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Il precedente
IV
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO
NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI.
ANALISI DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
IN TEMA DI POTERE ESTERO REGIONALE
di Luca Andretto
- 1. Notazioni preliminari e premesse di metodo - 2. Il leading case:
la sentenza n. 179/1987 e la distinzione delle attività di mero rilievo internazionale - 3. La formazione progressiva del precedente: integrazione e specificazione, alla luce del principio collaborativo - 4. Un episodico (e tacito) strappo giurisprudenziale: la sentenza n. 425/1995 - 5. La
riforma costituzionale e i suoi effetti sul potere estero regionale: gli interrogativi lasciati dalla sentenza n. 258/2004 - 6. Conclusioni: la Corte
costituzionale come tutore della forma di governo e il ruolo del precedente giudiziario nel conflitto di attribuzioni
SOMMARIO:
1.
NOTAZIONI PRELIMINARI E PREMESSE DI METODO
Com’è noto, gli ordinamenti di Civil Law non attribuiscono
efficacia vincolante al precedente giudiziario. In essi, la certezza
del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie sono assicurate dalla produzione positiva di un apparato di norme generali e astratte, che i giudici sono chiamati ad interpretare ed applicare in relazione ai singoli casi concreti. Le decisioni precedentemente adottate per casi analoghi dallo stesso o da altri giudici assumono, al più, valore persuasivo: meri elementi di convincimento, di per sé non risolutivi, rimessi al libero apprezzamento del giudicante (1).
(1) F. GALGANO, Il precedente giudiziario in civil law, in F. Galgano (a cura di), Atlante di diritto privato comparato, Bologna, 2006, p. 29 ss. Sulla base dei principi affer-
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Questa sintetica ricostruzione non vuole certo risolvere la
complessità dell’argomento (2). Funge, piuttosto, da punto di partenza problematico per la trattazione di un tema contiguo ma
maggiormente specifico: quello relativo alle modalità di utilizzo
del precedente nella giustizia costituzionale. Merita precipua attenzione questo tema, per la peculiarità e profondità delle problematiche quivi emergenti: problematiche che, per certi aspetti,
giungono ad investire gli stessi fattori di legittimazione dei poteri del Giudice costituzionale.
Ai fini del presente studio, occorre innanzitutto ricordare
che la Corte costituzionale non gode di legittimazione democratica: le regole sulla sua composizione fanno eccezione al principio della struttura rappresentativa degli organi costituzionali e riflettono, piuttosto, la natura pattizia della Costituzione italiana,
ripartendo fra i poteri dello Stato la nomina dei giudici della
Corte (3). A controbilanciare la tendenziale politicità dell’organo,
che a ciò potrebbe conseguire, stanno il principio di collegialità
e la scadenza graduale dei giudici costituzionali, nonché la norma che richiede elevati requisiti tecnico-giuridici ai fini della nomina (art. 135 comma II Cost.): elementi sicuramente volti, in
qualche misura, a rendere meno volubile l’andamento della giurisprudenza costituzionale (4).
In secondo luogo, occorre altresì ricordare che la Corte costituzionale si distingue, sotto il profilo funzionale, dagli organi
mati dalla Corte di cassazione, l’Autore giunge alla conclusione che, nell’ordinamento italiano, il valore del precedente giudiziario si risolverebbe in ciò: «esso dispensa
il giudice che vi si adegui dall’obbligo di motivare; impone al giudice che voglia discostarsene l’obbligo di motivare convincentemente il rifiuto».
(2) Per una ricca bibliografia in materia, cfr. M. BIN, Il precedente giudiziario. Valore e interpretazione, Padova, 1995.
(3) Sul reale significato della composizione ad “origine tripartita” della Corte
costituzionale e sulla sua estraneità al circuito democratico, cfr. G. ZAGREBELSKY,
Principi e voti. La Corte costituzionale e la politica, Torino, 2005, passim.
(4) In particolare, sul principio di collegialità, cfr. G. ZAGREBELSKY, op. cit., p.
67 ss.
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che compongono l’ordinamento giudiziario. Essa, infatti, principalmente nei giudizi sui conflitti, «esercita essenzialmente una
funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia della
osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni» (5). Nondimeno, la giustizia costituzionale si è adattata al modello giurisdizionale, in tanto in quanto ritenuto il più idoneo a garantire
l’efficace esercizio delle sue peculiari funzioni (6). Tuttavia, proprio per tal motivo, le regole che generalmente presiedono all’esercizio della funzione giudiziaria possono essere derogate laddove si rivelino disfunzionali rispetto ai fini per il perseguimento
dei quali la Corte costituzionale è stata istituita ed opera (7).
(5) Corte cost., sent. n. 13/1960, in Giur. Cost., 1960, p. 130 ss., punto 1 del considerato in diritto. La stessa Corte, in questa pronuncia, non esita a definire la propria
funzione «senza precedenti nell’ordinamento italiano».
(6) Cfr. sent. loc. ult. cit.: «É vero che la sua attività [della Corte] si svolge secondo modalità e con garanzie processuali ed è disciplinata in modo da rendere
possibile il contraddittorio fra i soggetti e gli organi ritenuti più idonei, e pertanto
legittimati, a difendere davanti ad essa interpretazioni eventualmente diverse delle
norme costituzionali. Tutto ciò riguarda soltanto, però, la scelta del metodo considerato più idoneo dal legislatore costituente per ottenere la collaborazione dei soggetti e degli organi meglio informati e più sensibili rispetto alle questioni da risolvere ed alle conseguenze della decisione». Cfr. altresì, sul punto, G. AZZARITI, Corte
costituzionale e autorità giudiziaria (del Giudice costituzionale come giudice), in Foro It., 2000,
V, c. 35.
(7) Così in Corte cost., ord. n. 536/1995, in Giur. Cost., 1995, p. 4459 ss.: al fine
di tutelare l’autonomia e l’esclusività della propria funzione di controllo costituzionale, smentendo un precedente obiter dictum, la Corte ha ritenuto di dover negare a
se stessa la qualifica di “giurisdizione nazionale”, per esimersi dall’obbligo di attivare il meccanismo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 177 (odierno
art. 234) T.C.E. Sulle perplessità che tale scelta ha però sollevato nella dottrina, cfr.
per tutti M. CARTABIA, La Corte costituzionale italiana e il rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia europea, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, p. 117 ss.
Recentemente, la Corte costituzionale ha accolto le critiche mosse da questa
dottrina e, pur senza esplicitare il proprio revirement, si è infine espressa nel senso di
configurare se stessa quale “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 234 T.C.E.,
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A tale valutazione di funzionalità non si sottrae, a rigore,
neppure il principio di non vincolatività del precedente giudiziario. In mancanza di un’univoca indicazione della Carta fondamentale, l’eventuale estensibilità di detto principio al campo della giustizia costituzionale va, dunque, vagliata alla luce dei caratteri peculiari di quest’ultima, e ulteriormente distinta in ragione
delle diverse tipologie di giudizi costituzionali, che rispondono a
logiche e funzioni fra loro eterogenee (8).
L’obiettivo che si propone il presente studio è quello di determinare il valore del precedente nell’ambito dei giudizi per
conflitto di attribuzioni. In queste tipologie di giudizio, la Corte
è chiamata a risolvere quelle fratture dell’equilibrio politico-istituzionale, che originano da pretese invasioni delle altrui sfere di
competenze costituzionali da parte di soggetti o organi non legittimati.
L’individuazione dell’oggetto essenziale di questi giudizi è stata al centro di una lunga querelle interpretativa. Se, da un lato, l’oggetto del conflitto non può essere fatto coincidere con l’atto lamentato come invasivo della competenza (atto che può anche
mancare nei conflitti interorganici), esso non può neppure semplicemente risolversi nella competenza in quanto tale, astrattamente intesa (9). In quest’ultimo caso, infatti, la pronuncia della
Corte finirebbe per acquisire la forza incontrovertibile del giudicato (art. 137 comma III Cost.) e, trascendendo la fattispecie
operando pertanto per la prima volta un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia:
cfr. l’ord. n. 103/2008, in www.cortecostituzionale.it/giurisprudenza/pronunce/.
(8) Cfr., per un esame limitato ai giudizi di legittimità costituzionale delle leggi
e degli atti aventi forza di legge, A. ANZON, Il valore del precedente nel giudizio sulle leggi.
L’esperienza italiana alla luce di un’analisi comparata sul regime del Richterrecht, Milano,
1995.
(9) La letteratura più risalente spesso configurava le decisioni della Corte sui
conflitti di attribuzione come interpretazioni incontrovertibili ed erga omnes delle
norme costituzionali sulla competenza: cfr. F. CASSARINO, Un preteso conflitto di attribuzioni, in Giur. Cost., 1959, p. 389.; A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Conflitti fra Stato e
Regioni, in Enc. Dir., VIII, Milano, 1962, p. 1002.
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concreta per imporsi in ogni successiva ipotesi in cui venisse in
discussione la spettanza della medesima attribuzione, irrigidirebbe in modo inaccettabile il riparto delle competenze costituzionali.
Oggi, dottrina e giurisprudenza sembrano concordi nel ritenere che oggetto essenziale del conflitto di attribuzioni sia bensì
la competenza costituzionale, ma che della stessa la Corte debba
determinare la spettanza in concreto e con riguardo allo specifico atto o contegno lamentato dal ricorrente come pregiudizievole (10). La decisione della Corte non potrà, pertanto, inibire la
proposizione di successivi giudizi circa la spettanza della medesima competenza, ma assumerà nondimeno in essi la forza propria del precedente. Quale sia, poi, l’intensità di tale forza, è compito del presente studio determinare.
I conflitti di attribuzione sono ritenuti le tipologie di giudizio costituzionale più difficilmente inquadrabili entro schemi processuali. La Corte costituzionale – essa stessa “potere” dello Stato – svolge quivi una funzione che la letteratura preferisce defi-
(10) A. CERRI, Competenza, atto e rapporto nel conflitto di attribuzioni, in Scritti su la
giustizia costituzionale in onore di Vezio Crisafulli, Padova, 1985, p. 179 s., individua l’oggetto del conflitto nel «rapporto di potere […] con riferimento ad un certo atto o
comportamento; non dunque un rapporto astratto, ma concreto, circostanziato, individuato da precisi termini di riferimento». Accolgono tale impostazione S. GRASSI, Il giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, Milano, 1985, p. 176 ss.; G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p.
360 ss.; E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, Torino,
2007, p. 187 ss. Anche la prevalente giurisprudenza costituzionale si orienta oggi in
questo senso: cfr. la sent. n. 343/1996, in Giur. Cost., 1996, p. 3004 ss., punto 2 del
considerato in diritto; in un conflitto di attribuzioni proposto dal Governo avverso la
Provincia autonoma di Bolzano, con cui il ricorrente si limitava a richiedere l’annullamento di un accordo di collaborazione dalla stessa stipulato con un ente territoriale estero, la Corte ha affermato che «indipendentemente dalle locuzioni usate nel ricorso, la domanda con esso proposta riguarda l’accertamento della sfera di competenze costituzionali proprie dello Stato nelle attività estere, che l’atto denunciato come invasivo, del quale si chiede l’annullamento, avrebbe violato».
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nire di tipo “arbitrale” (11). Nondimeno, i giudizi in oggetto si
caratterizzano per essere giudizi “di parti”, in cui vengono in
rilievo gli interessi conflittuali di due (o più) soggetti o organi
contrapposti.
Potrebbe, per questo motivo, ipotizzarsi un utilizzo del precedente giudiziario da parte della Corte costituzionale più vicino
a quello che ne fanno i giudici comuni, rispetto a quanto è usa
fare la stessa Corte nei giudizi di legittimità. Ciò, quantomeno
con riferimento al precedente “sostantivo”; mentre invece l’estrema laconicità ed elasticità delle regole che governano la giustizia costituzionale parrebbe accrescere oltre l’ordinario l’intensità d’efficacia del precedente di tipo “processuale” (12).
Questa ipotesi teorica preliminare va, tuttavia, sottoposta al
vaglio della prassi giurisprudenziale effettivamente seguita dalla
Consulta. Tale verifica empirica non consentirà di ritenere falsificata l’ipotesi iniziale – di una mera persuasività del precedente
giudiziario – ma ne evidenzierà piuttosto la limitatezza di prospettiva, mettendo invece in risalto il ruolo dinamico di tutore
degli equilibri costituzionali svolto dalla Corte nei giudizi per
conflitto di attribuzioni.
(11) Cfr. A. PACE, Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale nel conflitto
tra poteri, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988,
p. 170; R. BIN, L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, p. 121 ss.
(12) Sull’incompletezza ed equivocità delle disposizioni costituzionali relative ai
conflitti di attribuzioni, cfr. S. GRASSI, Considerazioni sull’origine di una disciplina incompleta (in tema di conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni), in Scritti in onore di
Egidio Tosato, III, La Costituente italiana. Aspetti del sistema costituzionale, Milano, 1984,
p. 551 ss. Sulla straordinaria efficacia del precedente giudiziario in materia processuale, che a tale laconicità consegue, cfr. M. PERINI, Considerazioni sulla giustizia costituzionale e l’efficacia dei precedenti in materia processuale, in Dir. Soc., 2002, p. 393 ss.: analizzando la giurisprudenza costituzionale in tema di improcedibilità del conflitto interorganico per tardivo deposito del ricorso notificato, l’Autore giunge alla conclusione per cui la «efficacia delle decisioni della Corte in materia processuale […] sotto diversi profili risulta assimilabile a quella del precedente nei paesi anglosassoni».
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Si è ritenuto di adottare una tecnica induttiva e di concentrare l’analisi sulle pronunce della Corte costituzionale relative ad
un tema specifico: quello del c.d. potere estero regionale. Questo settore si è invero sviluppato (almeno sino alla L.C. n.
3/2001) in mancanza di un’espressa previsione costituzionale ed
in presenza di una debolissima razionalizzazione normativa, per
giunta di rango quasi esclusivamente secondario. Esso si prospetta, pertanto, come un settore particolarmente fertile per un’analisi sull’efficacia dei precedenti giudiziari, considerata la portata per necessità innovativa che hanno assunto alcune pronunce
della Corte sul tema.
Nel prosieguo della ricerca si prenderanno, pertanto, in considerazione i soli conflitti intersoggettivi fra Stato e Regioni; ma
le conclusioni cui si riterrà di addivenire possono ritenersi estensibili, mutatis mutandis, anche all’ambito dei conflitti interorganici
fra poteri dello Stato (13).
Occorre, peraltro, immediatamente evidenziare un tratto di
specificità dei conflitti di attribuzioni in tema di potere estero:
dato di immediata evidenza è, invero, la frequenza inusitatamen(13) Come già preannunziato, l’analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di potere estero regionale metterà in particolare risalto la funzione di tutela degli
equilibri costituzionali svolta dalla Corte nei conflitti intersoggettivi. Le conclusioni
cui si giungerà dovranno, pertanto, ritenersi a fortiori estensibili ai conflitti interorganici, stante la maggiore politicità che, in generale, si ritiene caratterizzare quest’ultima tipologia di giudizio. Cfr., sul punto, G. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 335: l’Autore rileva come nei conflitti intersoggettivi prevalga un carattere tecnico-giuridico,
mentre in quelli interorganici emergerebbe soprattutto il carattere politico del conflitto; il comune denominatore delle due tipologie sarebbe, peraltro, individuabile
nel concetto di “pluralismo istituzionale”, inteso nella duplice declinazione di pluralità degli organi costitutivi della forma di governo, da un lato, e di pluralità dei soggetti costitutivi della forma di stato, dall’altro. Evidenziano profili di assimilazione dei
due tipi di conflitto costituzionale A. PIZZORUSSO, voce Conflitto, in Nov. Dig. It., Appendice, II, Torino, 1981, p. 367; S. GRASSI, Conflitti costituzionali, in Dig. Disc. Pubbl.,
III, Torino, 1989, p. 369; E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, op. cit., p. 185 ss.;
contra, F. SORRENTINO, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Riv. Trim. Dir.
Pubbl., 1967, p. 721, il quale ne mette invece in risalto i profili differenziali.
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te elevata dei giudizi promossi su ricorso governativo; e ciò già
prima della riforma del Titolo V (14). In altri settori, al contrario,
il controllo preventivo di legittimità sugli atti amministrativi regionali, previsto dall’originario art. 125 comma I Cost., consentiva spesso di prevenire lo sfocio del conflitto al Palazzo della
Consulta (15).
L’atipicità formale degli atti regionali espressione di potere
estero, unitamente alla carenza di espliciti parametri positivi alla
luce dei quali vagliarne la legittimità, sono tra i principali elementi che, in quest’ambito, hanno generalmente impedito agli
ordinari strumenti di controllo statale di svolgere un’efficace
funzione deflativa del conflitto. Per altri versi, poi, il fatto stesso
che in detti atti la volontà regionale abbia a manifestarsi in modo congiunto con quella di soggetti o enti non nazionali – elemento, questo, che di per sé solo avrebbe causato non poche
difficoltà operative alle Commissioni governative di controllo –
ben sta a suggerire il tenore squisitamente costituzionale del
conflitto in subiecta materia (16).
Questa particolarità non inficia, peraltro, la portata paradigmatica dei conflitti in tema di potere estero regionale, anche alla
luce dell’intervenuta abrogazione – con L.C. n. 3/2001 – del
controllo statale sugli atti amministrativi delle Regioni e della
conseguente tendenza dello Stato a servirsi, oggi, delle impugna(14) V. infra, nota 19.
(15) Rileva una conflittualità «a senso unico» L. MANNELLI, Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1996-1998), Torino, 1999, p. 303: nel triennio 1996-1998, in particolare,
oltre il 91% delle pronunce su conflitti di attribuzione intersoggettivi sarebbe originato da ricorsi regionali. Cfr. altresì G. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 366, il quale
mette in risalto, con riferimento ai ricorsi statali, la funzione deflativa del conflitto
svolta dal controllo di legittimità ex art. 125 Cost.
(16) Ciò non toglie che la stessa Corte costituzionale abbia espressamente più
volte sottolineato l’assoggettabilità degli atti regionali, dopo il loro compimento, alle
«regole generali in materia di controlli» (sent. n. 179/1987, punto 8 del considerato in
diritto; sent. n. 472/1992, punto 3 del considerato in diritto).
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tive in sede di conflitto quali mezzi direttamente succedanei al
perduto strumento del rinvio governativo (17).
2.
IL LEADING CASE: LA SENTENZA N. 179/1987 E LA DISTINZIONE DELLE ATTIVITÀ DI MERO RILIEVO INTERNAZIONALE
Sul piano metodologico, la presente ricerca seguirà il criterio
di una verifica empirica circa l’adesione della Corte costituzionale ai propri precedenti giudiziari, anche sotto il profilo delle tecniche argomentative utilizzate per confermare o (eventualmente) distaccarsi da soluzioni in precedenza date ai medesimi problemi. La tecnica sarà, pertanto, quella di individuare la sentenza
capostipite in materia di potere estero regionale, per poi verificare in che misura la giurisprudenza posteriore abbia accolto,
integrato o modificato le regole e i principi in essa espressi. Si
tratterà, in sostanza, di esaminare il “seguito” della pronuncia
capostipite nei successivi conflitti di attribuzione sul tema (18).
L’individuazione del leading case in questo ambito si rivela
abbastanza agevole. Con l’ausilio di banche dati informatiche e
dei relativi motori di ricerca, si sono individuate almeno sedici
pronunce in cui, nell’ultimo ventennio (1988-2008), la Corte co(17) Cfr. L. VANDELLI, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, in A. Pioggia, L. Vandelli (a cura di), La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, Bologna, 2006, p. 12 ss. I dati relativi al triennio 2002-2004 confermerebbero un tendenziale riequilibrio tra il numero dei ricorsi governativi e regionali, mentre nel 2005 il rapporto si sarebbe addirittura invertito: si registrano, infatti, ottantaquattro ricorsi governativi a fronte di soli venticinque ricorsi regionali.
Ciò denoterebbe, secondo l’Autore, un rilevante mutamento nell’atteggiamento del
Governo di fronte agli atti amministrativi regionali, «con un evidente spostamento
di molte questioni dalla contrattazione politica alla sede contenziosa, tutt’al più cercando la mediazione una volta instaurato il giudizio costituzionale».
(18) Cfr., per un’analoga impostazione dell’analisi sull’efficacia del precedente
costituzionale (in materia processuale), M. PERINI, Considerazioni sulla giustizia costituzionale e l’efficacia dei precedenti in materia processuale, cit., p. 396.
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stituzionale si è occupata di questo tema nell’ambito di giudizi
per conflitto di attribuzioni (19). In ben undici occasioni, si è potuto riscontrare nella parte motiva della sentenza l’esplicito richiamo di una decisione precedente, la n. 179/1987 (20).
La sentenza n. 179/1987 segna un momento di svolta nell’atteggiamento della Corte costituzionale verso i rapporti internazionali, perché ne supera la tradizionale concezione monolitica e centralista. La giurisprudenza precedente – a fronte del rigido silenzio serbato sul punto dalla Costituzione – aveva sempre
fatto leva sulla concezione dello Stato come unico portatore degli interessi unitari della comunità nazionale e come univoco
centro d’imputazione di obblighi giuridici nell’ambito internazionale, con l’effetto di negare alle Regioni ogni capacità di relazionarsi con soggetti esterni alla Repubblica. Gli enti regionali,
diversamente dal Governo centrale, erano infatti ritenuti porta(19) Si è fatto ricorso, in particolare, agli strumenti di ricerca testuale forniti dai
siti web www.giurcost.it e www.dejure.giuffre.it. Le pronunce costituzionali che si
sono prese in considerazione, e cui si farà riferimento anche nel prosieguo del presente lavoro, sono le seguenti: sent. n. 564/1988, in Giur. Cost., 1988, p. 2650 ss.;
sent. n. 737/1988, ivi, p. 3371 ss.; sent. n. 739/1988, ivi, p. 3377 ss.; sent. n.
42/1989, in Giur. Cost., 1989, p. 223 ss.; sent. n. 256/1989, ivi, p. 1194 ss.; sent. n.
472/1992, in Giur. Cost., 1992, p. 4304 ss.; sent. n. 124/1993, in Giur. Cost., 1993, p.
1017 ss.; sent. n. 204/1993, ivi, p. 1386 ss.; sent. n. 290/1993, ivi, p. 2089 ss.; sent.
n. 212/1994, in Giur. Cost., 1994, p. 1790 ss.; sent. n. 425/1995, in Giur. Cost., 1995,
p. 3306 ss.; sent. n. 343/1996, in Giur. Cost., 1996, p. 3004 ss.; sent. n. 428/1997, in
Giur. Cost., 1997, p. 3825 ss.; sent. n. 332/1998, in Giur. Cost., 1998, p. 2429 ss.;
sent. n. 13/2003, in Giur. Cost., 2003, p. 53 ss.; sent. n. 258/2004, in Giur. Cost.,
2004, p. 2653 ss.; soltanto cinque di questi giudizi sono sorti su ricorso regionale. A
quelli ora indicati, occorrerebbe aggiungere altri casi in cui la Corte costituzionale si
è pronunciata sul tema del potere estero, che però, stante la diversa tipologia dei
giudizi, non rivestono importanza ai fini della presente indagine: due giudizi
sull’ammissibilità di referendum abrogativi (sentt. n. 19/1997 e n. 20/1997) e numerosi giudizi di legittimità su leggi sia statali (sentt. n. 238/2004 e n. 285/2005)
che regionali (tra cui, anteriori alla L. Cost. n. 3/2001, le sentt. n. 829/1988, n.
124/1990, n. 276/1991, n. 251/1993 e n. 53/1996; per il periodo successivo, cfr.
infra, nota 99).
(20) Sent. n. 179/1987, in Giur. Cost., 1987, p. 1288 ss.
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tori di interessi «regionalmente localizzati», «territorialmente circoscritti e mai unitari» (21).
Nonostante la rigorosa chiusura di tale giurisprudenza, due
significative aperture sul piano normativo erano intervenute tra
la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta: dapprima,
l’attribuzione alle Regioni del potere di svolgere attività promozionali all’estero, riconosciuto dall’art. 4 D.P.R. n. 616/1977 e
sviluppato sotto il profilo procedimentale dal D.P.C.M. 11 marzo 1980 (22); quindi, la stipula a livello europeo e l’esecuzione
della Convenzione di Madrid sulla cooperazione transfrontaliera
delle collettività e autorità territoriali (23).
(21) Sent. n. 170/1975, in Giur. Cost., 1975, p. 1448 ss., considerato in diritto; cfr.
altresì sent. n. 32/1960, in Giur. Cost., 1960, p. 5371 ss.
(22) L’art. 4 D.P.R. n. 616/1977, adottato in base alla delega contenuta nella L.
n. 382/1975, esordiva ribadendo il principio che riservava allo Stato in via esclusiva
le attribuzioni relative ai rapporti internazionali e con la Comunità europea; tuttavia,
all’enunciazione di principio faceva seguito un’eccezione espressa: il decreto garantiva alle Regioni la possibilità di svolgere attività promozionali all’estero, nelle materie di propria competenza. Tale apertura restava, peraltro, sottoposta a precisi vincoli procedurali e sostanziali, quali l’obbligo di previa intesa con il Governo, il rispetto delle norme statali d’indirizzo e coordinamento, l’esclusione di ogni interferenza nell’ambito della politica estera. Nel dare attuazione a tale strumento, il
D.P.C.M. 11 marzo 1980 (contenente «disposizioni di indirizzo e coordinamento
per le attività promozionali all’estero delle Regioni nelle materie di competenza») adottò un’interpretazione restrittiva dello stesso, introducendo un vero e proprio
meccanismo di silenzio-diniego che, di fatto, trasformò il requisito della previa intesa – il quale postulerebbe un’attività di concertazione tra Stato e Regione – in una
necessaria autorizzazione governativa.
(23) La Convenzione di Madrid del 21 maggio 1980 conferì alle Regioni un limitato treaty-making power che, tuttavia, non poteva configurarsi come potere autonomo: agli enti locali veniva, infatti, attribuito il potere di impegnare la responsabilità internazionale dello Stato, ma entro i limiti – invero alquanto stringenti – in cui
lo Stato stesso lo avesse consentito. In primo luogo, l’ambito geografico della cooperazione transfrontaliera si estendeva soltanto agli Stati che avessero ratificato la
Convenzione. In secondo luogo, la L. n. 948/1984, che vi diede esecuzione in Italia, ne condizionò l’operatività alla previa conclusione di un accordo-quadro bilaterale fra lo Stato italiano e ciascuno degli Stati confinanti – il quale avrebbe dovuto
predeterminare le materie di possibile negoziazione fra enti regionali – nonché alla
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Nonostante il mutato contesto normativo, la sentenza n.
187/1985 era tornata a ribadire il principio della riserva statale
dei rapporti internazionali, rimarcando il carattere eccezionale –
perciò di stretta interpretazione – delle previsioni relative alle
attività promozionali all’estero (24). In particolare, la Corte aveva
sostenuto che la deroga di cui all’art. 4 D.P.R. n. 616/1977 potesse reputarsi legittima soltanto in considerazione della previsione di una necessaria intesa fra Regioni e Governo centrale,
nel pieno rispetto del principio di leale collaborazione (25).
A soli due anni di distanza, la storica svolta. Il Governo sollevò conflitto di attribuzioni nei confronti di quattro Regioni,
impugnando taluni atti da esse conclusi con enti territoriali esteri, per asserita violazione della riserva statale in tema di rapporti
internazionali (26). Sul merito di tali ricorsi, la Corte costituziopuntuale intesa tra Regione e Governo in relazione a ciascun singolo atto di cooperazione.
(24) Sent. n. 187/1985, in Giur. Cost., 1985, p. 1303 ss.
(25) Cfr. sent. ult. cit., punto 2 del considerato in diritto: «Invero, soltanto lo Stato
può valutare – discrezionalmente – la opportunità di specifiche scelte di politica
estera misurandone la coerenza con gli orientamenti generali e questo monopolio
statale viene inciso quando la Regione pretende di esercitare […] attività di rilievo
internazionale. Proprio a causa della indivisibilità della Repubblica è infatti sempre
la Repubblica stessa che si presenta sulla scena internazionale ogni qualvolta venga
compiuta, anche ad opera di una Regione, una qualsiasi attività del genere, cosicché
l’azione […] viene sostanzialmente ad incidere sulla politica internazionale della
Repubblica». Per questi motivi, a giudizio della Corte, le intese preventive richieste
dall’art. 4 D.P.R. n. 616/1977 «sono palesemente preordinate ad assolvere a una
funzione di coordinamento tra le scelte regionali ed i più ampi indirizzi di politica
internazionale seguiti dallo Stato, al fine di garantire che non si verifichino estemporanee intromissioni regionali nei rapporti fra l’Italia e gli altri Stati […]. Il che, a
ben riflettere, è in perfetta armonia con quel principio collaborativo che – per ripetuta affermazione di questa Corte – deve costantemente ispirare i rapporti fra lo
Stato e le Regioni».
(26) Si trattava, in particolare: di una “dichiarazione di intenti” sottoscritta fra la
Regione Puglia e lo Stato jugoslavo del Montenegro; di un “accordo per intenti”
stipulato dalla Regione Marche con la Provincia cinese di Shandong; di un “accordo
di collaborazione sanitaria” stipulato dalla Regione Lombardia con la Regione so-
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
141
nale si esprime con la sentenza n. 179/1987, dando spazio ad
un’attesa apertura nei confronti del potere estero regionale.
La pronuncia si apre, invero, con un richiamo al più prossimo precedente in materia, la sentenza n. 187/1985, con cui si
ribadisce il principio per cui la politica estera è di esclusiva competenza statale: spetta, dunque, ai soli organi centrali ogni «assunzione di impegni dei quali risponde lo Stato» (27). Come nella
sentenza richiamata, peraltro, la Corte ammette che il legislatore
possa apportare deroghe al suddetto principio: così avviene, oltre che per le attività promozionali all’estero, altresì per la cooperazione transfrontaliera fra enti territoriali e per le attività
consentite alle Regioni in ambito comunitario dalla Carta europea delle autonomie locali (28). «Nei casi anzidetti si ha sempre la
responsabilità dello Stato, il quale risponde degli impegni assunti
anche se l’ordinamento interno eccezionalmente consente l’iniziativa di enti minori» (29).
Ricostruita in questo modo la disciplina dei rapporti internazionali, la Corte riconosce tuttavia che, nella prassi, si ripropongono molteplici attività regionali non sussumibili in alcuna
delle predette eccezioni. Il riferimento è ad una serie di intese
bilaterali con enti esterni alla Repubblica, non tipizzabili a priori,
accomunate dall’obiettivo di agevolare il progresso economico e
culturale delle Regioni in ambiti anche soltanto connessi alle
mala del Benadir; di un “protocollo di collaborazione” siglato fra la Regione Lazio e
lo Stato messicano di Sonora.
(27) Sent. n. 179/1987, punto 5 del considerato in diritto.
(28) La Carta europea delle autonomie locali, aperta alla firma degli Stati membri della Comunità a Strasburgo nel 1985, è in realtà entrata in vigore soltanto il 1°
settembre 1988 e rappresenta una delle prime applicazioni del moderno concetto di
sussidiarietà. Essa impone alle Parti l’applicazione di regole che garantiscano l’indipendenza politica, amministrativa e finanziaria delle comunità locali, impone che il
principio autonomistico si fondi su una base legale di rango costituzionale e prescrive che l’esercizio delle responsabilità pubbliche debba essere affidato, di preferenza, alle autorità più prossime ai cittadini.
(29) Sent. n. 179/1987, punto 6 del considerato in diritto.
Luca Andretto
142
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
materie loro devolute dalla Costituzione. In realtà, il vero tratto
caratterizzante queste attività viene individuato in negativo: a
giudizio della Corte, si tratterebbe infatti di «attività non suscettibili di essere ricondotte nell’ambito dei rapporti internazionali
sopra indicati, poiché il loro contenuto non può assolutamente
incidere sulla politica estera dello Stato né […] può far sorgere
responsabilità di qualsiasi genere a carico del medesimo» (30).
Dovendosi esprimere sulla compatibilità di queste attività
con il riaffermato principio che riserva in via esclusiva allo Stato
i rapporti internazionali (salve deroghe eccezionali), la Corte si
dimostra puntigliosa nel precisare preliminarmente che essa «per
la prima volta ha occasione di occuparsi dello specifico problema» (31). In questo modo, presentando la fattispecie come un
case of first impression, essa può finalmente isolarsi da parametri e
stringenti definizioni adottati nella pregressa giurisprudenza, liberandosi con ciò da ogni vincolo derivante dai propri precedenti, quale che sia la loro forza effettiva.
L’unico possibile raffronto rimane quello con la Costituzione e con il “sistema” di principi ed eccezioni che essa ha instaurato fra sovranità e autonomia (32). Pertanto, muovendo esclusi(30) Sent. ult. cit., punto 7 del considerato in diritto. A giudizio di P. CARETTI, Le
attività di mero rilievo internazionale delle Regioni tra previa intesa e previo assenso governativo,
in Giur. Cost., 1992, p. 4312, «la linea di demarcazione tra la sfera dei rapporti internazionali in senso proprio e quella delle attività di mero rilievo internazionale veniva così tracciata non tanto sulla base di una differenza qualitativa delle due attività
(entrambe, alla fine, dirette ad intrattenere rapporti con soggetti esteri al fine di un
migliore sviluppo economico, sociale e culturale della comunità nazionale o regionale, a seconda dei casi), quanto piuttosto sulla base del tipo di risultati che esse
sono in grado di produrre».
(31) Sent. n. 179/1987, punto 7 del considerato in diritto.
(32) Cfr. F. PALERMO, Il potere estero delle Regioni. Ricostruzione in chiave sistematica di
un potere interno alla Costituzione italiana, Padova, 1999, p. 114: a giudizio dell’Autore,
il riferimento che la Corte fa al “sistema costituzionale” «costituisce un criterio sotteso dallo stesso art. 5 [Cost.], il quale, riportando la fattispecie in esame nell’alveo
della Costituzione formale, riconduce a sistema gli sviluppi che, nei rapporti StatoRegioni, vengono a verificarsi nel quadro della Costituzione vivente. In questo mo-
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
143
vamente dal presupposto della loro naturale inefficacia nei confronti degli interessi statali, la Corte giunge ad affermare che
«non sussiste ostacolo alcuno nel nostro sistema costituzionale a
riconoscere la legittimità di tali attività», per le quali viene espressamente recepita la denominazione dottrinale di “attività di
mero rilievo internazionale” (33). Nel dispositivo, pertanto, la dichiarazione che «spetta allo Stato il potere relativo alla determinazione della politica estera» viene affiancata dalla statuizione
per cui «spetta alle Regioni il potere di porre in essere atti di mero rilievo internazionale»: autentica enunciazione di principio,
questa, tale da assegnare alle Regioni una “quota” di potere estero costituzionalmente garantita (34).
Essendosi assunta la responsabilità di qualificare la fattispecie come case of first impression, però, la Corte non può ora limitarsi a distinguere sul piano sostanziale-definitorio le attività di mero rilievo internazionale da quelle promozionali all’estero – e
dalle altre in grado d’incidere sulla politica estera – ma deve coerentemente spingersi a dettare lo specifico regime procedurale
cui le prime debbano ritenersi sottoposte (quantomeno sino a
un auspicato intervento di regolamentazione positiva). Anche
per questa operazione, peraltro, l’unico parametro di riferimento
è dato dalla Costituzione – la quale, come detto, serba in materia
un rigoroso silenzio – e dal “sistema” autonomistico da essa istituito. Proprio la fluidità del parametro sembra invero porre la
Corte in una situazione di eccezionale discrezionalità: situazione
senz’altro scomoda, perché costringe il Giudice costituzionale a
do, dunque, pare di potersi correttamente ritenere che il riferimento al “sistema”
costituzionale stia semplicemente a significare che, nel quadro delle diverse possibilità offerte dall’art. 5 Cost., l’intero sistema riconosce il potere estero regionale, e
può evolvere nel senso di garantirlo con maggiore o minore intensità».
(33) Sent. n. 179/1987, punto 7 del considerato in diritto.
(34) F. PALERMO, op. cit., p. 136.
Luca Andretto
144
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
scavalcare il legislatore nel difficile compito di dettare un’adeguata disciplina procedurale (35).
Le alternative non erano, tuttavia, concretamente percorribili. La concezione monolitica dei rapporti internazionali, con forza sostenuta dalla pregressa giurisprudenza, risultava ormai superata dai fatti – come riconosciuto dalla Corte stessa – e non
avrebbe avuto senso tornare a riproporla nei medesimi termini.
Neppure si sarebbe potuto proseguire sulla strada di riconoscere
volta per volta specifiche eccezioni al principio di esclusività statale, rincorrendo (anziché regolando) il concreto atteggiarsi degli
equilibri politici fra centro e periferia, con il rischio che le eccezioni potessero finire per erodere il principio stesso, sino ad annullarlo.
D’altra parte, una volta riconosciuta una quota di potere estero regionale lecitamente esercitabile, consentirne il libero esercizio senza frapporre vincoli procedurali avrebbe significato
privare lo Stato di strumenti di controllo in ordine alla possibile
incidenza di tali attività sulla necessaria univocità e coerenza della politica estera nazionale (36). Sarebbe stato invero alquanto
ingenuo lasciare alla discrezionalità delle Regioni il compito di
determinare la natura delle proprie attività all’estero, con ciò
(35) Cfr. P. CARETTI, op. cit., p. 4313: l’Autore critica la giurisprudenza costituzionale in tema di potere estero regionale, per aver dettato una disciplina applicativa
troppo dettagliata, anziché limitarsi all’enunciazione di un principio regolatore rinviando al legislatore il suo sviluppo coerente. Altra parte della dottrina rileva, viceversa, come sia proprio lo strumento giurisdizionale del conflitto di attribuzioni ciò
che obbliga la Corte a «giuridicizzare le evoluzioni politiche nei rapporti StatoRegioni», a dare, cioè, veste giuridica all’evoluzione concreta di questo rapporto a
carattere politico: cfr. F. PALERMO, op. cit., p. 131.
(36) Cfr. sent. n. 179/1987, punto 8 del considerato in diritto: la ragione per cui s’impone una regolamentazione procedurale delle attività di mero rilievo internazionale,
una volta riconosciuto che il relativo esercizio spetta alle Regioni, è data dall’esigenza «che lo Stato possa controllare la loro conformità agli indirizzi di politica internazionale, e resti così escluso il pericolo di un pregiudizio agli interessi del Paese».
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
145
stesso inducendole ad eccedere i ristretti ambiti di competenza
individuati dalla Corte.
Per prevenire i contrasti derivanti dalla possibile interferenza
delle attribuzioni statali e regionali in tema di potere estero, la
soluzione viene individuata, ancora una volta, nel parametro della leale collaborazione: principio concertativo, che necessariamente regola il concorso dei soggetti istituzionali nell’esercizio
di poteri interconnessi o sovrapposti (37). Il parametro generale
invocato, peraltro, richiede per sua stessa natura un’integrazione
valutativa orientata dall’atteggiarsi della fattispecie concreta sottoposta al giudizio dell’interprete (38). Si trattava, insomma, di
applicare alla fattispecie delle attività regionali di mero rilievo
internazionale i più adeguati strumenti partecipativi e di controllo già disciplinati dal legislatore statale con riferimento ad altre
ipotesi a questa similari (39).
(37) Secondo l’illuminante definizione di R. BIN, Il principio di leale cooperazione nei
rapporti tra poteri, in Riv. Dir. Cost., 2001, p. 7, «il principio di leale collaborazione non
è altro che lo stesso principio di separazione dei poteri: è la sua declinazione per i
casi in cui i poteri divisi abbiano zone di contatto e interferenze reciproche» e «“lealtà e correttezza” sono un’endiadi che la Corte impiega per indicare la condotta
doverosa e ispirata al rispetto, in quei casi, del principio di divisione dei poteri».
Con più specifico riferimento al rapporto fra competenze statali e regionali, cfr. A.
ANZON, “Leale collaborazione” tra Stato e Regioni, modalità applicative e controllo di costituzionalità, in Giur. Cost., 1998, p. 3535.
(38) Cfr. M. TARUFFO, La giustificazione delle decisioni fondate su standards, in P.
Comanducci, R. Guastini (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, II, Torino, p.
311 ss.
(39) Cfr. R. BIN, L’ultima fortezza, cit., p. 124, il quale evidenzia come il principio di leale collaborazione si risolva nell’introduzione di un giudizio del tutto analogo a quello di ragionevolezza, nel senso che la Corte costituzionale, allorquando lo
invochi per determinare o rimodulare gli strumenti partecipativi e di raccordo che
una determinata fattispecie esigerebbe, generalmente lo fa procedendo alla trasposizione della disciplina procedurale legislativamente prevista per fattispecie che presentino analoghe esigenze concertative, ricorrendo alla stessa quale tertium comparationis. Cfr. altresì P. CARROZZA, Principio di collaborazione e sistema delle garanzie procedurali (la via italiana al regionalismo cooperativo), in Reg., 1989, p. 488 ss.
Luca Andretto
146
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Fermo il tradizionale meccanismo del controllo governativo
sugli atti amministrativi regionali ex art. 125 comma I Cost. –
che però, come già segnalato, si rivelava in quest’ambito del tutto inadeguato (40) – occorreva valutare se estendere in via analogica alle predette attività il medesimo schema procedurale della
“previa intesa”, imposto alle Regioni dall’art. 4 D.P.R. n. 616/1977
ai fini dell’esercizio di attività promozionali all’estero. Regole
procedurali univoche avrebbero, tuttavia, sconfessato l’affermata eterogeneità sostanziale dei due tipi di attività. Pertanto, la
Corte costituzionale ritiene di applicare alle attività di mero rilievo internazionale il diverso schema procedurale del “previo assenso” governativo, omettendo peraltro di specificarne le concrete modalità applicative, se non nel senso che «le Regioni,
prima di avviare i contatti con organismi esteri, sono tenute a
darne tempestiva notizia al Governo, il quale ha il potere di porre un divieto quando ritenga che essi mal si concilino con l’indirizzo politico generale» (41).
Nella sentenza n. 179/1987, dunque, la Corte costituzionale
ha fatto uso della tecnica del distinguishing, evitando di applicare
principi e regole poste dalla pregressa giurisprudenza (nonché
dalla legislazione) in quanto ritenuti non pertinenti con la situa(40) V. supra, § 1.
(41) Sent. 179/1987, punto 8 del considerato in diritto. Non è affatto sicuro, in realtà, che la Corte abbia sin dall’inizio voluto porre una distinzione di schema procedurale tra “previa intesa” e “previo assenso” governativi; sembra questa, peraltro, la
soluzione più coerente rispetto alle argomentazioni utilizzate nella sentenza: cfr. P.
CARETTI, op. cit., p. 4312.
F. PALERMO, op. cit., p. 161, nota come la ratio del controllo governativo su
attività regionali pur non riconducibili alla categoria dei rapporti internazionali in
senso stretto non stia «nella valutazione in generale dell’ammissibilità di deroghe al
principio della riserva statale del potere estero, bensì proprio nell’inquadramento caso
per caso della singola attività regionale. In definitiva, un’attività non è promozionale
o di mero rilievo internazionale perché lo dicono a priori la Regione o il Governo, o
meglio lo è solo quando le valutazioni in tal senso coincidono […], e lo strumento
del controllo va visto come corollario del potere regionale di ricorrere, a tutela delle
proprie attribuzioni costituzionalmente garantite, in via di conflitto di attribuzione».
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
147
zione sottoposta al suo esame, per non ricorrere i medesimi presupposti di fatto che ne avevano giustificato l’adozione (42).
L’eterogeneità tra le attività promozionali all’estero (e le altre
che fanno eccezione al principio di esclusività statale dei rapporti internazionali) da un lato, e le attività di mero rilievo internazionale dall’altro, si fonderebbe, in particolare, sull’idoneità delle
prime – e naturale inidoneità delle seconde – ad incidere sugli
indirizzi di politica estera e ad impegnare la responsabilità internazionale dello Stato. Questo attributo delle attività promozionali, tuttavia, viene desunto da una pronuncia che precede la
stessa “invenzione” della concorrente categoria delle attività di
mero rilievo internazionale (sentenza n. 187/1985), al punto che
parte della dottrina è giunta a criticare la distinzione in parola
come “artificiale” (43).
Ad ogni modo, per quanto qui interessa, il punto è che la
Corte ha avvertito la regola emergente da quel precedente (nonché dalla legislazione) come troppo ampia rispetto al fascio di
ipotesi che essa intendeva disciplinare – con il fine di preservare
l’univocità e coerenza della politica estera nazionale – ed ha pertanto escluso dal suo ambito applicativo quelle fattispecie in cui
siffatta esigenza non venisse invece in rilievo. La Corte avrebbe,
con ciò, tipicamente operato mediante la tecnica che nel sistema
anglosassone prende il nome di restrictive distinguishing (44).
(42) Sulla tecnica del distinguishing, cfr. F. MORETTI, Il precedente giudiziario nel sistema inglese, in F. Galgano (a cura di), Atlante di diritto privato comparato, cit., p. 11 ss.
(43) Cfr., in particolare, P. DE SENA, In tema di attività “internazionale” delle Regioni, in Foro It., 1989, cc. 2121 ss. Cfr. altresì P. CARETTI, Verso un superamento della
distinzione tra attività promozionali all’estero e attività di mero rilievo internazionale delle Regioni, in applicazione del principio di leale collaborazione, in Giur. Cost., 1993, p. 1395, il quale
sostiene che le distinzioni operate in seno alla categoria delle relazioni che le Regioni intrattengono con soggetti esteri siano «formalmente plausibili, ma nei fatti di
difficile e contraddittoria applicazione» e ne auspica, pertanto, «il progressivo abbandono».
(44) Cfr. F. MORETTI, op. cit., p. 13. Mentre la tecnica del (genuine) distinguishing
non metterebbe generalmente in questione la portata della ratio decidendi del preceLuca Andretto
148
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
E proprio la distinzione qui operata costituisce l’imprescindibile punto di partenza di tutta la successiva giurisprudenza in
tema di potere estero regionale. Ancorando il riconoscimento di
una “quota” di potere estero alla sfera di competenze costituzionali delle Regioni, la sentenza n. 179/1987 segnò, infatti, un’evoluzione del conflitto di attribuzioni in questa materia, da una
configurazione come vindicatio potestatis da parte dello Stato, a
una nuova configurazione come conflitto da interferenza o menomazione (45): oggetto dei successivi ricorsi, sia da parte regionale che da parte governativa, non sarebbe stata più la spettanza
o meno di detto potere in capo alle Regioni, bensì le concrete
modalità del relativo esercizio. Il conflitto di attribuzioni risultava in tal modo riconfigurato: da strumento di garanzia del riparto di competenze materiali, esso si convertiva in strumento di
verifica del rispetto delle procedure (46).
3.
LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL PRECEDENTE: INTEGRAZIONE E
SPECIFICAZIONE, ALLA LUCE DEL PRINCIPIO COLLABORATIVO
Benché il fondamento sostanziale delle attribuzioni regionali
in tema di potere estero fosse stato – con certa approssimazione
dente di riferimento, in merito al restrictive distinguishing l’Autore nota invece che tale
operazione «si verifica quando il giudice successivo avverte che la regola emergente
dal precedente autoritativo è troppo ampia in rapporto alla fattispecie che vi ha
dato origine; il giudice pertanto propone di intendere la ratio decidendi della sentenza
invocata in senso più limitato e maggiormente aderente alla fattispecie originaria: la
conclusione del ragionamento sarà che, così restrittivamente interpretata, la ratio già
vincolante non comprenderà più, nella sua sfera di applicabilità, una situazione esattamente corrispondente a quella della controversia in esame».
(45) Cfr., per la terminologia, G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit.,
p. 339.
(46) In questo senso va letta l’affermazione di M. OLIVETTI, Il potere estero delle
Regioni, in A. Alfieri (a cura di), La politica estera delle Regioni, Bologna, 2004, p. 22: «il
potere estero regionale, nel sistema anteriore al 2001, non era altro che una procedura cooperativa».
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
149
e genericità – ancorato dalla Corte al “sistema costituzionale”
complessivamente inteso, è alla sentenza n. 179/1987 che, negli
anni seguenti, di fatto guardarono Governo e Regioni per individuare il parametro giuridico alla luce del quale misurare la legittimità delle attività regionali all’estero (47). E a questa sentenza
si richiamò puntualmente la stessa Corte costituzionale nelle
successive pronunce sui conflitti di attribuzioni, riconoscendole
la carica di autorevole precedente ed attribuendo ad essa il merito di aver «enunciato nuovi principi in tema di attività internazionali delle Regioni» e di aver «dato un assetto organico alla
materia dei rapporti delle Regioni con consimili enti di altri Paesi» (48).
Le regole procedurali troppo fugacemente indicate nella
sentenza n. 179/1987, tuttavia, non erano evidentemente in
grado di coprire l’intera gamma dei conflitti che sarebbero potuti insorgere tra Stato e Regioni, in relazione all’estensione delle
competenze da intendersi costituzionalmente riservate a queste
ultime. Si registrò ben presto, pertanto, un forte aumento del
contenzioso in materia e la Corte costituzionale fu più volte
chiamata a precisare, interpretare e progressivamente integrare
la ratio decidendi nitidamente affermata nella sentenza capostipite,
peraltro quasi sempre richiamata quale leading case (49). Può par(47) Esempio paradigmatico è la vertenza che ha dato origine alla sent. n.
472/1992, in cui la Regione Umbria contestava, sulla base della distinzione operata
dalla Corte costituzionale in sent. n. 179/1987, la legittimità di un provvedimento
governativo che a sua volta pretendeva di fondarsi giuridicamente su detta pronuncia: cfr. la sent. n. 472/1992, punti 2 e 4 del ritenuto in fatto. Cfr. altresì, per una vicenda analoga, la sent. n. 204/1993, punto 3 del ritenuto in fatto.
(48) Cfr., rispettivamente, la sent. n. 737/1988, punto 2 del considerato in diritto, e
la sent. n. 42/1989, punto 2 del considerato in diritto. Risolvono il conflitto intersoggettivo con un semplice richiamo al leading case, al più limitandosi a riassumerne sinteticamente il processo argomentativo, le sentt. n. 564/1988 e n. 256/1989.
(49) Nel decennio 1987-1997, in due sole occasioni la sentenza n. 179/1987
non ha trovato espresso richiamo nei conflitti di attribuzioni in tema di potere estero regionale: si tratta di due pronunce marginali (sentt. n. 290/1993 e n. 212/1994),
nelle quali la Corte ha brevemente risolto la quaestio juris sottopostale attraverso il
Luca Andretto
150
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
larsi, in questo senso, di un processo di formazione progressiva
del precedente, che si dimostrò in ciò sufficientemente elastico e
capace di «“incorporare” le specificazioni o le eccezioni che alla
regola vengono imposte dal nuovo “caso”, dalle diverse circostanze che esso propone» (50).
Una prima regola integrativa fu posta sin dalla sentenza n.
739/1988. Il Governo aveva impugnato un atto regionale, sottoscritto con un ente territoriale estero senza che gli fosse stata
fornita alcuna informazione (51). Esaminando la questione nel
merito, la Corte costituzionale richiama inizialmente la distinzione posta dalla sentenza n. 179/1987, ma supera poi il problema della qualificazione dell’atto sul piano sostanziale per
concentrarsi, invece, sulle regole procedurali stabilite nel leading
case, dalle quali trae un importante corollario.
semplice richiamo ad altri precedenti in materia, i quali ultimi si erano peraltro limitati a esplicitare meri corollari dei principi posti con la sentenza capostipite.
(50) R. BIN, L’ultima fortezza, cit., p. 75 s. L’Autore illustra come i precedenti
giudiziari, nella giurisprudenza costituzionale, siano generalmente sottoposti a un
processo di sviluppo progressivo, nel quale il principio iniziale «viene progressivamente adattato, arricchito, attenuato o condizionato dalla continua (e tendenzialmente incessante) opera di applicazione a casi sempre più specifici (aumento del
grado di risoluzione) o sempre più ai margini del nucleo iniziale (precisazione della
soglia di applicazione della ratio decidendi)». Cfr. altresì G. ZAGREBELSKY, Principi e
voti, cit., p. 85 s., il quale parla di uno sviluppo “graduale” della giurisprudenza costituzionale, che «si svolge attraverso interpretazioni dei precedenti, distinzioni e aggiustamenti progressivi», quale «registrazione consequenziale del mutamento obiettivo di “fattori” di senso, e poi di valore».
Sul processo di “formazione progressiva” del precedente costituzionale, attraverso «una serie di pronunce destinate ad integrarsi, con possibilità di correzioni
parziali, sia limitative, sia estensive dell’indirizzo adottato», cfr. altresì A. PIZZORUSSO, Stare decisis e Corte costituzionale, in G. Treves (a cura di), La dottrina del precedente
nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, 1971, p. 60.
(51) Si trattava, in particolare, di un “protocollo d’amicizia e collaborazione”
sottoscritto fra la Regione Valle d’Aosta e la Regione francese della Franca Contea,
risalente al settembre 1982 ed impugnato dal Governo con ricorso del gennaio
1983, in data dunque antecedente la svolta compiuta dalla sent. n. 179/1987.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
151
Tutte le attività svolte all’estero dalle Regioni, siano esse di
mero rilievo internazionale o rientrino invece nella categoria dei
rapporti internazionali in senso stretto, devono comunque essere portate preventivamente a conoscenza del Governo: nella
prima ipotesi, al fine di ottenerne il “previo assenso”, come richiesto dalla giurisprudenza costituzionale; nella seconda, per
consentire allo stesso di valutare se la fattispecie rientri tra le eccezionali deroghe al principio di esclusività statale, e di vietarle
nel caso opposto. L’omessa comunicazione al Governo, per il
fatto stesso di precludere ogni controllo preventivo sulla conformità dell’atto regionale agli indirizzi statali di politica estera,
«rende, per ciò solo, illegittimo il comportamento tenuto dalla
Regione» (52).
Fanno applicazione della regola qui enunciata numerose
pronunce degli anni seguenti: in un primo tempo, richiamandosi
complessivamente alla sentenza capostipite, n. 179/1987, e a
quella testé citata, n. 739/1988, che per prima lo ha reso esplicito (53); in un secondo tempo, limitando il richiamo ai precedenti
più prossimi, quantunque il percorso logico-argomentativo che
aveva originariamente consentito alla Corte di trarre la regola in
commento non sempre fosse, in questi ultimi, debitamente esplicitato (54). Si riscontra, in ciò, un uso scorretto del precedente giudiziario; ed è interessante notare come, a partire dalla sen(52) Sent. n. 739/1988, punto 2 del considerato in diritto.
(53) Cfr. sent. n. 124/1993, punto 2 del considerato in diritto.
(54) Cfr. la sent. n. 290/1993, punto 2 del considerato in diritto, che rimanda esclusivamente alla sent. n. 124/1993; la sent. n. 212/1994, punto 2 del considerato in
diritto, che rimanda alle sentt. n. 204/1993 e n. 290/1993; la sent. n. 332/1998, punto 3 del considerato in diritto, che rimanda alle sentt. n. 204/1993, n. 290/1993 e n.
212/1994; la sent. n. 13/2003, punto 3 del considerato in diritto, che rimanda alle
sentt. n. 204/1993, n. 290/1993, n. 212/1994 e n. 332/1998. Sulla tecnica del rinvio
a pronunce precedenti per la debita ricostruzione del percorso logico-argomentativo
che ha condotto alla decisione del caso di specie, cfr. le osservazioni critiche di M.
CARTABIA, La motivazione per relationem nelle decisioni della Corte costituzionale, in A.
Ruggeri (a cura di), La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, cit., p. 258 ss.
Luca Andretto
152
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
tenza n. 290/1993, si sia inoltre affermata in questa giurisprudenza una formula tralatizia pedissequamente ripresa da numerose pronunce sul tema, tuttavia caratterizzata dall’insistito, erroneo riferimento ad una sentenza che, in realtà, non poteva
quivi fungere propriamente da precedente, non essendo affatto
rintracciabile in essa la ratio decidendi di cui trattasi (55).
Un secondo intervento doverosamente specificativo delle regole procedurali espresse in sentenza n. 179/1987 riguardò la
distinzione fra la “previa intesa”, da un lato, prevista dal D.P.R.
n. 616/1977 per le attività promozionali all’estero delle Regioni,
ed il “previo assenso”, dall’altro, che la pronuncia capostipite
aveva invece richiesto per le attività regionali di mero rilievo internazionale. Una nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri – prontamente impugnata dalla Regione destinataria – aveva
postulato la piena coincidenza dei due procedimenti, precisando
che, pertanto, anche per le attività di mero rilievo internazionale
si sarebbero dovute seguire le restrittive regole previste dal
D.P.C.M. 11 marzo 1980 (56). Con la sentenza n. 472/1992, la
(55) La formula tralatizia, inaugurata dalla sent. n. 290/1993 e testualmente ripresa nelle sentt. n. 212/1994, n. 332/1998 e n. 13/2003, così recita: questa Corte
«ha più volte affermato che la sottoscrizione di accordi con organi o enti esteri senza che la Regione abbia preventivamente informato il Governo, quindi senza la necessaria intesa o assenso, è di per sé lesiva della sfera di attribuzioni statali».
La pronuncia erroneamente richiamata nel novero dei precedenti sul tema è la
sentenza n. 204/1993, la quale non esprime affatto la regola sopra riportata: essa
trae origine, al contrario, da un ricorso regionale avverso il diniego governativo
della previa intesa o del previo assenso, regolarmente richiesti dalla Regione ricorrente in relazione ad una pluralità di attività promozionali e, rispettivamente, di mero rilievo internazionale, che la stessa aveva debitamente comunicato di voler svolgere; v. infra, nel testo.
(56) Sul D.P.C.M. 11.03.1980, attuativo del D.P.R. n. 616/1977, v. supra, nota
22. La nota impugnata dalla Regione Umbria era un telex del gennaio 1992, con cui
il Governo concedeva la previa intesa ai fini di un incontro a Bruxelles fra un assessore regionale e funzionari della CEE; seguiva, però, la precisazione che «la richiesta
di “previa intesa” governativa per le iniziative regionali all’estero doveva essere avanzata non solo per le attività di carattere promozionale, di cui all’art. 4 comma II
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
153
Corte fu dunque chiamata a svolgere un’opera d’interpretazione
autentica, volta a chiarificare in cosa, concretamente, risiedesse
la differenza di disciplina fra le due ipotesi.
Pure in questa pronuncia, il richiamo al leading case è immediato. La Corte, anzi, mostra di attribuire al proprio precedente
un’efficacia sostanziale paragonabile a quella di un vero e proprio atto normativo, allorché afferma che la pretesa equiparazione tra attività promozionali all’estero e attività di mero rilievo
internazionale non potrebbe farsi discendere né dal D.P.C.M. 11
marzo 1980, né dalla stessa sentenza n. 179/1987. Anche il regime procedurale cui le due tipologie sono sottoposte deve, perciò, necessariamente differire, come si evince dalla difformità di
espressioni utilizzate, rispettivamente, dal D.P.R. n. 616/1977
(fondamento sostanziale delle attività promozionali all’estero) e
dalla sentenza n. 179/1987 (trattata alla stregua di fondamento
sostanziale delle attività di mero rilievo internazionale).
La Corte afferma, dunque, che la “previa intesa”, riguardando rapporti internazionali in senso stretto, «non può non comportare l’esigenza di un controllo più penetrante da parte del
Governo»: controllo destinato a concretizzarsi mediante un consenso da manifestare in forme esplicite e pregiudiziale rispetto
all’attivazione dell’iniziativa che la Regione intenda svolgere all’estero (57).
Il “previo assenso”, al contrario, riguardando attività che si
suppongono inidonee ad incidere sulla responsabilità internazionale dello Stato, «potrà essere manifestato anche in forme implicite, una volta che la Regione abbia dato tempestiva notizia
delle iniziative in programma», sì da non precludere al Governo
la possibilità di opporre un esplicito divieto nei confronti delle
attività ritenute, invece, inconciliabili con la politica estera naD.P.R. n. 616/1977, ma anche per tutte le iniziative rientranti nelle cosiddette “attività di mero rilievo internazionale”, di cui alla sentenza della Corte costituzionale n.
179/1987» (sent. n. 472/1992, punto 1 del ritenuto in fatto).
(57) Sent. n. 472/1992, punto 3 del considerato in diritto.
Luca Andretto
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IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
zionale (58). Si configurava, in sostanza, una forma di silenzioassenso per le attività di mero rilievo internazionale.
Di lì a poco, si registrò un terzo importante intervento chiarificatore della Consulta. Posta, sul piano sostanziale, la distinzione tra attività promozionali all’estero e attività di mero rilievo
internazionale, la pronuncia capostipite e le successive ne avevano sino a quel momento approfondito i profili procedurali
limitatamente agli oneri formali cui dovevano ritenersi vincolate
le Regioni, prima di procedere ad ogni iniziativa in ambito estero. La Corte costituzionale fu, però, richiesta di porre ora un
limite alla discrezionalità del Governo nelle sue autoritative determinazioni circa quali iniziative regionali autorizzare e di quali,
invece, disporre l’arresto.
La Regione Friuli Venezia-Giulia, a seguito dell’immotivato
diniego dell’accordo o dell’intesa in ordine ad una serie di attività che la stessa aveva comunicato al Governo di voler svolgere
all’estero, sollevò conflitto di attribuzioni, lamentando la lesione
delle proprie competenze cagionata dall’assoluta mancanza di
motivazione nei provvedimenti governativi. Sul merito di tale
ricorso, la Corte costituzionale si esprime con sentenza n.
204/1993, ponendo al centro del proprio ragionamento il principio di leale collaborazione.
Malgrado la sentenza n. 472/1992 non avesse fatto alcun
cenno al principio collaborativo, la Corte la richiama espressamente – accanto alla n. 179/1987 – per chiarire (con opera di
interpretazione autentica) che del principio in parola costituisce
(58) Sent. loc. ult. cit. La Corte costituzionale – richiamando la sent. n. 179/1987
– precisa altresì che il controllo preventivo sulla compatibilità dell’iniziativa regionale con gli indirizzi statali di politica estera, quand’anche conclusosi positivamente, si
pone comunque «aldilà delle ordinarie forme di controllo sull’attività amministrativa
regionale di cui all’art. 125 Cost.»: ciò significa che i due tipi di controllo si pongono
su piani diversi e, pertanto, non si escludono a vicenda. Tuttavia, sul piano dell’effettività, l’unico controllo che pare consentire risultati pratici apprezzabili resta, appunto, quello che si colloca all’interno della procedura di previo assenso: v. supra, § 1.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
155
espressione la regola, ivi enunciata, che impone alle Regioni di
comunicare con completezza e tempestività al Governo le proprie iniziative in programma (59). Peraltro, la leale collaborazione
– appunto in quanto tale – non potrebbe operare “a senso unico”, imponendo limiti ed oneri ad una soltanto delle parti del
rapporto. La Corte riconosce, pertanto, un obbligo positivo anche in capo allo Stato: quello di «dichiarare i motivi, formali o
sostanziali, che vengono a opporsi all’“intesa” o all’“assenso”, così da consentire alla controparte la scelta tra la rinuncia all’iniziativa, la modifica della stessa in senso conforme ai rilievi prospettati o l’esercizio delle azioni a difesa della sfera delle proprie
competenze» (60).
Si assiste, qui, ad un’inversione di tendenza nell’utilizzo del
principio collaborativo in tema di potere estero. Sin dalla sentenza n. 179/1987, la Corte costituzionale aveva affermato che,
in presenza di eccezionali deroghe al principio di esclusiva competenza statale dei rapporti internazionali, la leale collaborazione
imponeva alle Regioni di fornire al Governo gli strumenti necessari per verificare il rispetto dei limiti posti all’attività regionale: il controllo governativo sarebbe stato più o meno intenso, a
seconda della gravità della (potenziale) incidenza sulla sfera di
competenze statali.
Si trattava, tuttavia, di un utilizzo atipico del principio collaborativo, cui la giurisprudenza costituzionale tendeva invece generalmente a far ricorso laddove la supremazia statale avesse giustificato una compressione di attribuzioni proprie delle Regioni,
finalizzata alla cura dei principi costituzionali e degli interessi unitari del sistema giuridico: la leale collaborazione, in casi siffatti,
imponendo specifici oneri formali in capo agli organi statali, costituiva «il temperamento di tale supremazia (che altrimenti a(59) Sent. n. 204/1993, punto 4 del considerato in diritto.
(60) Sent. loc. ult. cit. Lo stesso dispositivo della sentenza ribadisce che «non
spetta allo Stato inibire, senza addurre alcuna motivazione, lo svolgimento all’estero
di attività “promozionali” o di “mero rilievo internazionale” della Regione».
Luca Andretto
156
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
vrebbe reso inutile la garanzia costituzionale delle attribuzioni regionali) sul piano del procedimento decisionale» (61).
Nella sentenza n. 204/1993, la Corte torna a fare un utilizzo
“ordinario” del principio collaborativo, che viene peraltro fatto
operare congiuntamente a quella sua atipica espressione configurata dalla giurisprudenza pregressa in materia: segno di una rapida evoluzione nella concezione stessa del potere estero regionale, il quale viene progressivamente acquisendo vigore costituzionale, a discapito del contrapposto principio di esclusività statale dei rapporti internazionali.
Anche per questi motivi, le sentenze n. 472/1992 e n.
204/1993 paiono completarsi a vicenda; tant’è che nella giurisprudenza successiva il loro richiamo è spesso congiunto, paradigma del biunivoco operare del principio di leale collaborazione (62). Le stesse pronunce dimostrano, inoltre, come fosse ormai indiscussa la legittimazione regionale in tema di potere estero, la questione riducendosi alla mera determinazione di uno
schema procedurale idoneo a garantirne il coordinamento con la
politica estera nazionale (63). E se, da un lato, la politica estera
rappresentava un limite mobile per il potere estero regionale,
non razionalizzabile a priori perché rimesso alla valutazione di(61) S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, Bologna, 2005,
p. 222; cfr. altresì S. BARTOLE, Ripensando alla collaborazione tra Stato e Regioni alla luce
della teoria dei principi del diritto, in Giur. Cost., 1982, p. 2432 ss.; E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, cit. p. 222 ss.
(62) Cfr. sent. n. 425/1995, punto 4 del considerato in diritto; sent. n. 343/1996,
punto 3 del considerato in diritto; sent. n. 428/1997, punto 3 del considerato in diritto.
(63) Cfr. P. CARETTI, Verso un superamento della distinzione tra attività promozionali
all’estero e attività di mero rilievo internazionale delle Regioni, in applicazione del principio di
leale collaborazione, cit., p. 1396: l’Autore rileva come le pronunce in commento dimostrino che la competenza regionale non era più «concepita in chiave derogatoria
rispetto ad una supposta riserva onnicomprensiva statale, ma in chiave di esercizio
di una competenza regionale “ordinaria”, che non può essere paralizzato se non in
seguito ad un ragionevole contemperamento dei diversi interessi in gioco e comunque mai con un semplice e secco diniego».
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
157
screzionale del Governo e della sua maggioranza (64), dall’altro
lato, la procedura collaborativa veniva a configurarsi come necessaria sede di contemperamento dei diversi interessi in gioco,
alla quale la Corte affidava il gravoso compito di prevenire di
volta in volta – in relazione all’atteggiarsi delle singole fattispecie
concrete – l’insorgere del conflitto.
In questo processo di progressiva integrazione e specificazione della ratio decidendi espressa dal leading case, risulta invero
evidente la preoccupazione della Corte di dettare una disciplina
il più possibile completa, perché consapevolmente destinata a
non esaurire i propri effetti in relazione al singolo caso di specie.
Assume, in questo senso, valore di clausola generale l’insistita
invocazione del principio di leale collaborazione, chiamato a
fungere da elemento di “chiusura” del sistema (65).
Emerge, qui, la duplicità funzionale del precedente giudiziario, specie di quello che origina da conflitto costituzionale. Non
solo esso vale per l’idoneità della propria ratio decidendi a consentire l’uniforme esito giurisdizionale di analoghi conflitti venturi:
suo compito precipuo – che emerge chiaramente dalle pronunce
della Corte – è, anzi, quello di prevenire l’insorgere del conflitto,
fungendo da guida per il futuro contegno delle parti contrapposte, nell’illustrare loro il percorso da seguire per favorire una
(64) Cfr. A. ANZON, I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale. Il nuovo regime
e il modello originario a confronto, Torino, 2002, p. 161: l’Autrice sostiene che «l’appartenenza di una sfera di attività alla politica estera non è accertabile oggettivamente,
ma è rimessa alla valutazione discrezionale del Parlamento, il quale viene a disporre
conseguentemente dei confini del “potere estero” regionale». Dalla sent. n. 53/1996,
pronunciata nel contesto di un giudizio di legittimità, si evince in effetti che il legislatore statale è libero di determinare cosa costituisca «parte integrante della politica
estera dell’Italia» (così l’art. 1 comma I L. n. 49/1987) e che le conseguenti limitazioni
della sfera di attribuzioni regionali «esigono un’osservanza rigorosa da parte delle
Regioni e degli altri soggetti di autonomia» (sent. cit., in Giur. Cost., 1996, p. 372 ss.,
punto 3 del considerato in diritto).
(65) Attribuisce al principio collaborativo un’importante funzione deflativa del
conflitto («di compensazione e composizione preventiva») P. CARROZZA, Principio
di collaborazione e sistema delle garanzie procedurali, cit., p. 483.
Luca Andretto
158
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
composizione dei reciproci interessi in gioco e nell’offrire altresì
alle stesse gli strumenti essenziali alla luce dei quali verificare la
conformità dei rispettivi contegni al parametro costituzionale (66).
4.
UN EPISODICO (E TACITO) STRAPPO GIURISPRUDENZIALE: LA SENTENZA N. 425/1995
A seguito della sentenza n. 179/1987, con successivi interventi integrativi e specificativi la Corte costituzionale era progressivamente giunta a fornire una regolamentazione tendenzialmente completa, sul piano sia sostanziale che procedurale,
delle attività regionali espressione di potere estero. Tuttavia, per
quanto la disciplina risultasse ormai dotata di sufficiente grado
di definizione, tale da delimitare sensibilmente la discrezionalità
dell’interprete, essa restava nondimeno fondata su un parametro
positivo alquanto incerto (per quanto riguarda le attività di mero
rilievo internazionale), mai compiutamente definito dalla giurisprudenza, originariamente ricavato dal “sistema costituzionale”
complessivo e successivamente arricchito dalla clausola generale
della leale collaborazione.
La stessa Corte aveva, per questi motivi, espressamente sollecitato l’emanazione di «un atto di indirizzo e coordinamento
integrativo del D.P.C.M. 11 marzo 1980» (67). Giunse così, con il
D.P.R. 31 marzo 1994, l’atteso intervento di razionalizzazione
positiva della materia, che peraltro confermò il carattere sostanzialmente pretorio della stessa, limitandosi a recepire l’acquis giu-
(66) Su questa duplice funzionalità del precedente giudiziario, cfr. P.S. JAMES,
Introduction to English Law, 1996, p. 13; M. SERIO, Il valore del precedente tra tradizione
continentale e common law: due sistemi ancora distanti?, in Riv. Dir. Civ., Supplemento annuale di studi e ricerche, 2008, p. 112.
(67) Sent. n. 472/1995, punto 3 del considerato in diritto.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
159
risprudenziale corredato dall’accoglimento di taluni suggerimenti
dottrinali (68).
Conservata, dunque, la distinzione giurisprudenziale fra attività promozionali all’estero e attività di mero rilievo internazionale, venne ribadita in relazione alle prime la necessità della previa intesa governativa, concessa a seguito di valutazione circa la
«compatibilità delle attività proposte con gli indirizzi di politica
estera» (69).
Il decreto definì e disciplinò altresì normativamente le attività di mero rilievo internazionale, benché difettasse in proposito
un valido fondamento legislativo (70). Suddivise tali attività in
sottocategorie, conservando solo per alcune di esse l’obbligo di
previo assenso governativo, secondo lo schema del silenzioassenso già introdotto dalla giurisprudenza (71). Le altre furono,
(68) Il D.P.R. 31 marzo 1994, atto normativo di rango secondario, adottato in
seno alla Conferenza Stato-Regioni, era espressamente concepito quale fonte attuativa dell’art. 4 comma II D.P.R. n. 616/1977, in sostituzione dell’ormai “obsoleta”
normativa posta dal D.P.C.M. 11 marzo 1980 (così si esprime lo stesso art. 7 D.P.R.
cit.). R. BIN, L’atto di indirizzo e coordinamento può trovare nella giurisprudenza costituzionale
il fondamento della sua legalità?, in Reg., 1996, p. 321, sottolinea che «il decreto recepisce le definizioni poste dalla giurisprudenza costituzionale e trasfonde in norma i
criteri di leale collaborazione che essa è venuta progressivamente fissando».
(69) In forza dell’art. 1 D.P.R. 31 marzo 1994, l’intesa doveva peraltro riferirsi,
di regola, non alle singole iniziative promozionali, bensì a programmi annuali, distinti per settori d’intervento. Eventuali iniziative eccezionali, non comprese nel
programma a causa della loro specifica natura o dei particolari tempi di attuazione,
dovevano comunicarsi almeno trenta giorni prima della data prevista per la loro
effettuazione.
(70) Emergeva qui un’evidente violazione del principio di legalità sostanziale: il
D.P.R. 31 marzo 1994 era formalmente un atto regolamentare volto a dare attuazione al D.P.R. n. 616/1977, a sua volta emanato dal Governo in esercizio della
delega contenuta nella L. n. 382/1975: trattando il D.P.R. n. 616/1977 delle sole
attività promozionali all’estero delle Regioni, il D.P.R. 31 marzo 1994 non avrebbe
in realtà avuto il titolo, nel darvi attuazione, per regolamentare altresì le attività regionali di mero rilievo internazionale.
(71) Cfr. sent. n. 472/1992, punto 3 del considerato in diritto. In forza dell’art. 2
comma II D.P.R. 31 marzo 1994, entro un dato termine dalla comunicazione, il
Luca Andretto
160
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
invece, esentate da qualsiasi formalità procedimentale ulteriore
rispetto alla preventiva comunicazione al Governo (72): il controllo governativo non veniva in tal modo eliminato, ma sostituito da una presunzione juris tantum di compatibilità rispetto al
“sistema costituzionale”, comunque verificabile in sede di conflitto di attribuzioni (73).
Il D.P.R. 31 marzo 1994, rubricato “atto di indirizzo e coordinamento in materia di attività all’estero delle Regioni e delle
Province autonome”, fu prontamente impugnato in sede di conflitto di attribuzioni dalle Province autonome di Trento e di
Bolzano, in quanto ritenuto lesivo delle proprie competenze statutarie. Sul merito dei due ricorsi, la Corte costituzionale si esprime con la sentenza n. 425/1995.
Facendo leva sull’irrilevanza della “autoqualificazione” dell’atto ai fini della verifica circa la sua portata effettiva, dopo aver
rilevato la continuità tra i principi espressi dalla pregressa giurisprudenza costituzionale e la nuova normativa di fonte regolamentare, la Corte afferma che quest’ultima non sarebbe in realtà
destinata ad «indirizzare e coordinare l’attività amministrativa di
soggetti dotati di autonomia», bensì piuttosto a «disciplinare
l’esercizio di poteri dello Stato, sia pure riferiti ad attività regionali» (74).
Governo poteva eccepire l’eventuale contrasto delle relative attività con gli indirizzi
politici generali dello Stato o la loro esorbitanza dalla sfera degli interessi regionali.
Decorso tale termine senza alcuna comunicazione, l’assenso si intendeva invece
accordato.
(72) L’art. 2 comma II D.P.R. 31 marzo 1994 affermava espressamente che
«per le attività di cui al punto a) del comma I […] non è richiesta alcuna formalità».
Tuttavia, come correttamente sottolineato da A. ANZON, I poteri delle Regioni dopo la
riforma costituzionale, cit., p. 164, doveva invece ritenersi permanere «l’obbligo regionale, di stampo collaborativo, della preventiva comunicazione (che peraltro la Corte
costituzionale ha costantemente affermato)».
(73) Cfr. F. PALERMO, Il potere estero delle Regioni, cit., p. 181.
(74) Sent. n. 425/1995, punto 4 del considerato in diritto. Più esplicitamente, la
Corte afferma in un paragrafo successivo che il «provvedimento impugnato, nella
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
161
La fondatezza di tale valutazione è stata fortemente criticata
dalla dottrina. In particolare, si è messo in luce come l’affermazione della natura essenzialmente statale delle attività regionali
espressione di potere estero finisca per configurare le Regioni,
in questo settore, quali mere articolazioni dello Stato, anziché
enti autonomi che esercitano autonome attribuzioni costituzionali (75). Ciò, in palese (ma tacita) contraddizione con la giurisprudenza precedente, che sin dalla sentenza n. 179/1987 aveva
financo riconosciuto la titolarità regionale di una “quota” di potere estero costituzionalmente garantita.
Lo strappo qui operato dalla Corte fu, peraltro, probabilmente dettato da ragioni contingenti, finalizzato a salvaguardare
la legittimità di una disciplina positiva più volte invocata, anche
al costo di aggirare – nell’occasione – il principio di legalità sostanziale (76). A ricucire l’occasionale strappo causato da questo
indelicato intervento ermeneutico sarebbe stata la giurisprudenza successiva, tornando a riconoscere, in particolare, la possibilità di deroghe alla riserva statale delle attività suscettibili d’incidere sugli indirizzi di politica estera (77).
Dopo aver precisato, nel senso ora detto, la portata del
D.P.R. 31 marzo 1994, la Corte era quindi chiamata a verificare
se esso rispettasse o meno la speciale autonomia statutaria attribuita alle Province ricorrenti, laddove pretendeva di estendere
alle stesse il proprio ambito applicativo. La risposta viene individuata, ancora una volta, nel principio collaborativo, così come
interpretato dai precedenti in materia.
Riaffermata, anzitutto, la competenza statale esclusiva nella
definizione degli indirizzi nazionali di politica estera e nella valutazione degli interessi del Paese in questo settore, la Corte torna
sua sostanziale portata, regolamenta tempi e modi di esercizio di competenze già
spettanti all’amministrazione statale in materia di attività estera».
(75) Cfr. F. PALERMO, op. cit., p. 191 s.
(76) Cfr. R. BIN, op. ult. cit., p. 322; F. PALERMO, op. loc. ult. cit.
(77) Cfr. sent. n. 346/1996, punto 3 del considerato in diritto.
Luca Andretto
162
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
ad argomentare come la leale collaborazione imponga alle Regioni, nell’esercizio del potere estero loro attribuito, di informare tempestivamente il Governo circa le iniziative in programma,
per consentire a quest’ultimo di apprezzarne la compatibilità
con detti indirizzi e detti interessi. La generalità di questi principi farebbe sì che ad essi «non si sottraggono le Province dotate
di speciale autonomia» e ciò – argomenta la Corte, richiamandosi alla sentenza n. 564/1988 – «affinché resti escluso il pericolo
di un pregiudizio per gli interessi del Paese» (78).
Il richiamo alla sentenza n. 564/1988 pare, in realtà, ambiguo. In detta pronuncia, la Corte aveva statuito che, anche in
materia di potere estero regionale, la funzione statale di indirizzo e coordinamento dovesse operare «senza che rilevi la distinzione fra Statuto speciale e Statuto ordinario, o tra tipi e gradi di
competenza degli enti autonomi», in quanto sorretta «dalla necessità di soddisfare le istanze unitarie dell’ordinamento» (79). Tuttavia, in sentenza n. 425/1995, la Corte aveva espressamente
escluso che il D.P.R. 31 marzo 1994 costituisse espressione del
potere statale di indirizzo e coordinamento. Piuttosto, la Corte
avrebbe pertanto dovuto enunciare espressamente le ragioni per
cui la regolamentazione di un’attività “sostanzialmente statale”
dovesse applicarsi come tale anche allorquando la stessa fosse
“delegata” ad enti dotati di speciale autonomia.
Il fatto che la Corte si sia volontariamente sottratta a tale
quaestio juris, rifugiandosi nel richiamo ad un precedente qui non
pertinente, pare costituire ulteriore segnale del carattere meramente accidentale che connota lo strappo giurisprudenziale sopra descritto, relativamente alla natura delle attività regionali espressione di potere estero.
(78) Sent. n. 425/1995, punto 4 del considerato in diritto.
(79) Sent. n. 564/1988, punto 3 del considerato in diritto, che richiama testualmente la sent. n. 340/1983, in Giur. Cost., 1983, p. 2150 ss., punto 6.1 del considerato in
diritto, pronunciata nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale in materia
di zootecnia.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
163
A riprova di ciò, la sentenza n. 343/1996 – una volta ricucito detto strappo – riterrà opportuno affrontare la problematica
relativa all’estensibilità di questi principi alle Regioni speciali
senza far menzione della pronuncia ora commentata, ma soltanto di quella capostipite (n. 179/1987), benché quest’ultima avesse in realtà trattato la questione soltanto in un obiter dictum (80).
L’esito non muterà, ma la Corte riprenderà dalla pronuncia richiamata l’importante puntualizzazione per cui gli affermati
principi in materia di potere estero regionale valgono come tali
anche per le Regioni dotate di speciale autonomia, purché «nulla
risulti disposto in proposito nei relativi statuti» (81).
5.
LA RIFORMA COSTITUZIONALE E I SUOI EFFETTI SUL POTERE ESTERO
REGIONALE: GLI INTERROGATIVI LASCIATI DALLA SENTENZA N.
258/2004
Nell’ultimo decennio, il tema del potere estero regionale è
stato segnato, per un verso, dalla razionalizzazione normativa operata sul piano positivo dal legislatore sia ordinario che costituzionale; per altro verso, sul piano giurisprudenziale, da una notevole riduzione del contenzioso in sede di conflitto di attribuzioni, a fronte di un forte incremento dei giudizi in sede di legittimità (82).
La legge n. 59/1997 segna il primo intervento legislativo in
materia. La predisposizione di un generale trasferimento alle Re(80) Cfr. sent. n. 179/1987, punto 9 del considerato in diritto. Che si trattasse di
un mero obiter dictum è reso evidente dal fatto che nessuna delle Regioni coinvolte
nel giudizio de quo (Puglia, Marche, Lombardia e Lazio) rientrava nell’elenco dell’art.
116 Cost., fra gli enti regionali dotati di speciale autonomia.
(81) Sent. n. 343/1996, punto 3 del considerato in diritto, richiamata anche in sent.
n. 428/1997, punto 2 del considerato in diritto.
(82) Tre sole pronunce su conflitti di attribuzioni si riscontrano, infatti, sul tema: la n. 332/1998, la n. 13/2003 e la n. 258/2004. Sul forte incremento dei giudizi
di legittimità, cfr. infra, nota 99.
Luca Andretto
164
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
gioni delle funzioni amministrative di titolarità statale comporta,
per queste ultime, la possibilità di estendere l’esercizio del proprio potere estero a nuovi ambiti materiali (83). Contestualmente,
però, l’abrogazione dell’art. 4 comma II D.P.R. n. 616/1977, rende incerta la permanenza di un adeguato fondamento legislativo
per il D.P.R. 31 marzo 1994, a meno di non volerne accogliere
l’anomala interpretazione data dalla Consulta in sentenza n.
425/1995 (84).
La sentenza n. 179/1987 e la giurisprudenza successiva, tuttavia, ricollegando il fondamento del potere estero regionale al
“sistema costituzionale” complessivo, ne hanno di fatto individuato il fondamento normativo nella stessa Costituzione (85). E
le sentenze n. 332/1998 e n. 13/2003 – richiamandosi ai precedenti in materia malgrado il mutato contesto normativo – stanno a dimostrare come, a prescindere da ogni formale prescrizione positiva, il meccanismo procedimentale della previa intesa o
del previo assenso (espressi o taciti) del Governo debba comun(83) Cfr. l’art. 1 L. n. 59/1997; da questo trasferimento viene, peraltro, esclusa
ogni competenza in materia di «affari esteri e commercio estero nonché cooperazione internazionale e attività promozionale all’estero di rilievo nazionale» (comma
III, lett. a).
(84) Cfr. l’art. 8 comma V L. n. 59/1997, lett. b. A. ANZON, I poteri delle Regioni
dopo la riforma costituzionale, cit., p. 165, considerando il potere estero «ricompreso
nella generale competenza residua delle Regioni», rintraccia nella stessa legge n.
59/1997 la nuova base legislativa della disciplina contenuta nel D.P.R. 31 marzo
1994, «restando comunque più che dubbio che simile fondamento, proprio perché
implicito, possa fungere da adeguata base legale di tale atto». Di diverso avviso F.
PALERMO, Il potere estero delle Regioni, cit., p. 209, a giudizio del quale «se anche viene
ora a mancare il fondamento legislativo dell’indirizzo e coordinamento in tema di
potere estero regionale, tale funzione rimane valida in se stessa, salvo l’obbligo di
coinvolgere la Conferenza permanente Stato-Regioni nell’approvazione degli atti
governativi che incorporano tale funzione [cfr. art. 8 comma I L. n. 59/1997], e
poiché il D.P.R. del 1994 è stato concepito in seno alla Conferenza permanente, esso non deve ritenersi toccato dall’intervento della legge Bassanini».
(85) Così lascia intendere R. BIN, L’atto di indirizzo e coordinamento può trovare nella
giurisprudenza costituzionale il fondamento della sua legalità?, cit., p. 322.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
165
que considerarsi espressione essenziale del fondamentale principio collaborativo (86).
È soltanto con la L.C. n. 3/2001 – cui si deve la ridefinizione complessiva del ruolo delle Regioni e delle autonomie locali
nel sistema costituzionale – che il potere estero regionale fa il
suo ingresso nell’ordinamento «anche dalla porta principale della
disciplina costituzionale» (87). Nel nuovo sistema competenziale,
l’art. 117 Cost. conferma l’attribuzione in via esclusiva alla legislazione statale di politica estera e rapporti internazionali dello
Stato, mentre inserisce fra i titoli di competenza legislativa concorrente i rapporti internazionali delle Regioni.
La disposizione che maggiormente ha inciso sul tema del
potere estero regionale è, però, senza dubbio il comma IX dell’art. 117 Cost.: «Nelle materie di sua competenza la Regione
può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi
dello Stato». In attuazione della citata disposizione, l’art. 6 L. n.
131/2003 ha posto una disciplina specifica che, tuttavia, a giudizio della dottrina prevalente, risulta troppo restrittiva nei confronti dell’autonomia regionale (88).
(86) Cfr. sent. n. 332/1998, punto 3 del considerato in diritto; sent. n. 13/2003,
punto 3 del considerato in diritto. Nella sent. n. 13/2003, la Corte ha dovuto preliminarmente superare il problema del mutato quadro costituzionale: peraltro, essendo
stato il ricorso proposto prima della L.C. n. 3/2001, la Corte ha ritenuto di doverlo
scrutinare alla luce delle previgenti norme sul riparto di attribuzioni (cfr. punto 2
del considerato in diritto).
(87) F. PALERMO, Titolo V e potere estero delle Regioni. I vestiti nuovi dell’imperatore, in
Ist. Fed., 2002, p. 717.
(88) Cfr. R. CAFARI PANICO, La nuova competenza delle Regioni nei rapporti internazionali, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., 2002, p. 1325 ss.; G. BUONOMO, Art. 6. Attuazione
dell’articolo 117, quinto e nono comma, della Costituzione sull’attività internazionale delle Regioni, in C. Cittadino (a cura di), Legge “La Loggia”. Commento alla L. 5 giugno 2003, n.
131, di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini, 2003, p. 122 ss.; E. CRIVELLI,
Articolo 6 (Attuazione dell’articolo 117, quinto e nono comma, della Costituzione sull’attività
internazionale delle Regioni), in P. Cavaleri, E. Lamarque (a cura di), L’attuazione del
Luca Andretto
166
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
A quanti individuano, ciò malgrado, nel nuovo disposto costituzionale il fondamento di un autentico treaty-making power regionale, si contrappone chi, invece, nega allo stesso siffatta portata innovativa, pur attribuendovi l’importante funzione di «costituzionalizzare il potere estero già in passato riconosciuto alle
Regioni, rendendo anche esplicita la possibilità di loro contatti
con Stati» (89). In sostanza, secondo quest’ultima lettura, la novella costituzionale si sarebbe limitata a recepire i risultati raggiunti dalla giurisprudenza costituzionale in materia. Tale interpretazione parrebbe, tuttavia, sconfessata dalla sentenza n.
258/2004 – pronunciata nell’unico conflitto di attribuzioni successivo alla riforma – in cui la Corte costituzionale non ha invero ritenuto di richiamare alcuno dei propri precedenti.
Il conflitto riguardava un accordo sottoscritto da talune Regioni con Länder austriaci, nell’ambito di un programma comunitario di cooperazione transfrontaliera. Il Governo, ricorrente,
lamentava la lesione delle proprie attribuzioni costituzionali derivante all’omessa comunicazione dell’atto, poi stipulato in mancanza della previa intesa richiesta dalla L. n. 948/1984 (di esecuzione della Convenzione di Madrid del 1980). Ne sarebbe
conseguita la violazione dell’art. 117 commi II e IX Cost., nonché l’elusione del principio di leale collaborazione, più volte affermato dalla pregressa giurisprudenza costituzionale (90).
nuovo Titolo V, parte II, della Costituzione. Commento alla legge “La Loggia” (Legge 5 giugno
2003, n. 131), Torino, 2004, p. 141 ss.
(89) A. ANZON, op. ult. cit., p. 229. Tra quanti condividono la portata innovativa
della disposizione, cfr. particolarmente F. PALERMO, Il potere estero delle Regioni, in T.
Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel
nuovo Titolo V, Torino, 2003, p. 168.
(90) Il Governo aveva sollevato ricorso nei confronti della Provincia autonoma
di Bolzano, della Regione Friuli-Venezia Giulia e della Regione Veneto, in relazione
all’accordo di collaborazione transfrontaliera dalle stesse sottoscritto, in data 15
gennaio 2002, nell’ambito dell’iniziativa comunitaria denominata “Interreg III A
Italia-Austria”, con i Länder austriaci del Tirolo, della Carinzia e di Salisburgo. Lo
stesso Governo, in relazione all’accordo in questione, aveva trasmesso alla Provin-
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
167
La Corte, esprimendosi sul merito del ricorso, pare in un
primo momento sostenere che gli atti regionali transfrontalieri,
attuativi di programmi comunitari, debbano considerarsi a priori
inidonei ad incidere sull’esclusiva competenza statale in tema di
politica estera. Un passaggio successivo della sentenza, tuttavia,
ridimensiona alquanto tale valutazione, richiedendo l’osservanza
di un duplice requisito: che l’atto costituisca esecuzione di precisi obblighi comunitari; e che lo stesso non esorbiti dall’ambito
definito dai programmi comunitari in questione (91). Nel rispetto
di questi limiti, si configurerebbe «un tipo di potere estero regionale che, in quanto strumentale all’applicazione piena del diritto comunitario, è sottratto alla riserva della politica estera in
favore dello Stato» (92).
Così superato lo scoglio della politica estera, la sentenza
passa dunque ad esaminare la fattispecie sotto il profilo dell’art.
117 comma IX Cost. Senza prendere posizione in ordine alla
conciliabilità con il nuovo quadro costituzionale dei vincoli posti
dalla L. n. 984/1984, la Corte esclude direttamente che l’accordo transfrontaliero sottoposto al suo giudizio possa ricadere nell’ambito applicativo della Convenzione di Madrid (e, quindi, del-
cia autonoma di Bolzano, in data 31 maggio 2002, una nota con cui chiedeva alla
stessa di non procedere alla stipulazione di ulteriori atti di analogo tenore in carenza
di preventiva intesa governativa, ai sensi della L. n. 948/1984: la Provincia destinataria impugnò prontamente detta nota, con un ricorso sul quale la Corte costituzionale decise di pronunciarsi congiuntamente a quello promosso dal Governo. La
sentenza n. 258/2004 accoglierà eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Regione Friuli-Venezia Giulia in ordine al ricorso
governativo, che esaminerà nel merito soltanto in relazione alla posizione della Regione Veneto. Ammetterà, invece, il ricorso della Provincia autonoma di Bolzano,
che risolverà in conformità a quanto deciso nel merito in ordine al ricorso governativo contro la Regione Veneto.
(91) Cfr. sent. n. 258/2004, punti 6 e n. 10 del considerato in diritto.
(92) O. SPATARO, Il potere estero delle Regioni nel nuovo Titolo V della Costituzione.
Impostazioni teoriche e problemi attuativi (seconda parte), in www.federalismi.it/.
Luca Andretto
168
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
la legge che vi dà esecuzione), trovando piuttosto il proprio
fondamento in ulteriori strumenti normativi comunitari (93).
L’assenza di disposizioni che specificamente regolino la fattispecie, peraltro, non esime le Regioni – per quanto attivatesi
sotto la copertura legittimante della normativa comunitaria – dal
rispetto dei basilari oneri imposti dal principio di leale collaborazione; fra questi, in particolare, l’obbligo di comunicare tempestivamente al Governo ogni iniziativa in ambito estero. Al
Governo spetta, infatti, il compito di verificare il rispetto dei
limiti sopra individuati, oltre i quali tornerebbe operativa la riserva statale esclusiva in tema di politica estera.
È a questo punto che la Corte costituzionale compie un
passo senz’altro innovativo. Lo Stato italiano ha, invero, attivamente collaborato, tramite organi suoi delegati, alla predisposizione degli strumenti normativi comunitari nonché dei relativi
strumenti attuativi di diritto interno, ed ha altresì approvato il
programma specifico di cooperazione transfrontaliera di cui l’accordo ora impugnato costituisce esecuzione. Ciò premesso, la
conclusione cui giunge la Corte è che «l’intesa [governativa] doveva ritenersi come acquisita nella successione degli atti precedenti», sicché «una ulteriore procedura di assenso per la firma
dell’accordo si ridurrebbe ad una mera ripetizione di adempimenti formali, privi di alcuna utilità» (94).
L’apporto innovativo della pronuncia risiede essenzialmente
in questo: essa riconosce che la previa intesa o il previo assenso
governativi, in ordine ad attività regionali espressione di potere
estero, non consistono necessariamente in uno specifico adempimento formale, ma possono anche ricavarsi implicitamente
dalla partecipazione degli organi statali ad atti preparatori prece(93) Il riferimento è, segnatamente, al regolamento comunitario n. 1260/1999 e
ai successivi strumenti attuativi adottati dalla Commissione europea. La Corte sottolinea, in particolare, il carattere obbligatorio del regolamento, direttamente applicabile nell’ordinamento italiano.
(94) Sent. n. 258/2004, punto 9 del considerato in diritto.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
169
denti. Se ne potrebbe financo trarre la regola generale per cui
intesa ed assenso possano sempre acquisirsi da parte delle Regioni mediante vie meramente informali o di fatto; sennonché,
l’art. 117 comma IX Cost. espressamente prevede che la legge
statale debba vincolare il potere estero regionale, disciplinandone casi e forme di espressione.
Quest’ultima considerazione induce ad un ulteriore approfondimento della sentenza n. 258/2004. Le principali norme
positive disciplinanti oneri formali per le Regioni, in vista dell’esercizio del loro potere estero, erano quelle di cui alla L. n.
984/1984 (quanto alla cooperazione transfrontaliera) e di cui al
D.P.R. 31 marzo 1994 (quanto alle attività promozionali e di
mero rilievo internazionale); la legge n. 131/2003, invece, non
era ancora in vigore alla data dell’accordo impugnato. La sentenza esclude espressamente che la fattispecie ricada nell’ambito
di applicazione delle prime – richiamate nel ricorso introduttivo
– ed implicitamente che ricada nell’ambito delle seconde, non
prendendo neppure in considerazione l’ipotesi.
Il punto d’interesse sta in ciò: la Corte, verificata la mancanza di norme positive specificamente disciplinanti la fattispecie,
omette di valutare la possibilità di applicare in via analogica le
disposizioni di cui alla L. n. 984/1984 o di cui al D.P.R. 31 marzo 1994, ma passa immediatamente a sindacare il rispetto da
parte regionale del principio collaborativo, per sua natura refrattario all’imposizione di rigidi adempimenti formali.
La sentenza n. 258/2004 avrebbe con ciò effettuato, rispetto
a quanto disposto dalle norme testé citate, un’operazione di distinguishing analoga a quella compiuta dalla sentenza n. 179/1987
rispetto alla disciplina congiuntamente posta dal D.P.R. n.
616/1977 e dalla pregressa giurisprudenza in materia. Resterebbe nondimeno in ombra l’effettivo fondamento di questa operazione ermeneutica. Non sarebbe chiaro, in altre parole, se l’ostacolo alla possibilità di applicare in via analogica le discipline positive sopra richiamate risedesse nella specialità della fattispecie
Luca Andretto
170
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
sottoposta al giudizio della Corte (e, dunque, nella strumentalità
dell’azione regionale all’applicazione del diritto comunitario)
ovvero nel carattere eccezionale – quindi di stretta interpretazione – di quelle stesse discipline formali.
In quest’ultimo caso, dovrebbe ritenersi che l’art. 117 comma IX Cost. fondi un potere estero regionale naturalmente vincolato al rispetto del solo principio di leale collaborazione, consentendo alla legislazione statale di porre ulteriori vincoli – materiali e procedurali – in relazione alle sole, eccezionali ipotesi in cui
ciò si renda necessario al fine di «salvaguardare gli interessi unitari
che trovano espressione nella politica estera nazionale» (95). Con
ciò, la riforma costituzionale del 2001 avrebbe in definitiva soppresso il principio ripetutamente affermato sin dai primordi della giurisprudenza costituzionale e solo in parte edulcorato dalle
sentenze n. 187/1985 e n. 179/1987, ma mai espressamente overruled: quello della riserva statale esclusiva dei rapporti internazionali, delle attività idonee ad impegnare la responsabilità dello
Stato (qui inteso nel senso complessivo di “Repubblica”) sul
piano internazionale (96).
(95) Cfr. sent. n. 238/2004, in Giur. Cost., 2004, p. 2487 ss., punto 6 del considerato in diritto. Questa pronuncia di legittimità, avente ad oggetto l’art. 6 L. n. 131/2004,
fornisce ulteriori elementi di rilievo ai fini della problematica in esame laddove enuncia che «le Regioni, nell’esercizio della potestà loro riconosciuta» – dunque non
solo nell’ambito delle attività di mero rilievo internazionale, ma anche in quello dei
rapporti internazionali in senso stretto – «non operano […] come “delegate” dello
Stato, bensì come soggetti autonomi che interloquiscono direttamente con gli Stati
esteri, ma sempre nel quadro di garanzia e di coordinamento apprestato dai poteri
dello Stato».
(96) Ciò non significa, tuttavia, che la novella costituzionale abbia invertito i
termini della relazione fra attribuzioni statali e regionali nei rapporti internazionali,
rendendo eccezionali le prime a discapito delle seconde. La competenza regionale si
sarebbe, piuttosto, affiancata a quella statale quale competenza ordinaria, pur non
parificata ad essa, in quanto sottoponibile a limiti materiali e procedurali consentiti
dall’art. 117 comma IX Cost. allorché ciò si renda necessario al fine di tutelare la
(perdurante) competenza statale esclusiva in tema di politica estera. Cfr. la sent. n.
285/2005, in Giur. Cost., 2005, p. 2777 ss., punto 6 del considerato in diritto: «L’art. 117
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
171
Questa lettura darebbe, in definitiva, ragione a quanti individuano nell’art. 117 comma IX Cost. il fondamento di un autentico treaty-making power regionale; rectius, il fondamento della partecipazione regionale al potere dello Stato di assumere autonomamente obblighi sul piano internazionale (97). E sarebbe, altresì, in grado di giustificare l’inusitato atteggiamento della Corte
costituzionale, in altre occasioni prodiga di richiami – talora persino erronei o non pertinenti – alla pregressa giurisprudenza e
che, invece, in sentenza n. 258/2004 sceglie di non richiamare
alcuna pronuncia precedente. Sarebbe, infatti, risultato del tutto
anacronistico ogni richiamo alla pregressa giurisprudenza in materia, una volta venuto meno il principio di fondo sul quale la
stessa si incardinava.
Tuttavia – come si diceva – tutte queste argomentazioni sono rimaste in ombra nella sentenza ora in commento. Esse rappresentano, in realtà, null’altro che mere ipotesi su quanto la
Corte avrebbe forse voluto dire e che, invece, più o meno consapevolmente ha sottaciuto. Come la sentenza n. 179/1987, allora, anche la n. 258/2004 possiede una potenzialità innovativa
in parte inespressa, che solo la giurisprudenza ventura potrà esplicitare appieno, attraverso reinterpretazioni, distinzioni e aggiustamenti progressivi (98). Non è detto, però, che le risposte
comma IX […] si limita a facoltizzare le Regioni a concludere accordi internazionali
nelle materie di loro competenza, ma non esclude affatto che lo Stato eserciti il
potere estero nelle medesime materie».
(97) Il potere di stipulare trattati internazionali non è, invero, una questione di
diritto interno – nella disponibilità, cioè, del legislatore (anche costituzionale) italiano – ma, piuttosto, di diritto internazionale; e le articolazioni territoriali interne allo
Stato, come è noto, non sono dotate di autonoma soggettività nell’ordinamento
internazionale (cfr. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 1999, p. 13). Se, tuttavia, lo Stato è unico titolare del treaty-making power, ciò non significa che le Regioni
non possano partecipare di tale titolarità: il concetto di Stato dovrebbe quindi interpretarsi nel senso di “Stato ordinamento”, costituito dall’insieme degli enti ed organi pubblici dei quali si compone la Repubblica, come individuata dagli artt. 5 e 114
Cost. Cfr., sul punto, R. CAFARI PANICO, op. cit., p. 1327.
(98) Cfr. G. ZAGREBELSKY, Principi e voti, cit., p. 85.
Luca Andretto
172
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
agli interrogativi da essa lasciati perverranno da future pronunce
su conflitti intersoggettivi; né è scontato che su di essi si esprimerà, come in passato, la sola giurisprudenza costituzionale.
Vero è che, con la riforma del Titolo V, si è assistito ad un
forte spostamento del contenzioso costituzionale in tema di potere estero, dal giudizio per conflitto di attribuzioni al giudizio di
legittimità costituzionale (99). Tale tendenza è riconducibile, da
un lato, all’intervento del legislatore ordinario statale, con L. n.
131/2003, e, dall’altro, all’estensione della potestà legislativa e
statutaria delle Regioni, le quali generalmente si sono orientate
nel senso di predeterminare con disposizioni di legge – o persino statutarie – principi e indirizzi volti ad informare il concreto
esercizio del proprio potere estero.
Inoltre, il ruolo privilegiato progressivamente acquisito dalla
Conferenza Stato-Regioni nella concertazione politica fra istanze statali e regionali e le funzioni alla stessa affidate anche nella
fase ascendente del processo normativo comunitario farebbero
presagire un suo possibile futuro coinvolgimento quale sede
sussidiaria di composizione dei conflitti in tema di potere estero:
una sede di composizione politica, che affiancherebbe il Palazzo
della Consulta quale sede di composizione giurisdizionale (100).
In funzione della ricerca di un accordo politico, peraltro, il
precedente giudiziario cesserà di valere per l’assimilabilità della
fattispecie concreta ai contenuti di possibili controversie future
fra Stato e Regioni, ma acquisirà peso specifico in tanto in quan(99) Soltanto negli ultimi quattro anni, si contano almeno dieci pronunce di legittimità su questo tema: cfr. le sentt. n. 238/2004, in Giur. Cost., 2004, p. 2487 ss.;
n. 379/2004, ivi, p. 4161 ss.; n. 285/2005, in Giur. Cost., p. 2777 ss.; n. 387/2005,
ivi, p. 3836 ss.; n. 12/2006, in Giur. Cost., 2006, p. 71 ss.; n. 211/2006, ivi, p. 2110
ss.; n. 323/2006, ivi, p. 3219 ss.; n. 454/2007 e n. 131/2008, in www.cortecostituzio
nale.it/giurisprudenza/pronunce/; oltre all’ord. n. 243/2004, in Giur. Cost., 2004, p.
2542 ss.
(100) Cfr. L. VANDELLI, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, cit., p. 16. Sulle funzioni della Conferenza Stato-Regioni nella fase ascendente
del diritto comunitario, cfr. l’art. 5 L. n. 131/2005.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
173
to godrà dell’autorevolezza necessaria a presentare la ratio decidendi da esso espressa come regola generalizzabile, che prefiguri
un’accettabile composizione degli interessi in gioco, astrattamente
replicabile in relazione a un numero indeterminato di casi specifici al fine di prevenire l’insorgere del conflitto (101).
6.
CONCLUSIONI: LA CORTE COSTITUZIONALE COME TUTORE DELLA
FORMA DI GOVERNO E IL RUOLO DEL PRECEDENTE GIUDIZIARIO
NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
Nella giurisprudenza analizzata – con l’unica eccezione della
sentenza n. 258/2004 – si è riscontrata la tendenza della Corte
costituzionale a richiamare con elevata frequenza proprie precedenti pronunce. In molti casi, risulta palese come l’utilizzo di
questa tecnica abbia avuto l’effetto di snellire alquanto la parte
motiva della sentenza, rendendo superflua, in particolare, la replica dell’iter logico-argomentativo che già in altra occasione aveva condotto la Corte a determinate conclusioni. Si potrebbe
presumere che tale tecnica abbia altresì consentito, per gli stessi
motivi, di ridurre i tempi di discussione in camera di consiglio;
ma su questa considerazione si dovrà tornare per un ulteriore
approfondimento.
Se i richiami alla pregressa giurisprudenza sono stati assai
frequenti, sorgono tuttavia non di rado fondati dubbi in ordine
alla loro correttezza formale, laddove osservati nell’ottica della
doctrine of binding precedent che contraddistingue gli ordinamenti di
Common Law. Assai spesso, infatti, la Corte costituzionale rafforza
le proprie argomentazioni adducendone la conformità a statuizioni espresse in precedenti sentenze, senza però curarsi della
(101) Predominerebbe, cioè, la seconda delle funzioni del precedente giudiziario, individuate supra, al § 3.
Luca Andretto
174
IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
loro concludenza all’interno delle pronunce richiamate (102). In
altri termini, accade che la Corte utilizzi ai propri fini taluni passaggi i quali, nelle pronunce richiamate, non si inseriscono a rigore nell’iter logico-argomentativo che dall’accertamento del fatto conduce alla decisione, ma costituiscono piuttosto meri obiter
dicta, affermazioni la cui portata non è in grado di incidere sugli
esiti del giudizio. Diversamente, principio fondativo dello stare
decisis è quello per cui «a case is only authority for what it actually decides» (103).
Anche il diritto inglese, peraltro, riconosce all’obiter dictum efficacia quantomeno persuasiva, «maggiore o minore anche in
rapporto al Collegio dal quale proviene» (104), nei confronti della
giurisprudenza successiva. Scarso rilievo assumono, quindi, ai
fini del presente studio, considerazioni circa la correttezza formale dei richiami ai precedenti “in senso tecnico” da parte della
Consulta. Conviene, piuttosto, tralasciare il dato formale per verificare se i precedenti giudiziari siano o meno sostanzialmente
rispettati nelle pronunce successive, sia che queste li richiamino
espressamente, sia che, invece, omettano ogni opportuno rinvio
agli stessi.
Si è già illustrato come la sentenza n. 179/1987, capostipite
del lungo filone giurisprudenziale testé analizzato, si fondi integralmente sull’innovativa distinzione fra rapporti internazionali
in senso stretto ed attività di mero rilievo internazionale. La giu(102) Gli esempi sono molteplici: tra i più evidenti, il richiamo operato dalle
sentt. n. 212/1994 (punto 2 del considerato in diritto), n. 332/1998 (punto 3 del considerato in diritto) e n. 13/2003 (punto 3 del considerato in diritto) alla sent. n. 204/1993,
nella parte in cui tratta degli obblighi posti a carico delle Regioni dal principio di
leale collaborazione (cfr. supra, § 3); e il richiamo operato dalla sent. n. 343/1996
(punto 3 del considerato in diritto) alla sent. n. 179/1987, nella parte in cui estende alle
Regioni dotate di speciale autonomia gli affermati principi in tema di attività di mero rilievo internazionale (cfr. supra, § 4).
(103) Così, esemplarmente, Lord Halsbury nel caso Quinn v. Leathem, sentenza
della House of Lords del 1901 (cfr. 1901, A.C. 495).
(104) F. MORETTI, Il precedente giudiziario nel sistema inglese, cit., p. 11.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
175
risprudenza antecedente, che sosteneva una rigida riserva dei
rapporti internazionali in capo allo Stato – benché in parte mitigata con l’ammissione di eccezionali ipotesi derogatorie (sentenza n. 187/1985) – non fu in tale pronuncia rinnegata, ma anzi
ribadita, sia pure restringendone l’ambito applicativo alle sole attività idonee ad impegnare la responsabilità internazionale dello
Stato o ad incidere sulla determinazione della politica estera nazionale. Al di fuori di tale ambito, la sentenza n. 179/1987 fissò
un nuovo, diverso principio, sancendo entro certi limiti materiali
e procedurali l’autonomo potere regionale di porre in essere attività “di mero rilievo internazionale”.
Tutta la giurisprudenza successiva poggerà su questa fondamentale operazione di distinguishing, la cui forza argomentativa
lascia trasparire un elevato senso di osservanza nei confronti del
precedente. La Corte non trascurò, infatti, di richiamare la sentenza n. 187/1985 e di specificare le ragioni per cui il principio
da essa espresso non potesse trovare applicazione nel caso di
specie. L’attenta giustificazione di questa scelta parrebbe invero
superflua se quel precedente, pur privo di espresso fondamento
costituzionale, avesse avuto per la Corte mero valore persuasivo.
Fermo, dunque, il principio che riserva allo Stato i rapporti
internazionali in senso stretto, la natura derogatoria delle attività
promozionali all’estero – legislativamente attribuite alle Regioni
– non fu messa in dubbio né dalla sentenza n. 179/1987, né dalle successive che ne specificarono ed integrarono i contenuti.
Siffatta deroga comportava la possibilità per le Regioni di agire
autonomamente in ambito estero, spendendo l’unitaria responsabilità internazionale della Repubblica, benché nei soli limiti
materiali e procedurali fissati dal D.P.R. n. 616/1977 in ossequio
al principio di leale collaborazione (sent. n. 187/1985). Quanto,
invece, alle attività di mero rilievo internazionale, con chiarezza
la sentenza n. 179/1987 ne affermò la piena titolarità regionale,
sia pure – anche in questo caso – entro i limiti dettati dal fondamentale principio collaborativo.
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IL PRECEDENTE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Di questi radicati precedenti, confermati in tutte le successive pronunce in materia, non tenne invece alcun conto la sentenza n. 425/1995. Come già illustrato, essa configurò entrambe le
tipologie di attività internazionali delle Regioni come «esercizio
di poteri dello Stato» solo occasionalmente delegati a soggetti
territoriali. Un revirement che si giustificava per motivi prettamente contingenti, ma che la Corte mancò affatto di argomentare,
limitandosi a richiamare altre pronunce che, in passato, avevano
rimarcato l’esigenza di un puntuale controllo statale sulla concreta portata delle iniziative regionali all’estero. Con ciò, si tentava incautamente di celare un palese strappo giurisprudenziale,
che la letteratura successiva non mancò di evidenziare (105).
Un’altra operazione di tacito overruling è probabilmente quella operata dalla sentenza n. 258/2004, ove se ne accolga la lettura prospettata supra; ma, in questo caso, l’insufficiente argomentazione della Corte rende arduo il lavoro ricognitivo dell’interprete. L’omesso richiamo all’intera giurisprudenza antecedente
farebbe, invero, propendere per questa soluzione: la novella costituzionale del 2001 avrebbe soppresso la tradizionale riserva
statale dei rapporti internazionali in senso stretto, ora ripartiti
fra le sfere competenziali di Stato e Regioni sulla base di altri parametri, e con ciò avrebbe altresì annichilito la forza (quale essa
fosse) dei precedenti giudiziari in materia, che su tale principio
poggiavano. Ad ogni modo, ai fini del presente studio, conta il
fatto che la sentenza in parola, non citando affatto la giurisprudenza pregressa, né i motivi per cui la Corte abbia ritenuto opportuno discostarsene, dimostra una certa indifferenza nei confronti del precedente.
Tali osservazioni portano con sé due riflessioni. La prima è
che, nei conflitti di attribuzioni, al precedente viene tributato
elevato rispetto, almeno fintanto che non emergano ragioni (talvolta di mera opportunità) per aggirarlo; il che confermerebbe
(105) Cfr. supra, § 4.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
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l’ipotesi iniziale della non vincolatività del precedente giudiziario. In secondo luogo, quando si tratti di contraddire consolidati
principi posti dalla pregressa giurisprudenza, sembra emergere la
tendenza della Corte a mascherare il proprio operato attraverso
un uso non obiettivo del precedente; il che presupporrebbe, comunque, la percezione della continuità giurisprudenziale come
un valore da perseguire.
Un Autore particolarmente sensibile ha ammonito che «le
contraddizioni giurisprudenziali [non adeguatamente argomentate] non giovano alla reputazione della Corte» (106). E, per un
organo costituzionale che non può vantare legittimazione democratica, l’autorevolezza delle decisioni svolge una straordinaria
funzione giustificatrice dei poteri da esso esercitati, soprattutto
laddove essi implichino la risoluzione di conflitti fra altri organi
costituzionali dotati di rappresentatività. Sotto questo profilo, si
potrebbe allora condividere la tesi di chi sostiene che il rispetto
dei precedenti nella giustizia costituzionale sia, più che un principio giuridico, «una regola logico-retorica» funzionale alla autolegittimazione dei poteri della Corte (107).
In relazione all’ambito del presente studio, tuttavia, questa
conclusione non può ritenersi del tutto appagante. In un contesto di non vincolatività del precedente giudiziario, pare infatti
opinabile che, laddove si riproponga tra due soggetti o organi
costituzionali un conflitto analogo ad altro su cui già si sia espressa la Consulta, risulti in ogni caso funzionale alla autolegit(106) G. ZAGREBELSKY, Principi e voti, cit., p. 87: «Talora, gioverebbe di più all’autorevolezza della Corte indicare esplicitamente l’orientamento che muta o, addirittura, si trasforma in un contro-orientamento, che non cercare ipocritamente di
nascondere il mutamento di indirizzo attraverso un uso non obiettivo dei precedenti, come se ci si vergognasse di dire quel che si fa. Sarebbe un segno di forza, oltre
che di chiarezza».
(107) A. ANZON, Il valore del precedente nel giudizio sulle leggi, cit., p. 168 ss.: l’Autrice sostiene, cioè, che «le decisioni del giudice delle leggi non presentano particolarità che le differenziano da quelle di qualsiasi altro organo che esercita funzioni giurisdizionali».
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timazione di quest’ultima una decisione assunta in termini in tutto sovrapponibili alla precedente. In sostanza, se un soggetto o
organo costituzionale tornasse a compiere un atto che già la
Corte abbia ritenuto eccedere la sua competenza (o, comunque,
essere di competenza di altro soggetto o organo costituzionale),
il suo contegno si porrebbe in aperto contrasto con tale giurisprudenza, dimostrando l’inequivocabile intenzione di metterla
in discussione. Idem nel caso opposto, in cui un soggetto o organo costituzionale impugnasse un atto in tutto analogo ad altro,
che già la Corte abbia riconosciuto appartenere alla sfera di attribuzioni del resistente.
Se, in un simile contesto, i giudici costituzionali si limitassero a richiamare il precedente giudiziario – benché dotato di mera efficacia persuasiva – e ad applicarne pedissequamente la ratio
decidendi al caso di specie, essi si sottrarrebbero in tal modo alla
questione sollevata col proprio stesso contegno dal soggetto o
organo resistente (ovvero, con la propria impugnazione dal soggetto o organo ricorrente); ciò che potrebbe comportare, quantomeno agli occhi di quest’ultimo, una parziale delegittimazione
dei poteri della Corte, piuttosto che un incremento della sua autorevolezza. Soltanto una rigida interpretazione dello stare decisis
potrebbe invero giustificare il rifiuto di riconsiderare la correttezza, ragionevolezza o perdurante attualità di una decisione
precedente, soprattutto se frutto dell’interpretazione di parametri costituzionali particolarmente elastici. Ma la regola del precedente vincolante, per quanto è emerso dal presente studio, nel
sistema dei conflitti costituzionali non sussiste.
Se così è, il compito che spetta ai giudici costituzionali in
camera di consiglio, chiamati a sindacare la legittimità di un atto
o comportamento in tutto analogo ad altro già vagliato in precedenza, non può esaurirsi semplicemente ripercorrendo l’iter
logico-argomentativo della pronuncia antecedente, ma dovrà in
ogni caso estendersi a verificare l’adeguatezza della sua ratio decidendi a disciplinare il nuovo caso di specie. Mediante questa va-
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
179
lutazione casistica, la Corte potrà così sopperire alla concreta
ineffettività delle proprie statuizioni sul piano sostantivo, per
non essersi queste rivelate idonee a prevenire l’insorgere del
nuovo conflitto.
Si è già rilevato come la giurisprudenza costituzionale nei
giudizi per conflitto di attribuzioni lasci trasparire una duplice
funzionalità affidata al precedente giudiziario (108). Prima ancora
che per la sua forza persuasiva nei giudizi su futuri conflitti, esso
varrebbe per la sua forza sostanzialmente normativa nel colmare
apparenti lacune del dettato costituzionale, mediante la determinazione dei significati attribuibili a clausole generali e principi
costituzionali dotati di elevata elasticità ermeneutica. Di qui, la
sua funzionalizzazione ad evitare il riproporsi del conflitto costituzionale, cui lo stile delle sentenze della Corte sembra invero
assegnare rilievo preponderante.
Spesso, infatti, la Corte non si limita a risolvere il caso di
specie con pronunce che vi aderiscano in modo puntuale e specifico, mettendone in risalto le particolarità concrete. Essa assume, piuttosto, un tono astrattivo che la porta a concentrarsi
sugli aspetti comuni ad un fascio più ampio di fattispecie e a
formulare la ratio decidendi alla stregua di una norma generale e
astratta, dai contenuti indefinitamente replicabili in relazione a
un numero indeterminato di casi concreti (109).
(108) V. supra, § 3.
(109) Cfr. M. PERINI, Considerazioni sulla giustizia costituzionale e l’efficacia dei precedenti in materia processuale, cit., p. 433 s.: «a differenza di ciò che accade nel Regno Unito, la Corte non farà tanto riferimento al singolo precedente o alla serie di precedenti in quanto decisioni di fattispecie concrete e individue, bensì estrapolerà la ratio
decidendi, presentandola sotto le spoglie di una norma generale ed astratta, secondo
quello che può a buon diritto definirsi mos italicus». Cfr. altresì F. ROSELLI, Massimizzazione e memorizzazione della giurisprudenza costituzionale, in Contr. Impr., 1988, p. 198.
Di ciò, esempio paradigmatico è offerto dalla sent. n. 179/1987, il cui dispositivo statuisce con formulazione ampia: «spetta alle Regioni il potere di porre in essere atti di mero rilievo internazionale». Nella stessa pronuncia, la Corte si esprime
inoltre sull’estensione del campo applicativo di quest’affermazione di principio, con
Luca Andretto
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Siffatto atteggiamento trova certamente radice nella tradizione di Civil Law, nell’atavica tendenza all’astrazione normativa
che connota il pensiero giuridico europeo continentale; ma non
solo. Esso fa invero trasparire una particolare concezione che la
Corte ha del proprio ruolo nei giudizi per conflitto di attribuzioni: ruolo di tutore ultimo della forma di governo e degli equilibri costituzionali, laddove le fratture politico-istituzionali non
abbiano trovato adeguata composizione nelle diverse sedi di concertazione operanti in prima battuta (110).
La Corte tenta, dunque, di mantenere intatto il carattere residuale del proprio giudizio, non limitandosi ad applicare il parametro costituzionale per risolvere il conflitto, ma adoperandosi per impedire che esso possa nuovamente insorgere in futuro.
Per ciò essa specifica il parametro, ricavandone nuove norme
che riformula in termini generali e astratti, affinché le parti contrapposte possano su di queste modulare successivamente il
proprio contegno. Le sentenze della Corte, tuttavia, non sono
fonti del diritto (costituzionale) e, come tali, vincolano le sole
parti del giudizio in relazione alla singola fattispecie su cui insiste la decisione (art. 137 comma III Cost.). Così, accade talvolta
che queste pronunce falliscano l’obiettivo sostantivo, di informare il futuro contegno dei diversi soggetti o organi costituzionali e, in tal modo, salvaguardare anche diacronicamente la stabilità di delicati equilibri costituzionali.
Se questo è il ruolo della Corte nel conflitto di attribuzioni,
si può in conclusione sostenere che la ratio decidendi del suo preuna statuizione però del tutto irrilevante in relazione al caso di specie: «La soluzione
qui accolta, in parte positiva, si estende naturalmente anche alle Regioni differenziate, se nulla é disposto in proposito dai relativi statuti» (punto 9 del considerato in diritto). Ulteriori esempi di questo stile delle pronunce costituzionali sono offerti, in
particolare, dalle sentt. n. 472/1992 e n. 204/1993: cfr. supra, § 3.
(110) Cfr. R. BIN, L’ultima fortezza, cit., p. 129 ss. Parla di «livello precipuamente
politico-costituzionale delle controversie», che poi sfociano nel conflitto costituzionale (interorganico), la Corte costituzionale in sent. n. 116/2003, in Giur. Cost.,
2003, p. 904 ss., punto 3 del considerato in diritto.
IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO NEL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONI
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cedente giudiziario goda di un’efficacia giuridica sostanzialmente
analoga a quella di una norma sprovvista di sanzione. Come tale,
l’applicazione della stessa a contesti diversi da quello originario
resterebbe in realtà affidata al “consenso disarmato” dei soggetti
e organi di cui si compone l’ordinamento costituzionale (111); e
l’eventuale sua violazione darà avvio a un processo di destrutturazione della norma che essa esprime, il cui arbitro sarà ancora
una volta la Corte costituzionale, quale garante ultimo della stabilità della forma di governo nelle sue pur dinamiche evoluzioni.
Chiamata a sindacare il contegno di chi si sia posto apertamente in contrasto con i propri insegnamenti, la Corte tornerà a
riaffermare la correttezza, ragionevolezza ed attualità del precedente in relazione al caso di specie, in tanto in quanto lo reputi
ancora la miglior soluzione a tutela degli equilibri costituzionali,
a garanzia della stabilità della forma di governo. In caso contrario, la Corte dovrà coerentemente modificare il proprio orientamento, mediante un’operazione di distinguishing o – più radicalmente – di overruling (112). Opportuno sarebbe, tuttavia, che
queste operazioni ermeneutiche fossero sempre adeguatamente
motivate, sulla base delle particolarità del caso concreto e in
rapporto alle evoluzioni del sistema.
In tutto ciò, può intravedersi il rischio che la Corte si tramuti da “arbitro” in modesto “mediatore” dei conflitti costituzionali, concentrando la sua opera esclusivamente nel «fissare, in
relazione al caso specifico, il punto di equilibrio tra principi o
interessi contrastanti» (113). A questa critica può peraltro ribadirsi
(111) Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Il potere e il diritto. Elementi per una introduzione agli studi giuridici, Padova, 1999, p. 114 s.; R. BIN, op. ult. cit., p. 167.
(112) G. ZAGREBEKSKY, Caso, regola di diritto, massima, in G. Visentini (a cura di),
La giurisprudenza per massime e il valore del precedente, Padova 1988, p. 106 ss., sostiene
che, per quanto la continuità giurisprudenziale debba ritenersi un valore, essa dovrebbe comunque essere bilanciata con ulteriori esigenze e valori costituzionali, che
la renderebbero in tal modo un valore da perseguirsi soltanto in misura tendenziale.
(113) R. BIN, op. ult. cit., p. 121. L’Autore afferma il ruolo propriamente arbitrale
della Corte costituzionale nei conflitti di attribuzioni, rilevando come essa debba
Luca Andretto
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che la mediazione di prima battuta spetterebbe ad altre sedi (politiche) di concertazione, quale il sistema delle Conferenze per le
controversie intersoggettive. L’intervento della Corte costituzionale giungerebbe, pertanto, solo in seconda battuta, una volta
falliti i tentativi di composizione politica della vertenza, ed opererebbe in ogni caso avendo quale propria stella polare il dettato
della Costituzione, quindi un parametro prettamente giuridico.
Forse, il rischio che la Corte si atteggi quale “mediatore” nei
confronti dei soggetti o organi costituzionali contrapposti potrebbe evitarsi soltanto se essa mutasse la concezione del proprio ruolo in questo settore della giustizia costituzionale, rinunciando ad ogni sforzo di prevenire l’insorgere del futuro conflitto ed innovando di conseguenza lo stile delle proprie sentenze,
che assumerebbero un tenore casistico più simile a quello proprio delle pronunce di Common Law. Ne risentirebbe, tuttavia, il
carattere residuale del giudizio per conflitto di attribuzioni e, a
parere di chi scrive, occorrerebbe attentamente valutare se una
scelta di tal fatta possa davvero incidere positivamente sul sistema di checks and balances che garantisce la stabilità della forma
di governo italiana.
operare sulla base di parametri giuridico-costituzionali; il ruolo di mediatore spetterebbe ad altre sedi di concertazione, che rinvengano la propria legittimazione «altrove rispetto al testo costituzionale, in una dimensione che è politica e non giuridica».
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