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Com`è difficile essere padri

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Com`è difficile essere padri
“Com’è difficile essere padri”
incontro con
Franco Nembrini, Rettore dell’Istituto La Traccia -BGGiacomo Poretti, Attore
Massimo Recalcati, Psicanalista
coordina
Giuseppe Frangi, Direttore di Vita - no profit magazine
Sala di via Sant’Antonio 5, Milano
martedì 1 aprile 2014

Via Zebedia, 2, 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.centroculturaledimilano.it
CMC – TESTI
“Com’è difficile essere padri”
GIUSEPPE FRANGI: Buona sera. Molto recentemente ho letto un libro di un personaggio che non
amo particolarmente, libro che però penso sia a suo modo bello, che è quello di Michele Serra: Gli
sdraiati. Me lo sono letto anche per preparare questo incontro e mi ha colpito una cosa: una delle
questioni che nel percorso Serra fa, nel rapporto con suo figlio, è scoprire il proprio nome “papà”. Il
libro finisce, nell’ultima pagina, con Serra che vede il figlio che scappa in montagna, finalmente nella
gita che per tanti anni egli lo aveva invitato a fare, dalla quale il figlio si era sempre ritirato; il figlio è
già avanti, il padre lo cerca e lui gli risponde «sono qua, papà»; e quando il padre, Serra, sente queste
due sillabe gli gira quasi la testa, è quasi spaventato di sentirsi per la prima volta chiamato così,
investito del ruolo di padre.
Tra gli aspetti un po’ assurdi e un po’ emblematici di quest’epoca vi è quello che il padre ha perso
anche il nome spesso e quindi c’è un oggetto, la figura paterna, alla quale potrebbe essere sottratto il
nome, che vorrebbero chiamare appunto genitore 1 e genitore 2, di modo che non si sappia quale sia
il padre; a volte genitore 0, diciamocelo, perché poi bisogna guardarla in faccia la realtà, come aveva
notato uno psicologo della Università Bicocca in un commento sul Corriere della Sera, a proposito
del caso delle Baby Squillo, che la figura del padre era completamente sparita, cioè che c’erano le
madri acrobate, che gestivano tutto, nel bene e nel male; spesso nel male nel senso che erano loro le
artefici degli abusi a cui esponevano le loro figlie, a volta nel bene perché erano loro a denunciare gli
abusi, ma il padre era sparito, non esisteva più.
Quindi quando si parla di padre oggi - difficile essere padre - bisogna tener conto di questo fattore
che c’è nell’aria, che ci circonda; non possiamo eluderlo, anche se magari non abbiamo certezze. È
stata un’eclissi circondata da un silenzio assordante, una sostanziale indifferenza, quasi un sottaciuto
disprezzo: abbattere il totem del padre, figura di disturbo, intralcio e libertà, vecchio arnese senza più
autorità; più che abbatterlo diminuirlo, ridurlo a ruoli marginali e irrisori. Il mondo nuovo vuole degli
eterni adolescenti, idioti rispetto alla vita, velleitari nei loro entusiasmi periodici. Ma c’è chi si è
pentito di questa diminuzione: Eugenio Scalfari scrisse il 24 marzo 2013 un editoriale sulla prima
pagina di Repubblica, intitolato (abbastanza a sorpresa conoscendo il personaggio
personaggio che in questi ultimi tempi qualche sorpresa ce l’ha riservata
ma è anche un
) Il padre che non c’è e il
paese impunito. Scrive Scalfari: «Qualcuno si incomincia ad accorgere che è venuta meno la figura
del padre e che questa lacuna di paternità è una delle cause non marginale della perdita di identità e
della nevrosi diffusa che da molti anni affligge il nostro paese e non soltanto. Se il padre è
ridimensionato, non ci saranno più i figli, i fratelli, i cugini; mancano i punti di riferimento. La stessa
salutare dialettica tra le generazioni viene meno e si trasforma in una lotta di potere tra vecchi e
giovani. Nella maggioranza dei casi», concludeva il fondatore di Repubblica, «l’individuo ha
abbandonato la sua solitudine e non ha trovato altro rimedio che quello di confondersi nel branco».
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Ma stasera qui non siamo a raccontare qualcosa che purtroppo è dolorosamente chiaro, siamo qui a
provare a raccontare una dinamica opposta, cioè il tema del riaffiorare del padre, il suo riapparire per
strade a volte non previste, che certamente sono strade irte di difficoltà, di incertezze, di dubbi,
rispetto a se stesso e al proprio ruolo.
Che cosa sono queste facilità se non un’altra faccia di quello di cui parlava Charles Peguy in quel
meraviglioso libro che è Veronique? «Il padre», scrive in quelle memorabili pagine, «è colui che è
chiamato ad attraversare il mare controcorrente, prendendosi sulle proprie spalle il peso di un pezzo
di mondo». Queste sono parole di Peguy: «il suo non è affatto un esercizio di potenza, perché in
realtà il padre è anche assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi a priori, di sapere in che città
domani, in quale decadenza di tutto un popolo, lascerà, consegnerà quei bambini di cui è, si sente
assolutamente responsabile». Lo scrupolo del padre, un grande tema che lancia Charles Peguy, che è
una faccia di questo padre che riaffiora. o scrupolo del padre che riguarda anche il senso di autorità
e che quindi ne determina le forme, come testimoniato
piace troppo e quindi lo dico
scusate l’appunto autobiografico, ma mi
da questa bellissima dedica della figlia a suo padre, un mio grande
amico, una figlia che ha avuto un passato straordinariamente, drammaticamente travagliato e che
dopo un percorso molto doloroso è arrivata ad una tesi al massimo dei voti. Studia a Londra e la
dedica è in inglese «to my dad, for your unquestioning faith in me», a te papà, per la tua fiducia senza
domande; credo di non aver mai trovato nessuna sintesi, personalmente, dell’essere padre più bella e
più esplicita di questa. Credo che ogni padre sogni di ricevere una dedica così, che poi si concludeva
con «e grazie per il tuo infinito amore».
Ma veniamo a noi. La pagina che vi leggo è tratta da un bellissimo libro di Massimo Recalcati, che è
qui alla mia destra, ed è dedicata alla figura di Telemaco. È una pagina da cui prenderei spunto per
questo primo giro di intervento che chiedo ai nostri interlocutori. Leggo le parole dall’introduzione
del libro I complessi di Telemaco.
«Bisogna essere chiari: il mio punto di vista è che questa eclissi – l’eclissi della
paternità – non indica una crisi provvisoria della funzione paterna destinata a
lasciare il posto a un suo eventuale recupero. Dal mare – Ulisse – non tornano
monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uominidei, padri-papà, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili,
poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come
si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire,
il senso dell’orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.
Noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche
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nell’epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che
qualcosa del padre ritorni. Ma questa attesa non è una paralisi melanconica».
Ecco, la prima domanda che io farei è proprio su questa attesa. Lo chiederei a Recalcati, visto che
comincio dalle sue parole, cos’è questa attesa? Perché questa attesa non è una paralisi melanconica?
MASSIMO RECALCATI: Intanto nella frase che tu hai letto si dice che il nostro tempo è il tempo
del tramonto irreversibile del padre. Nanni Moretti nell’ultimo film ha rappresentato in modo plastico
questa irreversibilità. Abbiamo tutti nella testa, per chi ha visto il film, la scena di apertura di
Habemus papam, lì c’è il balcone di San Pietro che rimane vuoto. Non c’è più il padre Papa che
guida come una bussola infallibile il suo popolo. Non c’è più il padre come rifugio a cui confidare la
propria fragilità. Moretti mostra in modo drammatico, nelle scene iniziali del film, che questo
balcone è vuoto, fra l’altro con una grande preveggenza rispetto a quello che poi è accaduto nella
storia della Chiesa. Per la prima volta abbiamo avuto un Papa che ha lasciato vuoto il suo posto.
Questo è il nostro tempo. Potremo fare un esempio molto più semplice, meno aulico, meno lirico, di
questa caduta irreversibile della paternità: quando un insegnante entra in classe per esempio, non
scatta il silenzio, non è automatico, non è automatico il rispetto. Una volta bastava parlare da un
posto, per esempio da una cattedra, per ottenere automaticamente un grande rispetto in chi ascoltava.
Era la tradizione che stava dietro le spalle dell’insegnante che gli conferiva autorità. Questo accadeva
anche nelle famiglie: bastava che un padre alzasse il tono della sua voce per fare in modo che
trasformasse in pietra i propri figli, calava il silenzio, calava il gelo.
Oggi non siamo più in questo tempo e diventa ridicolo alzare la voce, invocare la tradizione, invocare
l’autorità consolidata. Potrei farvi infiniti esempi ma visto il luogo ve ne faccio un ultimo, quello
della preghiera che è a me molto caro. Un tempo, ma già nella mia generazione, io non ricordo
quando mi è stato insegnato a pregare. Sono cresciuto nella preghiera: pregare era come nevicare,
come la pioggia, come il vento, come mangiare, come sedersi composto a tavola, era qualcosa che
veniva trasmesso da una generazione all’altra. Oggi le famiglie più consapevoli si pongono il
problema se insegnare ai propri figli a pregare oppure no. Le famiglie consapevoli si pongono questo
problema. Questo è un altro esempio molto semplice dello svuotamento della figura del padre
padrone, dell’autorità del padre. Questo secondo me è un dato incontrovertibile, irreversibile e non
bisogna nemmeno avere troppa nostalgia del padre padrone, del padre che alza la voce e che spegne
la parola o dell’insegnante che entra in classe e dice “Voi siete tutti delle viti storte e io sono il
paletto e il filo di ferro e vi raddrizzo”.
Questo tempo è finito, e allora la domanda diventa: che cosa resta del padre? Poiché è fondamentale
che resti qualcosa. Il grande errore del ‘68, a mio giudizio, è stato quello di gettare con l’acqua
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sporca, cioè col padre autoritario, con il padre padrone, anche il bambino e cioè la necessità della vita
umana di avere padri. Nella nostra vita noi possiamo decidere di non diventare mai padri, madri,
sorelle, ma c’è una cosa che non possiamo non essere: l’essere figli. Essere figli è ciò che accomuna
profondamente l’umano. Questo significa che noi siamo sempre in rapporto a dei genitori, veniamo
da un altrove, non siamo auto-costituiti, non ci auto-generiamo. E allora la domanda è: che cosa resta
del padre nel tempo della sua evaporazione?
La mia risposta è che resta non una parola sostenuta dalla potenza della tradizione, ma resta una
testimonianza. Questa è la parola che secondo me io vi propongo questa sera. Quando mi hai chiesto
quanti figli hai, io ti ho detto due, ma ho sbagliato la risposta, perché se noi ci pensiamo la paternità e
la genitorialità stessa è una funzione che trascende sempre la biologia, trascende sempre il sangue,
trascende la stirpe. Se noi ci pensiamo, se io penso alla mia stessa vita, io ho più di due figli. Penso ai
miei allievi, penso alle persone che ho per certi versi cresciuto e penso che ho più padri. Ho avuto più
maestri, ho avuto più insegnanti, ho avuto più persone da cui ho imparato il senso della vita e il senso
della filiazione. Per questo Françoise Dolto diceva che se dobbiamo andare a cercare qual è lo statuto
più autentico della paternità, andiamo a cercarlo nei genitori adottivi. Perché il genitore adottivo è la
più autentica espressione della genitorialità. Non c’è rapporto di sangue, c’è una adozione: lo
spermatozoo non fa la paternità, l’ovulo non fonda la maternità. Ciò che fonda la paternità e la
maternità è un gesto di adozione che può andare al di là dello spermatozoo e dell’ovulo, tant’è che
Françoise Dolto diceva che nel testo biblico abbiamo un’immagine purissima della paternità che è S.
Giuseppe: in lui c’è paternità senza proprietà biologica. Quello che io penso della paternità oggi,
quello che resta e quello che, secondo me, dovremmo valorizzare lo troviamo, per esempio, in tutto
l’ultimo cinema di Clint Eastwood che è dedicato alla paternità al di là della biologia, al di là della
proprietà; se voi pensate a Million dollar baby è la storia di un allenatore di pugilato, anziano, che
dice “sì” alla adozione di una figlia, una pugilessa senza chances, senza speranze, a 33 anni che viene
dalla provincia più profonda degli Stati Uniti, non ha nessuna possibilità (ecco il punto della fede), fa
uno sport da maschi in una palestra che vieta l’accesso alle donne e l’allenatore Frankie dice “sì, io
divento il tuo maestro”. Questa è la paternità, non è altro che questo. a paternità è l’adozione della
vita che va al di là della biologia e della continuità di sangue. Secondo me i nostri figli e i giovani di
oggi hanno bisogno di incontrare qualcuno che adotti le loro vite e cioè qualcuno (lo diceva anche
Jovanotti in una bellissima canzone del 2004 “Mi fido di te” che cantavo a mio figlio quando lo
tenevo in braccio) che si fidi di lui. Mi fido di te. Il “cosa sei disposto a perdere?” è in riferimento al
genitore; se un genitore si fida di un figlio cosa è disposto a perdere? Dovrebbe essere disposto a
perdere tutti i progetti che ha sui figli. Un buon genitore che si fida di un figlio deve esporsi al figlio
nella sua nuda fede, cioè non deve avere progetti, perché quando i genitori hanno dei progetti sui figli
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essi hanno dei destini e questi destini, di solito, non sono mai felici. La testimonianza più pura della
paternità è il gesto dell’adozione cioè la responsabilità illimitata verso i nostri figli senza diritto di
proprietà e senza fare progetti; questa è la cosa più difficile e questo è il dono più sottile, più raro, più
impossibile che un genitore può fare e noi lo troviamo meravigliosamente descritto nel passaggio
biblico di Abramo e Isacco. Il mio modo di leggere questo passaggio, che è molto eterodosso dal
punto di vista della teologia, è che Abramo sacrifica il figlio più amato, quello che arriva in un tempo
impossibile, il figlio della promessa, lo sacrifica nel senso che rinuncia ad avere la proprietà su di lui
e questo è il gesto che il genitore deve poter fare: abbandonare i propri figli, avere fiducia nella loro
libertà, lasciarli andare al deserto.
G. FRANGI: Do la parola a Franco Nembrini, anche lui autore di un libro fortunato: “Di padre in
figlio”.
FRANCO NEMBRINI: Buonasera. Sto fremendo per gli spunti che ci ha dato Recalcati e mi viene la
tentazione, invece di dire le cose che volevo dire, di seguire passo per passo il suo intervento. Vorrei
fare una precisazione che mi sembra importante. La prima cosa che mi viene da dire, e che è anche la
prima cosa che dico nel mio libro, è un’affermazione importante su chi sono i figli. Mi sembra che
troppo della rinuncia della paternità e della maternità, cioè della responsabilità educativa, si nasconda
dietro l’alibi che questa generazione sarebbe più difficile, impossibile, non educabile. Allora, per
mettere questo primo, indispensabile paletto, volevo cominciare simpaticamente leggendo quattro
citazioni che ho letto proprio in questi giorni, che suonano così:
«La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, si burla dell’autorità e non ha
alcun rispetto degli anziani. I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano
quando un vecchio entra in una stanza, rispondono male ai genitori. In una
parola, sono cattivi»
«Non c’è più alcuna speranza per l’avvenire del nostro paese se la gioventù di
oggi prenderà il potere domani poiché questa gioventù è insopportabile, senza
ritegno, terribile»
«Il nostro mondo ha raggiunto lo stadio critico: i ragazzi non ascoltano più i
loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana»
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«Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani sono maligni e
pigri, non saranno mai come quelli di una volta. Quelli di oggi non saranno
capaci di mantenere la nostra cultura»
La prima è di Socrate (470 a.C.), la seconda è di Esiodo (720 a.C.), la terza è di un sacerdote
dell’antico Egitto (2000 a.C.) e l’ultima è un’incisione su un vaso di argilla dell’antica Babilonia
(3000 a.C.). È solo per dire: piantiamola di farci del male; l’educazione è in questa situazione da
molto tempo. Nascondersi o questionare su problemi (che certamente sono veri) non ha senso.
La prima cosa che voglio dire è quella che ha detto Benedetto XVI nella lettera apostolica sul
compito urgente dell’educazione alla diocesi di Roma del 2008: “I vostri figli vengono al mondo
esattamente come voi, i vostri padri, i vostri nonni e i vostri bisnonni. Hanno lo stesso cuore”. Adesso
si diceva di partire da una speranza, avere fiducia nei figli, cioè rendersi conto che quando un figlio
viene al mondo, dico io da credente, fatto da Dio (chiamatelo Dio o natura), nel senso di “fatto bene”,
il suo mestiere è quello di guardare il mondo degli adulti. ’emergenza educativa non sono i figli, ma
gli adulti, ciò che i figli vedono quando, come la natura gli insegna, si guardano intorno e cominciano
a respirare una certa aria. Poi è vero, ed è perfino inutile ripeterlo, che c’è stata una guerra contro la
figura del padre e che c’è stato quel fenomeno per cui si è buttato il bambino insieme all’acqua
sporca. Può essere che quell’educazione fosse autoritaria e io ci ho creduto negli anni ‘70 e ’80.
Adesso ci credo un po’ meno perché rivado a quell’educazione che abbiamo definito in tanti come
autoritaria e i ricordi della mia infanzia – ero quarto di dieci figli in una famiglia povera e non colta –
mi dicono che quell’educazione di mio padre non può definirsi “autoritaria”. È vero che arrivavo a
casa alle tre di notte per la seconda volta e lui era seduto al tavolo che mi aspettava, mi guardava e mi
diceva: “Adesso basta!”. Questo insegnamento mi rimaneva come il decalogo. È vero, era un modo
diverso. Io sostengo che abbiamo goduto di spazi di libertà nei prati degli oratori, nelle strade dei
nostri paesi, nei boschi delle nostre colline, nelle aie delle nostre cascine oggi sconosciuti ai poveri
figli unici che hanno 60 metri quadrati di appartamento, guardati a vista dalle madri e senza padri. Un
bambino in quarta elementare, a cui facevo il doposcuola all’oratorio, quando si facevano i compiti
delle vacanze scrisse: “Mia madre mi vuol bene”; faceva l’analisi logica e scriveva “mia: aggettivo
ossessivo” e io che ero giovane pensavo a un errore di grammatica ma adesso so di che cosa si tratta.
È un problema. Però quel silenzio che l’insegnante guadagna, lo guadagna oggi come allora. Forse
formalmente lo guadagnava in forza di un ruolo, per una ragione esterna a sé, in virtù del ruolo, della
divisa, della laurea ecc., oggi bisogna guadagnarselo, ma capita oggi come allora, perché anche il
rispetto che riceveva era assolutamente formale e poi veniva odiato, insultato fuori dall’aula, per cui
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il problema mi sembra esattamente quello che è stato detto: la paternità è un problema di
testimonianza.
Mi impressiona perché non ci siamo neanche parlati, non conosco il professor Recalcati, ma quando
ha detto che l’ideale sono i genitori adottivi, pensi che io ho intitolato un capitolo del mio libro
“Siamo tutti padri putativi”, pensando proprio a S. Giuseppe. Da questo punto di vista è veramente
una questione di stima della libertà dei nostri figli. Quando lui dice di non avere progetti io uso una
forma più ruspante, più bergamasca, cioè il segreto dell’educazione è non avere il problema
dell’educazione. Tu devi avere il problema di educare te stesso e di testimoniare una bontà della vita,
un’intelligenza delle cose, un amore alla realtà e una capacità di sacrificio e una tenuta davanti al
dolore e alla fatica che tuo figlio ti deve guardare ed esclamare: “Che papà!”. Se tu cominci a piegarti
a pensare che devi fare il papà scivoli sulla mamma subito.
Il mio libro doveva chiamarsi: “ asciateli stare. Dedicato a tutte le mamme di Italia”, era il titolo che
l’editore ha rifiutato, ma il padre e la madre insieme devono dare una testimonianza così convincente
della bontà della vita che il figlio ne viene in qualche modo segnato, incuriosito, imbaldanzito. Sono
nato come educatore il giorno in cui ho preso sul serio lo sguardo di un figlio che silenzioso mi
guardava mentre lavoravo, io fui colpito da questo; non esprimeva nessun bisogno particolare, mi
guardava e basta. Era il primo figlio, io ho quattro maschi (Dio mi ha benedetto anche in questo) e
quando ho incrociato il suo sguardo - aveva 5 o 6 anni - mi folgorò il suo silenzio; era lì e mi
guardava e un figlio che ti guarda e non ti chiede niente in realtà ti chiede tutto ed è come se mi fossi
sentito dire: “Papà, assicurami che vale la pena venire al mondo”. In questa domanda sta tutta
l’esigenza dei figli e nella testimonianza, nella risposta che dai tu, per te stesso, a questa domanda sta
tutta la responsabilità educativa. Noi continuiamo a confondere l’educazione con il dover riempire un
presunto vuoto, quello dei nostri figli che non capirebbero niente, con un pieno che saremmo noi. In
questo modo, per di più, li costringi a cambiare perché sono diversi, sono altro da noi e in questa
violenza si arrabbiano e salta il rapporto tra le generazioni.
Io vorrei fare una domanda ai due colleghi. Mi sembra di avere individuato la differenza più radicale
tra la mia generazione e quella di questi ragazzi non nel fatto che stanno sdraiati - quelli che stanno
sdraiati sono i padri - ma mi sembra che la differenza più evidente sia che anche la nostra
generazione ha gridato che il mondo, la politica, la scuola, la famiglia facevano schifo, ma quando
arrivava in fondo diceva: “Noi lo cambieremo”. Sappiamo che non è andata bene; ma la mia
generazione, ormai sessantenne, quando ha constatato un mondo che non le piaceva ha urlato: “Noi
lo cambieremo”. Invece quello che mi fa impressione di questa generazione è che quando finisce
l’elenco delle cose che non le piacciono dice: “Anch’io sono uno schifo”. È la generazione che più si
sottostima di tutte le generazioni che mi sono passate davanti in quasi quarant’anni di insegnamento.
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Si sottostima, si colpevolizza e si fa del male nelle forme e nelle patologie più diverse. Volevo
chiedere anche un aiuto da chi se ne intende a capire se questa sensazione è corretta.
In più al professor Recalcati volevo dire che non conosco i film che sono stati citati ma la questione
del padre la insegna da duemila anni la Chiesa. La paternità vera è quella che dice lui, lo dice il fatto
che da duemila anni chiamiamo “padre” i preti, che figli non dovrebbero averne almeno dal punto di
vista anagrafico, e “madre” le suore che accoglievano migliaia di orfani e di abbandonati. i abbiamo
sempre chiamati “padre” e “madre”, riconoscendo la paternità vera in una non biologica che pure
però va difesa per non arrivare a far confusione sui fronti in cui c’è confusione oggi; ma la “chicca”
più bella che volevo regalarvi me l’ha fatta venire in mente Dante Alighieri. “ a provvedenza che
governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto creato è vinto / pria che vada al fondo”,
la Provvidenza che governa il mondo con una saggezza inarrivabile agli angeli e agli uomini,
“perochè andasse ver lo suo diletto / la sposa di colui che ad alte grida / disposò lui col sangue
benedetto / in sé sicura e anche a lui più fida”, affinchè la chiesa che Cristo ha sposato dall’alto della
Croce con il suo sangue corresse verso il suo sposo più fedele e più sicura “due principi ordinò in suo
favore, / che quinci e quindi le fosser per guida”, stabilì due principi della Chiesa, perché si vede che
uno non bastava; due principi della Chiesa, uno a destra e uno a sinistra, “l’un fu tutto serafico in
ardore”, uno francescano, pieno di carità, di magnanimità, semplice, un uomo del popolo, “l’altro per
Sapienza in terra fue / di cherubica luce uno splendore”, l’altro per chiarezza di dottrina e di pensiero
fu una luce per il mondo intero; “dell’un dirò però che d’amendue / si dice l’un pregiando qual l’uom
prende / perché ad un fine furon l’opere sue”, adesso io vi parlerò di uno ma apprezzarne uno vuol
dire apprezzarli tutti due, perché entrambi hanno lavorato per lo stesso scopo: la gloria di Cristo.
Volevo solo dire che di papi non è che non ce n’è neanche uno, ce ne sono due; mi sembra più
interessante di dire che “quel balcone è vuoto” dire che non è vuoto, perché ce ne sono due
addirittura, e questo a me, dal punto di vista della paternità di Santa Madre Chiesa, mi conforta e non
mi spaventa.
G. FRANGI: Ci siamo Giacomo? A lui dobbiamo questa serata, è lui il responsabile del titolo di
questa sera, vedo che ha un testo che si chiama “papà”, quindi a lui la parola.
GIACOMO PORETTI: Diciamo che avevo escogitato il sistema per venire ad ascoltare e alla fin fine
imparare da due fini intellettuali come loro sulla questione del papà. Quindi io ho dato il titolo, me lo
hanno accettato – ci vuol poco a convincerli questi del Centro Culturale! – e per giustificare la mia
presenza ho recuperato un abbozzo di lettera che poco fa ho scritto a mio padre, che non c’è più da
circa un decennio. ’ho risistemata un po’ per l’occasione, giusto per giustificare la mia presenza.
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Vado a leggere, non fatemi parlare a braccio perché direi più cazzate di quelle che direi leggendo.
“Caro papà, lo so che è sempre stato molto complicato fare il genitore, ma fare il papà di questi tempi
è particolarmente difficile. Ci si sente come Renzi: tutti fanno il tifo per te e contemporaneamente
tutti sognano di mandarti a casa. Fare il papà non è facile, di questi tempi ci si sente strani e in
imbarazzo. I sociologi ci incalzano dicendo che dobbiamo adattarci alle nuove realtà familiari. Gli
psicologi e gli psicanalisti sentenziano che abbiamo smarrito il senso dell’autorevolezza e per questo
motivo i figli rischiano di vivere l’esperienza della forclusione (potevate coniare delle parole un po’
meno difficili?!) ossia cancellazione definitiva del concetto paterno. E poi i figli fanno delle domande
difficili: «Papi ma quando si sposano due uomini, a chi tocca buttare la spazzatura?».
È più facile fare lo zio e il nonno, è più facile fare il premier che fare il papà, anche l’astronauta è più
facile da fare; arrivo perfino a dire che è più facile fare il Papa che fare il papà. Intanto bisogna dire
che i papà moderni e quelli di una volta sono molto diversi tra di loro, ma in una cosa si
assomigliano: quando nasce un figlio, in genere per i primi anni di vita il papà non si fa molto vedere,
non è molto coinvolto nel processo di crescita e di educazione dei pargoli. Nei primi due anni di vita
(e forse anche tre) i papà si dedicano al loro lavoro dalle sette del mattino fino alle 21.30, quando
rientrano vanno a dormire fino alle 6.58 del giorno dopo. Alcuni padri vedono il loro figlio per la
prima volta quando lo portano a scuola il primo giorno delle elementari.
Io ho avuto un papà di una volta, di quelli antichi. Io ho avuto un solo papà, ma ai figli moderni ne
possono capitare anche due o tre. I papà di adesso sono diversi da quelli di una volta. Quelli moderni
giocano a tennis, sanno sciare, vanno in mountain bike, di mestiere fanno l’interior designer e
collezionano Rolex degli anni ’50, fingono di sapere come investire il loro patrimonio, alla domenica
portano la famiglia al ristorante due stelle Michelin, dove lo chef cucina le lasagne molecolari. Il
pasto finisce con la nonna che si lamenta e dice che sono più buone le sue di lasagne. I papà di una
volta giocavano a briscola, così tutti lavoravano in fabbrica dove ci si andava con la bicicletta e se per
caso si bucava una ruota la aggiustavano loro. Di soldi non ne avevano, così non sbagliavano
investimenti. La domenica si mangiavano le lasagne cucinate dalla mamma, e la nonna si lamentava
sotto voce dicendo che le sue erano più buone. I papà moderni ti portano in vacanza due settimane in
Patagonia e due settimane in barca ai Caraibi, perché ai bambini bisogna fargli fare un po’ di mare e
un po’ di montagna. I papà moderni lavorano 12-14 ore al giorno per undici mesi all’anno perché
devono pagare lo skipper del catamarano e le tute antiassideramento usate in Patagonia, perché loro –
i papà moderni – in Patagonia ti portano in bassa stagione per risparmiare, solo che lì è inverno
polare. I papà di una volta il mare lo vedevano solo quando andavano a trovare i figli alla colonia
marina di Pietraligure, due domeniche al mese, la nonna si lamentava sempre e diceva che secondo
lei il mare di Pinarella di Cervia era più bello, che l’aveva visto solo in cartolina. Il mio papà il resto
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della vacanza lo usava per imbiancare la casa, riparare le tapparelle e giocare a carte alla bocciofila.
La nonna diceva che il nonno era più bravo del papà a giocare a briscola. I papà moderni lavorano
tanto e regalano ai figli l’iPhone. Se i figli dei papà moderni non telefonano quattro volte al giorno,
non mandano una mail, non inviano un filmato della lezione di judo e non twettano al papi prima e
dopo i pasti, i papà moderni si preoccupano e vanno dallo psicologo perché non riescono ad avere un
buon rapporto con i loro figli. I papà di una volta, se arrivava il vicino a dirgli che era arrivata una
telefonata per loro, i papà preoccupati chiedevano se era morta la nonna. Ai papà di una volta se gli
arrivavano due telefonate in un anno erano autorizzati a vantarsi un pochino e in mensa gli facevano
un brindisi; alla terza telefonata la nonna si lamentava e diceva che si era persa la virtù del silenzio.
Quando i papà moderni accompagnano i figli alla partita di calcio di sabato pomeriggio riescono a
litigare con l’arbitro, con l’allenatore e con i papà della squadra avversaria. I sabati che il figlio
perde, litigano anche con il magazziniere, con il posteggiatore, con il figlio stesso e con la moglie e la
nonna poi a casa. Un sabato la mia squadra ha perso il derby contro il Busto Garolfo; mio papà è
stato zitto fino a casa, poi a trangugiato un Fernet Branca, ha acceso una Nazionale senza filtro e poi
mi ha detto “allenati a palleggiare e a tirare le punizioni, storia e matematica li farai la settimana
prossima”. I papà moderni, quando un figlio torna da scuola con un quattro denunciano il professore
per mobbing; i papà di una volta se tornavi a casa con una nota da firmare loro scrivevano sul diario
«bravo professore, raddrizzi la schiena a questi invertebrati». I papà moderni portano i figli a fare
bungee-jumping, buttandosi dai ponti dell’autostrada per duecentocinquanta metri, ma se devono fare
le condoglianze alla vicina a cui è morto il marito si cagano sotto. I papà moderni ti spiegano come si
usano le applicazioni su iPhone, ma non sanno che differenza c’è tra un uovo per fare una carbonara
e uno da cui nasce un pulcino. I papà moderni ti spiegano la differenza tra musica tecno e ambient,
ma non sanno cantarti “Che gelida manina se la lasci a riscaldar”, quella della Bohème. Mio papà
quando andava alla cena dei coscritti tornava alticcio, come tutti i coscritti, apriva la porta di casa e
attaccava l’aria del tenore; la mamma, trattenendo il riso, fingeva di essere la Mimì dell’opera e
lasciava paziente che il suo Rodolfo si smarrisse fra le ottave e gli accordi irraggiungibili e si
addormentasse vestito. Io e mia sorella eravamo convinti che nostro papà fosse più bravo di Mario
del Monaco. Quando poi un figlio moderno compie sedici anni, i loro papà li accompagnano in
discoteca alle 23 e li vanno a prendere alle 4 del mattino con il Suv. I papà di una volta piuttosto che
mandarti in discoteca si mettevano a studiare con te i verbi irregolari e il genitivo sassone. Fare i
compiti insieme al papà moderno è molto istruttivo: è probabile che ti aiuti a comprendere le
equazioni, che sappia i fiumi, i monti e la capitale delle Maldive e che conosca la differenza tra
Valentino e Dolce e Gabbana. Se facevi i compiti con i papà di una volta si era bocciati di sicuro.
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CMC – TESTI
“Com’è difficile essere padri”
I papà moderni vogliono vestirsi come i loro figli, parlare come loro e diventare loro amici su
Facebook. I papà moderni sono contenti quando i loro figli accettano di essergli amici su Facebook.
Ho sentito la nonna borbottare e diceva che o si fa il papà o si fa l’amico. Se i figli moderni chiedono
“papà cosa preferisci? a pasta o il riso?”, loro rispondono “dipende”; “papà ma tu voti a destra o a
sinistra?”: “dipende”. Se i figli domandano se bisogna dire sempre la verità i papà moderni
rispondono “dipende”. “Ma papà bisogna fermarsi per far passare i pedoni sulle strisce?”: “dipende”;
“papi, ma è vero che fa male farsi uno spinello?”: “dipende”; “papà, ma a te piacciono le donne
vero?”: “dipende”.
Il mio papà, cui è sempre piaciuto il risotto, mi ha insegnato cose meravigliose: a fare il presepe, a
tifare per l’inter, a fare il nodo della cravatta, a fare la barba con la lametta, ad andare in bicicletta, a
bere un bicchiere di vino tutto d’un fiato, a vestirsi bene la domenica, ad essere bravo nel lavoro, a
cercare di avere sempre un amico, a portare un mazzo di fiori ogni tanto a tua moglie, a ricordarsi dei
nonni e dei nostri morti, perché senza di loro noi non ci saremmo – diceva - , perché Giacomo è figlio
di Albino il fresatore, che era figlio di Domenico il mezzadro, figlio di Adriano il ciabattino, che era
figlio di Giuseppe il falegname, che era figlio di Armando lo stalliere, e via e via e via.
Dalla prima elementare fino alla terza media si fa di tutto per assomigliare ed imitare il papà, dai
quindici anni ai ventidue non lo puoi vedere; fino ai trentasei ti è abbastanza indifferente, verso i
quaranta ti fa incazzare da morire perché nel frattempo lui ha superato i settanta e se in gioventù lui
aveva il suo bel carattere, adesso è ostinato come tutti gli anziani. Dai quarantadue in avanti riesci a
capire quanto sforzo abbia fatto a studiare l’inglese con te e ne provi una tenerezza struggente. Ho
cercato tutta la vita di assomigliare a mio papà ed ora invece mi accorgo di essere uguale; me ne sono
accorto quando mio figlio, l’altro giorno, mi ha chiesto come si dice “centravanti” in inglese.
Adesso caro papà tocca a me; scusami ma sto cercando di comportarmi un pochino diversamente da
te, da voi papà di una volta intendo, perché in questi ultimi decenni ne hanno dette di cotte e di crude
sul fatto che non vi alzavate mai di notte, che non facevate mai i compiti insieme ai figli e via
discorrendo. Noi papà moderni, appena ci sembra di sentire un leggero pianto nella notte, ci
svegliamo con un senso di colpa che nemmeno i tedeschi provano per via di quello che hanno
combinato nella Seconda Guerra Mondiale; ci mettiamo di fianco al lettino del bimbo il quale dopo
due ore ci dice: «papà perché dormi sul mio comodino?». Io, noi papà, abbiam la stessa maglietta di
calcio di nostro figlio e giochiamo ai rigori sul pianerottolo. Io, noi papà, facciamo i compiti al posto
dei nostri figli. Io, noi papà, spesso riceviamo gli avvisi dalla maestra di non fare i compiti al posto
loro. Io, noi papà, spesso ci sentiamo dire dalle nostre mogli che esistiamo solo per i figli.
Caro papà, adesso sì che ti capisco; quanto è dura fare il nostro mestiere! Ma prima di salutarti devo
dirti una cosa che forse non ti farà molto piacere. Tra poco aboliranno la nostra festa e il 19 marzo al
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“Com’è difficile essere padri”
posto della Festa del papà si festeggerà la festa del genitore 1 o 2, dipende. Resta da definire se il
maschio indosserà la maglietta numero 1 o se invece verrà attribuita alla femmina; conoscendo le
mogli moderne a noi toccherà la maglia numero 2. Ancor più complessa è la vicenda di quando
entrambi i genitori saranno entrambi maschi o entrambe femmine, forse si deciderà a rigori o più
democraticamente, come per la presidenza alla UE, sei mesi a testa. I primi anni potrà capitare che i
bambini sbaglieranno e regaleranno una cravatta al genitore femmina e un paio di orecchini al
genitore maschio; ma dopo qualche decennio di assestamento i bambini regaleranno in entrambe le
occasioni una trousse di trucchi e non sbaglieranno. Caro papà facciamocene una ragione, ogni tot di
secoli si cambia il dizionario delle parole correnti e qua rischiamo di fare la fine di speme, alterco,
facondia, stolido, vetusto; insomma papà rischiamo di essere desueti”.
G. FRANGI: Grazie Giacomo. C’era una domanda in sospeso per il professor Recalcati da Nembrini
sul tema della prima generazione che si sottostima e che si colpevolizza.
M. RECALCATI: Qui abbiamo ascoltato due letture molto diverse. Giacomo ci ha parlato di una
differenza profonda, quasi di un abisso che separa la versione tradizionale del padre dal padre
moderno; mentre prima sono stati evocati Socrate ed altri che sembra mostrino che in fondo il
problema è sempre quello, è sempre esistito. Sono due letture che non possono stare insieme. Io
appoggio la seconda, cioè il fatto che noi ci troviamo oggi di fronte ad una rivoluzione antropologica
senza precedenti, ad una mutazione antropologica. Su questo l’antropologia francese ha fatto degli
studi molto importanti facendo vedere che il rapporto tra il bambino e la famiglia si è totalmente
rovesciato. C’è stato un tempo in cui quando un bambino veniva al mondo doveva adattarsi alle
regole della famiglia, come dire che l’umanizzazione del bambino dipendeva dalla sua capacità di
interiorizzare delle regole che erano fuori di lui e che governavano il sistema familiare. Oggi non è
più così; quando nasce un bambino è lui a dettare legge e la famiglia si adatta al bambino e alle sue
esigenze: è un rovesciamento radicale, non ci sono precedenti a questo, è la dimensione idolatrica dei
bambini di oggi, i bambini sono dei piccoli dei a cui è difficile per i genitori introdurre lo spigolo
duro del no, lo spigolo duro del limite. Il nostro mondo è un mondo che ha perduto il senso del limite,
ma non perché le famiglie siano cattive famiglie, ma perché è molto difficile per dei genitori far
esistere il senso del limite all’interno di una famiglia quando fuori dalla famiglia tutto mostra che il
senso del limite è insensato, quando tutto fuori della famiglia è “perché no? Perché rinunciare?
Perché limitare il godimento immediato di qualsiasi cosa?”. Noi siamo cresciuti in un tempo in cui la
rinuncia aveva un senso perché preparava la vita alla realizzazione di progetti più ambiziosi e più
ampi; oggi la rinuncia è sempre più socialmente priva di senso, il mondo ha perso senso, il mondo ha
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“Com’è difficile essere padri”
perso limite. Noi siamo in un mondo dove l’unico senso che sembra esserci è quello del godimento
compulsivo.
Tutto il degradamento della figura che il papà ha avuto nell’ultimo decennio in Italia è una cifra
politica fondamentale di questa degradazione. Il mio pensiero è che ci sono delle angosce che
attraversano i genitori assolutamente nuove. Ve ne cito due come esempio: l’angoscia dei genitori di
non essere sufficientemente amati dai propri figli, questa è un’angoscia che non esisteva trent’anni fa,
mio padre non si è mai chiesto quanto io lo amassi, ero io che mi chiedevo se contavo qualcosa per
lui, se avevo un posto nella sua vita; oggi i genitori sono affannati nell’interrogare l’amore dei propri
figli, questo fatto li detronizza rispetto a qualunque funzione educativa, perché per essere amati
bisogna sempre dire di sì e dunque la funzione dello spigolo duro del no, fondamentale per ogni
percorso di formazione, viene meno. Un mio paziente tossicomane mi diceva che suo padre non era
mai riuscito a dirgli un solo no, mai un solo vero no. Questo rende la vita senza argini, non c’è
nessuna generazione come questa che vive l’esperienza dell’assenza di argini. Noi sappiamo che il
conflitto generazionale attraversa la storia del mondo, le vecchie generazioni contro le nuove, i figli
contro i padri; il problema di oggi è assolutamente diverso, perché non c’è più la dimensione del
conflitto che passa attraverso le forme dell’ideologia, del contrasto nei confronti di una causa che dà
senso alla vita.
a nostra esperienza del mondo oggi è l’esperienza di una insensatezza diffusa.
’altro esempio è l’angoscia sulle capacità prestazionali dei propri figli. Oggi i genitori non tollerano
più l’esperienza del fallimento in un figlio, né l’esperienza anche del difetto fisico, correggono il
difetto fisico, tutti i bambini oggi hanno apparecchi dentali perché tutto deve essere al posto giusto,
tutto deve essere limato seguendo una rappresentazione ideale della forma. Ma soprattutto il bambino
deve essere capace di prestazione, quindi il tempo del fallimento, dello sbandamento, dell’errore,
della difficoltà, dell’incertezza, del dubbio viene violentemente abolito e quando una cultura
demonizza il fallimento è una cultura che si perde perché si disumanizza, perché pensa che il
soggetto sia un robot, sia una macchina produttiva e quando la macchina produttiva è inceppata
bisogna sostituirla con una nuova, quando un bambino viene male bisogna farne uno nuovo o bisogna
correggere quello di prima, cioè si perde di vista il fatto che ciò che costituisce l’essenziale della vita
non è l’uniforme, non è il raddrizzare le viti, ma è la stortura, amare la stortura, amare la vite storta,
questo è quello che conta. ’amore per la stortura è veramente ciò che dovrebbe orientare la pratica
educativa, che è amore per il talento, per le attitudini, per le anomalie, per le bizzarrie. Oggi invece si
pensa ai propri figli come a delle macchine, se uno va nella cameretta di un bambino di dieci anni
sembra di entrare in uno studio della Nasa, c’è un eccesso di oggetti morti. Questo ha una ricaduta
nella clinica: non c’è mai stato un tempo come il nostro negli ultimi venti anni per cui la depressione
è diventata una patologia che travolge la vita giovane. La depressione giovanile è un fenomeno degli
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ultimi venti anni, non c’è mai stata prima come fenomeno così di massa e diffuso; giovani che non
escono più di casa e stanno rintanati nelle loro camerette attaccati al computer, senza cercare lavoro,
senza slancio nei confronti del futuro. La depressione giovanile è una cifra del nostro tempo che va
letta. È chiaro che non fornisce il ritratto dei giovani attuali, perché ci sono giovani che fanno
volontariato, giovani che amano studiare, che amano lavorare, che non trovano lavoro. Non è il
ritratto della giovinezza, però è un sintomo profondo che noi dobbiamo saper leggere.
Dietro tutte le forme epidemiche del disagio giovanile oggi, dall’anoressia all’obesità, agli attacchi di
panico, all’alcolismo, all’abuso di sostanze, alla dipendenza da oggetti tecnologici, noi troveremo
sempre una radice, sempre la stessa, la difficoltà a desiderare. È questo che colpisce, cioè che nel
momento in cui la vita sboccia, nel momento in cui c’è il risveglio di primavera, nel momento in cui
la giovinezza dovrebbe alimentare il desiderio, noi siamo di fronte all’esperienza inaudita dello
spegnimento del desiderio. Questo caratterizza il disagio giovanile oggi: lo spegnimento del
desiderio. Nella mia generazione il problema non era lo spegnimento del desiderio, era il contrasto
radicale e profondo tra desiderio e conservazione, tra sogno e realtà, tra la nuova generazione e la
vecchia generazione; oggi non c’è più questo, oggi è vero quello che diceva Giacomo, cioè i figli
assomigliano ai padri, i padri assomigliano ai figli, parlano allo steso modo, si vestono allo steso
modo, giocano con gli stessi giochi, c’è una caduta della differenza generazionale che ha un effetto di
disorientamento diffuso.
Io personalmente non rimpiango il passato, penso che sia impossibile recuperare quelle forme di
rispetto e di trasmissione e filiazione che funzionavano in passato. Tra vent’anni la famiglia
composta da una coppia eterosessuale con due figli bianchi sarà una pulce in un oceano, la famiglia
va verso una stratificazione sempre più complessa e non c’è niente che arresterà questo processo; il
problema vero non è cercare di difendere l’ago nel pagliaio, perché la complessità sarà il nostro
destino, il problema è che in questa stratificazione antropologica non si distrugga la famiglia, il
legame familiare e dunque il tema dell’educazione; ma questo è il nostro destino, cioè rimpiangere
una società verticale dove la parola del padre dettava legge solo perché era pronunciata dal padre,
questo non era un buon modello e non bisogna rimpiangerlo. Nei due papi io non vedo
un’espressione di forza, nei due papi io vedo uno strabismo sconvolgente, angosciante, come quando
sono apparsi vicini l’uno all’altro, sembrava un’immagine surrealista, non è mai accaduto prima, è
qualcosa che marca una discontinuità profondissima, ma il problema – se posso dire una parola su
un’istituzione che conosco solo dall’esterno, una delle più grandi istituzioni occidentali – della
Chiesa non è questo strabismo, questo sdoppiamento del padre che ne mostra tutta l’inconsistenza
non significa che dobbiamo liquidarlo, ma come fa Francesco (così io leggo il suo pontificato)
significa che bisogna ripensare il padre dai piedi, non dall’ideale, dalla gloria immutabile della
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dottrina, ma dai piedi, cioè da un ritorno a Gesù, da un ritorno alla lettera, dall’esempio, dall’atto, dal
gesto; questo può rifondare un senso della paternità, ma se noi ci affidiamo al rimpianto nostalgico
della trasmissione del desiderio da una generazione e l’altra attraverso l’autorevolezza di una parola
garantita dalla tradizione, secondo me non stiamo interpretando in modo giusto il nostro tempo.
Una parola su Gli sdraiati: questa è la generazione degli sdraiati, Michele Serra ha ragione, dà un
ritratto molto preciso della giovinezza di oggi; il fenomeno della dipendenza dagli oggetti tecnologici
per chiunque si occupi dei giovani di oggi è un problema diffusissimo. Io ho a che fare con ragazzi
che vengono portati da me dai genitori, che vivono in una dimensione di apatia frivola e di
connessione perpetua con l’oggetto, per cui la cultura, il sapere, la lettura, lo scambio, l’amore
perdono di significato. Il problema è come noi possiamo “sconnetterli”, perché è giusto essere
connessi, ma non sempre, bisogna alternare la connessione alla sconnessione. La sconnessione è
importante, è importante stare soli, la pausa, il silenzio, lo scambio, l’amicizia, l’uso dei social
network, ecc. Il problema è che oggi c’è una connessione perpetua, che non dà spazio alla
sconnessione. La sconnessione è il momento in cui uno si ritrova con il suo proprio desiderio, “cosa
desidero io? Cosa voglio fare della mia vita? Sono un albero capace di dare frutti o no? Che frutti
produco?”. Mi pare che Gli sdraiati indichi il problema, il fatto che questa generazione non è
demoniaca, ma sta vivendo un grande problema che è quello del fatto che non ci sono più
giustamente adulti che trasmettono il desiderio, che accendono le vite. È facile accendere un
computer, ma come si accende una vita? Una vita si accende solo attraverso la passione, una passione
accende la vita per contagio. Il nostro tempo ha bisogno di testimoni capaci di accendere le vite
attraverso le passioni, attraverso le testimonianze di desiderio, ma non attraverso il rimpianto di come
era, quello è un tempo secondo me veramente esaurito; e io aggiungo anche: meno male che è
esaurito, meno male, perché io ricordo molto bene come veniva portata l’educazione. Io sono stato
uno degli ultimi bocciati nel Regno Unito, in seconda elementare, e ricordo molto bene il momento in
cui decisi di non apprendere più nulla, quando la mia maestra ci dava delle bacchettate col righello o
ci faceva mettere le mani nella neve; non bisogna rimpiangere questo, questi sono gesti di una
pedagogia autoritaria che per fortuna è morta. Mi faceva mettere le mani nella neve, poi giustamente
tornavo a casa con le mani viola e mio padre mi dava uno schiaffo. Non sono belle cose queste, meno
male che è finito questo tempo; ma il momento in cui io staccai la mia attenzione dal discorso della
mia maestra fu quando ella chiese a noi bambini di seconda elementare qual era secondo noi la
bellezza del fuoco; su questo ciascuno di noi disse qualcosa, le cose più diverse, e la maestra ci disse:
“no, non capite nulla, la bellezza del fuoco è che si muove”. Di fronte a questa scienza, una sola
risposta alla bellezza del fuoco, si capisce che questa è l’educazione autoritaria, per la quale di fronte
alla bellezza c’è una sola risposta, una sola interpretazione che vale, mentre tutto il resto è falso. Noi
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siamo usciti da questo tempo, noi dovremmo essere una scuola che rende possibili più interpretazioni
della bellezza del fuoco e non avere nessuna nostalgia del pensiero unico, del fatto che esista una sola
lettura della bellezza del fuoco.
G. FRANGI: C’è materia per Franco Nembrini. Vai, sottolinea questo passaggio, che poi è la risposta
alla tua questione riguardo al perché più si sottostima la radice e la difficoltà di desiderare.
F. NEMBRINI: Sono solo un po’ imbarazzato, perché temo, se ho capito bene la risposta del
professore, di essere stato decisamente frainteso. Non ho nessuna nostalgia per tutte le cose che ha
detto, sono assolutamente d’accordo con lui; su questo riesco a spiegarmi. Sono d’accordo in tutto
perché proprio le cose che dice mi fanno andare avanti e mi fanno chiedere: se è cambiato tutto e
cambierà tutto, se il modello antico non funziona più, dove andremo a prendere quella passione,
quella capacità di accendere la vita, attraverso una testimonianza di una passione? Quando io dico
che ho ricevuto un’educazione di un certo tipo, che ho sentito e sento adesso piena di un perdono,
piena di un’infinita possibilità di risposta, non faccio assolutamente riferimento a quegli episodi,
peraltro forse diffusi, che tutti per l’amor di Dio siamo contenti di aver lasciato alle spalle; io dico
che il fenomeno educativo – ma forse appunto l’ha detto anche lei – ha un dinamismo, segue un
percorso, segue una legge che è la stessa da Adamo ed Eva a qualsiasi cambiamento che accadrà tra
2000 anni, perché il cuore dell’uomo resta il cuore dell’uomo, e la ragione resta la ragione. Potranno
esserci tante difficoltà in più, di carattere sociologico, familiare, anagrafico, sessuale, identificativo;
c’è una perdita della figura del padre, siamo diventati tutti grandi con Topolino, non c’è uno straccio
di padre; zii, nonni, cugini, morosi che non si sposano mai…tutti siamo diventati grandi con
Topolino.
C’è tutto un clima per cui si spiega quello che si diceva, per esempio, la questione tecnologica mi
sembra che tra le altre cose introduca una sfiducia gravissima nella figura paterna, perché anche in
questo senso non era mai accaduto prima che i detentori della conoscenza necessaria per far
funzionare le robe fossero i figli e i padri facessero la figura dei deficienti. Fino alla generazione
prima della nostra, il padre era per definizione possessore degli strumenti che garantivano il lavoro, la
vita, possessore della conoscenza; e il figlio doveva imparare. Adesso io devo chiamare mio figlio
per chiedergli di aggiustarmi l’iPad, l’iPhone che mi ha regalato, che fa quello che vuole; io mi
arrabbio, e loro invece lo governano, mi guardano e mi sento un deficiente; non era mai accaduto
prima, è un piccolo particolare, ma per dar proprio ragione a quel sentimento di mutazione
antropologica che dai suoi effetti vedo grave e devastante. Ma insisto, mi pare di dover insistere;
proprio perché è così, da dove ricominciamo? Quando io ho finito di leggere Gli sdraiati - siccome
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frequento centinaia di ragazzi delle superiori, sottoscrivo pienamente quello che hai detto - m’è
venuta su un’angoscia, perché ho pensato che questo libro fotografi il problema di dove ti attacchi;
non so se avete letto il testo ma la fine, un po’ artificiosamente, non si capisce perché ma accade che
il figlio quel giorno decida di andare in montagna, senta la parola “papà” eccetera. E d’altra parte mi
vien da dire che l’educazione, il fiorire, l’accendersi della persona è un miracolo così grande che io
credo nasca per mille circostanze e mille ragioni, forse è merito dei genitori, dei figli, di certi
educatori, non lo so, ma accade. Accade in tempi e situazioni insospettate e insospettabili e questo ci
dice che si può far veramente quella cosa che abbiamo detto all’inizio: scommettere. Scommettere
sulla libertà, sulla giustezza del cuore, cioè del desiderio.
Anche rispetto a quella cosa che ha detto sul desiderio, io sono andato in giro per tre anni a spiegare
il rapporto Censis, che quando è uscito ha detto che il problema dell’Italia è la caduta del desiderio; è
troppo vero! Ma io dico anche che laddove un adulto vive questo desiderio accende platee di
centinaia di migliaia di studenti; mi capita, perché vado spesso in giro a leggere Dante. Dante è stato
buttato fuori dalla scuola negli ultimi cinquant’anni perché è astratto, difficile, antico, non c’entra
niente col mondo di oggi; venite con me, venite con me nelle scuole, a leggere Dante e vedere platee
di ragazzi modernissimi, sdraiatissimi, connessissimi, che non vedono l’ora di sconnettersi, di alzarsi
dal divano, per l’altezza di una proposta. Muoiono di noia, muoiono di bassezza, ma è una bassezza
che gli comunichiamo noi, che è la nostra; in questo mi sembra che una generazione di adulti che si
riscuotesse, ritrovasse per sé il desiderio, necessariamente lo comunicherebbe attorno a sé.
Vado sempre in giro con un mucchio di lettere, posso leggerne un pezzettino? Mi sembra
significativo: questo che scrive è lo sciocco della scuola; in tutte le scuole ci sono tanti deficienti, ma
uno è più deficiente degli altri. Tutti gli anni c’è quello lì, quello che ti fa tribolare, quello che
vorresti buttar fuori, quello che non studia, sdraiato veramente. Solo che, dopo tre anni così, una sera
durante una festa della scuola, gli capita di suonare; gli piace suonare la chitarra, è l’unica cosa che
fa. Sale sul palco; praticamente abbiamo organizzato per lui la band di insegnanti, che con lui
suonano la chitarra. Io non ho assistito allo spettacolo; lo incrocio quando esce e ha una faccia che mi
porta a chiedergli cosa gli è successo. Mi risponde, mi dice delle cose, e io gli chiedo di scriverle, di
imparare a scrivere, che anche noi insegnanti abbiamo bisogno di qualche soddisfazione nella vita; è
vero che è un mestiere da seminatori, però se ogni tanto ci va bene siam contenti. Un ragazzo su cui –
vi giuro – non avreste scommesso una lira, neanche un euro, mi scrive alla tre di notte queste poche
righe: “è con serate come questa che capisco che l’Italia non andrà in rovina”; una dichiarazione di
senso civico che neanche ventimila ore sulla Costituzione gliel’avrebbero permesso. Questo se ne è
fregato di casa sua fino al giorno prima e adesso pensa all’Italia: ha il tricolore davanti. Ha in mente
l’Italia, la bandiera; è una cosa sconvolgente. “Questa sera sul palco mi sono accorto che la passione
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può vincere ogni cosa”; descrive quella mattina di lavoro durissimo, per esempio: non vedono l’ora
di far fatica, è che nessuno gliel’ha chiesto, perché la natura ha sicuro una volontà di fatica ad un
certo punto della vita, che andrebbe assecondato. E invece, pur di evitare la fatica e il dolore, tiriamo
su appunto degli sdraiati. Ma è colpa nostra, capite? Insomma, descrive come ha lavorato e poi dice:
“quando si è uniti da una passione così, mi accorgo che si può fare davvero di tutto. Capisco che una
serata come questa mi valorizza di più che cento notti tra alcool e canne, perché stasera per la prima
volta sono stato un uomo. Ed ero sul palco con i miei professori, amici di un’amicizia vera e forte.”
Poi spiega il rapporto con lo strumento, con la musica in un maniera incredibile e chiude dicendo:
“non ho paura. Non ho più paura. Ce la posso fare. Se affronterò la vita come questa sera, la feccia
che mi circonda morirà ai miei piedi”. Io sono saltato sull’attenti e ho detto: “questo è lo scopo della
scuola”.
Il sentimento terribile, che poi origina le patologie di cui abbiamo sentito e che hanno, può esser
vinto per un’esperienza di bene grande, grande, grande; gliela si fa intravedere e allora il cuore, il
desiderio si accende, anche attraversando dieci metri di cemento armato, per la potenza di una
testimonianza. E in questo credo proprio di poter dire che siamo assolutamente d’accordo. Ma è
possibile, e accade in modi misteriosi, con chi proprio non avresti mai detto, in un momento diverso
per ciascuno: a qualcuno a 16 anni, ad altri a 10, a qualcuno a 20, a qualcuno sembra mai, perché?
Perché è una cosa veramente misteriosa; l’altro è più grande dei tuoi progetti, delle tue fisse, delle tue
quattro idee.
A me sembra, e volevo proprio chiarirlo, che non sia un problema nostalgico, ho il problema della
verità, che si abbia il coraggio di dire le cose che stiamo ascoltando stasera, e di assumere la
responsabilità, capendo dagli insegnamenti di gente che se ne intende dov’è il punto più rischioso,
più debole; questa questione del dolore, delle fatica è terribile.
Racconto un aneddoto: ho gemellato la mia scuola con un Liceo siberiano, a Kjemerovo in Siberia;
mi hanno regalato la pelle di un orso siberiano, una bestia di cui non avete idea, 2,72 in piedi; l’ho
portato a scuola, ed è cominciata a girar la voce tra i bambini. Non li tenevamo più; allora, ci siamo
detti di farglielo vedere. Il mattino successivo, disteso l’orso su un tavolo, lo portiamo fuori, ad un
quarto all’una; a quell’ora i bambini sono già impacchettati, pronti per partire. Essendo un quarto
d’ora prima ci sono già le mamme che li aspettano. Esco con l’orso, e avreste dovuto vedere questi
bambini: dieci classi di scuola elementare, duecentocinquanta bambini, in un silenzio totale, con gli
occhi fuori; io sono il rettore della scuola, prendo il microfono per dire due stupidate, sto per parlare
quando arriva la direttrice dell’elementari; mette una mano sul microfono e mi dice. “Franco, Franco,
non devi dire che l’hanno ammazzato. Lo vedi quel gruppo di mamme? Han detto che, se dici che
l’hanno ammazzato, sottoponi i loro bambini a questo shock terribile, di violenza gratuita, ci
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denunciano al WWF e agli ambientalisti”. Io sono stato ispirato, veramente, e ho spiegato ai bambini
che in Siberia fa così freddo, ma così freddo, ma così freddo, che l’orso è morto di polmonite. C’è
stata una risata generale, e ce la siam goduta tutti, però io che sono un educatore ho detto alle
maestre: “adesso, è andata bene così, però domattina quando entrate nelle classi, ancora prima di
salutare i bambini, chiedete loro come è morto l’orso”. All’unanimità tutti i bambini hanno riposto:
“ammazzato”, perché quelli il cervello ce l’hanno, le loro mamme forse hanno qualche problema.
Ma noi che facciamo scuola potremmo raccontarvi episodi che vi gelano il sangue, sul problema ad
esempio della morte del nonno, per cui la bambina chiede per un mese alla maestra quando torna il
nonno, perché quei delinquenti dei genitori le han detto che è partito per un lungo viaggio.
Succedono cose terribili e io dico solo, a fronte di una tendenza, di una debolezza,che è nostra, non
dei nostri figli, che qualcuno si tiri su la maniche e riprenda l’ABC di quella che è stata chiamata
stasera una testimonianza, perché l’educazione resta quella testimonianza, lasciando al passato gli
abomini e le storture che sono state dette.
Poi dico l’ultimissima cosa: quando lui ha detto “amare la stortura”, amare la stortura nel gergo
cristiano-cattolico si chiama misericordia, o perdono. ’educazione è un perdono, accoglienza della
diversità, che l’altro fa diversamente da quello che vorresti; mi sembra di aver imparato
semplicemente questo dai miei genitori: mio papà, quando mi guardava, magari me la suonava anche,
ma sapevo che mio padre avrebbe dato la vita per me. In quel momento preciso, non se fossi
cambiato, migliorato, diventato più buono; non gliene importava niente. Mio padre e mia madre
avrebbero dato la vita per me, così com’ero: coi miei difetti, con le mie storture mi amavano, cioè mi
perdonavano. A me sembra che questo suggerimento vada raccolto assolutamente e sia proprio il
cuore della questione educativa.
G. FRANGI: C’è una battuta di Recalcati che mi porta a fare una domanda a Giacomo.
G. PORETTI: Sì, ma dopo la storia della misericordia e dell’orso siberiano, che cosa ti racconto? Ha
tirato fuori due assi, lui tira fuori i poker... Avevo finito in scioltezza...
G. FRANGI: Vai, vai, ti tocca, ti tocca. Il tema è quando dicevi che “l’essenziale è amare la vita
storta”; tu prima dell’incontro mi raccontavi della lettura di questo libro che andrai a presentare, Un
gettone di libertà di Massimiliano Verga. Mi sembrava una storia bellissima, quella che raccontavi, a
proposito dell’amore per la vita.
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“Com’è difficile essere padri”
G. PORETTI: Sei una carogna; non pensavo che mi avresti messo in difficoltà così, te l’ho raccontato
davanti alla pizza. Mi è venuto in mente il discorso che faceva Recalcati e anche tutta questa serata.
Cerco di raccontarvi in sintesi la vicenda di questo libro, perché ha dell’incredibile come si collegano
tutte le cose. Massimiliano Verga ha scritto due libri: il primo credo tre anni fa, che si chiama Zigulì,
ed è la storia drammatica di suo figlio, la racconto brevemente. La vicenda è questa: lui ha tre figli, e
il secondo, Moreno, all’età di dieci mesi, era un bambino normale, un giorno sta molto male, in
sostanza gli viene un ictus molto grave e, da quest’emorragia molto imponente, il bambino diventa
cieco e perde tutte la capacità cognitive e relazionali. Drammaticamente, anche con una certa ironia,
si sforza di raccontare e il titolo Zigulì è perché lui metaforicamente pensa che il cervello di suo figlio
sia grosso per l’appunto come la caramella Zigulì. Racconta questa vicenda, questa tragedia, e tra una
settimana uscirà il secondo libro, Un gettone di libertà, perché ora questo bimbo ha dieci anni, e
Verga si pone diversi interrogativi lancinanti su che cosa voglia dire essere padre di un figlio così, ma
soprattutto svela una vicenda che ha dell’incredibile, e che in qualche modo ha a che fare con la
discussione di questa sera. Quando il bambino, dieci anni fa, stette male, i medici per cercare di fare
una diagnosi (che tutt’ora non è ancora stata fatta con precisione) prescrissero a lui e alla moglie di
fare degli esami del sangue, per vedere se c’era qualche cosa di genetico. ui racconta questa vicenda
anni dopo; succede che quando Massimiliano Verga dice ai propri genitori di fare gli esami del
sangue, perché bisogna scoprire se c’è qualcosa di genetico che è andato storto, e il padre
stranamente per un po’ di tempo si rifiuta di fare gli esami del sangue. È talmente preso dalla vicenda
del figlio che non chiede subito, dopo un po’ chiede, insomma: il padre confessa di non essere il suo
padre biologico. Lui scopre questa cosa terrificante e per almeno un paio di capitoli, in questo libro,
si interroga su questa cosa riflettendo sul fatto che il genitore è colui che ti cresce, quello che stavamo
dicendo prima;ve il padre, quello che si occupava di lui, non gli ha mai detto niente; la questione è
venuta fuori solo perché c’è stata la questione degli esami. Massimiliano si interroga: “è qualche cosa
di straordinario, perché questa persona, che non era mio padre biologico, per trent’anni e passa ha
fatto il padre, non giudico se bene o male, ma mi ha voluto bene, mi ha accolto e ha fatto questa cosa
qua”. E quindi, mi ha colpito, perché sapevo degli argomenti, è una vicenda molto particolare, molto
dettagliatamente particolare, però secondo me si inserisce benissimo nel discorso che abbiamo fatto,
e, ahimè, avete affidato a me la conclusione. Non so come concludere, però mi colpisce la questione
della testimonianza: prima lui parlava dei figli che sono connessi e di che cosa dobbiamo fare per
“sconnetterli” e per “sconnetterci” noi a nostra volta. Tu domandavi: “va bene tutto questo, ma che
cosa dobbiamo fare?”. Mi sembra che un’altra parola che è emersa bene, anche se è qualche cosa di
confuso, è quella della testimonianza: ci provo, tento; alla fin fine, l’esempio nostro è sempre quello
lì, è quello del santo della nostra festa, di S. Giuseppe. Alla fin fine, a questa figura qua – giova
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sempre ricordarlo – io ho provato tante volte a pensarci quando facevo, da piccolino, il presepe con
mio papà e con mia mamma; mi sembrava strano che quel San Giuseppe lì avesse quella faccia così
triste, eppure gli è nato un bambino. Come fa ad essere così triste? Eppure, anche con un po’ di
ironia, tante volte ci ho pensato a quella figura, al dramma e all’umiliazione che ha dovuto sopportare
dentro di sé quando l’angelo gli ha detto: “Quello non è figlio tuo, l’ha fatto qualcun altro, non ti
preoccupare, non ti allarmare”; lui è stato triste per alcuni giorni e poi ha accettato questa cosa qua.
Mi sembra che (io non ho studiato teologia, non ho studiato niente! – dopo ti racconto l’episodio su
Al -) lì ci sia da meditare profondamente per persone che vogliono testimoniare la propria fede e
vogliano usare la fede come un esempio di senso, come mi sembra sia proprio questo qua: che noi
non ci siamo fatti noi, punto e stop; ci ha fatti Qualcuno. Questo fatto è un regalo, un dono. Che cosa
ha in mente fino in fondo lo sa solo lui. È importantissimo capire questa cosa qua: io vengo da
qualcuno. Non è solo la mia potenza che ha creato il figlio che dà vita. Io sono un tramite. Dentro
quella meditazione lì, che ha un che di umiliante se vuoi, però c’è la salvezza della testimonianza.
Chiudo con una battuta, da buon comico; mi è venuto in mente uno dei miei due soci, Aldo, il quale,
di famiglia di emigranti, è stato bocciato due volte in prima elementare, ma la cosa più drammatica
gli è capitata - è una prova molto dura, noi lo prendiamo in giro - quando è uscito dalla terza media:
sul suo giudizio c’era scritto: “attitudini: nessuna”.
G. FRANGI: è stato molto utile. Il tema del dare fiducia è un tema chiave, è come un rischio che
l’adulto deve correre, dare fiducia a questa generazione, volenti o nolenti. Noi amiamo questa
generazione, tentiamo di tirarli fuori, con in nostri mezzi; però bisogna dare fiducia anche a quel tipo
di uomo lì, è una delle sfide più grandi. Credo che questa sera voi ci avete incoraggiato a questo.
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