, arricchiti di
sale, glutammato, aromi artificiali, coloranti e conservanti. Non a caso, i produttori virtuosi raccomandano di scolare soprattutto i pesci dal liquido di
inscatolamento subito dopo l’apertura e sostituirlo
con un buon extravergine...
Altro argomento spinoso, quello del Bisfenolo A
(BPA) un interferente endocrino ampiamente
usato nell’industria delle materie plastiche e dei
contenitori alimentari. Leggere bene le etichette
e privilegiare le scatolette — ma anche pentole,
thermos, biberon — «Bpa-free» è un buon modo di
difendere la salute e apprezzare le zuppe d’astice.
Con buona pace delle riproduzioni geniali di Andy
Wharol.
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Minestra
Ananas
Piselli
A fine ‘800 la prima
“Campbell’s Soup”,
elaborata eliminando
parte dell’acqua. Centinaia
le ricette, dalla zuppa
di pomodoro
a quella d’aragosta
Sbucciato, affettato,
privato del gambo
(contiene
la preziosa bromelina)
e confezionato
con acqua e zucchero
o al naturale
Da extrafini a medi,
una volta selezionati
sono sottoposti a cottura
con vapore surriscaldato
e inscatolati
addizionando
acqua e sale
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No, disse
la lattina,
tu non mi meriti
GUIA SONCINI
Fagioli
Essiccati, lavati, coperti
d’acqua e scottati
per bollitura o con vapore
Dopo l’inscatolamento
con liquido di governo,
chiusura ermetica
e sterilizzazione
1
2
ANNALISA DISEGNO
zucchero
La ricetta
Moscioli di Portonovo
INGREDIENTI: 1 KG. DI MOSCIOLI SELVATICI, 150 G. DI OLIO
EXTRAVERGINE NON AMARO E NON PICCANTE, 5 G. DI FOGLIE
DI PREZZEMOLO, 50 G. DI LIMONE, 1/2 LITRO D’ACQUA ,
400 G. DI ZUCCHERO, 10 G. DI SPICCHI D’AGLIO SCHIACCIATI
ollire per 5’ in un pentolino 250 g. di acqua
con 150 g. di zucchero più il limone tagliato
a dadini da 1/2 cm l’uno. Scolare e rimettere
il limone altri 5’ in uno sciroppo bollente fatto come
il precedente. Raffreddare e prendere un tegame
capiente, versarci l’olio, gli spicchi d’aglio in camicia,
le cozze ben pulite, il limone candito scolato, coprire
con il coperchio e far scaltrire i molluschi a fuoco
medio. Una volta aperti aggiungere il prezzemolo
tagliato grosso e pepe bianco. Da degustare
con le bruschette, oppure sgusciare e mettere
nelle scatolette con il loro sughetto, chiudendo
e sterilizzando in autoclave a 120° per mezz’ora
B
LO CHEF
MORENO CEDRONI
CHEF PATRON
DE “LA MADONNINA
DEL PESCATORE”
DI SENIGALLIA, DUE STELLE
MICHELIN. QUESTA
LA SUA RICETTA “IN SCATOLA
”PER I LETTORI
DI REPUBBLICA
Gourmand
Nella foto grande
“In scatola” di Moreno
Cedroni, ultima ricetta
della linea di scatolette
gourmand inaugurata
con la storica
“Finta Simmenthal
di tonno”
Pelati
Pomodori lavati,
scottati, pelati,
privati di semi
e di parte dell’acqua.
Acido citrico se l’acidità
è troppo bassa
(rischio botulino)
S
ONO RAGIONEVOLMENTE CERTA
che il primo microonde
venduto a Bologna sia stato
quello in cui, negli anni
successivi, ho a ogni ritorno
da scuola infilato piatti di pasta che mia
madre aveva scotto la settimana prima.
Sono altresì certa che, in quegli anni
Ottanta in cui il genere non era diffuso,
gli unici surgelati venduti in Italia li
acquistasse la mia famiglia. Tornavo da
scuola e trovavo un hamburger che mia
madre era riuscita a bruciare
scongelandolo. Un talento che ho
ereditato. Poiché non c’è indulgenza che
non si ottenga a mezzo infanzia infelice,
sempre più spesso mi trovo a spacciare
queste scene di formazione: giustificano
la mia scarsa vocazione culinaria. Prima,
non era necessario. Prima, non cucinare
si poteva. Anzi: era una gara a chi per
primo ti citava Woody Allen (quella
scena di Provaci ancora, Sam in cui
spiega che lui i surgelati non li cuoce: li
ciuccia come ghiaccioli). Prima, non
eravamo una repubblica fondata sui
programmi di cuochi. A salvarmi sarà
quella stessa gastrocrazia per cui gli
uomini ti parlano del sale dell’Himalaya
con la voluttà con cui un tempo ti
descrivevano le gesta di un centravanti;
la stessa ossessione per i fornelli che
rende un’inaccettabile provocazione
apprezzare la carbonara Findus; la stessa
mania collettiva per cui se dici che mangi
solo cibi pronti ti guardano con l’aria di
chi stia per raccomandarti una clinica di
disintossicazione. È il meccanismo a
produrre la via di salvezza dal
meccanismo stesso. Giacché ora si pensa
solo al cibo — sembra che usciamo da
una guerra o che abbiamo appena
scoperto i sapori — era inevitabile
accadesse: i tempi erano maturi perché
anche il cibo pronto si desse un tono.
Conosco alla perfezione l’angolo di
Eataly dove tengono quei barattoli. Passo
con disinvoltura in mezzo a gourmet che
si chiedono quali capperi di Pantelleria
siano più adatti a decorare il pesce;
scanso coppie che discutono del
formaggio di fossa con l’enfasi con cui
all’università si scannavano su Truffaut e
Godard; supero le correnti gravitazionali
e soprattutto i temibili banchi del fresco,
dove comprano gli ingredienti quelli che
poi a casa usano le pentole, e arrivo lì.
Il barattolo di polpettine al pomodoro e
piselli mi guarda e sembra dirmi: tu non
mi meriti, so benissimo che non sai di
che pregiatissima carne piemontese io
sia, che mi consideri solo una versione
chic della Simmenthal. Il vaso di
bocconcini di pollo mi aspetta già bello
cotto e quasi persino masticato. E la
ratatouille: quell’untuosità già pronta
che garantisce le indispensabili porzioni
di verdura anche a noi che consideriamo
l’insalata già lavata un po’ faticosa (devi
pur sempre condirla). Sulle confezioni ci
sono le istruzioni per scaldare tutto in
pentola: l’accordo tra le parti sociali è di
fingere di non sapere che si mangerà
direttamente dal barattolo. Mantenere
un contegno, e giurare d’aver sporcato
almeno un piatto. Ciucciare un
hamburger ancora surgelato, e poi dire
agli amici che per cena c’era tartare di
manzo.
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L’incontro.Maestri
NON IMPONGO
INTERPRETAZIONI,
SUGGERISCO
IMMAGINI
QUELLO
CHE VEDETE
È IMPORTANTE
ALMENO QUANTO
LA PAROLA
SUL PALCOSCENICO
COME NELLA VITA
SOTTO ILVELO
DI CIÒ CHE
PRONUNCIAMO
SI NASCONDE ALTRO
Dominare le mode, ignorare le rughe. Il grande regista e drammaturgo, sul palco come nella vita, sfida il tempo. E vince. I suoi spettacoli sono come lui, senza scadenze né pause. Settantenne iperproduttivo, non si accontenta di aver rivoluzionato il teatro e ora ha in
cantiere un nuovo progetto con un suo vecchio amico, Philip Glass.
Statunitense “infedele”, tradirebbe il nuovo per il vecchio continente: “L’America è troppo giovane,
rie, datata 1902, con i suoi climi tenebrosi e i suoi voli impressionanti».
Guardando dalla platea, l’estetica di Wilson ci investe di volta in volta come
ubriacatura iconografica. Ogni produzione si alimenta di un magigli americani limitati. Col pub- un’esaltante
strale gioco di luci, di cadenze musicali e gestuali esatte e degli strepitosi trucchi
degli attori, trasformati in suggestivi affreschi che respirano, agiscono e parla(o cantano). Tutto in lui si svuota di psicologismo: il mix dei fattori genera l’abblico europeo ho un rapporto più nobagliante
coreografia di un universo alieno. «Lungi da me l’idea di proporre un
testo dal punto di vista delle emozioni e dei sentimenti. Suggerisco al pubblico
aperte, come dicendo: il testo è vostro, usatelo come vi pare». È conintenso”. E lo scambio con lo immagini
vinto che il teatro occidentale sia stato condizionato dalla letteratura in modo devastante: «Si fa solo la regia di parole scritte, mentre io rivendico l’importanza di
che si vede, pari a quella di ciò che si sente. Come nella vita».
spettatore per lui è un vero patto ciòL’identificazione
emotiva con i personaggi è bandita dal suo pianeta illusionistico: «A chi sta in scena chiedo di evitare l’eccesso d’espressività. Movimenti mipossono dare risultati massimi, come in Charlie Chaplin e in Buster Keaton».
di libertà: “Il testo è vostro, usa- nimi
Su tali presupposti costruisce una dimensione “altra”, proiettata in ambienti fantasmagorici e in gestualità cronometriche. L’effetto è di magia siderale: «Non dico mai a un interprete: questo significa la tale cosa. Così come non impongo mai
telo un po’come vi pare”
agli spettatori una narrazione didascalica. Metto a disposizione strutture rigo-
Bob
Wilson
L EO NET T A B EN T I VO G LI O
SPOLETO
OMUNICA un forte e immediato carisma l’uomo imponente e vestito di
C
nero che entra nel ristorante con andatura flemmatica, come se non
dormisse da giorni, e che una volta seduto al tavolo s’avventa sopra
un filetto al sangue come se non mangiasse da mesi. Bello lo è sempre stato ,Robert Wilson, regista tra i più fertili e acclamati d’Occidente. Iperproduttivo e ormai “classico”, cioè consacrato come fenomeno estraneo alle mode (è in pista dagli anni Settanta), ha fama di geniale rinnovatore dei
linguaggi, essendo operativo, oltre che come metteur en scène, come designer,
videoartista, scenografo, pittore, scultore… “Non esiste un contemporaneo la cui
opera sia stata altrettanto ampia e influente”, scrisse Susan Sontag. Da giovane,
fisicamente, pareva un modello di Armani: perfetto e gelido. Ora che ha superato i settant’anni (è nato nel 1941 a Waco, in Texas, «dove proliferavano i rodei e
non c’erano teatri né gallerie d’arte»), è più segnato in volto e dunque migliorato nel senso dell’umanizzazione. Ma qualcosa di laconico e sprezzante nutre il suo
fascino ombroso.
«Dell’età non mi curo: non ne ho il tempo», dice. «Creo spettacoli senza pause, vivo catturato tra prove e allestimenti, in un viavai di viaggi tra l’Europa e
lo stato di New York, dove guido un grande laboratorio artistico a Watermill,
nella zona di Long Island. Comunque so di avere un rapporto più intenso col
pubblico europeo, legato all’arte da radici multisecolari. Gli americani sono
sciovinisti e limitati, figli di un Paese troppo giovane per avere un’autentica
consapevolezza culturale. Invece qui, in una cittadina come Spoleto, ci
sono tre o quattro splendidi teatri».
Al festival umbro, che lo ha accolto in tutte le edizioni degli ultimi anni (il direttore artistico Giorgio Ferrara adora
le sue messinscene, e ogni suo arrivo in Italia è un evento),
SONO NATO A WACO, IN TEXAS, CITTÀ IN CUI
DA RAGAZZO ERA FACILISSIMO IMBATTERSI
IN UN RODEO MA DOVE DI TEATRI NON C’ERA
TRACCIA. MENTRE QUI NELLA PICCOLA
SPOLETO CE NE SONO BEN TRE O QUATTRO
ha presentato un Peter Pan avvincente per
prodigi surreali, invenzioni gotiche, stuoli di feroci esseri polimorfici: «Da ragazzo
sono stato assistente di Jerome Robbins
quando montava a Broadway un musical su Peter Pan. Ora ho preso le distanze da quella fiabesca leggerezza, né
m’interessa la versione di Walt Disney.
Il mio è un racconto dark che torna alla
storia originale di James Matthew Bar-
rose, basate su suddivisioni aritmetiche. L’insieme viene solidamente definito
stabilendo il numero di scene, i cambiamenti ritmici e le simmetrie visive».
Dal Texas, dov’era studente di architettura, Wilson approdò a New York negli
anni Sessanta, ignorando cosa fosse il teatro: «Trovai detestabile e noiosa la prosa tradizionale, e lo stesso mi accadde davanti all’opera lirica, con tutto quel gorgheggiare melodrammatico. Poi mi capitò di assistere ai balletti neoclassici di Balanchine: musica, figure, geometrie spaziali, un tessuto di linee regolari e astratte come i disegni delle stoffe peruviane. Questo sì che era affascinante. In seguito mi piacque anche Merce Cunningham: dissociava quel che si vedeva da ciò che
si ascoltava, musica e danza esistevano separatamente. Era lì che volevo andare
per scoprire nuove percezioni».
Nacquero i suoi pezzi vasti e struggenti, considerati capolavori di fine secolo e
spesso dilatati in tempi mostruosi. Sette ore di potenza onirica formavano l’opera muta Lo sguardo del sordo, che nel ‘70 fece scrivere a Louis Aragon (in una lettera ad André Breton): «Non ho mai visto niente di più bello». Occupava l’arco di
dodici ore The Life and Times of Joseph Stalin, e con Ka Mountain and Gardenia
Terrace Wilson riversò sull’altipiano di Shiraz, in Iran, la follia di una rappresentazione che si consumava in sette giorni e sette notti. Negli anni Settanta queste
avventure impressero una svolta radicale alla concezione del teatro, come anche
l’esito allucinato e ipnotico di Einstein on the Beach, vera rivoluzione nell’ambito dell’opera musicale, scaturita dall’incontro con il compositore Philip Glass.
«Ora con lui sto progettando di mettere in scena Le mille e una notte», rivela Bob
in anteprima. «Sarà una coproduzione internazionale che coinvolgerà l’America
e Parigi, con debutto nel 2017».
Crede che l’espansione e frammentazione temporale possa farci cogliere una
realtà diversa da quella sperimentata ogni giorno: «Preparando Lo sguardo del
sordo visionai filmati dello psicologo Dan Stern, che mostravano una madre mentre prendeva in braccio il suo bimbo piangente. Ogni secondo includeva 24 foto-
PREOCCUPARMI DELL’ETÀ? ANCHE
VOLENDO NON NE AVREI IL TEMPO. VIAGGIO
E CREO SPETTACOLI SENZA INTERRUZIONI:
LA MIA VITA È UN VIA VAI DI MESSE
IN SCENA, PROVE, ALLESTIMENTI
grammi, ma solo osservando l’azione al rallentatore si capiva che l’approccio iniziale della mamma verso il figlio era carico di aggressività.
Nei miei spettacoli indago la comunicazione nascosta, non verbale,
celata oltre la superficie della quotidianità». Dopo i primi, travolgenti exploit, Wilson ha moltiplicato le sue imprese: regie operistiche nei
teatri lirici più prestigiosi al mondo, installazioni nei massimi musei,
epopee ispirate a poemi orientali, collaborazioni con artisti di vari
campi (Lou Reed, Tom Waits, David Byrne), rivisitazioni di titoli
monumentali e noti (da Shakespeare a Beckett) e lunghi periodi di lavoro con il Berliner Ensemble che è poi la stessa straordinaria compagnia con cui ha appena realizzato Peter Pan.
Celebri e richiestissimi sono i suoi videoritratti, incantatori come il suo teatro: «Cominciai anni fa con cento episodi di trenta secondi che potevano essere visti, l’uno staccato dall’altro, sul quadrante di un orologio così come alla fermata di un autobus, sul retro dei sedili in aereo come sulla metropolitana e sulle scale mobili. Oggetti,
animali, persone. Un’anatra, una sedia, un prete, un
barista, un meccanico. Divi come Johnny Depp, Isabelle Huppert, Jeanne Moreau, Brad Pitt. Famiglie
di sovrani e gente comune. Nel 2000 la Sony ha
messo a punto per me un particolare schermo
verticale, e ho proseguito questa mia ricerca
appassionante e inesauribile. L’occhio s’affaccia su una stanza dove c’è la persona o la cosa. Il
mutamento del quadro è un processo impercettibile. Se ci stai davanti non te ne accorgi, ma se torni
dopo cinque ore la luce si è modificata, e quell’automobile che prima era dietro adesso non c’è più. Il
soggetto è sempre lì, eppure tutto cambia. Questa
è la verità del tempo».
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