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Perls e Whitaker: un confronto tra la terapia della Gestalt e la terapia simbolico-esperienziale Giampiero Morelli Psicologo, Psicoterapeuta "INfomazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 31, maggio - agosto 1997, pagg. 56-73, Roma" Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; tutto, anche l'inaudito, deve essere ivi possibile. (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta) Introduzione Ad un primo sguardo il confronto tra il pensiero e l'azione terapeutica di Perls e Whitaker sembra evidenziarne soprattutto le differenze e l'inconciliabilità dei modi di pensare la psicoterapia e le relazioni umane. Perls sembra privilegiare l'individuo, mettendo al centro del suo modello l'autorealizzazione, l'individuazione, l'autosostegno: "io sono io e tu sei tu. Io faccio la mia cosa e tu fai la tua cosa" mentre Whitaker sembra mettere l'enfasi sul sistema, sul gruppo: "l'individuo non esiste". Dal sistema familiare si passa a sistemi sempre più ampi: la famiglia estesa, la cerchia dei parenti, gli amici e tutti quelli che hanno una relazione con il sottosistema originario. In terapia, Whitaker tende ad utilizzare un linguaggio indiretto, un atteggiamento non direttivo, e rivolge la sua attenzione al mondo del simbolico e dell'inconscio, Perls tende invece a porre l'enfasi sulla consapevolezza e l'"essere in contatto", utilizza un linguaggio esplicito e diretto, è iperdirettivo e "invadente". Queste differenze sono state tuttavia amplificate e cristallizzate a partire da una lettura volta alla semplificazione e banalizzazione del pensiero di questi due autori in modo tale che, all'insegna di una eccessiva attenzione rivolta ad affermazioni volutamente provocatorie, si è spesso smarrita la complessità sia dell'approccio gestaltico che della terapia simbolico-esperienziale. In realtà, ad una lettura più attenta emerge, quasi in filigrana, un terreno, uno spazio di convergenza che tocca il processo terapeutico nei suoi aspetti sostanziali. Per esempio l'attenzione ai processi corporei e al non verbale, all'esperienza attuale e al "qui ed ora" ed in particolare al rilievo dato all'umanità, integrità e responsabilità del terapeuta. Perls e Whitaker: la dialettica dell'esistenza Un primo dato che accomuna Whitaker e Perls è l'influenza su di loro di diversi autori e scuole di pensiero. Entrambi psichiatri, si muovono inizialmente all'interno di un'approccio psicodinamico e sono significativamente influenzati dal pensiero di due grandi eretici della psicoanalisi: Otto Rank, ancora oggi, specialmente in Italia, poco conosciuto, il quale evidenzia la centralità nel processo terapeutico della relazione tra paziente e terapeuta e Wilhelm Reich che mette al centro della sua ricerca i processi corporei ed energetici, luoghi privilegiati per l'espressione dei conflitti emotivi.Inoltre, se analizziamo le pubblicazioni di Whitaker e Perls che più si caratterizzano in senso autobiografico, avvertiamo l'influenza che la filosofia e la psicologia ad orientamento fenomenologico ed esistenziale hanno avuto sulla loro visione della realtà. E' tangibile l'influenza di autori quali Kierkegaard, Tillich, Buber, Binswanger, Camus. La relazione con colleghi quali Lawrence Kubie, Virginia Satir e Sheldon Kopp contribuiscono ad un progressivo avvicinamento non solo da un punto di vista intellettuale ma anche personale. Non siamo in grado di affermare che Whitaker e Perls si conoscessero personalmente ma certamente sappiamo che Perls si riferisce a Whitaker a proposito della "bellissima scoperta della parte di paziente che c'è nel terapeuta" (Perls, 1969b, p. 97), così come Whitaker fa riferimento alla Gestalt quando afferma che la terapia simbolico-esperienziale è "una sorta di estrapolazione del vecchio modello della Gestalt che includeva movimento del corpo, sensazione corporea e consapevolezza più totale" (Whitaker, 1988 p. 64). Se dalle note più propriamente biografiche ci spostiamo poi ad analizzare il pensiero di Perls e Whitaker, la risonanza tra questi due autori ci sembra francamente straordinaria, nonostante la diversità degli ambiti professionali: Perls, infatti, ha sempre svolto la sua professione in un contesto extra-istituzionale con individui che presentavano problemi nevrotici mentre Whitaker si è mosso prevalentemente in un ambito ospedaliero ed universitario lavorando soprattutto con psicotici ed in particolare, negli ultimi 30 anni della sua carriera, con le famiglie. Come accennato precedentemente, sembra forte per entrambi l'adesione ad un modello psicoterapeutico orientato in senso umanistico-esistenziale: la sofferenza, il disagio, la sintomatologia del paziente rimandano più propriamente alla condizione umana. Il paziente fondamentalmente riporta in terapia la propria difficoltà di vivere. All'interno di questo modello di riferimento, entrambi sembrano sposare una visione dinamica e dialettica della condizione umana. L'uomo è visto, all'interno di un'ottica olistica, come un organismo in una continua tensione dialettica, sempre e costantemente oscillante tra molteplici bisogni e spinte biologiche, psicologiche e sociali. In particolare Perls, prendendo le mosse dal concetto di omeostasi inteso come una condizione in continuo mutamento, mai statica, afferma che "tutta la vita è caratterizzata da questo gioco costante di equilibrio e squilibrio all'interno dell'organismo" (Perls, 1973 p.17). Ogni nuovo bisogno scuote l'equilibrio preesistente per cui il processo omeostatico è sempre al lavoro. La malattia insorge quando il processo omeostatico fallisce e l'organismo rimane troppo a lungo in uno stato di squilibrio. Infatti la tendenza dell'organismo è quella di autoregolarsi disciplinando l'emergenza dei diversi bisogni attraverso un meccanismo di figura-sfondo. Il bisogno più importante diventa la figura in primo piano mentre gli altri bisogni recedono sullo sfondo. All'interno di questo processo di regolazione, tuttavia, non c'è una reale inconciliabilità tra le diverse istanze sia se pensiamo all'organismo umano in termini fisiologici che in termini psicologici o sociali. Ad esempio se prendiamo in considerazione la polarità contatto-ritiro, possiamo notare come entrambe queste modalità siano fondamentali nel garantire la sopravvivenza biologica e psicologica dell'individuo. Tuttavia, né il contatto né il ritiro sono di per sé buoni o cattivi, sani o patologici in quanto la prevalenza di un bisogno sull'altro è determinata dal fatto che l'organismo umano si può sviluppare unicamente in relazione all'ambiente. Ciò significa che un bisogno tende a prevalere in relazione alla situazione in atto. L'organismo si relaziona ed interagisce con l'ambiente all'insegna della reciprocità e dell'opposizione dialettica: "l'intero campo organismo/ambiente è una unità differenziata dialetticamente. E' differenziata biologicamente in organismo e ambiente, psicologicamente in sé e l'altro, moralmente in egoismo ed altruismo, scientificamente in soggetto ed oggetto, ecc" (op. cit. 1973 p. 32). In contrasto con i fautori di una concezione dualistica dell'uomo che vedono questi processi operare come forze contrapposte tese a frammentare l'individuo, Perls coglie la fondamentale globalità ed unitarietà dell'esistenza che si esprime attraverso una dinamica armonia di contrari. Per dirla con Eraclito: "ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia" (framm. 24). Qualsiasi evento non può essere compreso se non all'interno di polarità in continua interazione. Si tratta, come sostiene Perls, di diventare ambidestri per poter vedere i poli di ogni evento: "è necessario che ci sia un ritmo tra luce ed oscurità ... la destra non esiste senza la sinistra" (Perls, 1969a p. 25). Anche per Whitaker l'aspetto centrale dell'esistenza è la sua natura dialettica e dinamica. Contrazione-espansione, contatto-ritiro, vita-morte. E' questo il ritmo della natura stessa in tutte le sue espressioni. Per l'uomo tutto ciò è decisamente insopportabile. La consapevolezza della morte trasforma questa oscillazione, questo ritmo in un vero e proprio incubo rendendo assurda la nostra vita. Il dilemma dell'esistenza, secondo Whitaker, spinge l'uomo: "a cercare una soluzione alla vita come se si trattasse di un problema" (Whitaker, 1989 p. 70). In realtà, le diverse dialettiche: appartenenza-individuazione, amore-odio, maschile-femminile, individuo-società, ruolo-persona, emisfero destro-emisfero sinistro, etc., non ammettono scelta finale ma una "continua oscillazione che non è mai risolvibile ma solo continuamente amplificabile ... il concetto di dialettica evidenzia la necessità di potenziare entrambe le qualità" (op. cit. 1989, p. 126). Così per ogni organismo biologico e psicologico, sia esso l'individuo, la famiglia, la società, lo stato di salute "è una condizione di perpetuo divenire, non si arriva mai veramente alla meta né si completa il viaggio" (op. cit. 1988, p. 150). Si tratta, in altri termini, di immaginare l'uomo in uno stato di continuo movimento all'interno di territori discrepanti. I problemi nascono nel momento in cui cerchiamo di trovare delle "soluzioni" di fronte a queste diverse istanze. Preferiamo entrare in conflitto con il nostro stesso conflitto nel tentativo di identificarci con uno dei due poli con l'esclusione o la negazione dell'altro piuttosto che accettare l'idea che "questa lotta è una dialettica da vivere, non da risolvere; che è fondamentale per la nostra esistenza" (op. cit. 1988 p. 125). Del resto questa modalità fobica di approcciare ai problemi propri dell'esistenza viene alimentata e rinforzata dalla stessa psicoterapia quando, come accade molto spesso, sembra dimenticare che "l'unica terapia è la vita reale: il paziente deve imparare a vivere con la sua scissione, con il suo conflitto, con la sua ambivalenza, che nessuna terapia può eliminare poiché, se lo facesse, porterebbe via con sé la vera fonte della vita" (Rank, 1947 p. 206). La nostra vita è realmente assurda, paradossale, folle. Siamo responsabili della nostra vita senza averne un reale controllo; nonostante la natura arbitraria, mutevole dell'esistenza dobbiamo prendere decisioni come se sapessimo cosa fare. Non possiamo evitare di muoverci costantemente verso la crescita, l'integrazione, la maturità per poi invecchiare e morire; desideriamo l'intimità dell'appartenenza per poi essere terrorizzati dalla paura di essere risucchiati, di perdere la nostra libertà; vogliamo essere autonomi, indipendenti, autosufficienti per poi sentirne tutta la solitudine, l'isolamento. Desideriamo vivere e quindi morire e viviamo nel terrore sia della vita che della morte; avvertiamo la pazzia del mondo, i rischi dell'adattamento e della schiavitù sociale ma l'unica alternativa è la pazzia nel tentativo di vivere all'altezza della nostra immagine del mondo. Durante il giorno tentiamo di essere razionali, lucidi, illudendoci che le nostre idee e pensieri guidino il nostro comportamento, mentre di notte, quando dormiamo, siamo degli schizofrenici guidati dal nostro sé psicotico. In particolare, sia Whitaker che Perls evidenziano una antinomia, a loro avviso, particolarmente problematica tra individuo e società. Come individuo sperimento fantasie, desideri e sentimenti che costantemente entrano in conflitto con le aspettative, le richieste della società e al tempo stesso sento il desiderio di appartenere, di far parte, di essere integrato, accolto nel mondo, nel gruppo. La società dal canto suo, pur essendo composta da individui, è un sistema che si comporta in modo diverso dalla semplice somma delle parti, presentando, quindi, un funzionamento non sempre compatibile con le esigenze del singolo. Secondo Perls viviamo in una società folle che tende a produrre individui nevrotici, anche se la sofferenza psichica non è attribuibile tout-court alla società, in quanto individuo e ambiente fanno parte di uno stesso campo, sono entrambi elementi di un intero. Resta l'evidenza delle difficoltà del singolo individuo nel momento in cui i bisogni sociali ed individuali entrano in conflitto. Se un individuo asseconda la società "diventa malato in certi riguardi ... ma se non la asseconda, diventa demente, perché la nostra è l'unica società che c'è. Ecco il dilemma" (Simmons, 1988 p. 204). Anche per Whitaker la società appare folle nelle sue richieste. L'individuo è spesso schiacciato dai lacci soffocanti e dagli stereotipi imposti dalla cultura che accetta solo alcuni modi di essere. La patologia è per Whitaker un tentativo disperato dell'individuo per non essere del tutto annullato dalla società: "il suo sistema delirante e le sue allucinazioni sono la conseguenza diretta di questa battaglia contro la sua situazione esistenziale e contro lo stress che deve sopportare per non diventare una non-persona, una specie di automa sociale" (op. cit. 1989 p. 68). L'alternativa che Whitaker e Perls propongono, alla follia o ad un'iperadattamento altrettanto folle e distruttivo, è rappresentata dal tentativo di integrare le diverse componenti ed antinomie. Tuttavia, nella vita come nella terapia l'integrazione delle polarità, del cast dei personaggi che dimorano nell'animo umano non è un percorso esente da rischi, dolore o cadute. E' anzi costellato da errori, contraddizioni, lacerazioni, disadattamento. Nondimeno è possibile avvertire nel pensiero di questi due autori un sentimento di ottimismo e di fiducia verso le potenzialità di crescita e di integrazione emotiva che caratterizzano il percorso maturativo dell'uomo. La fiducia che Whitaker e Perls sembrano provare per il genere umano non appare, tuttavia, della stessa pasta di coloro che aderiscono ai miti dello sviluppo, del progresso, dell'autorealizzazione obbligatoria che spesso sembrano permeare la nostra cultura ed in particolare la cultura psicologica. Secondo Perls, che è stato considerato, a torto, uno dei profeti della moderna cultura edonistica, imbevuta di narcisismo e spontaneismo, siamo entrati nell'epoca degli "accensori, di quelli che, come se si trattasse di premere un bottone, promettono guarigioni istantanee, consapevolezza sensoriale istantanea" (op. cit. 1969a p. 9). In un altro testo, a proposito del concetto di autorealizzazione, afferma che: "realizzazione di sé è un termine limitato. E' stato glorificato e distorto ... da molti psicologi umanisti" (op. cit. 1969b p. 18). L'individuo, come abbiamo detto, non è una monade, una cosa in sé ma esiste in relazione all'ambiente, al diverso da sé, all'altro. In effetti, come già sembra intuire Perls alla fine degli anni '60, ai vecchi miti e condizionamenti culturali che esigevano l'annullamento dell'individuo a vantaggio della società si sono sostituiti, oggi, nuovi miti che esaltano la dimensione individuale all'insegna di valori quali giovinezza, competitività, produttività, autosufficienza ed edonismo (cfr. Morelli, 1992). Anche Whitaker ritiene che siamo immersi in una cultura narcisistica e disperata che premia "l'abilità delle persone a vivere come individui solitari capaci di autocorreggere lo stress" (op. cit. 1989 p. 97). Nasce così, dopo la generazione del noi la generazione del me o ancor meglio dell'antinoi: "una specie di espressione metaforica del delirio psicoanalitico che una sufficiente consapevolezza di sé ed una adeguata possibilità di esprimere se stessi avrebbero consentito a tutti di raggiungere la maturità, la felicità e una vita piena" (op. cit. 1989 p.122) e che invece sembra aver prodotto, a causa dell'isolamento che ne è seguito "una violenta reazione che si esprime nella frenetica ricerca di salute, di esercizio fisico e di cure mediche" (op. cit. 1989 p. 123). Anche la comunità psicologica, che sembra aver perso ogni funzione di critica sociale, non appare affatto estranea a questo processo. Se ci è consentita una nota personale, abbiamo l'impressione che in questo momento diversi orientamenti e scuole di psicoterapia sembrano distributori di gioia di vivere, pensiero positivo, orgasmi simultanei, ottimismo e creatività a buon mercato, con il risultato di creare nuovi disagi, nuovi sentimenti di inadeguatezza: "la fantasia della crescita, la fantasia della persona sempre in espansione, sempre in evoluzione ... non tiene alcun conto dell'immutabilità. Questa fantasia che è alimentata da terapie di vario genere a lungo andare non ottiene altro che far sentire le persone sempre più dei falliti" (Hillman e Ventura, 1992 p. 20). La terapia: diventare ciò che siamo Alla luce di quanto detto, le riflessioni di Whitaker e Perls circa il significato e le funzioni della psicoterapia, sembrano volte a restituire all'agire terapeutico una dimensione più propriamente umanistica. Per entrambi, la psicoterapia non ha la funzione di assecondare il mandato sociale che prescrive al terapeuta di riabilitare e riadattare i membri malati o devianti della società. Non si tratta di rendere funzionale il paziente, di aiutarlo a "farcela", di renderlo in grado di tenere sotto controllo comportamenti, pensieri, bisogni, in altre parole, la sua psiche, la sua anima. Non è compito del terapeuta aiutare il paziente a perfezionare la sua nevrosi cercando di sostenere il gioco distruttivo dell'automiglioramento, del cambiamento intenzionale e programmato che molto spesso è alla base della richiesta di terapia attraverso interpretazioni, consigli, sostegno, accettazione incondizionata. La terapia non ha il compito di sostenere la fantasia, spesso reciproca, che il terapeuta possegga i valori "giusti", sia onnipotente, saggio, "risolto", in grado di fornire al paziente un modello con cui identificarsi o essere il genitore buono e comprensivo che il paziente non ha mai avuto, né tantomeno di fornire informazione, educazione, conoscenza con il risultato di rendere il paziente passivo, inetto, impotente, inadeguato o, quantomeno, di alimentare la fantasia che la conoscenza o l'apprendimento di nuove tecniche di comunicazione possano essere di qualche aiuto. Ma allora a che cosa serve la terapia? Qual è il suo scopo? Se la terapia viene spogliata delle sue funzioni riabilitative e risocializzanti, di risposta alle richieste di aiuto, se non si tratta di dar sollievo ai sintomi o all'ansia del paziente, se il progresso, il miglioramento non sono indici di salute e di efficacia terapeutica, allora cosa rimane? Secondo Perls e Whitaker questi interrogativi evidenziano un vizio di fondo, prendono spunto da presupposti per certi versi fuorvianti. Infatti, l'assunto di base su cui poggiano queste domande ruota intorno alla fantasia, spesso condivisa da entrambi i protagonisti del setting terapeutico, che la terapia si definisca tale in quanto serve a qualcosa, provoca cambiamenti, ha uno scopo, un fine. Sulla base di questo assunto, il materiale che il paziente presenta in terapia - sintomi, comportamenti, sentimenti, fantasie, eccentricità - deve essere passato al setaccio, filtrato e depurato delle sue scorie per poter essere riciclato, trasformato in qualcosa di utile, migliore, diverso, nuovo. Nella nostra società dinamica, efficiente, attiva e in continua evoluzione non c'è spazio per l'esistente, per ciò che una persona è, per tutto quello che non può essere utilizzato, consumato, scambiato. Si va in terapia, quantomeno ad un primo livello, per guarire dai residui di umanità, per eliminare le nostre imperfezioni, i nostri limiti, per guarire dalla nostra impotenza, dalla nostra disperazione, dal fatto di avere una psiche, un'anima. Dovrei essere.., non sono abbastanza.., se fossi diverso...,etc. Secondo Whitaker è proprio la costante tensione verso uno scopo, caratteristica della nostra cultura così orientata sull'agire, sul modificare, "la malattia più diffusa nella nostra società" (op. cit. 1989 p. 75). Il nostro continuo impegno a fare ed agire sembra un modo per impedirci di essere "se ci si dà abbastanza da fare non si è obbligati ad essere qualcuno. Si può cercare con sempre maggiore impegno, di diventare qualcosa di diverso da quello che si è: sempre migliori, sempre più potenti, sempre più simili a qualcun altro e sempre meno simili a ciò che in passato abbiamo scoperto di essere" (op. cit. 1989 p. 69). Anche Perls sottolinea che l'orientamento verso uno scopo, ricercato al di fuori della relazione organismo-ambiente, ci porta inevitabilmente in una condizione di conflitto e scissione: "ogni individuo, ogni pianta, ogni animale ha solo uno scopo ... realizzarsi per quel che è. Una rosa è una rosa, è una rosa. La rosa non ha nessuna intenzione di realizzarsi come canguro" (op. cit. 1969a p. 39). Secondo Perls questo è un punto fondamentale. La costante tensione verso la realizzazione della propria immagine, la ricerca di un cambiamento intenzionale di noi stessi o degli altri comportano "la frantumazione, i conflitti, la disperazione non avvertita della gente di carta" (op. cit. 1969b p. 21). Da quanto detto si comincia forse ad intuire come l'approccio al disagio psichico di Whitaker e Perls cerchi di sottrarsi ad una impostazione culturale, ideologica e psicologica che interpreta ciò che siamo come la malattia da curare ed il cambiamento, quale che sia, come una condizione di salute. Secondo questi due autori la funzione della terapia, per usare un'espressione di Hillman, è quella di fare anima, di aiutare il terapeuta e il paziente a diventare quello che sono. E' in tal senso una reciproca cura dell'anima, un tentativo di restituire umanità e dignità alla nostra esistenza. Ma cosa significa concretamente "fare anima", diventare ciò che sono? Fare anima, nel comune sentire di Whitaker e Perls, significa creare un luogo, uno spazio di espressione e di integrazione di ciò che è veramente importante per l'uomo, di tutte le esperienze che danno valore, significato, pathos alla nostra vita e grazie alle quali probabilmente viviamo: "la psicologia tratta dell'unica materia di interesse universale per gli esseri umani: noi stessi e gli altri" (Perls, 1973 p. 1). Secondo Whitaker, tutti gli esseri umani hanno "una ricca e spumeggiante vita interiore di impulsi. Tutti abbiamo pensieri omicidi, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrorizzati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliar fuori buona parte della nostra umanità" (op. cit. 1988 p. 63). I temi universali: sessualità, intimità, aggressività, malattia, dolore, pazzia, morte, rappresentano la struttura, la base su cui poggia la nostra vita ma, forse proprio per la loro importanza, sono relegati sullo sfondo, resi patologici dalla fantasia distruttiva che la vita debba essere indolore, facile, piacevole, priva di conflitti come ci propongono le vecchie e nuove mitologie culturali e familiari. Come abbiamo detto, a proposito della tensione a cui l'uomo è sottoposto nel confrontarsi con le diverse dialettiche che lo accompagnano e lo scuotono, novello Sisifo, nel corso di tutta la sua esistenza, la mancanza di uno spazio per l'espressione e l'integrazione delle diverse polarità dell'esistenza ci getta in una condizione di scissione e di frammentazione. E' possibile comprendere, a questo punto, l'importanza, nell'agire terapeutico di Whitaker e Perls, dei concetti di espressione ed integrazione. Cerchiamo ora di analizzare questi principi terapeutici in modo più approfondito. Naturalmente, non intendiamo in questa sede riassumere il complesso ed articolato insieme di strumenti e tecniche su cui si basano i modelli di Whitaker e Perls, quanto cercare di cogliere i principi terapeutici più significativi che sottendono l'agire terapeutico di questi due autori. I principi terapeutici della terapia della Gestalt La terapia della Gestalt si caratterizza come un approccio esperienziale piuttosto che verbale o interpretativo. Il materiale, i sintomi, i vissuti, in una parola i problemi che il paziente presenta in terapia, anche se possono essere determinati da eventi, traumi, esperienze che appartengono al passato e alle vicissitudini storiche del paziente, sono rilevanti solo nella misura in cui interferiscono con la realtà attuale, limitano le esperienze e le relazioni del paziente stesso. E' necessario quindi, secondo Perls, che la terapia sia orientata, in senso esperienziale, esclusivamente sul presente, sul qui ed ora. L'attenzione va diretta all'attualità intesa nella sua dimensione temporale, spaziale e sostanziale. In altri termini si chiede al paziente, ma anche al terapeuta, di essere in questo posto, in questo momento e di rivolgere l'attenzione a quanto succede: "chiediamo al paziente di diventare consapevole dei suoi gesti, della sua respirazione, delle sue emozioni, della sua voce, delle sue espressioni facciali, nonché dei suoi pensieri pressanti" (op. cit. 1973 p. 65). L'orientamento sul presente, sull'esperienza, su quanto il paziente sperimenta di se stesso da un punto di vista corporeo, emotivo, immaginativo, da una parte tende a limitare e minimizzare l'influenza di razionalizzazioni, credenze, rappresentazioni di ruoli stereotipati e dall'altra permette l'espressione attiva di qualsiasi materiale presentato, sia esso un sintomo, un sogno, un ricordo. Quanto emerge non va interpretato, modificato, né vanno cercate le cause sottostanti: semplicemente viene data voce, valore, diritto di esistenza ad ogni aspetto esistenziale che il paziente porta in terapia. Se il paziente presenta un sintomo il terapeuta può chiedergli di provare ad identificarsi con il sintomo, dargli voce, intensificarlo, permettergli di esprimere il suo messaggio per il paziente stesso. In questo modo è anche possibile attivare in modo psicodrammatico le diverse sottopersonalità, le diverse polarità. Il paziente, ad esempio, identificandosi e dando voce alle diverse parti di un sogno, potrà, dopo una fase di espressione e spesso di scontro, conflitto, contrapposizione tra i diversi personaggi, ruoli e figure che sono rappresentate nel sogno, recuperare, reintegrare le diverse parti di sé precedentemente scisse o alienate. L'integrazione, tuttavia, non è né facile né indolore. Il paziente, infatti, si scinde, aliena aspetti della sua personalità proprio per evitare la sofferenza, la responsabilità, il prezzo di essere come è. Assume ruoli fittizi: il bravo ragazzo, la moglie perfetta, etc., per essere amato, per non incorrere nella disapprovazione, per evitare le aspettative catastrofiche che immagina si verificherebbero a causa del suo comportamento non adattato. Il risultato di questa fuga da se stesso è la nevrosi, la psicosi, ma anche la rigidità emotiva, l'adattamento passivo e conformista alla società. Fuggendo da se stesso, rendendosi inconsapevole, cercando il sostegno ambientale, manipolando se stesso e gli altri, evitando la responsabilità dei propri atti, cerca di evitare il dolore del vivere: "nutriamo tutta una serie di aspettative catastrofiche [...] con le quali ci impediamo di vivere, di essere [...] queste fantasie ci impediscono di assumerci quei ragionevoli rischi che sono parte integrante della crescita e della vita" (op. cit. 1969a p. 47). Diventa comprensibile, quindi, secondo Perls, la difficoltà di riconoscere, contattare ed integrare i nostri sentimenti, le nostre diverse anime, in quanto l'assunzione della responsabilità della propria vita non rappresenta un'altra e migliore soluzione rispetto alle difficoltà dell'esistenza né garantisce necessariamente felicità, soddisfazioni, migliori relazioni con gli altri. In tal senso la terapia della Gestalt, secondo Perls, non si interessa minimamente di fornire conforto, consolazioni, sicurezze, risposte esistenziali né tantomeno di aiutare il paziente ad essere più efficiente o a fare la "cosa giusta", quanto di favorire una maggiore adesione e adattamento del paziente a se stesso, con i suoi limiti e possibilità, promuovendone la capacità di autosostenersi e di essere reale. E' questo un punto molto importante in quanto l'orientamento verso una maggiore adesione a se stessi non viene inteso da Perls come una sorta di negazione della relazione con l'ambiente o con l'altro quanto piuttosto un fondamentale prerequisito per poter contattare il mondo esterno sulla base di bisogni e modalità sentiti e riconosciuti come propri. Secondo Perls questo processo è possibile nel momento in cui il paziente è disposto a ricollocarsi al centro della propria esistenza, recuperando il potere su se stesso e sui propri comportamenti ivi compresi gli aspetti disarmonici e contraddittori: "se ti assumi la responsabilità di quello che stai facendo, del modo in cui produci i tuoi sintomi, del modo in cui produci la tua malattia, del modo in cui produci la tua esistenza - al momento stesso in cui entri in contatto con te stesso - allora ha inizio la crescita, ha inizio l'integrazione" (op. cit. 1969a p. 186). Assumersi la responsabilità della propria vita significa dare a se stessi la possibilità di perdonarsi per la propria imperfezione e, perché no, di gioire, sorridere dei propri difetti ed errori: "amo tutti gli incontri imperfetti di bersaglio e freccia che mancano il centro a sinistra e a destra, sopra e sotto. Amo tutti i tentativi che falliscono in mille modi diversi ... amico non aver paura dei tuoi errori. Gli errori non sono peccati. Gli errori sono modi di fare qualcosa di diverso, forse nuovo in senso creativo. Amico non pentirti dei tuoi errori. Siine fiero. Hai avuto il coraggio di dare qualcosa di te stesso" (op. cit. 1969b p. 103) Nel concludere la nostra disamina dei principi terapeutici sui quali si fonda la terapia della Gestalt non possiamo omettere un aspetto, a nostro avviso, estremamente importante. Al fine di promuovere la capacità del paziente di far fronte allo stress a cui è sottoposto costantemente nel corso della sua esistenza, la terapia della Gestalt tende ad intensificare piuttosto che ridurre l'ansia, lo stress, le frustrazioni. Si tratta, in altri termini, di favorire il contatto del paziente con tutte quelle esperienze, interne ed esterne, sgradevoli, ansiogene e dolorose che tende ad evitare e sfuggire. Si tratta di portare il paziente dentro la ferita, dove fa più male, piuttosto che consolarlo sostenendo la fantasia che ci possa essere qualcuno al mondo in grado di aiutarlo, prendersi cura di lui, lenire la sua ferita: "quello che noi vogliamo fornire è un luogo in cui il paziente possa desiderare sempre più di sperimentare cose sgradevoli, come l'ansia. Quando la evita lo riportiamo indietro restando con lui" (Perls e Baumgardner, 1975 p. 47). E' questo l'aspetto più delicato della terapia. Il paziente, allo stesso modo del neonato che alla nascita non sa respirare da solo, deve attivare le proprie risorse se vuole imparare a respirare, se vuole vivere. In tal senso la frustrazione, la non-rassicurazione da parte del terapeuta intendono favorire una risposta personale da parte del paziente: "senza frustrazione non c'è alcun bisogno, nessuna ragione di mobilitare le proprie risorse, di scoprire che potresti essere capace di fare qualcosa da solo" (op. cit. 1969a p. 40). I principi terapeutici della terapia simbolico-esperienziale L'approccio simbolico-esperienziale di Whitaker rappresenta l'evoluzione della originaria psicoterapia esperienziale non razionale, un modello messo a punto da Whitaker in collaborazione con Malone intorno alla metà degli anni '50 quando ancora lavorava con pazienti individuali. In effetti la maggior parte dei successivi principi terapeutici sono già presenti in questo primo modello. La terapia simbolico-esperienziale è un approccio a carattere esperienziale volto all'espressione e all'integrazione, nel corso del processo terapeutico, dei sentimenti e delle esperienze che il paziente presenta, sia esso un individuo, una coppia, una famiglia. Anche Whitaker, come Perls, attribuisce valore all'espressione di sentimenti, fantasie, pensieri, impliciti o espliciti, presenti nel mondo soggettivo del paziente e del terapeuta. La terapia è per Whitaker uno spazio di espressione del mondo pulsionale ed immaginativo. Un luogo dove sia possibile mettere in scena quelle correnti emotive che sono alla base dei rapporti umani, guidano il nostro comportamento e sono temute per la loro intensità: "affrontando gli impulsi, possiamo cominciare ad integrarli anziché preservarli intatti con l'isolamento. I tentativi di negare ed isolare gli impulsi servono ad intensificarli, spesso fino al punto da rendere la loro espressione esplosiva e incontrollata" (op. cit. 1988 p.65). Nel definire il processo terapeutico Whitaker mette l'enfasi sul qui ed ora e sul presente. Nella terapia simbolico-esperienziale l'interpretazione, l'insight, i metodi analitici di esplorazione del passato sono visti come modalità collusive per evitare l'ansia, ridurre la temperatura emotiva dell'incontro, proteggersi dalla possibilità che avvenga qualcosa di significativo, ostacolare il processo terapeutico e quindi la crescita e l'integrazione emotiva nel presente sia del paziente che del terapeuta: "il presente è la parte più delicata del tempo, quella che di solito viene evitata ... condividere lo stesso ricordo è una recita, non un'esperienza. Condividere ricordi non è un modo di partecipare se stessi ma solo un sistema per evitare di essere ciò che siamo, parlando di ciò che eravamo, di quando eravamo, e di cose che sappiamo già" (op. cit. 1989 p. 206). Quando una terapia si focalizza esclusivamente sul processo verbale, sul parlare intorno a qualcosa, si trasforma ciò che è vivo in una cosa morta, non si favorisce alcun tipo di intimità né tantomeno una relazione autentica e reale: "fare qualcosa insieme agli altri - che si tratti di esercizi intellettuali, di giochi psicologici o balletti verbali - mantiene i nostri ruoli ad un livello piuttosto superficiale" (op. cit. 1989 p. 84). Secondo Whitaker l'obiettivo della terapia simbolico-esperienziale è quello di cercare di liberarsi del passato e del futuro "buoni o cattivi che siano per cominciare semplicemente ad essere. Questo significa imparare a sviluppare la propria capacità di vivere, di essere una persona, di essere quel che si è in qualunque luogo e in qualunque momento" (op. cit. 1989 p. 72). Tuttavia, diventare una persona, essere quel che si è, anche per Whitaker non è un processo piacevole, facile. E' un pò come gettare dell'alcool su una ferita aperta. E' molto doloroso. Nel corso della terapia il paziente, man mano che inizia a "sentirsi", ad entrare in contatto con la propria esistenza, con i propri sentimenti e desideri autentici, incontra inevitabilmente la sofferenza per la sua reale solitudine, per la sua reale impotenza, per la disperazione, altrettanto reale e sentita, di essere diventato una nonpersona, per aver sacrificato, buttato via e mortificato la propria vita, le proprie aspirazioni nella delirante fantasia di poter salvare il mondo, la mamma, la famiglia, se stesso. Tuttavia, l'esperienza di toccare le proprie ferite e cicatrici, rappresenta un importante momento di crescita. Infatti, è proprio il nostro tentativo di evitare il concreto dolore del vivere e gli inevitabili conflitti che ci getta in una profonda disperazione. Whitaker ritiene profondamente distruttiva la fantasia che si possa vivere senza sofferenza, crescere senza sentire la dolorosa perdita dell'illusione che Babbo Natale esista veramente: "penso che la vita senza sofferenza sia come una tossicodipendenza e che la fantasia di felicità perpetua sia come il delirio di fusione" (Whitaker, 1984 p. 22). In tal senso la terapia simbolico-esperienziale si fonda su principi estremamente semplici: restituire al paziente la responsabilità della propria vita, la capacità di fornirsi del necessario autosostegno e, soprattutto, restituirgli "quel potere che gli appartiene e che in qualche modo ha gettato alle ortiche [...] restituirgli il potere di sopravvivere e di vivere, di essere creativo a dispetto del suo dolore e della sua impotenza [...] aiutarlo a sviluppare il suo io sono" (op. cit. 1989 p. 232). Il tentativo di muoversi in questa direzione richiede che il terapeuta cerchi di intensificare lo stress oltre il livello di tolleranza del paziente, ignori il progresso, il cambiamento di primo grado, si trattenga dall'aiutare e sostenere il paziente cercando di alleviarne le sofferenze e i sintomi: "voglio che imparino non solo a tollerare ma anche a godere dell'ansia e della sofferenza che rendono reale la vita. La scelta spesso si riduce o a diventare insensibili o a sperimentare sia il tormento sia la gioia. Voglio che siano in grado di prendere in considerazione l'esperienza di vivere" (op. cit. 1988 p. 158). Whitaker, come Perls, utilizza in terapia bellissimi "trucchi", tecniche, modi per inquinare, interferire con i copioni, con i potenti miti familiari ed individuali. Su questo aspetto, tuttavia, rimandiamo ad una lettura più specifica degli scritti di Whitaker. Quello che ci preme sottolineare in questa sede è piuttosto un punto a cui Whitaker dà molta importanza: la non assunzione da parte del terapeuta delle responsabilità che competono ai pazienti evitando, al tempo stesso, di fornire loro sostegno e aiuto. Quando il terapeuta si sostituisce al paziente, cercando di aiutarlo nel muovere i suoi passi, in realtà "evita la formazione della perla" (op. cit. 1984 p. 48), indebolisce le sue risorse, le sue capacità, il suo potere e al contempo lo rende inetto, impotente e dipendente. Se, viceversa, sopporta l'ansia, il conflitto, la tensione dell'incontro reale, tollera l'aumento della temperatura emotiva, non si rifugia nel suo armamentario di tecniche e di teorie, riesce ad assumersi la propria responsabilità personale senza far dipendere la propria autostima dall'approvazione dal paziente, allora sarà forse possibile fornire un autentico sostegno ed aiuto ai pazienti nel loro tentativo di diventare persone reali: "in realtà l'intera faccenda di aiutarli è terrificante. E' avvilente cercare di aiutarli, perché ciò sembra indicare che il proprio modo di vivere sia superiore al loro [...] sto attento a qualsiasi tentativo da parte loro di delegare la responsabilità per la loro vita. E' la loro partita non la mia. La mia responsabilità consiste nello spingerli ad accettare la propria responsabilità per il loro modo di vivere" (op. cit. 1988 p. 33). Il terapeuta e la relazione terapeutica Un capitolo a parte merita la figura del terapeuta, che assume, nell'interazione con il paziente, un grande rilievo ai fini del processo terapeutico. Sia per Whitaker che per Perls la relazione terapeutica, il rapporto interpersonale è al centro della dinamica terapeutica. La terapia, infatti, ruota intorno a persone e relazioni non ad interventi tecnici o ad astrazioni teoriche. Teoria e tecniche "prendono vita e forma soltanto quando sono filtrate attraverso la persona del terapeuta" (Whitaker, op. cit. 1988 p. 30). Le conoscenze teoriche, l'apprendimento di tecniche rivestono, eventualmente, una certa importanza per il terapeuta dilettante che ha bisogno di una struttura protettiva, difensiva in grado di fornirgli la necessaria sicurezza per poter intraprendere il difficile viaggio nel proprio e nell'altrui mondo emotivo. Resta il fatto che la tecnica "è un trucco, un gioco di prestigio che dovrebbe essere impiegato soli in casi estremi" (Perls, op. cit. 1969a p. 9), mentre il sapere qualcosa intorno alla terapia (la teoria) può essere utile esclusivamente per poter interpretare un ruolo. Nessuna teoria, tecnica o conoscenza è di qualche aiuto nel favorire la crescita personale e il tentativo da parte del terapeuta di diventare una persona. La crescita emotiva è possibile solo come risultato dell'esperienza: "niente che valga la pena di sapere può essere insegnato" (Whitaker, op. cit. 1988 p. 69). Quando si parla di esperienza ci si riferisce soprattutto alla possibilità di fare esperienza di se stessi. Posso comprendere l'altro, i suoi tormenti, le sue pene solo se sento, scopro, vedo tutto ciò dentro di me. Di conseguenza per poter fare terapia è necessario sviluppare e mantenere un costante rapporto con il proprio mondo interiore. Se è vero che il principale, se non l'unico, strumento terapeutico a disposizione del terapeuta è se stesso e quindi i propri impulsi e desideri, fantasie ed intuizioni, valori ed orientamenti, è necessario un lungo e faticoso addestramento, una costante disciplina ed attenzione per poter passare dal fare terapia all'essere un terapeuta. Perls, nei suoi scritti, non dedica molto spazio alla figura del terapeuta in quanto ciò che afferma rispetto ai problemi e ai conflitti del paziente è parimenti valido per il terapeuta. Nei suoi corsi, seminari, laboratori per professionisti della salute mentale l'attenzione era posta quasi esclusivamente sul fare esperienza diretta di se stessi e quindi dei propri comportamenti, sintomi, paure, fantasie. Si cercava, piuttosto che insegnare la terapia, di favorire la scoperta di quanta parte di paziente c'era in ogni terapeuta. Non era concepibile che si potesse fare terapia senza essere passati e passare continuamente per il proprio nucleo nevrotico. E' questo, secondo Perls, un processo senza fine: il terapeuta si trova costantemente in terapia o, se si vuole, in auto terapia. I principi terapeutici della terapia della Gestalt investono in prima persona il terapeuta. Essere qui ed ora, in contatto con i propri sentimenti, consapevoli e responsabili delle proprie scelte, dei propri comportamenti, in una parola della propria vita, sono principi privi di significato se non appartengono all'esperienza personale e direi esistenziale del terapeuta. Si fa terapia principalmente per riuscire ad aiutare, sopportare e consolare quella persona talvolta fragile, talvolta dispotica con cui dovrò passare il resto della mia vita. Volendo citare il titolo dell'autobiografia di Perls, si tratta letteralmente di andare "dentro e fuori il bidone della spazzatura". In fondo qualsiasi terapeuta che immagina o accetta di interpretare il ruolo del salvatore, di colui che aiuta, guarisce - "sto solo cercando di aiutarti" - sta ingannando il paziente o nel migliore dei casi ingannando se stesso. Si fa terapia essenzialmente per se stessi: "credo di fare quello che faccio per me stesso [...] ogni volta che si verifica qualcosa di reale sono commosso e [...] mi dimentico del mio pubblico e della sua eventuale ammirazione e sono totalmente presente" (op. cit. 1969b p. 15). Se il terapeuta si concede il permesso di riconoscere e di accedere ai propri sentimenti potrà comprendere la sofferenza e i sentimenti del paziente e soprattutto potrà mantenere un sufficiente equilibrio, nella relazione terapeutica, tra l'esperienza di coinvolgimento ed il rispetto dei propri confini. Nella misura in cui il terapeuta è reale ed autentico, accogliendo, ad esempio, il pianto reale e rifiutando le lacrime strumentali, manipolatorie, può realmente essere utile al paziente restituendogli il diritto ed il permesso di essere altrettanto autentico, altrettanto reale. Il terapeuta che si permette, ad esempio, di odiare il paziente, respingere i suoi tentativi manipolatori di trasformarlo nel suo salvatore, mostrare la propria impotenza, accettare la possibilità di essere sconfitto, si espone a molti rischi. Corre il rischio di essere rifiutato, odiato, abbandonato, aggredito, ma, come sostiene Perls, che in terapia non era certamente un santo né tantomeno un missionario, un terapeuta "deve rischiare la sua vita e la sua reputazione se vuole arrivare a qualcosa di reale. I compromessi e la disponibilità non funzionano" (op. cit. 1969b p. 98). Si può affermare, in conclusione, che l'umanità e l'integrità del terapeuta così come la sua disponibilità a correre dei rischi nel corso della relazione terapeutica sono valori e principi che si collocano al centro del pensiero e dell'azione terapeutica di Perls. Tuttavia il processo terapeutico non dipende unicamente dal contributo del terapeuta. Entrambi i partecipanti dell'incontro sono completamente responsabili delle proprie azioni. Il terapeuta non è affatto responsabile delle scelte e dei comportamenti del paziente: "assumersi responsabilità per un altro, interferire con la sua vita e sentirsi onnipotenti sono la stessa cosa" (op. cit. 1975 p. 31). Il compito del terapeuta è quello di rimanere al centro della propria vita, accettando, per quello che gli è possibile, i propri limiti e le proprie capacità, rimanendo aperto a tutte le possibilità di fallimento e di successo. Partecipare alla vita dell'altro non significa aiutarlo, cercare di renderlo migliore o diverso, quanto lasciarlo essere ed essere con lui: "sarò con te. Sarò con te con il mio interesse, la mia noia, la mia pazienza, la mia rabbia, la mia disponibilità. Sarò con te [...] ma non ti posso aiutare. Sarò con te. Tu farai quello che riterrai necessario" (op. cit. 1975 p. 30). Whitaker, diversamente da Perls, dedica molto spazio nei suoi scritti alla figura del terapeuta. Al riguardo, tuttavia, è tangibile la sensazione di essere in presenza di una forte convergenza, di un comune sentire nel trattare il ruolo del terapeuta nella sua interazione con il paziente. Secondo Whitaker è importante che il terapeuta rimanga, nel corso della terapia, al centro della propria esistenza cercando di ottenere qualcosa dalla situazione "sono qui per me stesso e per quello che posso ottenere" (op. cit. 1988 p. 133). Tutto ciò, oltre ad avere una funzione preventiva rispetto ai rischi di esaurimento professionale, fornisce un aiuto indispensabile al processo di crescita personale del terapeuta e svuota di energia la fantasia collusiva, spesso condivisa da paziente e terapeuta, che l'altro sia la persona più importante nella propria vita: "evidentemente sono io la persona più importante della mia vita e nessuno può prendere questo posto, anche se posso creare questa illusione e finire per crederci io stesso" (op. cit. 1989 p. 190). Whitaker ritiene che, così come il paziente, anche il terapeuta avverte una spinta verso la crescita nel tentativo di diventare una persona, di accettare ed apprezzare la propria vulnerabilità, pazzia, forza: in una parola i propri sentimenti. Fare il terapeuta è un modo come un altro per cercare di curare se stesso. E' il suo bisogno di aiuto che lo spinge in terapia: "se gli diventa impossibile chiedere aiuto per le sue immaturità residue allora perde la sua capacità di essere un terapeuta" (op. cit. 1984 p. 65). Il riconoscimento della propria inadeguatezza, della propria parte "paziente" è un prerequisito per poter portare in terapia se stesso e non "solo la propria uniforme di terapeuta" (op. cit. 1988 p. 36). Ma cosa significa portare in terapia se stesso? Per Whitaker significa non preoccuparsi dell'esito quanto dell'esperienza in sé, permettersi di essere presente, personale, vivo piuttosto che recitare un ruolo, correre il rischio di esprimere la propria fantasia, pazzia, incongruenza. Portare se stessi in terapia significa avere il coraggio di aspettare che "emerga qualcosa di spontaneo dalla creatività del terapeuta [...] tollerare uno stato confusionale senza cercare una via di scampo" (op. cit. 1989 p. 207). Se il terapeuta si assume la responsabilità dei propri sentimenti e si concede il permesso di essere reale offre al paziente il permesso e il diritto di essere altrettanto reale e meno spaventato dalle proprie fantasie, dai propri sentimenti inaccettabili quali gelosia, invidia, rabbia, etc. Se il terapeuta si permette di essere ostile, annoiato, depresso, debole lascia intravedere al paziente la possibilità di accettarsi e quindi di essere come è. Tuttavia, l'adesione a se stessi e l'ascolto, come terapeuta, del proprio mondo interiore spesso confuso, caotico e contraddittorio, suscita sentimenti di disagio ed ansia, che appaiono del tutto inevitabili. In altre parole, il terapeuta, secondo Whitaker, non può evitare l'esperienza della disperazione, sia che cerchi di proteggersi dalla relazione con il paziente attraverso l'assunzione di un ruolo, sia che accetti di correre il rischio che comporta una relazione più personale. Al riguardo Whitaker cita i tre tipi di disperazione cui fa riferimento Kierkegaard: 1) la disperazione di non essere una persona; 2) la disperazione di diventare una persona; 3) la disperazione di essere una persona. Per il terapeuta, comunque, il pericolo maggiore è quello di scivolare sulla metacomunicazione "la malattia che affligge tutti gli psicoterapeuti: passiamo la nostra esistenza inseriti in un contesto nel quale parliamo del nostro parlare, molto spesso senza dire nulla" (op. cit. 1989 p. 71). L'antidoto alla metacomunicazione e al meta-vivere, secondo Whitaker, è quello di mantenere, anche nella terapia, la capacità di giocare, di essere intenzionalmente dipendenti ed infantili, di lasciar vivere le proprie parti eccentriche e dispettose: "c'è una sola cosa più triste dei bambini precocemente adulti (bambini che alla considerevole età di quattro anni parlano, si comportano, e affrontano la responsabilità di un adulto): sono gli adulti emotivamente infantili che si sforzano intellettualmente di giocare ad essere adulti" (op. cit. 1989 p. 74). Un ulteriore rischio per il terapeuta, è quello di confondere la terapia con la propria vita. E' necessario, secondo Whitaker, mantenere la propria centralità, per cui il terapeuta possa associarsi ma anche differenziarsi nei confronti del paziente, sia esso un individuo o una famiglia, ed esplicitare che la relazione terapeutica non va intesa come una sorta di adozione bilaterale, che il terapeuta non è un amico, un genitore, un fidanzato del paziente e che il suo coinvolgimento, per quanto intenso, non è mai tanto grande come quello che pone nella propria vita: "non sono disposto a portarmi a casa la famiglia se hanno bisogno di una casa in cui abitare [...] offro di essere coinvolto ma mi riservo la possibilità di decidere che voglio uscirne. Non è un impegno a vita. Infine c'è uno scambio di denaro il che rende chiaro il fatto che il nostro non è un rapporto di altruismo incondizionato" (op. cit. 1988 p. 40). Conclusioni Dopo aver portato a termine questo confronto, o meglio questo riscontro di significativi spazi di convergenza tra Whitaker e Perls, di una comune visione della sofferenza psichica e delle funzioni dell'agire terapeutico, vorremmo evidenziare due punti a nostro avviso importanti. In primo luogo sia Whitaker che Perls sembrano indicarci una direzione che spesso, nel pensare e nel fare terapia, viene estremamente sottovalutata. Ci stiamo riferendo alla visione sintetica e globale dell'esperienza umana come emerge ripetutamente dagli scritti di questi due autori. Come afferma Whitaker gli "uomini non sono freddi, caldi, teneri, le donne non sono dominatrici, affettuose, intelligenti. Questi sono solo aggettivi, che ignorano la complessità dell'individuo e le difficoltà di definirlo [...] ogni qualvolta si tenta di etichettare qualcuno, la persona sparisce e si ha a che fare con le proprie fantasie" (op. cit. 1989 p. 207). Non è un caso che questi due autori non si curino del gergo psicopatologico parlando di fobici, ossessivi, depressi, rifuggendo dalla mania riduzionistica di classificare e definire, come tipicamente avviene all'interno della cultura medica e psicologica. Non cercano di trasformare le persone in sindromi ... "come sta il tuo depresso?... E la tua personalità multipla?"". La loro attenzione non è rivolta a scoprire le diverse determinanti intrapsichiche, relazionali, familiari sottostanti a questo o a quel sintomo quanto ad evidenziare, durante la terapia, i giochi, i copioni che i pazienti insistono ad interpretare e con i quali continuano ad identificarsi confondendo se stessi con il personaggio che hanno appreso a recitare. In secondo luogo, a nostro parere, la terapia della Gestalt così come l'approccio simbolicoesperienziale non vogliono essere tanto dei sistemi psicologici o delle teorie della personalità, quanto uno stile personale di fare terapia. Con molta autoironia, Whitaker definisce il suo pensiero "il mio sistema delirante" (op. cit. 1989 p. 68). Anche Perls, pure essendosi più impegnato a promuovere il suo modello terapeutico, si pone fuori da una logica volta a cercare una legittimazione, sotto l'egida della scientificità, della propria prassi terapeutica, della propria e personale interpretazione della realtà. I loro modelli non si apparentano minimamente con la scienza. La terapia viene vista come una espressione artistica, un'applicazione della propria creatività e partecipazione al disagio psichico. La terapia è un'arte che l'apprendista assimila, come sa qualsiasi artigiano, lavorando accanto al maestro per poi trovare il coraggio di essere personale ed autonomo, come ci indica il messaggio contenuto nella massima buddista: "se incontri il Buddha per la strada uccidilo" (Kopp, 1973). Il messaggio, a nostro avviso straordinario, contenuto nell'opera di Perls e Whitaker è l'invito ad essere personali, a non cercare di ripetere una tecnica come si ripete un'esperienza scientifica. I principi e gli strumenti terapeutici della Gestalt e dell'approccio simbolico-esperienziale possono essere di grande aiuto ed utilità per il giovane terapeuta, possono fornirgli una sorta di mappa per orientarsi all'interno della relazione terapeutica ma non sono degli imperativi categorici vincolanti né intendono limitare le risorse, le capacità e la creatività del terapeuta attraverso un insegnamento stereotipato, una sorta di Gestalt fissa applicata in modo ripetitivo. Il terapeuta che cerca di "preparare" uno specifico intervento, che cerca di pensare a quanto sta accadendo, inevitabilmente si allontana dalla relazione abbandonando il ruolo di terapeuta: "anche le precedenti esperienze spontanee possono diventare false quando vengono ripetute o imitate" (Whitaker, op. cit. 1989 p. 207). Prima di concludere questa lettura dell'opera di Whitaker e Perls, vogliamo segnalare un rischio, a nostro avviso, da non sottovalutare. Abbiamo l'impressione che Whitaker, recentemente scomparso, possa essere trasformato in una sorta di totem, di statuetta votiva, di effigie. Ci sembra che la psicoterapia, nei suoi diversi orientamenti, sia così preoccupata di ricevere una legittimazione scientifica, di poter appartenere a pieno diritto, nel modo "giusto", alla società moderna e ai nuovi valori dominanti che un messaggio così diverso, così "altro" come quello di Whitaker, può trovare posto solo in una teca molto preziosa, a tal punto preziosa da non poter essere realmente toccata e contattata. Perls ha corso e corre lo stesso rischio, ma in questo caso ci sembra che il problema sia un altro. La terapia della Gestalt, a pieno diritto una creatura di Perls, è stata "rivisitata", ripulita delle sue asprezze e radicalità viste come deformazioni e contraddizioni che, secondo alcuni autori, hanno impedito il completo sviluppo delle potenzialità gestaltiche (Wheleer, 1991). Ecco, dunque, il fiorire di approcci gestaltici alla ricerca di una legittimazione sia all'interno del mondo accademico che in quello commerciale. Queste scuole e associazioni si occupano infatti di "serissime" attività formative, promuovendo training e corsi di formazione con titoli molto suggestivi come: "sviluppo della autostima", "vivere in coppia oggi", "sensibilizzazione genitoriale", "modifica dell'umore depressivo", "come diventare assertivi", attraverso moderni sistemi di insegnamento programmato (sic!). Il cerchio si chiude. La frattura è ricomposta. Anche la terapia della Gestalt resa mansueta ed addomesticata è ammessa di diritto nel salotto buono dell’establishment perdendo così, ormai edulcorata, le sue qualità fondanti. Bibliografia Eraclito., I frammenti e le testimonianze, Mondadori, Milano 1993 Hillman J., Ventura M. (1992), We've had a hundred years of psychotherapy - and the word's getting worse, trad. it. 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Garzanti, Milano, 1993 Kopp S. (1972), If you meet the Buddha on the road, kill him. 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