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Babbo Natale - La Repubblica.it
Le terre/Memi
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La serie “Memi” è curata
da Francesco Benigno e Gabriele Pedullà
Viviamo in un mondo di simboli naturalizzati, artefatti del pensiero di
cui si è perduta l’origine storica, se non addirittura la stessa consapevolezza che un’origine c’è stata: personaggi della fantasia, riti stagionali, emblemi pubblicitari e miti della cultura popolare sui quali non
sembra nemmeno possibile interrogarci, tanto essi paiono appartenere
da sempre alle nostre vite. “Memi” nasce appunto per offrire ai lettori
una mappa aggiornata dell’immaginario di oggi e raccontare attraverso le parole e le immagini le grandi icone del mondo contemporaneo
nel loro continuo farsi e disfarsi: in altre parole per portare alla luce
l’alterità che si annida negli oggetti più familiari o invece la segreta
consonanza che ci lega a figure del passato che credevamo di aver cancellato una volta per tutte dal nostro orizzonte.
I edizione: novembre 2005
© 2005 Fazi Editore srl
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico di copertina: Maurizio Ceccato
ISBN: 88-8122-639-1
www.fazieditore.it
Nicola Lagioia
BABBO NATALE
DOVE SI RACCONTA COME LA
COLA-COLA
HA PLASMATO IL NOSTRO IMMAGINARIO
BABBO NATALE
1. Santa Claus: l’impossibilità di diventare adulti
Come tanti analfabeti di ritorno per eccesso di informazione, continuiamo a credere a Babbo Natale anche dopo
che i cancelli dell’infanzia ci si sono richiusi alle spalle. L’incanto di un essere soprannaturale in grado di mettersi a disposizione di ogni bambino del pianeta per consegnare
doni si mostra a prima vista come uno spartiacque tra infanzia e mondo degli adulti. Questi ultimi, che dovrebbero possedere la verità su Babbo Natale (la semplice circostanza che non esista al di là della tradizione, il fatto che sia
un prodotto culturale, uno strumento educativo), si impegnano a occultarla con dichiarati intenti pedagogici. Sostenendo l’esistenza di Babbo Natale innesterebbero sullo
sguardo incantato dei propri figli il meccanismo del do ut
des, regali in cambio di obbedienza.
Finito il lungo tirocinio che dai primi vagiti giunge a una
confidenza basilare con testi scritti, suoni, immagini, per i
bambini arrivano anche le prime docce fredde. Lo spartiacque è destinato a cedere con precisione rituale quando
di regola, in seguito al consueto passaparola tra ragazzini in
finto regime di clandestinità, un fratello o un cugino maggiore si fanno portatori di una rivelazione («Babbo Natale
non esiste») che ha per il destinatario un effetto traumatico
e riempie il mittente di crudele soddisfazione. L’attraversamento di Babbo Natale ottiene in questo modo tutti i cri-
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BABBO NATALE
smi di una prova iniziatica. Da una parte, agli appena-iniziati (il fratello, il cugino maggiore…) è data l’occasione di
esercitare il “potere della conoscenza”. Dall’altra, chi sostiene la prova acquista la prima patente di adultità, al costo di un bruciante disincanto. Nel rivelare “come stanno
le cose” ai loro piccoli amici, gli iniziati non possono inoltre esimersi dall’ulteriore ebbrezza di restituire la violenza
subita quando furono loro ad essere strappati brutalmente
dal mondo del soprannaturale.
Ma a questo punto? A questo punto non è detto che si
diventi adulti. Entrati tra le file degli iniziati, dovremmo
essere capaci di elaborare il lutto per la “morte di Babbo
Natale” scollando il celebre portadoni dal dominio del
magico al fine di ricollocarlo nel mondo dei semplici fenomeni culturali. Il problema è che la percezione sociale
di Babbo Natale è tale che questa opera di secolarizzazione fallisca quasi immancabilmente il suo bersaglio. Come
a dire che, crollato uno spartiacque, se ne ricostituisce immediatamente un altro, rimandando a tempo indeterminato la nostra definitiva emancipazione rispetto a questo
affaire.
In genere siamo convinti che Babbo Natale così come lo
conosciamo, o meglio, così come il suo ectoplasma ci ha visitato per tutta la vita (barba bianca, pancione, giubba rossa con i bordi di pelliccia bianca, aspetto gioviale e rassicurante) esista da secoli. Ci lamentiamo al limite del fatto
che la sua figura, che erroneamente potremmo considerare intatta da epoche vagamente preindustriali, venga sfruttata dalla macchina del consumo più sfrenato. Ma come
reagiremmo al pensiero che Babbo Natale, più che essere
cavalcato dalla società dei consumi, sia uno dei suoi rappresentanti più emblematici? E alla circostanza che la sua
perenne quanto inafferrabile presenza nel complicato gio-
1. SANTA CLAUS: L’IMPOSSIBILITA DI DIVENTARE ADULTI
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co di specchi che regola il traffico del nostro immaginario
è dovuta in buona parte alla Coca-Cola?
Questo difetto di messa a fuoco cronologica può rimandare con qualche azzardo a dinamiche orwelliane. Nell’utopia negativa di 1984, l’arbitraria riscrittura della Storia
rappresenta uno dei sistemi più efficaci con il quale il partito unico esercita il proprio potere. I cittadini di Oceania
sono persuasi che fatti storici, sistemi di linguaggio, interi
blocchi culturali siano arrivati a loro modellati dal normale lavoro del tempo – la circostanza che si tratti di manufatti creati artificiosamente nel laboratorio di Big Brother
non li sfiora.
Orwell aveva in mente i totalitarismi del XX secolo e
quindi puntava l’indice contro un’oligarchia i cui membri
esercitavano consapevolmente il proprio potere per mezzo
di altrettanto consapevoli sistemi di controllo, manipolazione e repressione sociale. Il mondo delle multinazionali
– di cui Babbo Natale è una delle espressioni più mature –
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BABBO NATALE
è lontanissimo da obsolescenti pratiche concentrazionarie:
l’idea del gulag o della vaporizzazione non gli appartiene.
E tuttavia, in relazione alla capacità di colonizzare il nostro
immaginario, alcuni risultati conservano una qualche parentela con quelli elaborati da George Orwell.
La “riscrittura” e il “lancio” planetario di Santa Claus
come testimonial della Coca-Cola è stato un crimine perfetto quanto a falsificazione della realtà storica – siamo persuasi che la sua benevolenza, la sua saggezza, il suo look
traggano forza e ragioni da un’origine che non ha niente a
che fare con l’ideologia che domina la società dei consumi
laddove invece è proprio quest’ultima ad averlo costruito
così come noi lo conosciamo. Nell’eccesso dell’abbaglio ar-
riveremmo perfino a interpretare Santa Claus come un salvifico concentrato di altruismo e buoni sentimenti prove-
1. SANTA CLAUS: L’IMPOSSIBILITA DI DIVENTARE ADULTI
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niente da un’età dorata e adesso – per amore di tutti noi, o
meglio, in ragione di quel po’ di amore per l’umanità che
presumiamo intatto in ognuno di noi – disposto a muoversi, ad agire, persino a “resistere” in un mondo dominato
dall’individualismo e dalla ricerca dell’utile a tutti i costi. Il
sistema del dono, in fondo, non dovrebbe rappresentare
concettualmente la più potente antitesi dei meccanismi che
regolano il mondo in cui viviamo? Ogni elemento di Santa
Claus è invece perfettamente funzionale alle narrazioni, di
conseguenza alle regole, prodotte dal sistema dei consumi.
A differenza del più classico dei gialli, la perfezione di
questo “crimine” non sta però nella mancanza di prove.
Chiunque, armato di pazienza e della più elementare delle
bibliografie, potrebbe verificare come Babbo Natale sia
un’invenzione della modernità; come le sue precedenti incarnazioni (da san Nicola a Weihnachtsmann, a Sinterklaes) abbiano ormai pochissimo in comune con il dominus
delle nostre festività natalizie; come infine questo Grande
Vecchio del capitalismo avanzato, prima di trovare una crescita esponenziale nel circuito della comunicazione pubblicitaria, abbia avuto la propria culla nella New York del
XVIII e XIX secolo. Queste prove schiaccianti, tuttavia, non
rischiano di compromettere la percezione di Santa Claus
come prezioso residuato premoderno.
Il “partito interno” di 1984 aveva la preoccupazione di
sottrarre alla disponibilità dei “prolet” le prove capaci di
invalidare ogni atto di falsificazione storica. Il revisionismo
di alcune narrazioni postmoderne non si pone nemmeno il
problema. E questo non tanto perché la tempesta di informazioni che ci invade quotidianamente renda più arduo
raggiungere e isolare le fonti in grado di smontare intere costruzioni del nostro immaginario. Il problema è che, pur
continuando a professare la nostra fiducia nella sistematiz-
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BABBO NATALE
zazione razionale della cultura, il nostro amore per la verità,
andiamo sviluppando un sistema percettivo disposto ad abbandonare ogni difesa di fronte a nuove forme narrative
unicamente in ragione della loro potenza, della loro pervasività, del loro potere di fascinazione. Ecco quindi che il falso storico, la “narrazione di Babbo Natale” per esempio,
così come viene condotta dal sistema delle multinazionali,
dalla pubblicità, dalla morbida macchina dell’intrattenimento audiovisivo, non si limita ad appannare la contro-
prova della sua nascita moderna ma la invalida. Nel momento in cui scriviamo «Babbo Natale, come lo conosciamo noi, è un’invenzione della Coca-Cola» rischiamo di provare sempre un certo imbarazzo, potrebbe quasi sembrarci
di tradire l’evidenza (falsa) della sua origine premoderna
proprio perché il “falso storico” – un “pacco” sganciato
dalla diretta intenzione di un falsario identificabile, un’impressione che scaturisce dal semplice incontro tra la superestetica della comunicazione contemporanea e i nostri corpi
– è stato costruito con strumenti che hanno segnato non
tanto la nostra crescita culturale più banalmente intesa (la
1. SANTA CLAUS: L’IMPOSSIBILITA DI DIVENTARE ADULTI
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maturazione o il tradimento delle nostre convinzioni, l’accumulo dei libri letti…) ma la formazione e la crescita dei
nostri sistemi percettivi, molto più delle sortite in biblioteca o delle ricerche bibliografiche. Come è possibile, potremmo chiederci, che istintivamente rischiamo di dare più
fiducia a uno spot pubblicitario che a una fonte storica?
Che ci ritroviamo con la spiazzante, singolarissima facoltà
di sapere e, contemporaneamente, non sapere? A quale tipo
di regressione – o mutazione – siamo esposti?
Analizzare Babbo Natale e la vicenda del suo matrimonio con la Coca-Cola, più che porsi il poco entusiasmante
obiettivo di “dire finalmente la verità sul vecchio pancione”, può allora essere un tentativo di sondare almeno in
parte le dinamiche che regolano l’adesione al mondo in cui
viviamo. Ripercorrere in parallelo la storia della Coca-Cola
(da impresa pionieristica nata negli Stati Uniti del XIX secolo a multinazionale) e quella di Santa Claus (dalle sue
origini cristiane nelle vesti di san Nicola al suo incontro decisivo con la società dei consumi, passando per tutta una
serie di incarnazioni intermedie) schiude la possibilità di
cogliere, nel complesso gioco di rapporti tra i sistemi produttivi contemporanei e le loro rappresentazioni mitologiche, gli elementi che sembrano allontanarci definitivamente da concezioni del mondo che fino a ieri sembravano
scontate o indiscutibili e quelli invece che, sia pur trasfigurandolo, mantengono un legame molto forte con le radici
della nostra civiltà. Non si tratta soltanto di ricostruire storicamente un mito ma anche di mostrare come Babbo Natale, ben lontano dall’essere un semplice strumento educativo maneggiato con totale consapevolezza dagli adulti a
beneficio dei più piccoli, serva soprattutto ai primi come
amuleto, maschera, contravveleno, quale sorridente e coloratissimo depistatore della paura di morire.
2. Coca-Cola, anno XLV (1931)
Millenovecentotrentuno. Mentre a New York la costruzione dell’Empire State Building veniva completata col sottofondo degli scontri tra polizia e disoccupati, sui sottobicchieri delle birrerie tedesche era possibile leggere: «Chi acquista da un ebreo è un traditore del popolo». Le banche
americane, tra un fallimento e l’altro, iniziavano a esigere la
restituzione dei prestiti esteri, gettando benzina sul fuoco
della crisi (14 milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 in
Germania, 3 in Gran Bretagna) e preparando in questo
modo il terreno alla più grande mattanza della cronologia
universale. Nella cronologia parallela della Georgia, tuttavia, precisamente ad Atlanta, il sole del successo gettava la
più meravigliosa delle luci sugli uomini della Coca-Cola.
A quarantacinque anni dalla nascita, quella che sarebbe
diventata la multinazionale più nota del pianeta era riuscita a superare gli innumerevoli problemi societari capaci di
provocare un’implosione (sanguinose lotte di successione
degne di una tragedia shakespeariana, durissime vertenze
con gli imbottigliatori…) ma anche ad arginare le minacce
provenienti dall’esterno: i continui tentativi di imitazione,
per esempio, i disagi legati al razionamento dello zucchero
dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, le clamorose vicende giudiziarie ma soprattutto il terribile fortunale
scatenatosi all’indomani del crollo di Wall Street. Allo stes-
2. COCA-COLA, ANNO XLV (1931)
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so modo, la fine del proibizionismo che da lì a poco avrebbe riportato vino, birra e superalcolici nelle case e nei locali degli Stati Uniti, e che secondo l’improvvido teorema
di alcuni commentatori economici avrebbe dovuto segnare il tramonto dei soft drink, passò sulla Coca-Cola come
un innocuo venticello. La grande solidità che l’azienda poteva ormai vantare sotto ogni profilo (dall’assetto finanziario a quello produttivo, dalla rete distributiva alla motivazione dei suoi uomini), unita a una strategia comunicativa
di portata rivoluzionaria, fece in modo che tra le due guerre la Coca-Cola iniziasse a svolgere anche una funzione mitopoietica – un processo di colonizzazione culturale che
raggiunse il suo primo vero momento magico proprio nel
1931, quando, come vedremo, rovesciando gli inconvenienti che un procedimento giudiziario concluso già da vent’anni esercitava ancora sull’azienda, la Coca-Cola ridisegnò a
proprio uso la figura di Babbo Natale candidandolo con
successo clamoroso come proprio testimonial.
La Grande Depressione aveva distrutto industrie la cui
solidità sembrava fuori discussione, gettato nella disperazione milioni di agricoltori, lasciato senza liquidità gli istituti di credito ma – per amore di ucronia – aveva ritratto il
proprio artiglio da una bibita composta per il 99 per cento
di acqua e zucchero, un prodotto il cui valore d’uso era
praticamente prossimo allo zero. Non era in fondo una cosa che gli apparteneva: la Depressione listava a lutto la casellina del 1929 dopo Cristo ma per la Coca-Cola il ’29 era
soltanto il quarantatreesimo anno della sua storia.
Sei anni dopo, nel 1935, le azioni della Coca-Cola avevano raggiunto il valore più alto tra tutte quelle delle aziende statunitensi. Una navigazione tanto tranquilla tra le acque della crisi lasciò increduli molti osservatori economici
ma pure sorprese i dipendenti della company. Si potrebbe
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BABBO NATALE
dire che la somma delle intelligenze di tutti gli uomini della Coca-Cola non conteneva l’intelligenza con cui il prodotto stesso aveva imparato a muoversi sul mercato se è
vero che persino Robert Woodruff, il suo presidente, era
stato scavalcato dalla capacità della bibita di uscire dal terremoto della crisi più forte e in salute che mai.
Figlio di un noto banchiere di Atlanta, adolescente problematico e poi direttore generale di un’azienda di autocarri, Woodruff aveva preso il timone della Coca-Cola appena trentatreenne, nel 1923. Durante i primi anni della
sua presidenza le cose erano andate decisamente bene: le
vendite erano passate da 17 a 23 milioni di galloni l’anno e,
nel 1926, l’azienda si poteva dire completamente libera dai
debiti. L’anno dopo tuttavia, presentendo il crollo dell’intero mercato borsistico, Woodruff decise di scommettere
contro la propria azienda vendendo segretamente le sue
2. COCA-COLA, ANNO XLV (1931)
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6.600 azioni. Gli andò male: il 29 ottobre 1929, il giorno
del crollo di Wall Street, le azioni della Coca-Cola subirono una leggera flessione (da 137 a 128 dollari) ma alla fine
dell’anno erano già risalite a 134 dollari candidandosi a
toccare, nel 1935, quota 200. Risultato: Robert Woodruff
aveva perso più di 400.000 dollari.
Dire che la Coca-Cola era più “intelligente” del suo presidente significa fare un torto all’abilità, alla pervicacia, al
carisma dell’uomo che tra mille battaglie (la maggior parte
delle quali vinte) guidò la compagnia per oltre mezzo secolo. Woodruff ci aveva visto più che bene per quanto riguardava l’andamento generale del mercato e la sua imminente, drammatica contrazione. Solo che i suoi ragionamenti – e non poteva che essere così – seguivano un binario differente rispetto a quello su cui la Coca-Cola stava
immettendosi già da qualche tempo.
Woodruff aveva ancora in mente un’azienda la cui forza
comunicativa discendeva dalla materialità del prodotto,
dalla razionalità dei processi di lavorazione, dalla distribuzione, dai contratti stipulati con gli imbottigliatori e così
via – tutte cose che, come accennato, si erano ovviamente
dimostrate fondamentali nel consentire la sopravvivenza
del marchio per oltre quarant’anni. La Coca-Cola però (la
sua intelligenza collettiva, si potrebbe dire) aveva già superato la boa della modernità industriale, producendo intorno a sé una “narrazione” di tale forza, una mitologia così
salda e coerente da costituire un elemento inestirpabile nel
paesaggio interiore degli americani. Per arrestare la sua
ascesa, in definitiva, sarebbe stata necessaria l’esplosione
dell’intero sistema, non una grave crisi economica.
Uno degli aspetti che, per un’azienda di prodotti destinati al largo consumo, testimonia un decisivo salto di qualità, un contrassegno di forza, una vera e propria garanzia
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BABBO NATALE
per la sopravvivenza a medio termine e il progressivo allargamento dei propri confini, è la creazione del fantasma.
L’azienda materiale a un certo punto riesce nell’impresa di
produrre una sua versione ectoplasmatica che il prodotto
vero e proprio (la lattina di una bibita, una borsa di cuoio,
un paio di scarpe da ginnastica…), al di là dell’inestirpabile natura di feticcio, sarà capace di evocare alla stregua di
un medium. In parallelo con il soddisfacimento del bisogno a cui il prodotto è banalmente destinato – dissetare,
nel caso della Coca-Cola –, oltre il “carattere mistico” di
marxiana memoria che la merce possiede in quanto portatrice anche di un valore di scambio, si dispiega davanti al
consumatore un mondo: non la staticità dell’immagine che
il prodotto potrebbe costruire intorno a sé ma un intero sistema in movimento, una narrazione appunto. Produrre
una bevanda dal gusto particolarmente gradevole va bene,
ma riuscire a fare in modo che riesca a diventare il terminale di un “racconto”, scorrendo giù per un esofago invisibile messo in contatto con il sistema limbico dei consumatori, era uno dei traguardi più importanti che un’azienda
come la Coca-Cola poteva augurarsi di tagliare.
La narrazione in questione si può definire fantasma anche in ragione del fatto che i suoi elementi drammaturgici
sono sempre vaghi, indistinti, trasparenti; anzi, quanto più
risultano impalpabili tanto più il racconto può farsi suggestivo e potente. Gli uomini di Woodruff erano riusciti a fare in modo che il loro prodotto – un prodotto talmente
semplice e sfuggente da poter evocare praticamente qualunque cosa – sprigionasse un’aura più o meno nel periodo in cui Walter Benjamin la dichiarava estinta rispetto alle opere d’arte. La riproducibilità tecnica, la serializzazione che a partire dal XVII secolo si mette a disposizione degli oggetti ma anche di nuove forme narrative (il caso del
cinema), e che secondo il filosofo tedesco metterebbe in
2. COCA-COLA, ANNO XLV (1931)
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scacco il tradizionale significato magico-rituale delle opere
d’arte, la loro irripetibilità, il loro hic et nunc sostituito da
un valore meramente espositivo, dalla accessibilità totale,
diventa proprio il veicolo attraverso il quale le merci – in
ragione del loro essere potenzialmente a disposizione di
chiunque, in forma sempre identica – si candidano a spalancare dei veri e propri varchi dimensionali.
Una volta riuscita a creare il proprio doppio ultraterreno, l’azienda materiale – i suoi dirigenti, i suoi manager, i
copywriter, gli stabilimenti, le forniture, persino i rivenditori – sarà condannata a inseguire la narrazione fantasma,
ad alimentare non tanto la semplice retorica di una tradizione ma l’alchimia insondabile del proprio mito. Cosa che
gli uomini della Coca-Cola, con quella consapevolezza dimezzata che si chiama “fiuto per gli affari” (e la Coca-Cola
in sé, con quella piena e gelida consapevolezza che è l’intelligenza del prodotto), avevano imparato a fare mettendo,
già negli anni Trenta, la propria azienda con un passo nel
XXI secolo. Di qui lo smarrimento degli osservatori economici e dello stesso Woodruff, troppo impegnati a decrittare l’alfabeto del Secolo Breve per tentare con successo un
salto nel futuro. Il quarantacinquesimo anno della CocaCola, insomma, per certi versi superava gli argini del 1931.
Se Robert Woodruff era il Capo, un personaggio dal carisma e dal magnetismo irresistibili, capace di suscitare nei
propri dipendenti una fedeltà che spesso sfociò nel fanatismo più sfrenato, ma geneticamente ostile all’arte e alla letteratura (i suoi detrattori sostenevano che non fosse mai riuscito a finire un libro in vita sua), l’uomo a cui toccò allineare la comunicazione del prodotto alla mitologia che cominciava a sprigionare fu Archie Lee, uno scrittore mancato.
Nel 1919, abbandonata definitivamente l’ambizione di
“scrivere romanzi indimenticabili”, Lee iniziò a lavorare
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BABBO NATALE
come pubblicitario per la Coca-Cola. Fino a pochi anni
prima i messaggi pubblicitari della bibita erano stati caratterizzati da una notevole verbosità – che Lee affossò definitivamente – ma soprattutto evidenziavano le qualità intrinseche del prodotto (il fatto che fosse un tonico e un eccitante, la sua capacità di mantenere svegli, di beneficiare il
sistema nervoso, di favorire la concentrazione) più che la
sua astratta forza di fascinazione. Una pubblicità del 1905
mostrava per esempio un giovane borghese seduto in poltrona dentro una stanza avvolta nella penombra; il testo recitava: «Per gli studenti e per tutti i lavoratori intellettuali.
Prendere un bicchiere di Coca-Cola alle otto per mantenere il cervello libero e la mente attiva fino alle undici». O ancora, Ty Cobb, un noto giocatore di baseball, diceva in una
pubblicità del 1907: «Nei giorni in cui ci tocca giocare una
2. COCA-COLA, ANNO XLV (1931)
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doppia partita bevo sempre una Coca-Cola nell’intervallo,
mi rinfresca a tal punto che posso iniziare la seconda partita come se fino a quel momento mi fossi riposato».
Archie Lee comprese che, quanto più il testo fosse diventato elementare e vago, tanto più si sarebbe avvicinato
a una formula capace di proiettare i suoi destinatari verso
un mondo “altro”. Così, mentre William Faulkner portava
la forma letteraria americana verso apici di complessità e
spessore mai raggiunti prima, il naïf ermetico di Archie
Lee faceva recitare ai propri spot: «Bevete Coca-Cola, deliziosa e rinfrescante!», «La sete non conosce stagioni»,
«Sì», «La pausa che rinfresca», mettendo la comunicazione del prodotto su quella scala evolutiva e regressiva al
tempo stesso che avrebbe trovato nel 1982 un momento di
vera perfezione: «Coca-Cola è!».
La rivoluzione portata da Archie Lee, oltre gli slogan,
riguarderà naturalmente anche l’uso delle immagini. Vennero definitivamente accantonati i manifesti pubblicitari
troppo aggressivi, gli scenari troppo raffinati, le donne
con il seno scoperto di scuola vagamente preraffaellita
che ancora nel 1907 stringevano languide una bottiglia di
Coca-Cola. Al loro posto comparvero visi puliti e rilassati, scene bucoliche, ragazze della porta accanto. Quello
che veniva suggerito, quello che la Coca-Cola in definiti-
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BABBO NATALE
va prometteva, non era l’accesso a un mondo alieno, esclusivo, lontano, ma una copia quasi indistinguibile del mondo reale (la giornata ordinaria di tutti noi) in cui però un
microscopico quanto sofisticato lavoro di edulcorazione
tracciava e poi occultava una profondissima frattura ri-
spetto alla vita vera: la scomparsa dell’ansia, delle preoccupazioni, dello stress, la possibilità di un ordinario, eterno, radioso e immutabile presente. Non un mondo lontano, dicevamo, ma l’“esotismo del qui”: un mondo impossibile che non fosse percepito come tale.
Per ottenere questo risultato, gli uomini della Coca-Cola cercarono di rendere sempre più “scientifica” la propria
strategia comunicativa, giungendo a elaborare una sorta di
carta costituzionale in trentacinque punti a cui tutti i pubblicitari avrebbero dovuto sottomettersi al momento di lavorare per l’azienda. Tra le altre cose veniva per esempio
raccomandato di:
2. COCA-COLA, ANNO XLV (1931)
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– fare in modo che il marchio fosse sempre leggibile;
– non dire mai in modo esplicito, o lasciar capire, che la
Coca-Cola dovesse essere bevuta da bambini molto piccoli;
– inserire sempre l’espressione «Deliziosa e rinfrescante»
in un marchio circolare;
– fare in modo che, nel momento in cui fosse mostrato un
refrigeratore aperto, il lato destro, che mostra l’apribottiglie, venisse tenuto aperto;
– non dividere mai il marchio «Coca-Cola» tra due righe;
– inserire sempre la dicitura «marchio registrato» sulla
coda della prima «C», anche qualora fosse per questo
risultato illeggibile;
– fare in modo che, nei dipinti a olio o nelle fotografie a
colori in cui fosse comparsa una ragazza, venisse preferita una bruna piuttosto che una bionda;
– preferire, nel caso di adolescenti o giovani donne, le bellezze semplici alle persone troppo sofisticate;
– non utilizzare mai la Coca-Cola in senso personale, come: «la Coca-Cola vi invita a pranzo»;
– non riferirsi mai alla Coca-Cola come a «essa».
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BABBO NATALE
Le pubblicità di Archie Lee comparse negli anni Trenta
non mostrano alcuna traccia della difficilissima situazione
economica in cui versava il paese. Mentre altri prodotti continuavano a presentarsi ai consumatori mettendo in primo
piano la loro capacità di alleviare i problemi della vita quotidiana – sottintendendo quindi una situazione tutt’altro
che rosea – oppure puntando sul tema della competitività,
la Coca-Cola cancellò dai propri messaggi qualunque sfumatura aggressiva o consolatoria (via i riferimenti ai ritmi
sempre più frenetici della vita contemporanea; via le modelle di alto rango che con la loro inaccessibilità troneggiavano normalmente dai manifesti: al loro posto arrivarono
bellezze acqua e sapone, colori pastello, scenari di pace domestica oppure richiami alla quiete contadina del passato
proprio mentre, per contrasto, gli Stati Uniti andavano industrializzandosi sempre più) – si cercò insomma di favorire l’illusione di un “mondo sospeso” in cui una tiepida ma
infinita gioia di vivere occupasse ogni spazio disponibile.
Ciò che comparve nelle pubblicità di Lee fu esattamente quello che la gente desiderava vedere: una fuga dal reale senza passare per la fantascienza, un ritorno alla “normalità” al costo di un solo nichelino. Fu allora che – nel
1931 – una macchina mitopoietica decisamente più raffinata ed efficace rispetto al cupo, rugginoso sistema propagandistico dei totalitarismi europei, attrasse e inglobò nel
proprio ventre magico l’embrione di Santa Claus.
3. Morte e rinascita di un commesso viaggiatore
L’adozione di Babbo Natale da parte della Coca-Cola
avviene quando il portadoni si è ormai quasi del tutto sbarazzato delle sue origini cristiane. Approdato sulla west
coast durante il XVII secolo come residuato di una tradizione religiosa maturata per oltre mille anni nel Vecchio
Continente, quello che un tempo era stato san Nicola, vescovo di Mira, nei primi decenni del Novecento americano
si presentava già come un potente simbolo del mondo dei
consumi. L’impresa della Coca-Cola di conseguenza non
consistette – come pretenderebbero i più ciechi detrattori
della multinazionale – nell’aver determinato un processo di
scristianizzazione già in atto da molto tempo, ma nell’averlo semmai cristallizzato, rendendolo in qualche modo definitivo. Il fatto che quest’incontro sia avvenuto in modo
quasi accidentale non toglie che ci fossero tutte le premesse per un matrimonio felice. Babbo Natale e la Coca-Cola
nel 1931 sembravano davvero fatti l’uno per l’altra.
Spesso le grandi imprese hanno bisogno di un pretesto,
un imprevisto, un incidente di percorso che costringa i loro autori a tirar fuori dalle proprie azioni quello che neanche lontanamente credevano possibile. La riscrittura di
Santa Claus ad opera della Coca-Cola trovò questo pretesto nel dottor Harvey Washington Wiley, un personaggio il
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BABBO NATALE
cui semplice nome, a partire dal 1907, evocherà per gli uomini della futura multinazionale scenari da incubo.
Il dottor Wiley lavorava come primo dirigente al Dipartimento di Chimica degli Stati Uniti. Il suo nome iniziò a
diventare noto quando, nel 1902, diede vita alla cosiddetta “squadra del veleno”, un gruppo di ragazzi utilizzati come cavie umane allo scopo di assumere additivi alimentari
sospettati di essere nocivi per la salute. L’anno successivo
Wiley pose le basi per una crociata il cui obiettivo era l’approvazione di un progetto di legge sulla genuinità dei cibi
e dei prodotti farmaceutici. Tutte le proposte precedenti
erano state bocciate grazie alle pressioni lobbistiche delle
industrie alimentari e della Proprietary Association of America. Wiley provò allora a giocarsi la carta dell’opinione pubblica: aizzò i giornalisti che la pensavano come lui, scrisse ai
legislatori, frequentò i membri di associazioni di provato
radicalismo come il Movimento delle Donne per la Temperanza Cristiana. Le polemiche sulle “frodi farmaceutiche negli Stati Uniti” iniziarono a invadere le colonne di
giornali che, fino a qualche anno prima, mai si sarebbero
sognati di attaccare le aziende farmaceutiche a causa delle
grosse somme di denaro che ricevevano da queste ultime
per l’acquisto di spazi pubblicitari.
La democrazia nel mondo dei mass media è un gioco
dalle molte facce: contiene in sé gli strumenti del ricatto
che ne invaliderebbero i principi ma anche le “vie di fuga”
capaci di rilanciarli in modo inaspettato. Nei primi anni
del xx secolo, molto semplicemente, successe che produttori di macchine da cucire, utensili per il giardinaggio e altri beni di largo consumo scoprirono – in ritardo rispetto
alle imprese farmaceutiche – i vantaggi della pubblicità: il
potenziale di ricatto nei confronti di molti giornali si abbassò sensibilmente e la crociata del dottor Wiley guadagnò nuovi, insperati spazi di manovra.
3. MORTE E RINASCITA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
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Tra gli alimenti considerati nocivi, o comunque sospettati di frodare i consumatori, c’era la Coca-Cola. Pur non
contenendo tracce di cocaina ormai da molti anni, la possibilità che lo stupefacente permanesse in qualche modo nella formula della bibita era diventata una sorta di leggenda
metropolitana. In più la Coca-Cola conteneva caffeina, sostanza che in effetti il progetto di legge del dottor Wiley
non classificava tra quelle “velenose” – e tuttavia, il fatto
che la Coca-Cola fosse spacciata per un prodotto “completamente genuino”, destinato tra gli altri anche ai bambini,
la rendeva perlomeno colpevole di pubblicità ingannevole
agli occhi del movimento di opinione capeggiato da Wiley.
Il Pure Food and Drugs Act (‘Legge sulla genuinità dei
cibi e dei farmaci’) venne approvato nel giugno del 1906.
Asa Chandler, allora presidente della Coca-Cola, detestava
ferocemente il dottor Wiley: lo riteneva un maniaco, un fanatico del salutismo, una sorta di anticristo. Sulle prime,
ad ogni modo, rifiutò la tattica del muro contro muro e so-
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BABBO NATALE
stenne pubblicamente l’approvazione del Pure Food and
Drugs Act. Se la Coca-Cola si fosse mostrata favorevole all’entrata in vigore della legge, questo il suo ragionamento,
avrebbe dimostrato all’opinione pubblica di non avere
niente da nascondere. Così, alla fine dell’anno, una pubblicità poteva recitare: «La Coca-Cola aiuta la digestione ed
è genuinamente buona per il palato, dà sapore al lavoro e
una gioia più intensa nel tempo libero. Garantita dal Pure
Food and Drugs Act».
Non servì a niente. Nel 1907 il dottor Wiley tornò alla
carica: il bersaglio dei suoi strali si restrinse sempre più alle “bibite stimolanti” fino al giorno in cui la Coca-Cola
non venne trascinata in tribunale.
La guerra tra Coca-Cola e governo degli Stati Uniti, sfociata nel celebre processo del 1911, è interessante, tra le altre cose, per ciò che riguarda le parti in causa: Asa Chandler contro Harvey Wiley.
In ordine di tempo Chandler si può considerare il secondo “padrone” della Coca-Cola, dopo il “pioniere” John
Stith Pemberton e prima del “cosmopolita” Robert Woodruff. Ottavo di undici fratelli, figlio di un cercatore d’oro,
Chandler fu per l’azienda di Atlanta l’uomo della transizione: in mano sua la Coca-Cola passò dalla diffusione locale a quella nazionale ma soprattutto cessò di essere percepita come una medicina, destinandosi a diventare per
tutti una semplice bibita. E tuttavia, quanto più accantonava l’immagine di “pozione miracolosa” che la preistoria
del suo successo planetario le aveva cucito addosso, tanto
più la Coca-Cola cominciò a caricarsi di una valenza metafisica. Chandler in particolare, un metodista piuttosto tormentato, saldando come tanti uomini del tempo l’etica
protestante allo spirito del capitalismo arrivò a considerarsi l’apostolo di qualche cosa che trascendeva la dimensio-
3. MORTE E RINASCITA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
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ne terrena. La Coca-Cola diventò per lui un perfetto correlativo oggettivo di Dio e così, mentre convinceva i propri
uomini che tutti insieme stavano lavorando per «il più
grande prodotto e la più grande società mai comparsi sulla faccia della Terra», il messaggio che passava, e che venne perfettamente condiviso da molti dei suoi collaboratori, fu quello di interpretare il cammino della Coca-Cola in
chiave escatologica.
Harvey Wiley, il suo avversario, non era da meno. Benché si professasse agnostico e, a differenza di Chandler, at-
tribuisse un valore minimo ai piaceri della vita, si trasformava in un predicatore ogni volta che bisognava difendere pubblicamente la crociata del “cibo genuino”: i suoi
abiti neri, la dimensione apocalittica dei suoi sermoni, i
continui riferimenti alla “purezza” e l’abitudine di demonizzare gli avversari in nome del bene comune – e quindi
anche del corretto gioco della macchina democratica – gli
fecero guadagnare il soprannome di “padre Wiley”.
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BABBO NATALE
Chandler e Wiley erano dunque due invasati? Divisi dalla minuscola questione di un processo, furono entrambi posseduti dal grande alibi che il capitalismo nordamericano
scelse tra XIX e XX secolo per darsi quella spinta in avanti che
altrimenti non sarebbe stata così potente: la circostanza che
la volontà di profitto fosse direttamente collegata al bene comune e, quindi, alla salvezza dell’anima. Ogni sistema sociale, per quante regole di buon funzionamento possa darsi,
non potrà mai sopravvivere senza che il tasso emotivo dei
propri membri raggiunga un certo grado di intensità. È singolare come spesso questo “grado di intensità” venga ottenuto per mezzo di un mascheramento (il bene comune come
primo motore del capitalismo, secondo Chandler e Wiley),
tanto da far sorgere il sospetto che il mondo sia mosso non
tanto dall’amore per la maschera (la salvezza dell’anima, ad
esempio) ma dalla frattura tra dichiarazioni d’intenti (sempre la salvezza dell’anima) e realtà sottostante (la volontà di
profitto). Fare una cosa convincendosi di starne facendo
un’altra – e percependo tuttavia, in qualche zona oscura della propria persona, il gelido dolore di questo smottamento –
è uno dei segreti del successo. Allo stesso modo, oggi, una
delle spinte emotive che ci fa correre verso la globalizzazione è probabilmente la frattura esistente tra il fine che crediamo di perseguire (non più il bene comune questa volta
ma la volontà di profitto, quindi la realizzazione individuale) e quello sottostante (l’incremento di potenza del sistema
tout court, eventualmente a scapito degli individui). Su
questo ci si soffermerà più tardi. Per adesso torniamo allo
scontro tra Chandler e Wiley, torniamo al processo, torniamo all’incidente di percorso che porterà a Babbo Natale.
«Gli Stati Uniti d’America contro 40 barili di Coca-Cola». Per quanto ridicolo, questo fu il nome con cui venne
chiamato ufficialmente il procedimento giudiziario che per
3. MORTE E RINASCITA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
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l’azienda di Atlanta rappresentò una delle prove più difficili attraverso cui passare nei primi decenni del xx secolo.
La denominazione si deve al sequestro di alcuni barili di
Coca-Cola che nel 1907 Wiley riuscì a far disporre superando un veto governativo – in particolare quello del ministero dell’Agricoltura – che negli anni precedenti aveva
sempre frustrato simili iniziative.
Il sequestro mandò Asa Chandler su tutte le furie e arrivò al culmine di una campagna denigratoria per la quale
Wiley era riuscito a sobillare il meglio del fervore paranoide nazionale: il giornalista Samuel Hopkins Adams, per
esempio («ritengo che la Coca-Cola provochi assuefazione.
Ho sentito parlare di casi in cui il soggetto non può fare a
meno di prendere i suoi 15-20 bicchieri giornalieri di stimolante»), la famigerata Martha M. Allen, capo del Movimento delle Donne per la Temperanza Cristiana («So per
certo di un giovanotto che è diventato una vera e propria
nullità, a scuola e in ogni altro campo, a causa della sua abitudine alla Coca-Cola»), il metodista evangelico George
Stuart («si è saputo che l’eccessivo uso di Coca-Cola ha
portato in una scuola femminile a deprecabili festini notturni con successivo abbandono all’amoralità. In più la Coca-Cola tiene svegli i ragazzi esponendoli inevitabilmente
alle tentazioni della masturbazione»), a cui si accompagnava una nutrita schiera di opinionisti infervorati, cronisti
dalla penna facile o semplici approfittatori pronti a giurare
che la Coca-Cola conteneva cocaina (non ce n’era più traccia a partire dal 1903), oppure pericolose quantità di alcol,
di caffeina, di oppio, di imprecisate e terribili sostanze velenose. Si sparse persino la voce che nei barili dello sciroppo necessario alla preparazione della bibita fossero stati
trovati insetti, paglia, topi morti, rifiuti organici.
Alla pari dei divi del rock, prima di trovare posto nell’Olimpo dell’immaginazione popolare la Coca-Cola do-
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BABBO NATALE
vette passare per l’anticamera della demonizzazione più
sfrenata. A differenza di Elvis e di Jim Morrison, la CocaCola riuscì però a sfuggire alla regola del rise and fall per il
semplice fatto di non essere soggetta al limite dei normali
processi biologici (invecchiamento, morte, intossicazione
da eroina – e nemmeno da cocaina, dal momento che il
“soft drink”, come abbiamo già detto, a differenza della
“pozione miracolosa” di qualche decennio prima, ne era
ormai completamente privo).
Il processo contro la Coca-Cola fu celebrato a Chattanooga (questo il luogo del sequestro dei “quaranta barili”)
e fu un buon prototipo di quegli show sotto le coltri di
procedimento giudiziario che appassioneranno gli States
negli anni a venire – da O.J. Simpson a Michael Jackson.
Innanzitutto l’accusa: si contestava alla bibita di essere
adulterata con sostanze pericolose (nello specifico la caffeina, da qui l’onere di provare che la quantità di alcaloide
contenuta nella Coca-Cola fosse dannosa per l’essere umano) e di avere una denominazione ingannevole: nella sua
composizione non c’era più traccia di cocaina mentre la
percentuale di noce di cola sfiorava l’infinitesimale. Quest’ultima imputazione fu un magnifico esercizio di comicità involontaria in carta bollata; se la Coca-Cola avesse
davvero contenuto cocaina, avrebbe trasformato la sua
azienda nel più grande spacciatore di droga del pianeta.
Per gli abitanti di Chattanooga il processo fu uno spasso
ancor prima di iniziare. Un gruppo di agenti governativi
che sembravano partoriti da un B-movie cominciò ad aggirarsi nella cittadina mesi prima che le aule del tribunale si
spalancassero. Il loro compito era spiare i giurati per sincerarsi della loro imparzialità e per verificare che non corressero rischi di corruzione. A questo punto anche la Coca-
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Cola, timorosa che gli agenti governativi potessero esercitare pressioni sui giurati, mandò a Chattanooga dei men in
black a cui venne affidato il controspionaggio – e qui sfondiamo le barriere del B-movie per entrare in un’apoteosi
kitsch che ha pochi corrispettivi nel mondo della fiction.
Non è finita. Harvey Wiley, il grande accusatore, sessantaseienne e da sempre scapolo, sposò una bibliotecaria
di nemmeno trentacinque anni e decise di portarla in luna
di miele al processo della Coca-Cola: a Chattanooga, dove
comunque per ragioni di indotto si respirava un’atmosfera
generalmente favorevole alla Coca-Cola, i due furono ricevuti con tutti gli onori. Asa Chandler invece se ne rimase
rabbiosamente a casa, ad Atlanta. Si temeva che il suo temperamento irascibile e i suoi discorsi da millenarista potessero produrre disastri in aula di tribunale, per cui gli fu
consigliato di dirigere la difesa da lontano. Arrivarono invece testimoni, chimici, periti tecnici, residuati del Ku Klux
Klan pronti a giurare che dipendenti negri della Coca-Cola riempivano di sputi le botti di sciroppo durante le ore di
lavoro, e poi avvocati, uomini di chiesa, giornalisti da ogni
angolo d’America finché non si fu pronti a cominciare.
Il processo fu una sfilata ininterrotta di deposizioni in stato di sovreccitazione, la maggior parte delle quali parziali,
pronte a dipingere la Coca-Cola come un perfetto distillato
del demonio o al contrario come presenza immacolata in un
mondo di avvoltoi e di invidiosi. Harvey Wiley non salì mai
sul banco dei testimoni mentre Asa Chandler si limitò a inviare da Atlanta lettere di insulti a gentile disposizione degli
accusatori. I giornali seguirono il dibattimento come se si
fosse trattato di una lunghissima finale di superbowl; furono
talmente contagiati dal clima esagitato che si respirava a
Chattanooga che a un certo punto l’«Atlanta Georgian»
poté titolare: “Otto Coca-Cola contengono abbastanza caf-
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BABBO NATALE
feina da uccidere”. Si cercò di dimostrare che la bibita era
dannosa almeno per gli animali. Ci fu chi propose di iniettare Coca-Cola nelle rane. Chimici e farmacologi presentarono dettagliatissime quanto pedanti deposizioni tecniche che
mandarono in confusione i membri della giuria popolare,
definiti da uno degli agenti governativi come «persone di ceto sociale molto basso», e quindi, «completamente incompetenti e inadatti a decidere su un caso di questa portata». Si
discusse, si controdiscusse, si litigò, si pubblicarono fiumi di
inchiostro inservibile e alla fine il povero giudice Edward
Terry Sanford chiuse lo show: dopo aver espresso la sua opinione ordinò praticamente alla giuria di riunirsi e di tornare
in aula con un verdetto favorevole alla Coca-Cola. Così fu.
Asa Chandler aveva vinto. La Coca-Cola non rischiò
più di essere ritirata dal commercio né fu costretta a rivedere la sua formula. L’unico cambiamento sensibile portato dal processo del 1911 riguarderà la strategia pubblicitaria dell’azienda. Gli avvocati difensori della Coca-Cola non
avevano contestato in dibattimento gli effetti negativi della caffeina sui giovanissimi – avevano però cercato di aggirare l’ostacolo dichiarando che i più piccoli non erano
consumatori abituali della bibita, il che contrastava nettamente con le pubblicità del periodo che ritraevano bambini intenti a bere Coca-Cola insieme ai genitori. Così, dopo
il 1911, una legge non scritta ma destinata a decadere dopo ben settant’anni proibì l’utilizzo di materiale pubblicitario in cui ci fossero bambini di età inferiore a dodici anni nell’atto di bere Coca-Cola.
Se insomma i danni erano stati limitati al massimo, la
Coca-Cola rischiava ora di perdere una fetta fondamentale di consumatori, soprattutto se si considera il ruolo sempre più decisivo che la pubblicità sarà destinata a giocare
3. MORTE E RINASCITA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
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perché la bibita conquisti prima l’intero paese ed esca poi
anche dai confini nazionali. Per trovare una risposta a questa impasse si dovranno aspettare vent’anni, un cambio
della guardia al vertice della Coca-Cola (Robert Woodruff
al posto di Asa Chandler), l’arrivo di Archie Lee e la rivoluzione nella comunicazione aziendale di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente.
Il periodo che va dagli anni Dieci ai Trenta si può insomma considerare una sorta di incubatrice da cui l’embrione di una bibita molto promettente uscirà trasformato
in un oggetto di consumo capace di scatenare una forza
mitopoietica mai vista prima. Solo quando una simile macchina da guerra fu capace di funzionare a pieno regime,
poté partire la battaglia per la conquista degli “under 12”.
Siamo di nuovo nel 1931: da pochi anni la Coca-Cola è disponibile in tutti i grandi magazzini del paese. La bibita, che
fino a qualche tempo prima veniva soprattutto servita nei
bar, poteva adesso essere acquistata in confezioni da sei bottiglie da conservarsi eventualmente nei frigoriferi domestici.
Si trattò, a suo modo, di un cambiamento epocale. Questo si-
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BABBO NATALE
gnificava infatti che, per i fatturati della company, cominciò
ad essere decisivo l’esercito di donne che ogni giorno si recava a fare la spesa. Di conseguenza, cresceva l’importanza dei
persuasori neanche troppo occulti che orientavano le massaie in gran parte dei loro acquisti: i loro figli.
È interessante come, da una parte all’altra dell’oceano
e sulla base di esigenze diverse, in Europa e negli Stati
Uniti il mondo dell’infanzia si trasformi in un target, un
obiettivo ben preciso quasi in contemporanea, proprio a
partire dai primi decenni del XX secolo. Da semplice categoria biologica e sociologica l’infanzia inizia infatti a diventare una costruzione simbolica e retorica del tutto artificiale, legata alle politiche di massa che tanto hanno ca-
ratterizzato il Novecento. Nell’Europa dei nascenti Stati
totalitari, si tenta con successo un processo di vera e propria “nazionalizzazione” dell’infanzia. Il bambino, prototipo del popolo – interpretato a sua volta come un minore da educare –, viene messo al centro di un processo di
seduzione, di conquista, che dalla culla lo porterà a indossare una divisa, a imbracciare le armi, persino eventual-
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mente a morire, saldando perfettamente in questo modo
il proprio destino a quello della Nazione – basti pensare
alla Gioventù Italiana del Littorio, alla Hitlerjugend, alla
meno nota “gioventù comunista”, la Kosomsol, fondata
nel 1918.
Negli Stati Uniti, la “concettualizzazione” dell’infanzia
tra le due guerre viene invece portata avanti soprattutto
dal sistema delle grandi imprese, e non in vista della preparazione alla guerra ma secondo un altro diktat, che dilagherà a partire dagli anni Cinquanta in tutti i paesi del
mondo libero: l’educazione al consumo.
Per ciò che riguarda la Coca-Cola, bisognava fare in
modo che il gioioso e impalpabile messaggio della bibita
arrivasse ai bambini senza travolgere la legge che impediva
di utilizzarli a fini pubblicitari. Il primo attacco fu sferrato
con le armi della sponsorizzazione dei programmi scolastici, molto tempo prima che questo strumento promozionale venisse stigmatizzato da Naomi Klein nel suo No Logo.
Se sui pericoli delle sofisticazioni alimentari la guardia dell’opinione pubblica era già alta, quasi nessuno all’epoca
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BABBO NATALE
aveva gli strumenti per percepire la portata di questi sistemi alternativi di penetrazione sociale, e quindi per difendersene. In molte scuole pubbliche degli Stati Uniti, gli
studenti si ritrovarono così a giocare a basket con i canestri
della Coca-Cola, a usare carte assorbenti della Coca-Cola,
a consultare termometri della Coca-Cola in caso di febbre,
a scrivere i loro appunti su blocchetti offerti dalla CocaCola, a visitare gli stabilimenti dell’azienda ricevendo all’uscita penne, temperini, album da disegno, giocattoli e altri gadget contrassegnati dal celebre marchio.
Il compito di lanciare una campagna pubblicitaria in
grado di rivolgersi ai bambini senza mai metterli al centro
della scena fu invece affidato dall’agenzia di Archie Lee a
Haddon Sundblom, un bizzarro disegnatore di origine
svedese che amava l’alcol e si faceva perdonare i suoi ritardi clamorosi grazie alla forza e all’inconfondibilità del segno grafico. L’espediente utilizzato fu quello di arruolare
un messaggero, un tramite, un intermediario tra infanzia e
mondo degli adulti che fosse in grado di catalizzare, con la
sua semplice presenza, l’immaginazione e i desideri dei
bambini. La scelta cadde appunto su Santa Claus.
3. MORTE E RINASCITA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
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Il successo della campagna pubblicitaria andò oltre le più
rosee previsioni. Haddon Sundblom continuò a disegnare
Babbi Natale per la Coca-Cola fino al 1964. Nessuno, tanto
meno il suo autore, poteva immaginare quale impatto avrebbe avuto questa rivisitazione di Santa Claus sui consumatori, quindi sui cittadini di tutti gli Stati Uniti che subito gli ricavarono un posto tra i simboli dell’identità nazionale.
Sundblom ebbe come primo parametro il Santa Claus
disegnato da Thomas Nast per «Harper’s Weekly» nel 1862:
un portadoni con pancione e barba bianca che cominciava
a distanziarsi dalle versioni troppo esotiche con cui era stato rappresentato fino a quel momento. Il colpo di genio di
Sundblom consistette nel portare alle estreme conseguenze l’operazione grafica di Nast, facendo convivere l’aura di
soprannaturalità che circondava Babbo Natale con l’estetica dell’uomo comune. Basta elfi, creature dei boschi, personaggi provenienti da immaginari e culture lontane: il
nuovo Babbo Natale avrebbe dovuto essere partorito dal
cuore magico dell’America del XX secolo. Sundblom utilizzò
infatti come modello l’uomo della porta accanto, vale a dire il suo vicino di casa Lou Patience, un commesso viaggia-
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BABBO NATALE
tore che l’American way of life aveva fornito di una corporatura robusta, un volto allegro e rassicurante entro i limiti del sospetto, una fiducia nel presente e un’ecolalica vitalità che debordava da tutti i pori della sua persona. A Lou
Patience Sundblom allungò la barba e arroventò le guance, aumentò di qualche misura il girovita, sostituì gli abiti
borghesi con la celebre casacca rossa e bianca, e così i cartelloni pubblicitari si riempirono di figure al limite dell’iperrealismo: fragorosamente comuni eppure in qualche
modo provenienti da un altro pianeta.
Quello che Sundblom dovette capire, del tutto istintivamente, fu che per fare sognare la gente nel modo più sereno e rassicurante possibile bisognava pescare in una fondamentale intersezione tra realtà e mondo immaginario,
vale a dire nell’ideale, perennemente in fieri, che una cultura ha di se stessa. Di conseguenza, il suo Babbo Natale
non proviene direttamente dalla realtà americana ma ancora una volta dal suo doppio onirico, il continente parallelo in cui quest’ultima si rappresentava per affrontare con
successo le grandi sfide del tempo. Si può dire, quasi con
una pretesa di letteralità, che il Babbo Natale testimonial
della Coca-Cola è un prodotto del sogno americano ancor
prima che Sundblom ne abbozzi i primi tratti. A questo
punto, il filo che legava Santa Claus alle sue origini poteva
considerarsi quasi del tutto reciso.
4. San Nicola: agiografia di un uomo d’azione
Quando Haddon Sundblom si prepara a ritoccare i connotati a Santa Claus, non sa probabilmente di lavorare sul
frutto di un sincretismo culturale e religioso che si trascina
da un paese all’altro, da un continente all’altro, da poco
più di milleseicento anni. Quello che Sundblom ha per le
mani è un mito reso estremamente malleabile dal logorio
del tempo, una presenza che si manifesta per la prima volta nell’Anatolia occidentale quando l’Impero Romano ha
già incubato tutti i presupposti per un crollo fragoroso,
una figura destinata a dilatarsi per l’Europa nei secoli successivi, ad appannarsi dopo le celebri “95 tesi” affisse sulla porta della cattedrale di Wittenberg da Martin Lutero, a
cambiare pelle e nome, a traversare l’Atlantico per approdare al Nuovo Continente in uno stato nuovamente germinale, pronto a venire raccolto da chi – come Thomas Nast
e poi, appunto, Haddon Sundblom – sarebbe stato in grado di infondergli nuova vita rimettendolo in contatto con
lo spirito del tempo.
Come documentato anche sul sito Internet della CocaCola, sul versante opposto ai pennelli di Sundblom troviamo Nicola, uno dei santi più atipici del pantheon cristiano,
una figura scaturita dai primi concili ecumenici e destinata appunto a sdoppiarsi, ad assumere diverse identità lun-
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BABBO NATALE
go la curvatura della Storia per arrivare, radicalmente mutata, nel cuore dell’Occidente postmoderno: il regno della
teologia audiovisiva.
Della vita del vescovo Nicola si sa molto, la letteratura
che lo riguarda è in effetti molto vasta, ma l’attendibilità
delle fonti che dovrebbero attestare le sue imprese è tanto
discutibile che qualche studioso ha sollevato dubbi circa la
sua effettiva esistenza biologica – nella storia delle religioni non è del resto così raro che la leggenda scaturisca dal
culto e non viceversa. Il problema nasce dal fatto che le
prime Vite di Nicola cominciano a diffondersi intorno al IX
secolo, a distanza di ben cinquecento anni dall’epoca in
cui il santo sarebbe presumibilmente comparso nell’Europa orientale. Prendendo ad ogni modo come riferimento le
Vite scritte in greco nei primi decenni del IX secolo da Michele Archimandrita e da Metodio, probabile patriarca di
Costantinopoli tra l’843 e l’847, si scopre che Nicola nacque a Patara, in Licia, intorno al 270 dopo Cristo, che in età
relativamente giovane si trasferì a Mira dove venne ordinato vescovo, che in questa veste partecipò al concilio di
Nicea del 325 e che, tornato a Mira, morì intorno al 345.
L’imprecisione della sua data di morte è dovuta al fatto
che la si calcola di solito in maniera indiretta, sottraendo il
numero degli anni durante i quali il suo sepolcro rimase nella città di Mira – numero su cui pure c’è qualche incertezza –
dal 1087, l’anno in cui le reliquie del santo vennero trafugate
e poi traslate a Bari. Ma anche la nascita di Nicola ha messo
a dura prova gli studiosi ed è molto probabile che il 6 dicembre, giorno originario della sua festa (a Bari i festeggiamenti
partono invece il 7 maggio e si protraggono per i due giorni
successivi, trovando appunto una nuova centralità nel 9 maggio del 1087, data in cui le ossa di Nicola giunsero nel capoluogo pugliese), sia sostenuto più da questioni di opportunità
culturale che dall’effettiva venuta al mondo del santo.
4. SAN NICOLA: AGIOGRAFIA DI UN UOMO D’AZIONE
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Il 6 dicembre segnava nell’antichità l’inizio simbolico
dell’inverno. La navigazione veniva sospesa per ventiquattr’ore e i marinai chiedevano la benedizione delle divinità dei mari: era insomma il giorno di Poseidone nel calendario pagano. Se si pensa che Mira era la sede di un
porto molto importante e che nei primi secoli della sua
espansione il cristianesimo inglobò riti e narrazioni dell’universo pagano facendo in modo che il passaggio di consegne avvenisse nel modo meno traumatico possibile, si
capisce come la data del 6 dicembre servisse più che altro
a restaurare un patronato che fino a poco prima era toccato al Dio dei mari.
Pensare tuttavia che Nicola sia la versione cristiana di
Poseidone o che la sua protezione fosse invocata esclusivamente dai marinai vorrebbe dire mettere in luce solo una
faccia di un prisma molto più complesso. Come si diceva,
siamo di fronte a un santo molto particolare, le cui caratteristiche si possono iniziare a ricavare esaminando le sue
imprese più importanti.
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BABBO NATALE
Nicola viene di solito raffigurato in abiti vescovili, bastone pastorale lungo il braccio sinistro e in mano (sempre
la sinistra) le famose “palle d’oro”. Le “palle” rappresenterebbero in realtà i tre sacchetti di monete che rimandano
a una delle prime gesta celebri del santo, l’episodio delle
Tre fanciulle in cui Nicola è al centro di una dinamica elargitiva piuttosto singolare.
L’episodio si svolge presumibilmente a Patara, di conseguenza riguarda un Nicola di età relativamente giovane (alcuni narratori lo attribuiscono addirittura alla sua “fanciullezza”) e comunque certamente non ancora vescovo. Pure
con qualche piccola variante a seconda delle fonti interpellate, l’episodio racconta di un uomo (di cui non viene mai
fatto il nome) che, travolto da un rovescio di fortuna, decise di far prostituire le sue tre figlie per fronteggiare le difficoltà economiche di tutta la famiglia. Gli era impossibile
del resto maritarle: la sua estrema povertà faceva sì che queste non potessero ricevere una dote sufficiente. Prima che il
piano scellerato venisse messo in atto, Nicola, venuto a conoscenza in qualche modo di ciò che stava per succedere
(anche qui, le fonti non chiariscono del tutto come faccia il
futuro santo a conoscere le intenzioni del padre di famiglia:
semplice raccolta di una diceria di paese o ispirazione divina?), decise di intervenire: riempì un sacchetto di monete
d’oro, si recò di notte alla casa dell’uomo, gettò il sacchetto
dalla finestra e subito si affrettò a far ritorno a casa preoccupato di essere visto, in linea col precetto evangelico in base al quale le azioni generose devono restare anonime.
Al risveglio il pover’uomo, fuori di sé dalla gioia, benedisse Dio e l’ignoto benefattore e “girò” alla figlia più grande il dono misterioso perché almeno lei potesse sposarsi. In
seguito, tuttavia, giunse a Nicola la notizia che l’uomo era
sul punto di far prostituire la seconda figlia e così, sempre
nascosto dalla notte, gli fece dono di un altro sacchetto di
4. SAN NICOLA: AGIOGRAFIA DI UN UOMO D’AZIONE
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monete. In alcune versioni dell’episodio si vuole che Nicola questa volta avesse lanciato l’oro dall’imboccatura del camino, temendo che il padre di famiglia potesse attenderlo
davanti alla finestra. Quando tuttavia la dinamica si ripeté
per la terza volta – e a vantaggio naturalmente della terza figlia –, il padre della ragazza, la cui curiosità circa il volto del
suo salvatore ormai quasi superava la gioia per lo scampato
pericolo, al costo di molte notti di veglia riuscì a sorprendere Nicola nell’atto di depositargli in casa l’ennesimo sac-
chetto di monete. Vistosi scoperto, il futuro santo gli fece
promettere di non raccontare mai a nessuno ciò che era accaduto. Promessa che con ogni probabilità non venne mantenuta, se questa storia è arrivata fino a noi.
L’episodio delle Tre fanciulle è un buon punto di partenza per comprendere la natura di san Nicola. Il fatto che
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BABBO NATALE
inizi la sua “carriera” a Patara come portadoni la dice lunga sul suo futuro di portadoni universale – il “lancio” delle monete d’oro dal camino può essere interpretato tra l’altro come l’immagine embrionale di Babbo Natale impegnato a calarsi giù dalla canna fumaria (anche se in questo
caso non si cerca di preservare l’identità dell’elargitore ma
il suo incontro diretto con i suoi beneficiati, i bambini).
In secondo luogo è importante vedere Nicola come protettore delle vergini (anche Dante ricorda questo aspetto
particolare dell’attività di san Nicola quando scrive, nel XX
canto del Purgatorio, ai versi 31-33: «Esso parlava ancor
della larghezza / che fece Niccolò alle pulcelle, / per condurre ad onor lor giovinezza»). Questo testimonierebbe il
suo carattere di iniziatore, il fatto insomma che si adoperi
per favorire il realizzarsi di un passaggio di status: da vergine a donna sposata e futura madre. Si aggiunga che tale
passaggio avviene non in base a un miracolo “classico” –
niente eventi soprannaturali, dunque – ma attraverso la
semplice elargizione di beni materiali. Se ne ricava un personaggio molto distante dalla tradizione dei santi contemplativi. La sua antitesi potrebbe essere incarnata dalla potenza visionaria di Teresa d’Avila, o da Giovanni della Croce, il grande santo spagnolo – insieme a Teresa, il più importante riformatore dell’ordine carmelitano – che consacrò gran parte della vita al silenzio e alla contemplazione
passando per terribili sofferenze ed esaltanti esperienze
mistiche. Nicola al contrario – se si eccettua una leggenda
in base alla quale, da neonato, si sarebbe rifiutato di bere il
latte materno durante i giorni consacrati al digiuno – fu soprattutto un “santo d’azione”. I suoi interventi, sempre
improntati ai principi di compassione e generosità, hanno
come esito finale il ripristino dell’ordine sociale laddove
questo rischia di venire sovvertito.
4. SAN NICOLA: AGIOGRAFIA DI UN UOMO D’AZIONE
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Ancor più che nelle Tre fanciulle, la funzione di Nicola
come equilibratore sociale e riparatore di torti si ravvisa
nel cosiddetto episodio dello Stratilates.
Siamo ai tempi dell’imperatore Costantino, probabilmente dopo il concilio di Nicea. Nicola è vescovo di Mira
quando, sempre nella penisola anatolica, precisamente in
Frigia, scoppia una rivolta per sedare la quale l’imperatore
invia nella regione un piccolo esercito. I soldati abbandonano Costantinopoli per dirigersi via nave verso la prefettura
della Licia. A causa di un’improvvisa bonaccia sono però
costretti a sbarcare ad Andriake, porto della città di Mira.
Tre di loro, col pretesto di occuparsi dell’approvvigionamento di viveri, si allontanano dal resto dell’equipaggio per
andare a divertirsi. Scambiati per predoni, vengono arrestati ingiustamente per saccheggio e condannati a morte.
A questo punto interviene Nicola con una dinamica che
un po’ di blasfemia potrebbe farci ricordare quella dei supereroi Marvel o perlomeno gli action movies. Il vescovo si
manifesta tempestivamente sul luogo dell’esecuzione, con
i soldati inginocchiati, le mani legate dietro la schiena, i
volti coperti da panni di lino. Il boia è pronto a colpire. Nicola strappa allora la spada dalle mani del boia, la getta in
terra, scioglie gli uomini dalle catene e li conduce dal governatore Eustazio, l’uomo che ne aveva ordinato l’esecuzione. Non appena lo vede, il governatore gli corre incontro agitatissimo ma Nicola lo arresta con queste parole:
«Sacrilego spargitore di sangue, come osi venirmi incontro! Non ti risparmierò né ti perdonerò, ma informerò
l’imperatore Costantino delle gravissime colpe di cui ti sei
macchiato e del modo con cui amministri la prefettura che
ti è stata affidata». Il governatore Eustazio, in preda alla
contrizione, crolla in ginocchio e prova a discolparsi: «Non
adirarti con me, non sono io il colpevole bensì Eudossio e
Simonide, due uomini ricchi e potenti…». E il vescovo:
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BABBO NATALE
«Non di Eudossio, non di Simonide è la colpa, ma dell’oro
e dell’argento». Nicola aveva infatti saputo che il governatore riceveva due libbre d’argento ogni volta che un cittadino riconosciuto reo di qualche colpa veniva giustiziato.
Nella seconda parte di questa storia – da alcuni studiosi considerata un’aggiunta – si narra come il comandante
supremo dell’esercito, invidioso per l’improvvisa popola-
rità dei tre soldati salvati da Nicola, avesse tentato di farli
giustiziare montando false accuse a loro carico e denunciandoli direttamente a Costantino.
I tre vengono messi agli arresti ancora una volta, in questo caso con tutta probabilità a Costantinopoli. Uno di loro,
Nepoziano, invoca Nicola poco prima di venire giustiziato.
Il vescovo di Mira allora, con una puntualità che ormai comincia a diventare un segno di riconoscimento, appare la
notte prima dell’esecuzione a Costantino in persona. Gli
parla in questo modo: «Imperatore, alzati e libera i tre uomini che ingiustamente hai fatto imprigionare. Se non mi
4. SAN NICOLA: AGIOGRAFIA DI UN UOMO D’AZIONE
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obbedisci, scatenerò una rivolta terribile ai tuoi danni e testimonierò contro di te davanti a Cristo, signore del cielo».
Nella stessa notte Nicola appare anche al prefetto Ablabio,
ordinandogli di liberare i tre soldati e promettendogli, in caso contrario, un’atroce punizione divina. In questo modo
Costantino – che proprio una visione aveva convertito al cristianesimo, il celebre «in hoc signo vinces» apparsogli in sogno prima della battaglia di Ponte Milvio –, confrontata
l’apparizione di Nicola con l’analoga storia riferitagli dal
prefetto, decide di far liberare i tre soldati: «Non sono io che
vi concedo la vita, ma colui che avete invocato, san Nicola, e
al quale siete tanto devoti. Rendete grazie a lui». L’episodio
si conclude con i tre soldati che, tornati a Mira, distribuiscono doni ai poveri: abiti, argento, addirittura oro.
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BABBO NATALE
Per quanto se ne sa, Nicola è il primo santo del cristianesimo a sperimentare i poteri dell’ubiquità, testimoniati proprio dall’episodio dello Stratilates. Secoli dopo, la facoltà di
essere in più luoghi nello stesso momento si troverà elevata
all’ennesima potenza nella moderna incarnazione di Santa
Claus che, durante la notte di Natale, riesce a occuparsi di
tutti i bimbi del pianeta al pari di un vero e proprio dio, oppure, si potrebbe provare ad azzardare, al pari di una merce
che realizzi in pieno uno dei propri sogni meno confessabili: essere a disposizione di chiunque, nello stesso momento.
Se tuttavia certi poteri di Nicola si troveranno accresciuti
nel corso della sua secolare evoluzione, alcune punte del suo
temperamento risulteranno invece “smussate” man mano
che ci si avvicina alle epoche moderne. In particolare, è l’apparato sanzionatorio a risultarne ridimensionato.
San Nicola, come si è visto, pur di ripristinare l’ordine
violato non esita ad annunciare sciagure, punizioni divine,
vere e proprie purghe ai danni di chi sia uscito dal solco della giustizia. Il doppio primonovecentesco di Santa Claus, al
contrario, per svolgere il proprio compito di equilibratore
tra infanzia e mondo degli adulti, arriverà al massimo a minacciare per l’interposizione dei genitori la mancata consegna dei doni a quei bambini che nel corso dell’anno non si
sono comportati bene – sanzione anch’essa destinata a sbriciolarsi man mano che ci avviciniamo alla fine del XX secolo:
un Santa Claus che rifiuti di consegnare doni a un bambino
di una metropoli occidentale, di qualunque colpa si possa
essere macchiato, oggi infatti non è più quasi concepibile.
L’appannamento e poi la totale estinzione della funzione punitiva non significa naturalmente che Santa Claus sia
destinato a “perdere forza” rispetto a san Nicola. Al contrario, il fatto di non aver bisogno di mostrare i muscoli testimonierà una saldatura quasi perfetta tra Babbo Natale e
il sistema di potere culturale che, anche in ragione della
4. SAN NICOLA: AGIOGRAFIA DI UN UOMO D’AZIONE
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sua apparente benevolenza, andrà a rappresentare. Più Santa Claus si mostrerà disarmato, insomma, più questo vorrà
dire che l’ideologia che lo sostiene non troverà ostacoli o
avversari lungo il proprio cammino.
Per tornare a san Nicola, molti studiosi sostengono che
l’episodio dello Stratilates ebbe una grande diffusione nell’Alto Medioevo in quanto funzionale alle esigenze sorte in
seno agli ambienti ecclesiastici di combattere, perlomeno
sul terreno mitico-letterario, gli eccessi del cesaropapismo.
Sta di fatto che Nicola, pur non sovvertendo completamente il precetto di «dare a Cesare quel che è di Cesare»,
esercita senza problemi una forte ingerenza negli affari di
Stato. Si pone insomma, dall’alto del suo rango vescovile,
come un contraltare del potere costituito arrivando a minacciare persino l’imperatore: la compassione e la generosità – il fatto che si “rattristasse” ogniqualvolta venisse a
conoscenza di un episodio di crudeltà, o di mancata giustizia – diventano spesso il passepartout per fare in modo che
il vescovo-santo si riveli in tutta la sua statura autoritaria e,
naturalmente, per fargli “mettere le cose a posto”.
Questo pragmatismo – lontanissimo come dicevamo
dalle forme ascetiche che pure il cristianesimo seppe sviluppare, e comunque più marcato e con maggiori sfumature di secolarità rispetto a quello presente in altri “santi
d’azione” – può considerarsi una delle ragioni perché proprio da Nicola, nell’America tra XIX e XX secolo, si sviluppò l’embrione che avrebbe portato a Santa Claus. Ancora più interessante sarà però vedere come, nel corso di
questa metamorfosi, il personaggio che diverrà Babbo Natale subirà un’opera di progressiva spiritualizzazione man
mano che, dalla prodigiosa fucina di miti del cristianesimo,
si sposterà nel continente – altrettanto prodigioso, quanto
a potenza allegorica – della cosiddetta cultura laica. Se san
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BABBO NATALE
Nicola agisce infatti in modo circostanziato (apocrife o meno, le sue imprese si stringono intorno a vicende ben precise), Babbo Natale si muove nel mondo degli uomini secondo una dinamica “sfumata” e nello stesso tempo universale, circolare, tutta improntata alla ricorsività: interviene ogni anno a beneficio di ogni bambino che popoli il pianeta. Di conseguenza, più che un santo o un supereroe – e
nonostante la sovresposizione della sua immagine a opera
dei mass media, anzi, forse anche in ragione di quest’ipnotico ricalco – si tratta di uno spirito, talmente ben vaporizzato nell’atmosfera delle terre occidentali da confondere il
proprio moto con quello che ogni mattina scandisce nelle
aziende la timbratura dei cartellini, regola l’alzarsi e l’abbassarsi delle saracinesche nei negozi, trasforma il rosso in
verde sugli alberi di Natale dei semafori, costruisce i palinsesti delle radio e delle televisioni, ritarda o anticipa gli
orari dei treni e degli aerei nel gioco a somma nulla dei trasporti. Insomma: puro e semplice Zeitgeist.
5. L’anima e il corpo della bibita
Difficile sostenerlo per una bibita frizzante, ma anche la
Coca-Cola, in centocinquant’anni di storia, subirà agli occhi dei fedelissimi e dei semplici consumatori un processo
di spiritualizzazione, di alleggerimento, un incremento
della forza suggestiva sempre più legata alla sua anima di
soft drink, alla sua aura, e sempre meno alla sostanza, tanto da far pensare che quel poco che la differenzia dalla
semplice acqua zuccherata (una percentuale infinitesimale
di caffeina, caramello, succo di lime, acido citrico e il misterioso 7x, l’ingrediente segreto depositato in una cassetta di sicurezza della Trust Company of Georgia) più che la
formula del suo successo sia ormai un semplice pretesto,
una piccola stampella destinata a reggere, miracolosamente, un niente di proporzioni colossali.
Andare alla ricerca della sostanza che ha generato il mito
significa spingersi indietro, verso gli ultimi anni del XIX secolo, per indagare le origini del fenomeno, addentrandosi
in quell’epoca dorata di pionieri e ciarlatani, democrazia e
razzismo, immigrazione selvaggia e lotta per la sopravvivenza che furono gli Stati Uniti di fine Ottocento. Ma, anche qua, riuscire a separare i semplici fatti dalla loro messa
in scena non è facile, perché la nascita della Coca-Cola si
era già trasformata in agiografia a solo mezzo secolo da
quando il suo inventore, John Pemberton, ne estrasse per la
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BABBO NATALE
prima volta la formula da un groviglio inestricabile di lavori preparatori, velleità e sofferenza reale.
Nel 1936, quando la Coca-Cola è già una delle realtà
economiche più promettenti del paese e Robert Woodruff
il suo presidente, 2.000 uomini della compagnia si riunirono ad Atlanta per festeggiare i primi cinquant’anni di attività. Fu una sorta di circo Barnum con le bollicine, un coloratissimo festival della retorica sospeso tra un passato in
via di rilettura e un futuro che già strizzava l’occhio alla
poetica delle multinazionali. I dirigenti dell’azienda fecero
discorsi su discorsi, come se si fosse trattato di una campagna elettorale. Venne rappresentata una commedia intitolata Pioneer Days (‘I giorni dei pionieri’) che riassumeva,
edulcorandola su parametri che sembravano presi in prestito da Walt Whitman, la storia della bibita. In altri luoghi
del raduno erano esposte macchine antiquate che avrebbe-
ro dovuto ricordare agli imbottigliatori da quanto lontano
fossero partiti e quanta strada avessero dovuto macinare
prima di poter raggiungere il benessere. E poi barbecue, festoni, siparietti musicali, incontri di lotta e di pugilato per
5. L’ANIMA E IL CORPO DELLA BIBITA
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gli uomini della compagnia e per le loro mogli, filmati promozionali – che avrebbero dovuto far inorgoglire, magari
pure commuovere, i dipendenti più anziani nonché portare i neoassunti ad assimilare la mentalità vincente dell’azienda – e tutto ciò che poteva contribuire a interpretare la
Coca-Cola come un “classico in vita”. Alla fine, quando
toccò a Robert Woodruff prendere la parola, il solito tono
messianico si sposò perfettamente con la logica aziendale.
«Noi siamo ancora dei pionieri!», tuonò dal pulpito, «altrimenti l’agio e l’indipendenza finanziaria ci avrebbero già
rammollito tutti quanti. Non dobbiamo mai parlare troppo
di successo… ma guardare avanti. Nella lunga vita della
Coca-Cola, questi primi cinquant’anni di attività rappresentano poco più di una fiammella, ma noi possiamo raccoglierla e utilizzarla, se solo lo vorremo, per accendere un
fuoco che farà a tutti da guida, a noi e a chi ci seguirà».
È interessante notare come la Coca-Cola, a pochi metri
dal balzo destinato a trasformarla definitivamente (portandola, come già detto, a diventare una fucina di narrazioni
oltre che di prodotti reali sempre più asserviti al proprio
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BABBO NATALE
doppio fantasmatico), enfatizzi e inizi già a rileggere in chiave mitica le lacrime, la fatica, il sudore e il sangue. Woodruff e soci rappresentavano ormai una solida realtà economica, non erano chiaramente più dei pionieri, ma proprio
sul tasto di questa dimensione materiale – potentemente
terrena, e in via di smarrimento – bisognava insistere perché la trasformazione si realizzasse in modo irreversibile.
La rilettura del passato in chiave mitica aveva naturalmente uno dei suoi picchi di incandescenza nel momento
aurorale della Coca-Cola: la sua nascita (il 1886) e il suo inventore, John Stith Pemberton.
Se si visita ad Atlanta il museo della Coca-Cola, costruito nel 1990 e costato circa 15 milioni di dollari, si vede come l’epica di cui la “grande festa” del ’36 fu la prima folkloristica manifestazione sia stata via via perfezionata. Gli
uomini che fecero la compagnia sono dipinti come gli eroi
di un “grande romanzo americano” i quali, partendo dalle
proprie umili origini, riuscirono a creare un sogno grazie
alla loro perseveranza e ai loro sacrifici, assistiti da una
buona sorte che in realtà, nelle intenzioni neanche troppo
velate degli agiografi moderni, altro non è che il Destino
sotto mentite spoglie.
In particolare il 1886 viene raccontato come l’anno di
una “nascita santa” e John Stith Pemberton come un adorabile dottore di campagna davanti al quale, un bel giorno,
si manifestò la formula di una bevanda miracolosa. L’inventore della Coca-Cola è raffigurato come una sorta di
Aureliano Buendia visitato dallo Spirito Santo – per cui
non è tanto lui a scoprire la Coca-Cola ma la formula della
bibita, staccandosi dall’Iperuranio degli oggetti di consumo, a scegliere la casa di Pemberton (e le sue mani) come
luogo d’elezione per la sua prima manifestazione terrena. La
chiave del racconto è chiaramente evangelica. Pemberton
5. L’ANIMA E IL CORPO DELLA BIBITA
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– come san Giuseppe, come Geppetto – diventa il padre
adottivo di un qualcosa che a un certo punto gli appartiene non in ragione degli sforzi fatti per ottenerla ma al massimo in virtù del proprio buon cuore, della semplice disposizione di spirito. L’impegno, l’abnegazione, i sacrifici
spetteranno invece agli evangelizzatori (nel nostro caso i
futuri uomini della “Coca-Cola Company”, il cui compito
sarà quello di raccogliere l’eredità di Pemberton e di
diffonderne il verbo in giro per il mondo).
Quello che non si dice nel museo di Atlanta – e che l’agiografia della Coca-Cola giustamente trascura – è che
Pemberton fu un tormentato morfinomane incline a paranoie e scoppi di ottimismo, un instancabile lavoratore che
consacrò ogni suo sforzo alla Coca-Cola e che proprio il
sogno di una “bevanda miracolosa”, destinata a conquistare sempre più spazio nella giungla del mercato statunitense, ridusse infine a una larva umana.
«Gli americani sono il popolo più nevrotico della Terra…», così esordiva il testo di una delle prime pubblicità
volute da Pemberton per la sua bibita. L’agitazione di nervi a cui la Coca-Cola prometteva di porre rimedio testimonia abbastanza bene il tempo in cui John Pemberton si trovò a vivere e la destinazione d’uso a cui la Coke inizialmente era votata.
Siamo nella cosiddetta Golden Age, il periodo in cui gli
Stati Uniti smisero di essere un paese fondamentalmente
agricolo per trasformarsi in una società urbanizzata. A un
mondo verde e giallo fatto di piantagioni, fattorie, confini
in continua via di spostamento andava sostituendosi una
scenografia di fabbriche, mulini a vento, recinzioni, un
paesaggio in continua fibrillazione attraversato dai segmenti paralleli dei binari ferroviari. Leaves of Grass di Walt
Whitman è stata pubblicata da pochi decenni (nel 1855)
60
BABBO NATALE
ma la fase pionieristica sta già cedendo il passo all’epoca
della velocità, della capitalizzazione del tempo, della specializzazione, della competitività. Lo strappo col passato fu
di tale violenza che il cambiamento non poteva non portare, insieme con gli innegabili vantaggi, problemi di “riordino” e nuove patologie sociali. Un manipolo di conquistatori marcianti «in paths untrodden, / in the growth by
margins of pond-waters, / escaped from the life that exhibits
itself…» (‘per sentieri non battuti / nella vegetazione ai limiti delle acque stagnanti / in fuga dalla vita che esibisce se
stessa’), per citare le parole di Whitman, era pronto a trasformarsi in un popolo di nevrotici stravolti nelle loro abitudini dal demone della modernità ma nello stesso tempo
convinti (a ragione) di poter spillare oro non più dalle
oscure vene del sottosuolo bensì dall’aereo e multiforme
universo del commercio, della finanza, delle scalate azionarie, delle acquisizioni, dell’invenzione e della conseguente messa in circolo del “prodotto perfetto”.
È singolare allora che il prodotto che più di altri andrà
a specchiarsi nel futuro del paese nasca come antidoto per
i problemi che proprio quel futuro, al momento di inverarsi, iniziava a produrre nella società: la Coca-Cola, così
come la andava immaginando Pemberton, sarebbe dovuto
essere appunto un tonico antistress.
Naturalmente Pemberton non era l’unico ad affidare i
propri sogni di ricchezza e notorietà a degli intrugli spacciati per medicinali. L’America si riempì rapidamente di
aspiranti stregoni – farmacisti, medici più o meno improvvisati, veri e propri sperimentatori senza manuale di istruzioni – che tentavano di piazzare sul mercato rimedi per
ogni tipo di malessere. Uno dei primi fu Joseph Priestly, che
a partire dalla seconda metà del Settecento inziò a produrre la celebre fixed air, semplice acqua addizionata con l’ani-
5. L’ANIMA E IL CORPO DELLA BIBITA
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dride carbonica che veniva presentata come tonico e medicinale. E cosa dire del Moxie Nerve Food, inventato e imbottigliato a Lowell dal dottor Augustin Thompson, un beverone a base di una fantomatica pianta sudamericana (talmente misteriosa da non avere un nome…) capace, secondo l’irresistibile amore per la millanteria del suo inventore,
di curare la paralisi, l’insonnia, il mal di testa, la demenza senile? E il Dr Pepper, una bibita a base di ciliegia «ottima per
la digestione ma anche per restituire forza, vigore, vitalità»?
A partire dalla fine dell’Ottocento queste strane invenzioni trovarono il loro luogo di diffusione ideale nelle cosiddette “rivendite di bibite”. Si trattava di locali pieni di
marmi pregiati, di cristalli e di colori moltiplicati dagli
specchi. I clienti, oltre a sentirsi in un posto alla moda, potevano provare l’ebbrezza di sperimentare centinaia di
preparati dai nomi esotici, la maggior parte dei quali erano semplici combinazioni “modificate” delle vecchie bevande alla frutta. Tutti gli infusi venivano spacciati per tonici e medicinali in virtù di ingredienti provenienti quasi
sempre da terre lontane e destinati a rimanere misteriosi,
accendendo in questo modo fantasia e aspettative dei consumatori.
Secondo alcuni studiosi della comunicazione, furono
proprio gli inventori di queste “bibite” a rappresentare il
prototipo dei moderni pubblicitari: ogni intruglio veniva
accompagnato da un bugiardino che in realtà era un vero e
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BABBO NATALE
proprio testo promozionale volto a esaltare senza freni inibitori le qualità del prodotto.
Sulla capacità delle “bibite” di guarire da tutta una serie
di mali è lecito nutrire più di un dubbio. Che però fossero
dei tonici, degli eccitanti, che non si trattasse insomma di
semplice acqua colorata risponde invece a verità come dimostra il Vin Mariani, il più celebre di questi elisir, la bevanda che si può considerare il vero antenato della CocaCola e a cui John Pemberton si ispirò nella sua interminabile ricerca dell’intruglio ideale: un dissetante con proprietà palingenetiche.
Angelo Mariani era un uomo di affari nato in Corsica
che, a partire dal 1863, iniziò a vendere vino di Bordeaux
con l’aggiunta di un’infusione di coca. La sua bevanda si
diffuse in tutta Europa e dopo pochi anni sbarcò con lo
stesso successo anche negli Stati Uniti. Il dosaggio consigliato sull’etichetta era di un bicchiere prima o dopo ogni
pasto – mezzo bicchiere per i bambini. La cocaina (isolata
per la prima volta nel 1885) non era stata ancora messa
fuorilegge. Così Mariani, che oltre ad essere un instancabile venditore aveva un eccezionale talento per la comunicazione, fece continuamente la spola tra Vecchio e Nuovo
Continente cercando di accattivarsi la simpatia di tutte le
personalità dell’epoca. Riuscì a trovare riconoscimenti da
5. L’ANIMA E IL CORPO DELLA BIBITA
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Emile Zola, da Thomas Edison, dalla regina Vittoria, da
Sarah Bernhardt, da Buffalo Bill fino a compiere la grande
impresa che persino alla Coca-Cola non è ancora riuscita:
la conquista del soglio di Pietro – Leone XIII, che a quanto
pare fu un entusiastico consumatore della bevanda, consegnò ad Angelo Mariani una medaglia d’oro con l’effigie
papale come «riconoscimento per i benefici ricevuti dall’uso del tonico Mariani».
Il successo del vino alla cocaina non poteva non portare
a tentativi di imitazione. E tra gli epigoni di Mariani c’era
appunto il futuro papà della Coca-Cola. Nato nel 1831 a
Knoxville, in Georgia, John Pemberton frequentò nemmeno maggiorenne il Southern Botanico-Medical College.
Laureatosi in Farmacia e Medicina, iniziò la sua carriera
come venditore di tonici e ricostituenti prima che lo scoppio della guerra civile lo tenesse per tre anni lontano dagli
affari. Tornato in attività, ansioso di mettersi alle spalle più
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BABBO NATALE
rapidamente possibile i traumi dell’evento bellico, Pemberton si trasferì ad Atlanta che nel frattempo stava diventando una delle città economicamente più frenetiche di
tutto il Sud. Qui, passando altrettanto freneticamente da
una costituzione societaria all’altra, riprese a vendere medicinali e allo stesso tempo mise su un piccolo laboratorio
farmaceutico dove trascorreva ogni ora libera alla ricerca
della sua pietra filosofale. Nel corso degli anni “inventò”
tinture per capelli, pillole per il fegato, rimedi contro i reumatismi – in occasione di un’intervista concessa nel 1886
mostrò orgogliosamente al cronista una sua opera ancora
incompleta sui preparati farmaceutici che conteneva ben
12.000 prove chimiche. Quando, nello stesso anno, arrivò
la prima formula della Coca-Cola (una versione del Vin
Mariani che i primi venti di proibizionismo consigliarono
di rendere analcolica e in cui alla cocaina veniva aggiunto
un estratto di noce di cola), Pemberton era già passato per
disastri finanziari, resurrezioni economiche e infiniti esperimenti pseudoalchemici. Il suo interesse per la cocaina,
oltre ad essere ispirato dall’epopea di Angelo Mariani, trovava una ragione in più nel convincimento che la coca fosse uno dei pochi rimedi veramente efficaci per la dipendenza da morfina, sostanza che Pemberton aveva iniziato
ad assumere con sempre maggiore frequenza, anche per
lenire i dolori provocatigli dalle ferite di guerra.
La Coca-Cola si presentò agli abitanti di Atlanta come
un prodotto «delizioso! rinfrescante! esilarante! rinvigorente! Una nuova bevanda contenente le proprietà della
meravigliosa pianta di Coca e della famosa noce di Cola».
In questa veste e con questo nome iniziò a insidiare le posizioni della concorrenza – una selva di prodotti dalla composizione incerta e dalla denominazione quanto meno fantasiosa come il Copeland’s Cholera Cure (‘Cura di Cope-
5. L’ANIMA E IL CORPO DELLA BIBITA
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land per combattere il Colera’), il Dr. Jordan’s Joyous Julep (‘Sciroppo Gioioso del Dr. Jordan’), il Botanic Blood
Balm (‘Balsamo Botanico per il Sangue’), il Dr. Pierce’s
Pleasant Purgative Pellets (‘Piacevoli Pillole Purgative del
Dr. Pierce’) e così via.
John Pemberton morì nel 1888 a soli cinquantasette anni. Non solo non riuscì a vedere i primi successi veramente
significativi della sua “creatura” (né la sua fervida immaginazione poteva concepire che cosa la bibita sarebbe diventata a partire dalla seconda metà del Novecento), ma i diritti sulla Coca-Cola gli vennero soffiati a pochi anni dalla
fine, dopo una complicatissima vicenda di passaggi di proprietà in cui problemi finanziari, tradimento e veleni familiari s’intrecciarono perversamente come in una saga romanzesca.
Ciò che dalle previsioni di Pemberton dovette essere
ancora più lontana fu però la circostanza che la Coca-Cola
sarebbe diventata uno dei brand più celebri del pianeta in
parallelo con un’opera di svuotamento materiale, di spiritualizzazione. Il suo successo, vale a dire, si sarebbe consolidato man mano che la bibita avrebbe perso il suo iniziale
valore d’uso (non più un tonico, non una medicina, non un
rimedio per i nervi ma un dissetante al pari dell’acqua piovana). La vera pietra filosofale, diversamente dalle aspettative di Pemberton, avrebbe funzionato secondo un meccanismo puramente tautologico: non seducendo milioni di
individui grazie all’apporto di un reale beneficio (la cura
da tutti i mali del mondo, per esempio, o la capacità di trasformare il ferro in oro) ma grazie al suo astratto potere di
fascinazione. Sbarazzatasi quasi completamente di ciò che
gli orfici chiamavano soma (corpo materiale, cadavere, prigione…) anche nel rapporto tra i componenti della bevan-
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BABBO NATALE
da e la sua denominazione – via la cocaina e a un certo
punto via anche l’estratto di noce di cola – la Coca-Cola
avrebbe potuto dispiegare senza ostacoli tutta la forza della sua anima. Non era più un rimedio contro i malesseri
portati dalla modernità ma al contrario, abbandonata ogni
ansia di reazione, cercava di plasmarsi come uno specchio
in grado di assorbire e poi riflettere il principio attivo (volatile ai limiti dell’impalpabilità, eppure sempre più presente nella vita di ognuno) del proprio tempo.
È singolare pure che, fino a quando questo processo di
svuotamento non sarebbe stato portato a compimento, la
Coca-Cola si sarebbe destinata a divorare i propri padri:
Pemberton trascorse gli ultimi anni tra malattia e gravi difficoltà economiche; la vita di Asa Chandler, tutta dedita
agli affari, culminò in una depressione devastante che
nemmeno la sua incrollabile fede cristiana riuscì ad arginare. Solo a partire dalla direzione di Robert Woodruff,
con la Coca-Cola ormai consapevole della propria forza
mitopoietica – una forza ottenuta anche al costo dell’olocausto dei padri fondatori –, il destino della bibita più famosa del mondo verrà saldato a quello dei suoi evangelizzatori in modo quasi indistinguibile.
6. San Nicola alla conquista dell’Europa
Come accennato nei capitoli precedenti, il percorso che
condurrà a Babbo Natale (uno spazio di quindici secoli se
lo datiamo dalla morte di san Nicola, di otto secoli circa se
vogliamo partire dalla diffusione delle prime Vite) viene
segnato da un movimento non lineare: dilatazione del mito del santo, contrazione, successivo “sfondamento” del
suo doppio Santa Claus.
Il nucleo primigenio da cui Nicola prende le mosse per
la conquista dell’Europa rimane il suo sepolcro a Mira.
Questo divenne un popolarissimo centro di pellegrinaggio
anche perché si diceva che dalla salma del santo trasudasse la cosiddetta “manna”, un liquido miracoloso che attirò
migliaia di fedeli dalla costa di Antiochia e successivamente diventò motivo di richiamo per le popolazioni dell’intero bacino mediterraneo – raccolta e sigillata con la ceralacca in ampolline di vetro, la manna veniva custodita in casa
per allontanare le malattie oppure sistemata sulle navi per
scongiurare le tempeste. Ancora oggi, prelevata annualmente nella cripta della basilica di San Nicola a Bari, la
manna (definita come «un olio sacro, un liquido trasparente con proprietà taumaturgiche») viene distribuita tra i
fedeli di tutto il mondo.
Man mano che il culto di Nicola andava diffondendosi, si rafforzava inoltre la sua fama di “iniziatore” e di
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BABBO NATALE
“santo d’azione”. La presenza del vescovo di Mira al concilio di Nicea, per esempio, che i documenti ufficiali fanno ritenere quanto meno incerta, sarebbe stata caratterizzata secondo alcuni agiografi da una difesa della fede
molto lontana da come la si potrebbe immaginare per un
teologo o per un asceta: nel bel mezzo delle dottissime disquisizioni sulla consustanzialità di Padre e Figlio, Nicola a un certo punto avrebbe perso le staffe. Acceso da
santa ira e zelo per la fede, avrebbe abbandonato la sua
postazione per prendere a schiaffi Ario, il sacerdote alessandrino che negava la natura divina di Gesù e che proprio il concilio avrebbe condannato alla scomunica. Quasi un comportamento da gendarme, impossibile da tollerare in un contesto simile: Costantino in persona, che
presiedeva il concilio, avrebbe spogliato di conseguenza
Nicola delle insegne episcopali per poi farlo chiudere in
carcere. Qui, mentre celebrava una messa in onore della
Madonna – questa la conclusione della storia –, a Nicola
6. SAN NICOLA ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA
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sarebbero apparsi degli angeli (o, a seconda delle versioni, la stessa Vergine accompagnata da Cristo) per restituirgli, insieme con la libertà, l’autorità: vale a dire il pallio e la mitra.
Anche le categorie sociali protette da Nicola andarono
via via allargandosi. Alle imprese di cui abbiamo parlato
devono aggiungersi salvataggi di marinai dal naufragio, liberazione da terribili carestie e resurrezione di bambini
barbaramente massacrati e messi in salamoia da un macellaio pagano (poi naturalmente portato alla conversione). In
quest’ultimo caso troviamo tra l’altro uno dei suoi pochi
miracoli “classici”, incentrati vale a dire su un’evento soprannaturale piuttosto che su una semplice opera di persuasione, elargizione o minaccia conclusa con successo;
nell’episodio della carestia, al contrario, Nicola si “limita”
a persuadere un marinaio che commerciava in grano a vendere i suoi depositi alla popolazione che aveva esaurito le
scorte di cibo.
In questo modo Nicola, oltre che alle ragazze da marito,
estese la sua tutela ai bambini, ai marinai, ai forestieri, ai
mercanti, persino ai ladri – l’origine di questo patronato
70
BABBO NATALE
coincide con la diffusione di un episodio secondo il quale
Nicola convinse una banda di ladri, dietro la minaccia di
denunciarli, a restituire l’oggetto del proprio furto.
Come ha notato più di uno studioso, san Nicola ha sempre a che fare con categorie presociali (i bambini, le ragazze non ancora sposate…) o comunque liminali (i marinai,
che vivono in uno stato transitorio destinato a estinguersi
ciclicamente con il ritorno sulla terraferma; i soldati, che
vengono riconsegnati alle proprie famiglie quando non
muoiono in battaglia; i ladri, capaci di rimettersi sulla strada della legalità; i forestieri e i mercanti, il cui status è comunque legato a un “ritorno a casa”). Il compito di Nicola è sempre quello di un tutore dell’ordine: aiuta i bambini
a entrare nel mondo degli adulti, le ragazze a diventare
mogli e madri, fa in modo che le persone la cui professione (o i cui errori) conducono a un temporaneo distacco
dall’ordine del mondo vengano consegnati nuovamente all’alveo originario della società civile.
Questa funzione di legislatore (per alcuni versi eccessiva), unita a quella iniziatica, sarà uno dei motivi che porteranno Nicola a eclissarsi dopo la Riforma, soprattutto nei
paesi dell’Europa settentrionale. E tuttavia, proprio il meccanismo di compensazione sociale di cui Nicola è al centro
in episodi come quello delle Tre fanciulle dà origine al ruolo di elargitore di doni che segnerà la sua rinascita nelle vesti di Santa Claus. In particolare, la ripetizione del gesto
(siamo sempre nell’episodio delle Tre fanciulle), il fatto che
Nicola intervenga a favore del padre di famiglia ogniqualvolta ce ne sia bisogno, fa nascere una legittima aspettativa
sulla ciclicità del dono. Tanto che a Bari – la sua città adottiva – questa caratteristica fornì la base ideologica per la
creazione di una vera e propria istituzione. Stiamo parlando del “maritaggio”, una pratica sorta nel XVI secolo sotto
6. SAN NICOLA ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA
71
Bona Sforza d’Aragona, duchessa di Bari, e tramontata solo nel 1984: si trattava praticamente di sorteggiare più volte durante l’anno un certo numero di doti, prese dalle casse della basilica di San Nicola e consegnate a «fanciulle baresi povere e orfane di padre».
Fino agli anni Sessanta del Novecento il maritaggio veniva percepito dalla popolazione barese come un giusto
strumento di riequilibrio sociale (perlomeno dal punto di
vista simbolico) e le beneficiate se ne sentivano onorate,
quasi che l’esito del sorteggio rappresentasse il segno della
benevolenza del santo e quindi delle forze divine nei loro
confronti. Il boom economico e le conseguenti mutazioni
antropologiche che investirono l’Italia alla fine degli anni
Cinquanta segnarono il tramonto di questa istituzione,
sempre più interpretata come una sorta di elemosina: insufficiente ad assicurare un futuro dignitoso, e in qualche
modo anche umiliante. Questo declino, come vedremo nei
capitoli successivi, va a inscriversi in una obsolescenza più
generalizzata dell’antico concetto di dono, che troverà appunto nel passaggio da san Nicola a Santa Claus uno dei
suoi migliori simboli e, contemporaneamente, un piccolo
grimaldello per comprendere qualcosa sui cambiamenti
del pensiero occidentale dal Novecento in poi.
Tornando a Nicola, è curioso come un santo di tale dimensione pragmatica fosse destinato a subire la sua prima
vera trasformazione (da san Nicola di Mira a san Nicola di
Bari) proprio in ragione di esigenze pratiche. Nel 1087, oltre sette secoli dopo la sua morte, sessantadue marinai baresi sbarcarono nell’Asia Minore già soggetta ai turchi, entrarono a Mira e s’impadronirono delle spoglie del santo.
Tornati a Bari il 9 maggio con il prezioso bottino, vennero
portati in trionfo da una cittadinanza che finalmente poteva fregiarsi di un patrono.
72
BABBO NATALE
Tutta la regia dell’operazione venne affidata a Elia, abate del monastero benedettino di Bari, che agì in concerto
con la nuova classe dirigente della città. Il pretesto religioso per il trafugamento della salma di Nicola fu quello di
trasformare Bari in un luogo ideale per l’avvicinamento del
papato con la Chiesa d’Oriente. La città, passata da poco
più di dieci anni ai normanni, aveva inoltre perduto il ruolo di capitale del governatorato bizantino dell’Italia meridionale e rischiava per questo un improvviso declino economico. L’arrivo del santo a Bari, secondo i calcoli di Elia
e dei commercianti locali, avrebbe trasformato il nuovo
dominio normanno in un grandioso serbatoio di pellegrini
provenienti da ogni paese d’Europa, cosa che in effetti
successe garantendo alla città una nuova e fondamentale
fonte di ricchezza, oltre che di potere politico e religioso.
La missione fu preparata nei minimi dettagli prestando
attenzione anche alla fase comunicativa, grazie alla messa a
punto e alla diffusione di quella che dal Novecento in poi
si sarebbe potuta definire tranquillamente una “bufala me-
diatica”. Qualche tempo prima dell’“impresa” dei sessantadue marinai, venne infatti inserito ad arte in molte Vite di
Nicola un nuovo episodio: il vescovo di Mira, di ritorno da
6. SAN NICOLA ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA
73
una sortita a Roma dove si era recato per incontrare il “capo della Chiesa”, avrebbe fatto sosta a Bari e qui avrebbe
pronunciato una frase a dir poco profetica: «Hic requiescent ossa mea». Il ratto delle ossa del santo, discutibile sotto il profilo morale, si trasforma nell’atto (indiscutibile)
della volontà divina.
Tutto insomma nel passaggio di Nicola da Mira a Bari
ricalca a perfezione – di conseguenza esalta – le caratteristiche del santo. Il suo cambio di domicilio avviene grazie
a un’azione spericolata (e san Nicola, come abbiamo visto,
è soprattutto un santo di azione), questa azione è a tutti gli
effetti un furto (e san Nicola è protettore anche dei ladri…), il furto viene compiuto da marinai (una delle categorie sociali tutelate da Nicola…) e porta un enorme beneficio commerciale alla sua città adottiva grazie al gran
numero di pellegrini che vi si riverseranno di continuo
(Nicola è patrono anche dei forestieri e dei mercanti).
Le sacre spoglie di Nicola furono fatte conservare da
Elia in una cripta, dove si trovano ancora oggi e sulla quale venne eretta la basilica intitolata al santo – così, a partire dall’XI secolo, Bari divenne un’importante sede di riferimento per tutta la cristianità e san Nicola poté rafforzare la
sua fama e la sua importanza più di quanto non avesse fatto a Mira. La sua “dilatazione” si svilupperà per altri quattro secoli. Poi, come accennato, tutto il suo amore per l’azione, il suo pragmatismo, il suo ruolo iniziatico e di tutore dell’ordine andranno a infrangersi contro lo scoglio della Riforma. Ma i frammenti scaturiti da questa collisione
saranno pronti a generare nuove vite.
7. La svastica sul logo
Una delle considerazioni che si possono ricavare analizzando in parallelo l’epopea di Santa Claus e quella della
Coca-Cola è che, per certi aspetti, limitatamente ad alcuni
settori e campi d’azione, la fine della modernità si verifica
molto prima che Lyotard e i successivi apostoli del postmoderno cerchino di dare a questo passaggio epocale un
qualche tipo di codificazione. Abbiamo visto per esempio
come già negli anni Trenta la Coca-Cola Company avesse
sviluppato – di pari passo con l’aumento della produzione
– una macchina narrativa che le faceva compiere un vero e
proprio balzo in avanti rispetto alle “poetiche” industriali
che si diffusero tra Vecchio e Nuovo Continente dalla fine
del Settecento in poi. La seconda guerra mondiale fornì al
gruppo di Atlanta la grande occasione per “sfondare” fuori dai confini degli Stati Uniti ma fu anche la prova definitiva che, nonostante quest’opera di allargamento fosse
portata avanti con le insegne del patriottismo e dell’orgoglio nazionale, l’ideologia delle nuove aziende aveva completamente superato, al di là delle comprensibili esigenze
di forma, la cara vecchia ragion di Stato.
Furono i giapponesi, con l’attacco di Pearl Harbor, a
lanciare inconsapevolmente la Coca-Cola in tutto il mondo facendo sì che la bibita diventasse, più che degli Stati
7. LA SVASTICA SUL LOGO
75
Uniti, la portabandiera di se stessa nei cinque continenti.
Con i soldati americani dislocati su tutti i fronti dei paesi
coinvolti nel conflitto nasceva l’esigenza di consentire che
le truppe venissero approvvigionate, oltre che dei beni alimentari di prima necessità, anche di bottiglie di Coca-Cola. La continua disponibilità della bibita avrebbe contribuito a tenere alto il morale dei soldati, che si sarebbero
“sentiti a casa” anche in terra straniera e sarebbero riusciti a vedere, nel gesto familiare di bere Coca-Cola, una promessa di un veloce ritorno alla normalità.
Questa esigenza fu perfettamente compresa da Robert
Woodruff, il quale subito dopo l’attacco di Pearl Harbor
decise che la guerra era scoppiata anche per la propria
azienda, tanto da ordinare ai suoi uomini: «Voglio vedere
76
BABBO NATALE
ogni soldato con una bottiglia di Coca-Cola da cinque centesimi tra le mani, dovunque egli sia e qualunque sia il costo che dovremo sopportare». Si aggiunga che la Coca-Cola era diventata molto popolare anche tra gli stati maggiori
dell’esercito americano e che l’agenzia pubblicitaria di Archie Lee diede il suo meglio per sostenere questa campagna con gli strumenti della comunicazione. Nel 1942, Lee
e soci fecero infatti divulgare un libretto promozionale intitolato L’importanza della pausa di riposo all’apice dello
sforzo bellico, in cui si cercava di dimostrare con pretese di
scientificità come militari e operai avrebbero reso meglio se
i loro ritmi di lavoro fossero stati scanditi da pause periodiche: «Il tempo governa il presente come mai era accaduto prima. Quando un paese è in guerra, lo sforzo produttivo deve adeguarsi a ritmi più incalzanti. In periodi come
questi la Coca-Cola diventa indispensabile per chi lavora».
La Coca-Cola Company e il governo degli Stati Uniti
strinsero un vero e proprio patto. Fu Eisenhower in persona – all’epoca comandante delle forze statunitensi in Europa, grande consumatore di Coca-Cola e, dopo la guerra,
intimo amico di Robert Woodruff – a far partire il programma con un cablogramma urgente spedito dal Nord
Africa il 29 giugno del 1943: «Sul primo convoglio richiesto imbarco di 3 milioni di Coca-Cola imbottigliate (piene)
e attrezzatura completa per imbottigliamento, lavaggio,
tappatura; stessa quantità due volte al mese. [...] L’imbarco mensile di bottiglie è a copertura di rottura e perdite stimate. Tonnellate valutate da spedire con imbarco iniziale,
5 mila. [...] Si chiede che siano controllati da fonti molto
qualificate e che questo quartier generale autorizzi subito
la richiesta installazione per venire incontro alla domanda
giornaliera di 200.000 bottiglie e comunichi quando le
stesse saranno spedite».
7. LA SVASTICA SUL LOGO
77
Nel corso della guerra furono costruiti in ogni continente impianti di imbottigliamento, la maggior parte dei quali a
spese del governo. Duecentoquarantotto impiegati della
Coca-Cola seguirono i soldati al fronte con il compito di supervisionare la costruzione e il buon funzionamento dei
nuovi stabilimenti. I rappresentanti della compagnia indossavano uniformi dell’esercito con sopra applicata la dicitura
TO (Technical Observer, una qualifica inventata durante la
prima guerra mondiale allo scopo di designare i civili richiesti dall’esercito per esigenze belliche) e, oltre ad essere i
principali artefici della fortuna della Coca-Cola in tutto il
mondo, diedero all’azienda nuovi elementi per rinvigorire il
proprio mito. Intorno al loro operato nacquero delle vere e
proprie leggende. Si diceva, ad esempio, che il generale Patton volesse sempre a portata di mano una scorta di CocaCola e che quindi tenesse gli Osservatori Tecnici in grandissima considerazione. Divennero celebri le imprese del TO
John Talley (l’osservatore tecnico che recuperò rocambolescamente un dispositivo per riempire le bottiglie caduto nel
porto di Le Havre) e di Fred Cooke (un suo collega: attraversò per 1300 miglia la catena dell’Himalaya per portare un
impianto di imbottigliamento in Cina). O ancora, in occasione di un volo nel deserto dell’Arabia Saudita, pare che un
C46 carico di bottiglie di Coca-Cola avesse problemi a prendere quota: quando uno dei passeggeri, il corrispondente di
guerra Howard Fast, suggerì di sbarazzarsi delle bibite, gli
fu risposto seccamente che si sarebbero potuti gettare via:
«fucili, jeep, munizioni, ma mai bottiglie di Coca-Cola». Come era già successo in tempo di pace per i suoi padri fondatori, la causa della Coca-Cola veniva confusa con cause considerate generalmente superiori, in questa occasione la vittoria del conflitto da parte degli Stati Uniti e la conseguente affermazione della democrazia in tutti i paesi dell’Asse.
78
BABBO NATALE
In realtà (e il caso della Cina all’inizio del XXI secolo è
emblematico), non è detto che democrazia ed economia
di mercato debbano essere necessariamente l’una il contenitore dell’altra. L’unica e indispensabile priorità di
un’azienda come la Coca-Cola è assicurare la continuità di
se stessa, la conquista di nuovi mercati, l’aumento di produttività, la colonizzazione culturale dei consumatori. A
questo punto democrazia o totalitarismo sono soltanto il
contesto in cui il principio attivo dell’espansione aziendale si trova a operare e, se la disinvoltura con cui le multinazionali si sono volta per volta legate a regimi autoritari
può apparire un affronto ai principi etici espressi dalle nostre carte costituzionali, assolutamente non si può parlare
di attentato alla coerenza quando azioni di questo tipo
vengano messe in relazione con la regola aurea delle stesse company, quella prosecuzione della specie a tutti i costi
che – sia pur trasfigurata – siamo riusciti tanto bene a trasmetterle. Viene in mente la celebre storiella della rana e
dello scorpione che Orson Welles fa raccontare a Mr
Arkadin (cioè a se stesso) in Rapporto confidenziale. Lo
scorpione, che non sapeva nuotare, dice Arkadin, voleva
attraversare un fiume e chiese alla rana di portarlo in spalla. La rana aveva fama di essere una creatura piuttosto razionale e offrì un iniziale diniego: «Credo proprio di no.
Mentre ti porto in spalla potresti pungermi e la puntura
dello scorpione significa la morte». E lo scorpione: «Se ti
pungo tu muori, ma se tu muori io affogo insieme a te.
Dov’è la logica nel tuo ragionamento?». La rana si lasciò
convincere a portarlo in spalla ma proprio nel mezzo della traversata si sentì percorsa da un dolore lancinante: lo
scorpione l’aveva punta davvero. «Ma questo non è logico!», protestò mentre le forze la abbandonavano. E lo
scorpione, con l’acqua già alla gola: «Non sarà logico, ma
è la mia natura».
7. LA SVASTICA SUL LOGO
79
Non deve di conseguenza sorprendere più di tanto il
fatto che, mentre la Coca-Cola di Atlanta cercava di espandersi oltre i confini nazionali in nome del patriottismo e
della democrazia, la sua filiale tedesca (Coca-Cola GmbH)
difendeva il proprio fatturato accoppiandosi per l’occasione con etica ed estetica del Terzo Reich. Al di qua dell’oceano la bibita simboleggiava la libertà americana – ma
nello stesso tempo, per le strade di Berlino, di Francoforte, di Colonia il suo logo posava tranquillamente accanto
alla svastica. Se le cose fossero andate diversamente e la
Germania di Hitler avesse vinto la guerra (come immagina Philip Dick nel suo romanzo ucronico La svastica sul
sole) non sarebbe stato contrario allo spirito della bibita
che in tutta Europa si bevesse Coca-Cola in nome del nazionalismo e della purezza razziale.
80
BABBO NATALE
La storia della Coca-Cola nella Germania nazista ruota
tutta intorno alla figura di Max Keith, un giovanottone
pieno di energia e di ambizione che a trent’anni, nel 1933
(negli stessi mesi in cui Hitler conquistava il potere), iniziò
a lavorare per la Coca-Cola GmbH. Come molti suoi connazionali, Keith era alla disperata ricerca della sicurezza finanziaria e di qualcosa in cui credere. Nella Coca-Cola
trovò entrambe le cose: «Ero pieno di entusiasmo», ricorderà trent’anni dopo, «la Coca-Cola prese possesso di tutto quello che era in me e non mi ha più abbandonato. Da
allora in poi, e per tutta l’eternità, sono rimasto legato a
questo prodotto nella buona e nella cattiva sorte». Alla Coca-Cola GmbH, Keith riuscì a diventare in poco tempo il
capo indiscusso: rimise a posto la contabilità dell’azienda
che versava in uno stato a dir poco caotico, si circondò di
fedelissimi («ti piaceva lavorare per lui sebbene fosse uno
schiavista», ricorderà un suo collaboratore, «ero spaventato da lui, tutti eravamo spaventati e tuttavia molti di noi
avrebbero dato la vita per quest’uomo. Poteva abbatterti
come mai lo eri stato prima con la semplice forza dello
sguardo. Ma era anche in grado di rimetterti in piedi con la
7. LA SVASTICA SUL LOGO
81
stessa facilità»), sottopose se stesso e i propri uomini a ritmi di lavoro massacranti riuscendo nel miracolo di conquistare una rilevante fetta di mercato in un paese dove le
bibite analcoliche non avevano nessuna tradizione. Quando scoppiò la guerra, nel 1939, gli uomini della Coca-Cola
erano arrivati a vendere in Germania quattro milioni e
mezzo di casse ogni anno.
L’universalità della Coca-Cola faceva in modo che la bibita potesse trasformarsi dovunque andasse in un prodotto locale. Proprio per questo, pur di sopravvivere nella
Germania del Terzo Reich, i venditori in franchising che
agivano su territorio tedesco cercarono di sciogliere la
Coke dalle sue origini americane tentando di far passare
un messaggio secondo il quale la Coca-Cola GmbH fosse
in tutto e per tutto un’azienda teutonica.
Robert Woodruff non sembrava molto preoccupato del
processo di “arianizzazione” che la sua bibita stava subendo in territorio tedesco né da Atlanta arrivarono proteste
in questo senso quando, dopo la Notte dei Cristalli che
inaugurò la fase più violenta delle persecuzioni antisemite
rendendo chiaro in tutto il mondo quale fosse la posizione
della Germania rispetto al “problema ebraico”, il gruppo
di lavoro di Max Keith continuò tranquillamente a flirtare
col regime – l’unico motivo di attrito tra Coca-Cola U.S.A.
e Coca-Cola GmbH si produsse all’indomani dell’Anschluss e non fu tanto legato a problemi di violazione delle
norme internazionali sulla sovranità degli Stati quanto al
seguente dilemma: a chi sarebbe dovuta spettare adesso la
vendita della bibita in tutta l’Austria?
Due anni prima, del resto, le Olimpiadi di Berlino avevano sancito un vero e proprio trionfo per la Coca-Cola
(una delle bevande più consumate da atleti e turisti) e Robert Woodruff, ospite d’onore insieme a un grosso entourage della company, non fu tanto turbato dal fatto che una
82
BABBO NATALE
fetta per nulla trascurabile del proprio fatturato fosse prodotta in un paese che calpestava ormai ogni principio democratico quanto dalla circostanza che l’atteggiamento
maniacale del Führer rispetto al cibo avesse costretto gli
imbottigliatori a far applicare su ogni bottiglia di CocaCola l’avvertenza kaffeinhaltung («contiene caffeina»).
L’avventura della Coca-Cola nella Germania nazista
proseguì senza grossi problemi fino al 1939. Gli straordinari poteri camaleontici della bibita – legarsi a qualunque
causa pur di restare se stessa in tutto il mondo – avevano
fatto sì che Max Keith fosse riuscito a motivare i suoi sottoposti spostando sulla produzione della bibita quella disciplina, quella dedizione al lavoro, quella fedeltà assoluta
che nel resto del paese sarebbero dovuti essere tra i pilastri
per la costruzione del Reich millenario (quando, negli ultimi tempi del conflitto, alcuni prigionieri di guerra furono
messi a lavorare negli impianti di imbottigliamento della
Coca-Cola controllati dagli Stati Uniti, un osservatore tecnico poté commentare: «I lavoratori francesi hanno un
concetto piuttosto limitato del significato di parole come
pulizia e igiene, sono apatici, sembrano indifferenti verso il
lavoro che svolgono. I soldati tedeschi al contrario sono
molto diligenti ed è facile averci a che fare. È sufficiente
mostrargli che tipo di lavoro devono compiere e loro si
mettono subito all’opera, e lo fanno bene»). Del resto, così come Hitler era riuscito a sfruttare la frustrazione generalizzata del suo popolo e il famoso 20 per cento di disoccupazione, Max Keith si circondò inizialmente proprio di
falliti, di sconfitti, gente che non aveva più niente da perdere e a cui veniva offerta un’occasione di riscatto.
Con l’invasione della Polonia e la conseguente entrata
in guerra di Francia e Inghilterra, le cose per Keith e soci si
7. LA SVASTICA SUL LOGO
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complicarono enormemente. Nonostante gli sforzi compiuti per dimostrare la propria fedeltà al regime, iniziò a
farsi tangibile il pericolo che la Coca-Cola GmbH potesse
essere nazionalizzata in quanto “azienda straniera”. A questo si aggiunse il fatto che Göring fece disporre a un certo
punto («per esigenze di guerra») il divieto di importare
l’ingrediente “segreto” della bibita, il 7x, dagli Stati Uniti.
Come reagire a questi rovesci di fortuna? La prima
mossa di Keith fu infiltrarsi ancora più profondamente
nella burocrazia nazista per cercare di rendere più lenta e
meno “traumatica” possibile la temporanea scomparsa
della Coca-Cola dalla Germania e dai territori occupati
(man mano che le truppe di Hitler invadevano l’Europa,
Keith aveva infatti assunto il controllo delle aziende che
imbottigliavano la bibita in Italia, Norvegia, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo…). Poi arrivò il colpo di genio. Se i problemi della Coca-Cola GmbH erano legati soprattutto alla dipendenza dalla casa-madre, dovette pensare Keith (a nessun concessionario in franchising veniva
infatti passata la formula del 7x), si poteva cercare di produrre una bibita che fosse realmente tedesca, un prodotto
che fosse concepito in Germania, che non avesse bisogno
di equilibrismi tattici o faticose mistificazioni comunicative per essere percepito da tutti, immediatamente, come
bevanda ariana. In questo modo nacque la Fanta.
Siamo di nuovo nel laboratorio alchemico degli oggetti
di consumo destinati a un radioso avvenire. Ma, a differenza di quanto accadde intorno a John Pemberton, non sembra che la Coca-Cola Company abbia fatto grandi sforzi per
far entrare nella propria leggenda le circostanze che segnarono questa seconda “nascita santa”. Troppo difficile.
Max Keith riuscì a fare di necessità virtù e, convocati i
suoi chimici, chiese loro di inventarsi una bevanda al sapo-
84
BABBO NATALE
re di frutta raschiando il fondo del barile dei razionamenti
alimentari imposti dallo stato di guerra. Per ammissione
dello stesso Keith, la Fanta era fatta di «avanzi di avanzi»:
per conferirle un vago sapore di arancia vennero utilizzati
succedanei del formaggio, scarti di lavorazione di altre industrie alimentari, fibre di mela che rimanevano sui torchi
da sidro. La fortuna della nuova bibita (che veniva pubblicizzata come un prodotto della Coca-Cola GmbH per evi-
tare che il ricordo del marchio scomparisse del tutto dalla
memoria dei tedeschi) fu dovuta ai magheggi di Keith, che
riuscì ad aggirare le leggi sul razionamento dello zucchero
ottenendo dai gerarchi nazisti l’autorizzazione a utilizzare
per il suo prodotto lo zucchero di barbabietola. Il nome,
deciso nel corso di una riunione fiume a cui parteciparono
dirigenti e impiegati della Coca-Cola GmbH, fu molto
semplicemente una contrazione della parola tedesca Fantasie. La nuova bibita fu dotata di una bottiglia caratteristica – come già anni prima avvenne per la sua sorella maggiore – e le vendite nel corso del conflitto furono sufficienti a mantenere vivo il mercato.
Per quanto questa storia possa sembrare disdicevole, sarebbe errato pensare di individuare il cuore dello scandalo
7. LA SVASTICA SUL LOGO
85
nella circostanza che la Fanta, nata in seno al nazismo, abbia conquistato dopo la guerra i mercati americani ed europei come portabandiera del mondo libero. Il cuore dello
scandalo – se di scandalo si può ancora parlare – risiede invece nell’intrinseca non appartenenza delle multinazionali a
qualunque tipo di ideologia considerata fondante per uno
Stato moderno. Un’azienda come la Coca-Cola – costretta
volta per volta nelle maglie della democrazia costituzionale,
del regime totalitario, del fondamentalismo religioso – aspirerebbe ontologicamente a un nuovo tipo di teocrazia che
avrebbe nel proprio doppio fantasmatico l’impalpabile centro di irradiazione e in un sofisticatissimo apparato produttivo-narrativo il proprio “braccio armato”.
Non si tratta di biasimare la Coca-Cola, o comunque
non solo l’azienda di Atlanta, dal momento che altre compagnie americane continuarono a fare affari con la Germa-
86
BABBO NATALE
nia anche dopo lo scoppio della guerra (come la Ford e la
Standard Oil, o, invertendo i termini della questione, come
la Fiat, che vendeva in modo piuttosto disinvolto materie
prime al “nemico” Stati Uniti). E cosa dire di quelle aziende destinate a diventare il simbolo della nuova economia
occidentale dagli anni Ottanta in poi? La IBM, per esempio, che aveva in Germania un’importante filiale, pare ab-
bia offerto ai nazisti tutto l’occorrente per quel rudimentale (ma all’epoca assolutamente rivoluzionario) sistema di
informatizzazione che successivamente sarebbe stato utilizzato per dirigere il “traffico umano” di milioni di vittime
destinate alla “soluzione finale”. La circostanza che la casa
madre fosse o meno a conoscenza dell’operato della filiale
tedesca è ancora oggetto di furibonde polemiche. È certo
invece che l’allora presidente dell’IBM Thomas Watson
(non certamente nazista, ma un uomo che chiaramente
credeva al fatturato della propria azienda molto più che al-
7. LA SVASTICA SUL LOGO
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le dichiarazioni di principio scolpite delle carte costituzionali dei cosiddetti “paesi liberi”) fu decorato nel 1937 con
una medaglia al merito dal cancelliere Adolf Hitler in persona: «Onore agli stranieri che hanno fatto di se stessi dei
servitori del Reich».
Non si tratta di mettere la Coca-Cola in croce, ma di cercare di fornire alle cose, e alle loro dinamiche, un nome e
una descrizione che siano quanto possibile calzanti. Le imprese produttrici di merci destinate a un largo consumo non
sono propriamente “cattive”. La loro natura impone una
crescita continua e una progressiva “evangelizzazione” dei
fedeli-consumatori – la loro carta costituzionale non è perfettamente sovrapponibile alla carta costituzionale dei paesi
in cui vengono ospitate (ma è sempre meno chiaro il gioco
delle parti: chi ospita chi? Chi contiene chi? Chi è al servizio
di chi?) –, per cui si potrebbe parlare di “cattiveria” allo stesso modo dello scorpione di Welles, costretto a secernere veleno da un impulso che non contempla il libero arbitrio ma
solo ostacoli oggettivi, ed eventuali, all’uso del pungiglione.
Così, se le esigenze dell’espansione (il bisogno di uno
“spazio vitale” molto diverso da quello tristemente noto negli anni del secondo conflitto mondiale) possono fare in modo che un’azienda collabori nello stesso momento con due
paesi ideologicamente contrapposti senza che questo sia
percepito dall’azienda stessa e men che meno dallo spirito
dei suoi prodotti come una contraddizione, la necessità di
“evangelizzare” i consumatori la conduce eventualmente a
cibarsi, quando possibile, del patrimonio culturale presente nel contesto cui si trova ad agire, a metabolizzarlo, a restituirlo infine al mondo trasformato secondo le esigenze
che il suo desiderio di teocrazia le impone. Il caso di Santa
Claus, per la descrizione di una simile dinamica, può considerarsi emblematico.
8. Martin Lutero contro san Nicola
Coi protestanti per Nicola arrivarono i guai. Il fervore
antipapista della Riforma aveva tra i suoi bersagli – oltre alla vendita delle indulgenze, ai canti liturgici, alle messe in
suffragio – anche il culto dei santi. In una situazione simile, un personaggio come Nicola aveva meno speranze rispetto ad altri “colleghi” di guadagnarsi la benevolenza
della Chiesa riformata: la sua disinvoltura nel maneggiare
l’oro poteva valergli l’accusa di non saper distinguere perfettamente tra Dio e Mammona; i suoi interventi come tutore dell’ordine ricordavano troppo le ingerenze temporali della Chiesa di Roma; il patronato di ladri, commercianti, prestatori di denaro a pegno lo rendevano quanto meno
sospetto; la sua funzione iniziatica rischiava di far sì che in
lui s’intravedessero delle sopravvivenze delle divinità pagane – caratteristica, quest’ultima, che non può poi considerarsi a lui del tutto estranea. Così, nei paesi protestanti il
nome di Nicola venne cancellato dal calendario liturgico e
le sue celebrazioni estromesse dal rituale.
La circostanza che i riformatori non avevano però tenuto in conto consisteva nel fatto che la figura di Nicola era
diventata molto popolare anche tra i fedeli dei paesi nordeuropei e che un atto formale di espunzione non poteva
far cadere nell’oblio un personaggio che aveva guadagnato
8. MARTIN LUTERO CONTRO SAN NICOLA
89
consensi continuando a crescere, a radicarsi, a rafforzarsi
per oltre mille anni. Così, cacciato dalle navate delle chiese e dalle feste ufficiali, Nicola continuò a sopravvivere nei
focolari domestici e quindi a registrare i segni dell’ennesima “mutazione”. In particolare, fu la sua vicinanza ai bambini, la sua fama di elargitore di doni a fare da lasciapassare perché Nicola registrasse, tra XVI e XVIII secolo, soltanto un semplice appannamento, un’eclissi temporanea, una
rimozione oltre la quale soffiavano già i venti del sincretismo che porterà a Babbo Natale.
Un’altra delle fortune di Nicola all’indomani della Riforma consistette nel fatto che, nel corso dei secoli precedenti,
proprio dal ceppo della sua fama di elargitore di doni aves-
sero iniziato a svilupparsi delle figure “parallele”, dei veri e
propri doppi in tempi non sospetti – doppi che (stornati successivamente almeno in parte dal “bersaglio” dei protestanti) poterono liberamente assurgere a nuova vita.
Proprio nell’Europa settentrionale, per esempio, precisamente a Rouen, appare nell’XI secolo la figura del “vescovo
90
BABBO NATALE
fanciullo”. Si trattava di un bambino che ogni anno, il 28 dicembre – il giorno della festa degli Innocenti – veniva scelto
per rappresentare san Nicola. Vestito con paramenti episcopali di colore bianco distribuiva ai bimbi buoni dolci, uova
e frutta compiendo un giro cerimoniale che lo conduceva di
porta in porta attraverso tutta la città. Il “vescovo fanciullo”
era normalmente accompagnato da un secondo bambino –
Nicodemo, come fu chiamato quando questa tradizione si
diffuse anche nei Paesi Bassi –, un piccolo servo, un aiutante che poteva però considerarsi anche il suo doppio speculare. Nicodemo infatti era vestito di nero (quando non si
trattava di un ragazzo di colore) e il suo compito consisteva
nel guidare un asinello carico di doni che il “vescovo fanciullo” avrebbe poi distribuito e nel terrorizzare invece quei
bambini che durante l’anno si erano comportati male distribuendo loro delle verghe. Da Nicodemo si svilupperà la figura dello Schwarzer Mann (l’‘Uomo Nero’), nel quale confluirono elementi di matrice precristiana mischiati a temi del
8. MARTIN LUTERO CONTRO SAN NICOLA
91
folklore locale, ed è interessante notare come le due funzioni (quella di elargitore di doni e quella di sanzionatore), unificate nella stessa persona durante la “prima vita” di Nicola,
trovino questo iniziale sdoppiamento a partire dall’XI secolo per perdersi poi nelle ultime versioni di Babbo Natale
che, abbandonato definitivamente ogni valore punitivo, si
propone oggi come un inesauribile dispensatore di doni,
buonumore e altro materiale esilarante.
Se la comparsa del “vescovo fanciullo” si può considerare una delle prime ma decisive “gemmazioni” destinate
a svilupparsi dalla figura di san Nicola, la festa degli Innocenti è interpretabile a sua volta come una rivisitazione in
chiave cristiana delle feriae pagane che avevano lo scopo
principale di esorcizzare i fantasmi scaturiti dall’approssimarsi della stagione fredda, e che appunto venivano celebrate intorno al solstizio invernale. Il parallelismo tra i due
tipi di celebrazioni si basa sia sull’elargizione di beni – in
epoche pagane si può parlare di vero e proprio spreco, così come di spreco tornerà a parlarsi a proposito delle festività natalizie di tipo post-cristiano, ossia le nostre – sia sull’inversione dei ruoli. Nei Saturnali, per esempio, i servi si
facevano nobili, i pastori “diventavano” animali, i bambini adulti, così come durante la festa degli Innocenti spetta
proprio a un bambino interpretare un ruolo “altro”, vestendo per un giorno i paramenti vescovili.
La festa degli Innocenti, che come tante feste cristiane
intrise di paganesimo si radicò nelle abitudini della popolazione anche in ragione del proprio sincretismo (in questo
caso estendendosi dalla Francia a tutti i paesi del Nord Europa), fu una delle manifestazioni di Nicola che resistette,
seppure con dinamiche diverse, alla Riforma. Estromesso
dal calendario ufficiale delle Chiese riformate, il Nicola
92
BABBO NATALE
elargitore di doni continuò la sua carriera in modo “clandestino” – cacciato dalle strade, come abbiamo detto, trovò un rifugio sicuro nelle case dei fedeli. Consegnato al
folklore popolare diventò di conseguenza quel Nikolaus
“domesticizzato” che, a dispetto dei propri detrattori, con-
tinuava a passare per la rituale distribuzione di doni in
ogni dimora in cui ci fosse un bambino durante la notte tra
il 5 e il 6 dicembre. Nacque probabilmente in questo periodo l’abitudine di far depositare accanto al letto o al focolare le scarpe (poi le calze) che al mattino sarebbero state ritrovate colme di piccoli doni.
Presa coscienza dell’impossibilità di liberarsi completamente di Nicola, o comunque delle sue sopravvivenze domestiche, le Chiese riformate tentarono di ricorrere a delle contromisure. Lo fecero cercando di costruire piuttosto
artificiosamente, sul Nikolaus dispensatore di doni, altre
presenze più consone alla propria dottrina. Se proprio la figura di un benefattore che opponesse ai demoni invernali
8. MARTIN LUTERO CONTRO SAN NICOLA
93
la sua gerla carica di dolci, frutta e biscotti doveva considerarsi inestirpabile dall’immaginazione popolare, dovettero pensare i riformatori, che almeno questo ruolo fosse
interpretato da qualcun altro.
Nasce così la figura di Kris Kringle (o Christkindel),
quel Gesù Bambino la cui comparsa quale portatore di doni ebbe come unico effetto davvero duraturo lo spostamento di ciò che restava della festa degli Innocenti dal 6 al
25 dicembre e la sua conseguente sovrapposizione con la
notte di Natale. Lo stesso Lutero, che a quanto pare ancora nel 1535 faceva regali ai suoi bambini durante la notte
tra il 5 e il 6 dicembre, dieci anni dopo aveva posticipato la
pratica alla vigilia di Natale.
Nonostante nella figura di Gesù Bambino poteva ravvisarsi qualche punto di contatto con san Nicola – in particolare la funzione iniziatica: se san Nicola favorisce alcuni
passaggi di status circostanziati (da ragazza a donna madre, da fanciullo ad adulto…), nella redenzione offerta da
Gesù si ritrova il passaggio di status per antonomasia – il
tentativo di proporlo definitivamente come distributore di
doni in sostituzione di Nikolaus non ebbe il successo sperato. Si scatenò piuttosto una caotica sovrapposizione di
ruoli e personaggi che a un certo punto i riformatori non
riuscirono più a controllare.
Le religioni confessionali, come del resto i movimenti
politici, hanno successo quando codificano, trasformano
in slogan o liturgia un bisogno reale già diffuso nella società, e sono destinati al fallimento quando la hybris li porta a credere che il bisogno in questione possa essere indotto, per esempio, dall’opportunità di conciliare attriti tra
movimenti o correnti interne. Proprio per questo, la fabbricazione in vitro di un mito del tutto artificiale (il Kris
Kringle dispensatore di doni) e il suo conseguente innesto
94
BABBO NATALE
nel corpo di un bisogno reale (la celebrazione di feste che
contenessero ancora elementi dei vecchi Saturnali, in particolare la circostanza di offrire beni in olocausto pur di
placare la vis mortifera delle potenze invernali) creò una
reazione di rigetto. La situazione conseguente a tale rigetto fu la permanenza di un bisogno sul quale la mano del
potere religioso non riusciva più a esercitare un efficace
ruolo di controllo e sistematizzazione. Così, scioltasi dalla
tutela di un guardiano che fosse all’altezza del suo compito, l’impossibile assimilazione di san Nicola da parte di
Kris Kringle si trascinò per oltre tre secoli lungo l’Europa
settentrionale come una sorta di blob religioso, continuamente fecondato dal folklore popolare, da residuati religiosi cristiani, da elementi pagani mai sopiti come gli spiriti dei boschi e le divinità silvane.
Fu così che apparvero le figure di Weihnachtsmann,
Papà Natale, Pére Noël, Father Christmas, che affiancava-
no Gesù Bambino nell’immaginazione popolare (quando
non agivano dietro suo mandato) per la distribuzione di
doni durante la notte di Natale. In altri casi queste tre figure (san Nicola, Papà Natale, Gesù Bambino) divennero
8. MARTIN LUTERO CONTRO SAN NICOLA
95
intercambiabili, come pure intercambiabili divennero le
date del 6 e del 25 dicembre.
Che cosa ne sarebbe stato di questo ormai irriducibile e
continuo gioco di aggregazione e distacco tra Nicola, Gesù Bambino e Papà Natale se avesse continuato a svilupparsi nell’ormai piccolo recinto del Vecchio Continente,
non può dirlo nessuno. Se a partire dal XIX secolo l’Europa non avesse trovato negli Stati Uniti l’occasione per uno
dei più interessanti e vertiginosi esperimenti culturali della propria storia, sicuramente ci saremmo ritrovati a raccontare una vicenda diversa. Nello stesso tempo, se nel XIX
secolo la figura del “portatore di doni” fosse stata chiusa in
una rigida codificazione religiosa, la sua assimilazione e la
conseguente rinascita sul territorio degli Stati Uniti (con
successiva ri-esportazione in Europa dal dopoguerra in
poi) probabilmente non si sarebbe realizzata.
Proprio la circostanza invece di ritrovarsi “per le mani”
un materiale sufficientemente informe, caotico, libero, disposto a offrirsi come oggetto di altri innesti e “procedimenti alchemici” che lo rendessero funzionale a un ulteriore bisogno reale (la reinvenzione dell’uomo nelle società
consumistiche) fece in modo che il brodo culturale di Nicola-Gesù Bambino-Papà Natale si rapprendesse nella
grandiosa e solidissima figura di Santa Claus. Il quale però,
come vedremo nei prossimi capitoli, può dirsi figlio degli
Stati Uniti solo in ragione di una progenitura che lo terrà
legato a un nodo mai sciolto, e continuamente riproposto,
del pensiero occidentale.
9. La conquista della Terra
Al di là del fatto di averlo arruolato come testimonial di
una fortunatissima campagna pubblicitaria e di avergli
conferito il look con il quale tutti noi oggi lo conosciamo,
qual è la vera natura del rapporto che la Coca-Cola intrattiene con Santa Claus? Il fatto che Babbo Natale abbia
avuto nell’azienda di Atlanta la sua prima e fondamentale
cassa di risonanza è sufficiente per farci dire che la CocaCola è a tutti gli effetti il papà (o la mamma) di uno tra i
più significativi simboli della nostra cultura? Non potrebbe in qualche modo essere anche il contrario? Non è, vale
a dire, possibile che la Coca-Cola, nella messa a punto della campagna orchestrata da Archie Lee, abbia piuttosto
cercato di evocare un suo possibile Padre, una vera e propria divinità di riferimento, uno spirito guida?
Quando esce dai pennelli di Haddon Sundblom (ricordiamolo, siamo ancora nel 1931…), Babbo Natale ha delle
caratteristiche che lo pongono già parecchi passi avanti rispetto alla Coca-Cola. La sua ubiquità richiama le aspirazioni della bibita ad essere distribuita in tutto il mondo
(passare dalla semplice mescita nelle “rivendite di bibite”
alla produzione industriale fu del resto una delle prime
grandi imprese dell’azienda); la benevolenza di Santa
Claus, inoltre, la sua disarmata quanto inattaccabile capacità di portare gioia e buonumore a grandi e piccini è il tra-
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
97
guardo che la Coca-Cola si proponeva di far tagliare al proprio impalpabile e radioso messaggio di paradiso in terra.
Così, se l’attuale versione di Santa Claus è effettivamente stata elaborata nei laboratori mitopoietici di Atlanta, è
pure vero che il “vecchio con la slitta” deve considerarsi
contemporaneamente una proiezione dei desideri e delle
velleità degli uomini che gli diedero luce. Dati una fisionomia e un vestito a un aggregato di energie scaturite dal
cuore postmoderno del mondo dei consumi, gettato in un
certo senso il cuore oltre l’ostacolo, la Coca-Cola dagli anni Trenta in poi cercò con successo di ridurre la distanza
che la separava dal proprio figlio-padre Santa Claus. La
parola d’ordine a quel punto diventava: universalità.
La seconda guerra mondiale fu l’occasione che permise
alla Coca-Cola di uscire massicciamente dai confini nazionali. Subito dopo la guerra, il piano Marshall diede all’azienda di Atlanta (così come anche ad altre multinazionali
americane) la possibilità di rafforzare le posizioni rocambolescamente conquistate durante gli anni del conflitto.
98
BABBO NATALE
La penetrazione della Coca-Cola in Europa non fu del
tutto indolore. La diffusione della bibita nel Vecchio Continente venne vissuta inizialmente come uno stupro culturale
oltre che una minaccia economica. I viticoltori francesi, per
esempio, temevano che l’invasione delle “nuove bibite analcoliche” potesse costituire una minaccia per la produzione
locale e cercarono di far mettere la Coca-Cola fuori legge
mentre su alcuni manifesti pubblicitari della bibita a Parigi
iniziarono a comparire da un giorno all’altro teschio e ossa
incrociate. Sul piano più squisitamente mediatico, «Le
Monde» denunciava i pericoli che la Coca-Cola poteva rappresentare per la “civiltà francese” paragonando la pubblicità della company alla propaganda nazista. A Cipro, dei
vandali sfregiarono con falce e martello alcune insegne della bibita. In Belgio, le associazioni dei birrai cercarono di acquistare gli impianti in franchising della Coca-Cola con il
proposito di rifiutarsi successivamente di produrre la bibita,
mentre in Italia i movimenti di sinistra provarono a diffondere vere e proprie leggende metropolitane: la Coca-Cola
faceva venire i capelli bianchi, era dannosa per la salute, provocava la colite. Si diffuse perfino la voce che a Lambach, in
Austria, gli stabilimenti per l’imbottigliamento della CocaCola nascondessero un arsenale nucleare degli Stati Uniti.
In Germania comparvero pamphlet diffamatori, uno dei
quali era intitolato: “Coca-Cola, Karl Marx e l’imbecillità
delle masse”, nel quale si spiegava come non la religione ma
la Coca-Cola doveva considerarsi ormai l’oppio dei popoli.
Alexander Makinsky, uomo chiave della company in terra
francese, parlò con preoccupazione di “maccartismo rovesciato”, aggiungendo che il miglior termometro per misurare i rapporti tra Stati Uniti e resto del mondo era rappresentato dal tasso di gradimento della Coke in terra straniera.
Anche fuori dall’Europa l’espansione della bibita fu salutata con iniziale sospetto. Nelle Filippine si diffuse la vo-
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
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ce che la Coca-Cola faceva cadere i denti. In Egitto, alcuni
integralisti islamici cercarono di far crollare le vendite della
bibita dichiarando che tra i suoi ingredienti c’era sangue di
maiale. In Giappone si riteneva che la Coca-Cola potesse
rendere sterili le donne, mentre in Brasile venne accusata di
provocare l’impotenza maschile e favorire i processi tumorali. E poi naturalmente l’Unione Sovietica che, vedendo
nella bibita uno dei simboli dell’imperialismo a stelle e strisce, cercava di conseguenza di screditarla con ogni mezzo.
Con la diffusione in gran parte del mondo dei codici
estetici e comunicativi e degli stili di vita che gli Stati Uniti sperimentavano da almeno un trentennio, la diffidenza
nei confronti della Coca-Cola era destinata ad affievolirsi e
poi a dissolversi quasi completamente. Ma questo non significa che gli uomini della company non abbiano fatto
nulla per agevolare il processo di assimilazione.
Una prima strategia messa a punto dalla Coca-Cola consistette nell’improntare l’ingresso nei nuovi territori al rispetto della cultura locale – il che, a ben vedere, non era un
atteggiamento molto diverso da quanto sperimentato in
Germania durante gli anni del nazismo dalla Coca-Cola
GmbH. Ecco allora che l’inaugurazione degli stabilimenti
di Cork, in Irlanda, fu accompagnata dalla benedizione di
un prete cattolico. Ecco che gli stabilimenti di Bangkok
vennero “santificati” da nove monaci vestiti di arancione, i
quali camminarono a piedi nudi per tutta la struttura tracciando una striscia di vernice dorata lungo le attrezzature e
sulla fronte degli operai. Agli italiani, gli uomini della CocaCola consigliavano di diluire la bibita nel vino. Nei Caraibi,
il tentativo di sposare la Coke alle bevande locali ebbe più
fortuna e così nacque il Cuba-Libre. Nel Sudafrica dominato dai bianchi, la company sponsorizzò le celebrazioni
per l’anniversario della sconfitta degli zulu. Alle Olimpiadi
100
BABBO NATALE
di Helsinki, nel 1952, la Coca-Cola regalò un distributore
automatico alla squadra russa per poi fotografare gli atleti
sovietici mentre bevevano la bibita. Anche la cortina di ferro, dovettero pensare con lungimiranza gli stati maggiori
della multinazionale, prima o poi sarebbe crollata.
In parallelo, la Coca-Cola arruolò per le proprie campagne pubblicitarie star dello sport (il che avrebbe dovuto
contribuire a fugare ogni sospetto sui pericoli per la salute
che l’assunzione della bibita poteva comportare) e uomini
di spettacolo, rendendo scientifico il rudimentale macchinario di captatio benevolentiae che molti anni prima Angelo Mariani aveva messo a punto per il suo celebre vino alla
cocaina.
Naturalmente non mancarono le ingerenze di tipo politico. Negli Stati Uniti, l’importanza che la bibita iniziava
ad avere sia sul piano economico che su quello simbolico
fu tale che i presidenti dell’Unione ebbero spesso nei confronti della company un rispetto che sfiorava la soggezione (quando nel 1952 Eisenhower conquistò la Casa Bianca, l’amicizia che legava il nuovo presidente a Robert
Woodruff era decisamente sbilanciata verso quest’ultimo
quanto a rapporti di forza e confronto di personalità, tanto che si ritenne di poter dire che a Washington sedesse
un uomo della company – il fatto che Woodruff avesse
preso a mandare lettere a Eisenhower iniziandole con un
ironico e affettuoso «Caro Capo…» può far capire molto
bene quale fosse la natura del loro rapporto). Ma anche
fuori dagli States la company seppe intrattenere rapporti
che andavano ben oltre la cordialità con i potenti del posto. Hussein di Giordania e Feisal, re dell’Iraq, si erano
mostrati molto ben disposti all’ingresso della bibita nel loro paese, come naturalmente Batista a Cuba. In Spagna,
alcuni stretti collaboratori di Franco avevano lavorato come imbottigliatori per la company, alla quale rimasero
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
101
sempre fedeli. James Farley, un ex membro del Partito
Democratico che nel 1932 aveva curato con successo la
campagna elettorale di Roosevelt e che adesso la CocaCola utilizzava per le proprie missioni diplomatiche all’estero, riuscì a diventare amico del dittatore brasiliano Getulio Vargas, di Somoza in Nicaragua, di Chiang Kai-shek
a Taiwan. Il risultato fu che, a metà degli anni Cinquanta,
la Coca-Cola poteva smettere di considerare come un sogno il proprio piano di espansione planetaria – un progetto che andava ben oltre la semplice crescita di fatturato,
tanto che tra gli uomini della company divenne celebre la
storiella dell’indiano messicano che non aveva mai sentito
parlare della seconda guerra mondiale ma alla parola
«Coca-Cola?» rispondeva con prontezza: «Coca-Cola? Es
perfecto, es magnifico!».
L’espansione della bibita funzionava dunque secondo
un meccanismo perfetto di “conversione”: avvicinarsi a
una cultura adottando una strategia mimetica (sia nei confronti dei governanti che delle masse) e poi cercare di assimilarla ai propri codici – un sistema che non è molto diverso dalle pratiche di evangelizzazione cattolica nel Terzo
Mondo e che s’inscrive nel più generale processo di cambiamento che stava portando l’Occidente “pesante” delle
prime epoche industriali a diventare l’Occidente “volatile”
in cui quasi tutti oggi viviamo.
Il percorso di “universalizzazione” di cui si è detto all’inizio del capitolo, e che avrebbe portato la Coca-Cola a ridurre le distanze dal suo spirito guida Santa Claus, può essere sintetizzato da due campagne pubblicitarie che segnarono l’immagine (e la potenza fagocitatrice) della bibita
negli anni Settanta e Ottanta.
Nel primo caso siamo proprio all’inizio del decennio: il
1971. Sono passati quattro anni dalla Summer of Love, tre
102
BABBO NATALE
dal Maggio francese e italiano, due soltanto dal concertone di Woodstock, che celebrando definitivamente il grande sogno del pacifismo e dello spirito hippie mostrò ai più
attenti il ciglio del burrone oltre il quale lo stesso peace and
love sarebbe diventato uno slogan come tanti appaltato alla società dello spettacolo. Era il periodo di Let It Be, di Simon & Garfunkel, delle prime sbornie new age spacciate
per spiritualismo di orientamento buddhista, ma anche lo
stretto giro di boa cronologico oltre il quale non riuscirono a passare Jim Morrison, Janis Joplin e Jimi Hendrix, tre
pesi massimi della cultura alternativa scomparsi prematuramente proprio nel 1971.
La Coca-Cola riuscì a cogliere nei movimenti giovanili
che avevano infiammato il decennio i due elementi che più
potevano farle gioco: la pretesa di essere i depositari di un
messaggio universale e, appunto, la circostanza del tutto
transitoria di avere meno di trent’anni. Nelle mani della
company, il “grande sogno di cambiamento” che aveva illuso una generazione (e avrebbe bruciato la successiva) divenne pura suggestione estetica, venne cioè svuotato di tutte le sue contraddizioni e asperità, dunque dei suoi residui
di vita. Di conseguenza riuscì ad essere eternato in quel presente parallelo ma totalmente immateriale che, come abbiamo detto, rappresenta il continente dal quale le multinazionali muovono alla conquista dei cittadini-consumatori.
Il set che la Coca-Cola scelse per questa campagna pubblicitaria fu un paesaggio molto suggestivo della Toscana
(una sorta di Chiantishire ante litteram). Più di duecento
giovani provenienti da ogni angolo del mondo, appartenenti a ogni razza e opportunamente vestiti coi propri costumi nazionali, arrivarono in Italia centrale e vennero fatti
disporre sulla sommità di una collina formando una piramide rovesciata all’insegna della solidarietà, della pace, dell’amore tra i popoli. Ciascuno stringendo la propria botti-
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
103
glia di Coca-Cola, i ragazzi cantavano con un fervore commovente e lobotomico al tempo stesso: «I’d like to buy the
world a home and furnish it with love / Grow apple trees and
honey bees / And snow white turtle doves…», per continuare verso il momento clou di questo jingle francescano in
chiave beat: «I’d like to teach the world to sing in perfect
harmony / I’d like to buy the world a Coke / And keep it
company / That’s the real thing… / What the world wants
today is Coca-Cola / Is the real thing» (‘Vorrei comprare una
casa al mondo e arredarla con amore / Coltivare alberi da
mele e api da miele e tortore bianche come la neve… / Mi
piacerebbe insegnare al mondo a cantare in perfetta armo-
104
BABBO NATALE
nia. / Mi piacerebbe comprare una Coke al mondo e tenergli compagnia. / Ecco una cosa vera… / Quello che il mondo vuole oggi è Coca-Cola / È la cosa vera’).
Inaugurata nell’estate del 1971, la pubblicità ebbe subito un successo strepitoso. La company fu sommersa da oltre centomila lettere di apprezzamento. Il 45 giri della canzone, registrato e distribuito in tempi record, sbancò i botteghini dei negozi di dischi. Se fino all’inizio dei Cinquanta gli stati maggiori di Atlanta discutevano sull’opportunità
di mostrare negli spot della Coca-Cola persone di colore,
questo ostacolo era stato completamente polverizzato
vent’anni dopo all’insegna dell’espansione multinazionale
più che della cultura multirazziale. Nessuno sembrò scandalizzato dal fatto che una bibita avesse la pretesa di salvare il mondo. Eppure la natura totalitaria di un messaggio
che come al solito vampirizzava lo spirito dei tempi per declinarlo in chiave aziendal-escatologica era abbastanza
chiara e tanto più irritante perché schermava il sogno (assolutamente realizzabile) di colonialismo culturale da parte di un marchio commerciale con quello (del tutto utopico) della pace e della fratellanza tra tutti gli esseri umani
del pianeta.
Trent’anni dopo, la natura perversa di questi progetti
comunicativi verrà completamente a galla. Toccherà a un’azienda italiana (la società di telecomunicazioni Telecom) e
a un sedicente regista progressista (Spike Lee) concepire la
pubblicità che più di ogni altra darà punti alla massima secondo la quale la strada dell’imperialismo sarebbe lastricata di buone intenzioni.
Al centro della campagna Telecom partita nell’autunno
del 2004 c’è niente meno che Gandhi. Un celebre discorso
del Mahatma viene diffuso contemporaneamente da tutti i
mezzi di comunicazione del pianeta. Nello spot si vedono
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
105
folle oceaniche convergere verso Times Square, verso Piccadilly Circus, sulla Piazza Rossa e rimanere in raccoglimento davanti a maxischermi occupati dall’inconfondibile figura di Gandhi – immagine che nello stesso tempo si
manifesta sui display dei telefonini, sugli schermi dei computer, nelle televisioni di ogni luogo civilizzato. A questo
punto compare uno slogan che recita: «Che mondo sarebbe se avesse potuto comunicare in questo modo?», e che
non può essere metabolizzato con cognizione di causa senza sentire scorrere un brivido lungo la schiena.
Basta togliere infatti dalla pubblicità della Telecom
l’immagine di Gandhi e mettere al suo posto quella di Hitler, o di Stalin, o di Pol Pot e chiedersi «che mondo
avremmo oggi, se avessero potuto comunicare in questo
modo?» per rendersi conto che qualunque pensiero – fos-
106
BABBO NATALE
se anche quello del Mahatma o di san Francesco – nel momento in cui monopolizza i media di tutto il mondo diventa già pericolosamente “pensiero unico”. E l’amore
per un “pensiero unico” è proprio quello che, neanche
troppo sotterraneamente, viene espresso dallo spot di
Spike Lee, un pensiero che non ha più niente a che fare
con quello di Gandhi, nulla con quello di Stalin, di Hitler
o di Pol Pot, e che ammantandosi dietro le ideologie del
Novecento le supera da destra e da sinistra celebrando
semplicemente la forza totalizzante (e già totalitaria) del
Moloch mediatico messo al servizio di un apparato tecnico-produttivo capace di sovrastare qualunque vera individualità nel tentativo di ridurre ogni singolo vivente ad appendice di un Sistema. La commozione verso cui siamo
naturalmente spinti dalla natura ricattatoria dello spot –
pur consapevoli della sua ipocrisia – è alimentata dal senso di originario scoramento davanti al quale ci troviamo
ogniqualvolta veniamo messi, più o meno fraudolentemente, di fronte all’ipotesi di un paradiso perduto: «Che
vita sarebbe stata, la nostra, se non avessimo vissuto sulla
Terra e non fossimo appartenuti al genere umano?».
La “magica armonia” di cui cantavano i ragazzi della
Coca-Cola fraternamente riuniti trent’anni prima tra i colli toscani esprime in realtà – per chi continui ancora a credere nelle capacità di affrancamento che possono fare di
un aggregato cellulare un individuo – un agghiacciante desiderio di ordo ad unum, un luminoso messaggio di amore
direttamente proveniente dai secoli bui, diretto a tutti gli
uomini di buona volontà.
Dodici anni dopo, siamo nel 1982, la Coca-Cola mette a
punto un’altra campagna pubblicitaria capace di rafforzare la propria vis teocratica senza che, per farlo, ci sia più
neanche il bisogno di adagiarsi parassitariamente su una
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
107
cultura o un immaginario preso dal “mondo esterno” (vale a dire dal mondo reale).
Al termine di un anno di ricerche che avevano pochi
precedenti nelle già ponderatissime campagne della bibita e di infinite prove sui consumatori, John Bergin, un
pubblicitario di grande esperienza che aveva lavorato per
la concorrente Pepsi-Cola, presentò agli uomini di Atlanta uno spot culminante con uno slogan che rasentava la
perfezione quanto a sintesi e capacità di impatto. Nella
pubblicità – lanciata in contemporanea sulle più importanti reti televisive americane il 4 febbraio 1982 – veniva
mostrato un raduno di incoraggiamento prima di una partita di football o, alternativamente, una festa di compleanno a sorpresa, un’esibizione di ballerini, il primo piano
dell’attore comico Bill Cosby intento a intrattenersi confidenzialmente con il suo pubblico. Al termine di ognuno
di questi spot, partiva lo slogan «Coca-Cola è!» («CocaCola is it!»), così, semplicemente, senza niente da aggiungere.
L’intento di John Bergin e dei suoi committenti era stato quello di “non essere troppo precisi”, non troppo “descrittivi o letterali”, lasciando al consumatore il compito
di completare la frase e dunque la supposta libertà di decidere – infilandosi nell’impossibile spazio tra la sua conclusione e il punto esclamativo –, a seconda di quale fosse
il proprio stato d’animo, che cosa la Coca-Cola precisamente fosse.
Il meccanismo psicologico che scattava nella testa dei
telespettatori davanti al messaggio «Coca-Cola è!» era in
realtà molto diverso. La bibita era riuscita nel corso degli
anni a crearsi intorno una narrazione talmente potente e
pervasiva che la libertà interpretativa dei destinatari dello
spot restava chiusa nella griglia emozionale costruita dagli
uomini della company. Qualunque cosa la Coca-Cola aves-
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BABBO NATALE
se potuto essere, non sarebbe mai riuscita a sovvertire il
messaggio di gioia impalpabile, inesprimibile voglia di vivere, astratta felicità prêt-à-porter che ormai la bibita rappresentava in tutto il mondo. La fortuna della campagna
pubblicitaria testimoniava il successo con cui la company
era riuscita a creare un proprio immaginario, una propria
narrazione, un’epopea talmente coerente, funzionante e
centripeta da riuscire ad assorbire (e, ancora una volta, convertire ai propri codici e alla propria poetica) tutte le possibili declinazioni della frase: «Coca-Cola è!».
Negli anni Cinquanta i vertici della Coca-Cola collaborarono per qualche tempo con quella che gli stessi uomini
di Atlanta chiamavano scherzosamente “squadra degli abissi”. Si trattava di un team di psicologi, antropologi, sociologi che, strappati per qualche tempo ai propri studi professionali o alle proprie aule universitarie, offrirono i loro servigi alla multinazionale nel tentativo di comprendere quali fossero i meccanismi inconsci che spingevano la gente ad
acquistare un prodotto piuttosto che un altro. Sull’onda di
questo nuovo approccio alle tattiche di espansione commerciale, la Coca-Cola si affidò anche alla Subliminal
Projection Company facendo partire un breve progetto
sperimentale che consisteva nell’inserire messaggi subliminali durante la proiezione di film nelle sale cinematografiche – il messaggio in questione era semplicemente «CocaCola», durava tre millesimi di secondo e veniva proiettato
sullo schermo ogni cinque secondi per tutta la durata dello spettacolo.
Nonostante le rassicurazioni della Subliminal Projection
Company sull’efficacia del progetto, gli uomini della CocaCola decisero di abbandonare piuttosto in fretta gli esperimenti a base di pubblicità subliminale. Dovevano aver ca-
9. LA CONQUISTA DELLA TERRA
109
pito in qualche modo che la manipolazione del pensiero
non seguiva più strade sotterranee ma percorsi aerei. Sapevano cioè che le cosiddette società del consumismo avanzato erano già qualche passo in avanti rispetto alle teorie di
Freud e, più vicine all’Arcobaleno della gravità di Thomas
Pynchon – sebbene all’epoca non fosse stato ancora scritto
– che all’Interpretazione dei sogni, avevano nel proprio inconscio uno specchio perennemente in fieri del mondo
esterno più che un pozzo di abissale chincaglieria.
Era tutto lì fuori, vale a dire, sempre a portata di mano.
Così come lì fuori, nel firmamento unico di tutte le città
del pianeta, Babbo Natale continuava a volteggiare sulla
sua slitta chiudendo in sé desideri, inclinazioni e proiezioni di qualche miliardo di esseri umani.
10. Uno spettro si aggira per l’America
Avevamo lasciato i resti di san Nicola vaganti per la palude dell’Europa riformata alla ricerca di una nuova identità. Li avevamo visti confondersi con un Gesù Bambino dispensatore di doni, creato per pure ragioni di querelle religiosa, e con un Papà Natale che raccoglieva miti e leggende
del Nord Europa precristiano. Questa creatura di Frankenstein, impegnata a perdere pezzi con la stessa incontrollabile velocità con cui ne guadagnava di nuovi, iniziò a ritrovare un’identità stabile solo nel Nuovo Continente.
Furono gli olandesi, nel XVII secolo, quando venne fondata Nuova Amsterdam (poi New York), a importare negli Stati Uniti ciò che restava del vescovo di Mira. Ancora
una volta – e questa, forse, tra le sopravvivenze del vecchio
Nicola, è la più dura a morire e la più facile a cambiare abito lungo il suo secolare percorso – sono le pure e semplici
esigenze commerciali a costruire il ponte attraverso cui il
protettore dei pellegrini troverà una nuova casa.
Dall’Olanda cominciarono infatti a venire importati negli States i cosiddetti “biscotti di San Nicola”, la cui diffusione, soprattutto a New York, era uno dei sistemi con cui
gli olandesi d’Europa intrattenevano rapporti economici
con i loro fratelli d’oltreoceano ai quali veniva data in questo modo anche l’opportunità di “sentire” una continuità
culturale con il proprio paese di origine (allo stesso modo,
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
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gli irlandesi traslarono per esempio nel Nuovo Continente
le tradizioni legate a san Patrizio e gli scozzesi fecero la
stessa cosa con sant’Andrea…) – anche se si sa: innestare
una vecchia tradizione in un contesto nuovo significa inevitabilmente candidarla a un cambiamento.
I biscotti di San Nicola si legavano come detto a quelle
ricorrenze che si diffusero per tutto il Nord Europa a partire dall’XI secolo. Si trattava di frollini che riproducevano
l’immagine del santo in abiti vescovili e che, nell’America
di fine Settecento, trovavano come sempre il loro momento di maggiore diffusione e consumo tra Natale e Capo-
danno. Nella comunità olandese di Manhattan si era infatti diffusa l’abitudine, poi estesa anche alle altre enclave, di
scambiarsi in prossimità del Capodanno regali di natura
alimentare: tè, sherry, cognac e, appunto, biscotti di importazione europea. Lo scambio avveniva nel corso di
party che potevano considerarsi i pronipoti dei riti inver-
112
BABBO NATALE
nali della fertilità. Mentre in quest’ultimo caso si trattava di
offrire doni alle potenze invernali per placare la loro forza
mortifera e salvare i raccolti, nella Manhattan del XVIII e
XIX secolo le luci, i balli, la musica, lo scambio di doni e il
consumo di beni voluttuari erano di buon auspicio per la
nuova avventura in cui gli immigrati europei si stavano coraggiosamente lanciando, un’avventura che aveva il benessere come obiettivo e l’economia di mercato – il piccolo e
il grande commercio – come febbrile, pericoloso, eccitante ma soprattutto unico sistema per raggiungerlo.
Trasportato da un continente all’altro, ma soprattutto da
un sistema economico (prevalentemente agricolo) a un altro (la nascente economia di consumo), lo strano aggregato
culturale che ancora ci si ostinava a identificare come san
Nicola, già provato dai cambiamenti degli ultimi secoli, era
destinato a perdere altri elementi che lo legavano alle sue
vecchie origini. Primo fra tutti il nome. Nel ribollire delle
diverse enclave e nei continui travasi culturali ed economici di quello che sarebbe diventato il melting pot, a Santa
Claus si giunse attraverso la corruzione fonetica non dell’olandese Sinterklaes (come sarebbe stato più logico, dal momento che gli immigrati provenienti dalla Germania erano
molti meno rispetto agli olandesi) ma del tedesco Sankt
Herr Nikolaus. Anche la data della sua festa venne fuori
dalla lotteria delle commistioni culturali di cui Santa Claus
si era nutrito e che ora si approssimava a sintetizzare per
procurarsi un’identità stabile: si oscillò tra il 6 dicembre
(giorno di San Nicola), il 28 (giorno degli Innocenti), il 6
gennaio (giorno dell’arrivo a Betlemme dei Magi, dispensatori di doni anch’essi) finché fu Kris Kringle, il Gesù Bambino riformato che, nell’atto di abbandonare un monopolio mai realmente posseduto sulla distribuzione di doni nel
periodo invernale, regalò a Santa Claus il 25 dicembre, che
da quel momento divenne un particolarissimo luogo di
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
113
coabitazione tra il dio cristiano e il campione del consumismo. Una coabitazione che vedrà i due inquilini – divisi
dalla propria dottrina di riferimento – condividere oltre al
giorno del calendario anche un messaggio di salvezza.
Se fino alla fine del XVIII secolo la presenza di Santa
Claus nella vita pubblica newyorkese viene affidata alla
spontanea vivacità degli immigrati nordeuropei – un periodo poco documentabile, e quindi avvolto in un mistero
le cui nebbie si diradano a fatica solo con gli strumenti dell’induzione, così come pochissimo documentati sono del
resto i primi anni di san Nicola nella Patara del III secolo
dopo Cristo –, lo stadio successivo della sua diffusione negli Stati Uniti passa per situazioni finalmente “ufficiali”.
Il primo a inserire San Nicola/Santa Claus tra le ricorrenze del calendario newyorkese fu John Pintard, patriota
e antiquario di origini ugonotte che lo ospitò in un almanacco della città da lui redatto nel 1793. Qualche anno dopo Pintard fondò la New York Historical Society, nell’ambito della quale, col tentativo probabilmente di dare un patrono alla città, il giorno di San Nicola/Santa Claus cominciò ad essere regolarmente osservato come festa religiosa
(quel 6 dicembre fragile come il guscio di un uovo che Santa Claus avrebbe infranto e abbandonato molto presto).
Nelle stampe che la New York Historical Society diffuse a partire dal 1810, Santa Claus ha ancora un piede nelle
vecchie tradizioni popolari, dal momento che viene raffigurato in abiti vescovili e il suo ruolo di dispensatore di
doni non risulta ancora del tutto scisso da quello “punitivo” (il santo-quasi-non-più-santo è raffigurato accanto a
un caminetto acceso da cui pendono una calza piena di doni e un’altra invece carica di fruste). Ma, mentre la New
York Historical Society si ostinava a costringere Santa
Claus tra le maglie di san Nicola, fu proprio un suo mem-
114
BABBO NATALE
bro, lo scrittore Washington Irving, a provocare una frattura decisiva tra le due figure.
Nato a New York nel 1783, relativamente poco conosciuto in Europa (qualche riverbero della sua opera ci è arrivato ultimamente grazie alla trasposizione cinematografica della Leggenda di Sleepy Hollow firmata da Tim Burton), Irving viene considerato uno dei padri della letteratura nordamericana. Nel 1809, dopo un esordio come
scrittore satirico, confermò brillantemente quest’attitudine
con la pubblicazione della Knickerbocker’s History of New
York, una storia della città attribuita a un immaginario studioso olandese-americano (Dietrich Knickerbrocker, per
l’appunto), nella quale la società dell’epoca veniva amabilmente parodiata. Nelle intenzioni di Irving, la Knickerbocker’s History of New York sarebbe dovuta essere una
versione satirica di una guida alla storia della città precedentemente pubblicata da Samuel L. Mitchell, ma a distanza di anni venne riconosciuto il suo valore autonomo
tanto che oggi è considerata la prima importante testimonianza della letteratura umoristica americana.
Molte pagine del libro di Irving (che, come detto, aveva
a che fare da vicino con la nascente mitologia statunitense
in quanto membro della New York Historical Society), sono dedicate a Santa Claus. La sua versione del personaggio
prende le mosse da una leggenda secondo la quale una statua di Sinterklaes, fissata alla prua di una nave olandese appena giunta nel porto di New York, avrebbe preso vita librandosi per i cieli della città su un carro trainato da un cavallo e carico di doni che, dai tetti delle case, venivano consegnati ai bambini facendoli cadere giù per l’imboccatura
dei camini.
Sotto la spinta del successo della Knickerbocker’s History
of New York, altre pubblicazioni ripresero il Santa Claus di
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
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Irving e continuarono a rielaborarlo secondo canoni estetici sempre più vicini all’immaginario del nuovo paese d’adozione – il carro si trasformò in una più suggestiva slitta;
il cavallo, che a sua volta era una rivisitazione del “mulo”
di Nicodemo, diventò una renna; alla singola renna ne
vennero aggiunte altre sette, probabilmente per dare l’impressione di un “servizio” più rapido ed efficiente. Si arriva in questo modo al 1822, quando un altro scrittore, il
professor Clement Clark Moore, sicuramente meno dotato di Washington Irving, diede alla progressiva cristallizzazione di Santa Claus un contributo anche maggiore rispetto a quanto aveva fatto il suo più illustre collega.
Nato nel 1779 a Chelsea, New York, Clement Clark Moore aveva al suo attivo un considerevole numero di pubblicazioni sugli argomenti più disparati (tra cui persino un dizionario ebraico), quando, all’età di trentatré anni, decise
di buttare giù un testo che sarebbe dovuto rimanere inedito ma che finì invece per costituire la più solida delle basi
su cui continuare a fabbricare il mito di Santa Claus.
La vigilia di Natale del 1822, vale a dire, Clement Clark
Moore scrisse una filastrocca con il semplice scopo di leggerla ai suoi bambini subito dopo il cenone. Per quanto
breve, il testo piacque a un editore locale da cui Moore si
lasciò convincere a pubblicarlo con il titolo: A Visit from St
Nicholas. La filastrocca riscosse un buon successo tra gli
abitanti di New York, tanto che pochi anni dopo fu ristampata prima nel New Jersey, poi in Pennsilvanya, infine
in tutti gli Stati Uniti diventando il testo di riferimento per
la favola di Santa Claus. Come si può vedere dal testo, in A
Visit from St Nicholas sono presenti tutti gli elementi che,
dirozzati, lucidati e introdotti infine nell’organo cavo dei
mass media, avrebbero diffuso in tutto il mondo la favola di
Babbo Natale:
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BABBO NATALE
T’was the night before Christmas,
when all through the house
Not a creature was stirring, not even a mouse;
The stockings were hung by the chimney with care,
In hopes that St Nicholas soon would be there.
The children were nestled all snug in their beds,
While visions of sugar-plums danced in their heads;
And mamma in her ’kerchief, and I in my cap,
Had just settled down for a long winter’s nap,
When out on the lawn there arose such a clatter,
I sprang from the bed to see what was the matter.
Away to the window I flew like a flash,
Tore open the shutters and threw up the sash.
The moon on the breast of the new-fallen snow
Gave the lustre of mid-day to objects below,
When, what to my wondering eyes should appear,
But a miniature sleigh, and eight tiny reindeer,
With a little old driver, so lively and quick,
I knew in a moment it must be St Nick.
More rapid than eagles his coursers they came,
And he whistled, and shouted, and called them by name;
«Now, DASHER! now, DANCER! now, PRANCER and VIXEN!
On, COMET! on CUPID! on, DONDER and BLITZEN!
To the top of the porch! to the top of the wall!
Now dash away! dash away! dash away all!».
As dry leaves that before the wild hurricane fly,
When they meet with an obstacle, mount to the sky,
So up to the house-top the coursers they flew,
With the sleigh full of toys, and St Nicholas too.
And then, in a twinkling, I heard on the roof
The prancing and pawing of each little hoof.
As I drew in my hand, and was turning around,
Down the chimney St Nicholas came with a bound.
He was dressed all in fur, from his head to his foot,
And his clothes were all tarnished with ashes and soot;
A bundle of toys he had flung on his back,
And he looked like a peddler just opening his pack.
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
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His eyes – how they twinkled! his dimples how merry!
His cheeks were like roses, his nose like a cherry!
His droll little mouth was drawn up like a bow,
And the beard of his chin was as white as the snow;
The stump of a pipe he held tight in his teeth,
And the smoke it encircled his head like a wreath;
He had a broad face and a little round belly,
That shook, when he laughed like a bowlful of jelly.
He was chubby and plump, a right jolly old elf,
And I laughed when I saw him, in spite of myself;
A wink of his eye and a twist of his head,
Soon gave me to know I had nothing to dread;
He spoke not a word, but went straight to his work,
And filled all the stockings; then turned with a jerk,
And laying his finger aside of his nose,
And giving a nod, up the chimney he rose;
He sprang to his sleigh, to his team gave a whistle,
And away they all flew like the down of a thistle.
But I heard him exclaim, ere he drove out of sight,
«HAPPY CHRISTMAS TO ALL, AND TO ALL A GOODNIGHT».
Era la notte prima di Natale e in tutta la casa regnava
[il silenzio,
niente si muoveva, neppure un topo.
Le calze, appese ordinate davanti al camino,
aspettavano che san Nicola arrivasse.
I bambini accoccolati al calduccio nei loro lettini
sognavano dolcetti e zuccherini.
La mamma, avvolta nel suo scialle e io col mio berretto
stavamo per andare a dormire
quando, dal giardino di fronte alla casa, giunse un rumore.
Corsi alla finestra per vedere,
spalancai le imposte e alzai il saliscendi.
La luna sul manto di neve appena caduta
illuminava ogni cosa come se fosse giorno
e io vidi, con mia grande sorpresa,
una slitta in miniatura tirata da otto minuscole renne
118
BABBO NATALE
e guidata da un piccolo vecchio arzillo e vivace;
capii subito che doveva essere St Nick.
Le renne erano più veloci delle aquile
e lui le incitava chiamandole per nome.
«Forza, SAETTA! Forza, BALLERINO!
Forza, RAMPANTE e BIZZOSO!
Dai, COMETA! Dai, CUPIDO! Dai, TUONO e TEMPESTA!
Su in cima al portico e su per la parete!
Avanti presto, muovetevi!».
Leggere come foglie portate dal vento,
le renne volarono sul tetto della casa,
trainando la slitta piena di giocattoli.
Sentii lo scalpiccio degli zoccoli sul tetto,
non feci in tempo a voltarmi che
san Nicola arrivò giù dal camino con un tonfo.
Era tutto vestito di pelliccia, da capo a piedi,
sporco di cenere e fuliggine
con un gran sacco sulle spalle pieno zeppo di giocattoli:
sembrava un venditore ambulante
sul punto di mostrare la mercanzia!
I suoi occhi come brillavano! Le sue fossette che gioia!
Le guance rubiconde, il naso a ciliegia!
La bocca piccola e buffa piegata in un sorriso,
la barba bianca come la neve,
teneva in bocca una pipa
e il fumo circondava la sua testa come una ghirlanda.
Il viso era largo e la pancia rotonda
sobbalzava come una ciotola di gelatina quando rideva.
Era paffuto e grassottello, metteva allegria,
e senza volerlo io scoppiai in una risata.
Mi fece un cenno col capo ammiccando
e la mia paura svanì,
non disse una parola e tornò al suo lavoro.
Riempì una per una tutte le calze, poi si voltò,
accennò un saluto col capo e sparì su per il camino.
Saltò sulla slitta, fece un fischio alle renne
e volò via veloce come il piumino di un cardo.
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
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Ma prima di sparire dalla mia vista lo sentii esclamare:
«BUON NATALE A TUTTI E A TUTTI BUONANOTTE!».
Nonostante Clement Clark Moore parli ancora di «St
Nick», è chiaro che il protagonista della filastrocca non ha
più niente a che fare con il Nicola della tradizione cattolica e ortodossa, e pochissimo ormai pure con le contaminazioni successive alla Riforma. Siamo di fronte insomma al
primo documento veramente importante che testimonia il
suo processo di “americanizzazione”. È invece motivo di
dibattito se le renne, la slitta e soprattutto l’abito con i bordi di pelliccia che liquidava definitivamente i paramenti
vescovili debbano essere attribuiti all’estro di Clement Clark
Moore o rappresentino la rielaborazione di altre favole, filastrocche, storielle pubblicate con minore diffusione e
fortuna negli anni precedenti al 1822.
Pare, ad esempio, che le renne fossero già presenti in
The Children’s Friend, un piccolo libro per l’infanzia di autore sconosciuto pubblicato poco prima di A Visit from St
Nicholas e che Moore finì piuttosto arbitrariamente con
120
BABBO NATALE
l’attribuirsi. Ma, anche a trovare e riordinare i documenti
da cui si riesca a evincere chi per primo portò sulla pagina
le mutazioni che St Nicholas aveva registrato in terra americana negli ultimi decenni, non si riuscirebbe comunque a
stabilire in modo troppo circostanziato in quale occasione,
in quale ricorrenza, dopo quale episodio di preciso questi
cambiamenti si siano verificati all’interno del molle, eterogeneo e fertilissimo corpus sociale che era la New York di
quel periodo. Come per tutte le leggende che si rispettino,
la scintilla del Big Bang, il vero momento aurorale di Santa Claus (la barba si fa bianca, la figura longilinea inizia a
gonfiarsi, il cavallo partorisce otto renne, il carro si trasforma in una slitta…) è destinato a conservare una grossa percentuale di insondabilità.
Se con il libro di Irving e la filastrocca di Moore Santa
Claus, al pari dei suoi predecessori, si poteva considerare
provvisto di un’anima sempre più definita (e invocabile da
migliaia di adepti o semplici simpatizzanti), il corpo del
personaggio – vale a dire l’apparato iconografico capace di
dargli una dimensione visiva e quindi una sicura riconoscibilità – mancava. È vero, nei versi di Moore si parla di un
«piccolo vecchio arzillo e vivace», «vestito di pelliccia»,
con gli occhi che «brillavano», le «guance rubiconde», il
«naso a ciliegia», «la barba bianca come la neve», la «pancia rotonda», la pipa in bocca. Ma la slitta è una «slitta in
miniatura», le renne «otto minuscole renne» e St Nick arriva nella casa del narratore calandosi giù per il camino. Di
conseguenza, ancora sprovvisto di un’immagine visiva
condivisa, il Santa Claus di Moore potrebbe benissimo essere un folletto, uno spirito silvano, un personaggio che si
allontana sì dall’austera dimensione dei vescovi orientali
ma è ancora troppo vicino alle creature fantastiche dei miti e delle leggende nordeuropee, come del resto testimonia
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
121
l’illustrazione di F.O.C. Darley per A Visit from St Nicholas, un disegno tanto celebre (era una delle prime rappresentazioni grafiche in cui del san Nicola cristiano non restava più traccia) quanto transitorio, destinato a venire a
sua volta seppellito da nuove versioni di Santa Claus.
Se Washington Irving e Clement Clark Moore raccolsero il febbrile lavoro di rielaborazione che la società newyorkese aveva compiuto su Santa Claus tra XVIII e XIX secolo
per scagliarla come un sasso contro la vecchia icona del vescovo di Mira – in modo che il “doppio” si separasse dalla
propria massa originaria acquistando finalmente vita autonoma – toccò a Thomas Nast, probabilmente il più celebre
vignettista americano dell’Ottocento, conferire a Babbo
Natale un volto e una fisionomia capaci di resistere nel tempo, almeno fino a quando Haddon Sundblom, per conto
della Coca-Cola, non scaverà nell’immagine del portatore di
doni le stimmate di una paurosa definitività.
A partire dal 1863 Nast iniziò a produrre una serie di
disegni natalizi per «Harper’s Weekly» in cui Babbo Nata-
122
BABBO NATALE
le appariva già molto simile al futuro testimonial della
Coke. Nast era di origini bavaresi, ma nel dare una fisionomia a Santa Claus cercò di sbarazzarsi di quanto offriva
l’immaginario nordeuropeo con una forza uguale e contraria a quella che lo portava a integrarsi nel suo paese d’adozione. Niente folletti, dunque, niente gnomi o spiriti dei
boschi: il suo Babbo Natale era finalmente un uomo tra altri uomini (un cittadino americano più cittadino degli altri,
probabilmente), un grosso e gioviale signore barbuto vestito di rosso che – pur ricordando il padre dello stesso Nast,
suonatore di trombone nell’esercito bavarese imbarcatosi
con la famiglia molti anni prima su un bastimento per New
10. UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L’AMERICA
123
York – era certamente più vicino a un desiderio di benessere, di felicità, di spreco che gli Stati Uniti sentivano ormai alla loro portata e che la mole, la “prossimità pur nella magia”, la dimensione fisica del nuovo elargitore di doni rendeva quasi tangibile. Alle caratteristiche che abbiamo visto, venne ad aggiungersi in questo periodo la residenza polare di Santa Claus – una circostanza suggerita
dalla slitta e dalle renne, certo, ma forse anche da un desiderio di conquista che porterà qualche anno dopo Robert
Peary a piantare la bandiera a stelle e strisce al centro del
continente artico.
I disegni di Thomas Nast ebbero un successo travolgente e contagioso. Santa Claus iniziò a venire riprodotto
sulle milioni di Christmas cards che viaggiavano da un lato
all’altro degli Stati Uniti con l’approssimarsi del Natale,
trovò spazio sui libri per bambini, divenne parte di un
meccanismo commerciale su vasta scala (fece il suo ingresso nei grandi magazzini e dunque cominciò a sfilare per la
Fifth Avenue come sulle strade principali dei paesini di
provincia, prestò il nome ad aziende di giocattoli – la
North Pole Home of Santa’s Workshop, per esempio) che
lo portò rapidamente a diventare il personaggio-chiave del
Natale americano.
In questo modo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento uno spettro si aggirava per l’America, era vestito di rosso ma non aveva niente a che fare con la furia bolscevica che nel Vecchio Continente si illuse di poter cambiare il mondo in dieci giorni. Il miracolo che questo spettro riuscì a compiere consistette invece nel diffondersi tra
tutti i gruppi etnici e sociali che formavano gli Stati Uniti,
dai quali venne accolto a braccia aperte, a dispetto delle
differenze di razza, di ceto, di opinione politica, di provenienza geografica. Ereditando in una situazione completa-
124
BABBO NATALE
mente nuova la funzione iniziatica di san Nicola, Babbo
Natale contribuì dunque all’impresa di realizzare l’integrazione culturale dei nuovi arrivati – tutta nel segno del benessere nel mondo dei consumi – i quali sperimentavano
un passaggio di status decisivo: da ex schiavi, o immigrati
tedeschi o olandesi o italiani o irlandesi, a partecipi, tutti
quanti insieme (pure da blocchi di partenza in certi casi
lontanissimi, minati da discriminazioni che avranno ancora
molto tempo avanti a sé prima di cominciare ad attenuarsi), del sogno americano.
Raggiunta una simile dimensione, un simile valore e una
tale forza, era evidentemente necessario che la figura di
Santa Claus trovasse una collocazione ancora più stabile.
Se XVIII e XIX secolo lo avevano prima staccato dalle sue
origini e poi rafforzato in una nuova identità, serviva adesso una patina di vernice impermeabile, un’armatura scintillante che avrebbe dovuto impedirgli di candidarsi a nuovi cambiamenti consentendogli così di reiterare il suo messaggio in una dimensione circolare, ipnotica, tautologica,
infinita – il passato non esiste mentre il presente si candida
come l’unica dimensione narrativa consentita. A tutto questo, come detto, provvederà la Coca-Cola.
11. Christmas before Nightmare
Con la fine della seconda guerra mondiale non sarà solo la Coca-Cola a realizzare in pieno la propria vocazione
internazionale. Il medesimo destino toccherà infatti a Santa Claus.
Il piano Marshall ha ricostruito l’Europa, ma è stato anche lo strumento attraverso il quale il Vecchio Continente
ha saggiato in casa propria l’esito di un esperimento intrapreso pochi secoli prima al di là dell’oceano. I puristi della parola Heimat hanno guardato con angoscia a quegli anni, leggendoli come il principio di uno stupro culturale
perpetrato dagli Stati Uniti a danno dell’Europa. Ma, più
che di una gigantesca opera di colonizzazione (o peggio, di
aggressione), si può parlare forse di un riflusso inevitabile,
un movimento di ritorno. Il caso di Santa Claus, ad esempio, può assimilarsi con qualche grossolanità a quello di un
figlio che, mandato all’estero per molti anni, viene riaccolto in casa da genitori che con sconcerto riconoscono a malapena il sangue del proprio sangue.
Così come accadde per la Coca-Cola, l’ingresso di Santa Claus in Europa subito dopo la fine della guerra fu salutato con sospetto se non con vero e proprio allarme. Negli
ambienti ecclesiastici e in quelli che ancora sognavano la
supremazia mondiale del Vecchio Continente perlomeno
sul piano culturale, la diffusione di Santa Claus venne con-
126
BABBO NATALE
siderata una minaccia. Tra i vari episodi di “resistenza”, il
più importante (quanto meno a livello simbolico) rimane
quello riportato anche da Lévi-Strauss nel suo piccolo ma
prezioso saggio Babbo Natale giustiziato.
Si tratta di un fatto di cronaca verificatosi in Francia nel
1951, su cui la stampa e l’opinione pubblica ebbero modo
di dibattere a lungo. Il successo con cui anche in terra transalpina Santa Claus andava diffondendosi togliendo gradualmente la scena a figure di più lunga tradizione fu interpretato come un sintomo della paganizzazione delle festività natalizie. La Chiesa protestante si unì una volta tanto
alle gerarchie cattoliche tuonando contro una coabitazione
(quella del 25 dicembre) per descrivere la quale si ricorreva
sempre più frequentemente alla metafora del cuculo che
occupa un nido altrui a scopi usurpativi. La polemica si riscaldò con l’avvicinarsi del Natale e sulle pagine dei giornali
vennero accolte le opinioni più disparate – i lettori, in particolare, si dimostrarono generalmente ostili alle posizioni
ecclesiastiche, a testimonianza di come la penetrazione di
Santa Claus nel tessuto sociale fosse stata rapida.
È interessante notare come protestanti e cattolici, divisi
secoli prima sull’affaire san Nicola, si ritrovassero uniti nel
tentativo (vano) di ricacciare almeno fuori dai confini nazionali la sua più riuscita mutazione. La loro crociata fu portata avanti con tanta veemenza che il 24 dicembre dello stesso
anno la cattedrale di Digione fu teatro di un evento che sembrò la parodia involontaria dei roghi medioevali. Duecentocinquanta bambini vennero fatti radunare davanti al cancello della chiesa, dove un pupazzo di Babbo Natale fu prima
impiccato, poi trascinato sul sagrato e qui bruciato pubblicamente come eretico. Al termine dell’esecuzione venne diffuso un comunicato in cui, tra le altre cose, si diceva che: «In
rappresentanza di tutte le famiglie cristiane della parrocchia
desiderose di lottare contro la menzogna, duecentocin-
11. CHRISTMAS BEFORE NIGHTMARE
127
quanta bambini, raggruppati davanti alla porta principale
della cattedrale di Digione, hanno bruciato Babbo Natale.
Non si è trattato di un evento spettacolare ma di un atto
simbolico. Babbo Natale è stato sacrificato in olocausto. La
sua menzogna non risveglia nei bambini alcun sentimento
religioso e non può considerarsi in nessun caso educativa
[...]. Per noi cristiani la festa del Natale è e deve rimanere la
ricorrenza che celebra la nascita del Salvatore».
A seguito di questa iniziativa la città si spaccò in due. Sacrificato davanti alla cattedrale, Babbo Natale venne fatto
“resuscitare” il giorno dopo nel municipio. Sembrava in
questo modo che Santa Claus potesse diventare lo spartiacque di una battaglia ideologica tra pensiero laico e pensiero
religioso, ma la polemica sulla legittimità della sua presenza in Europa era destinata a diventare sempre più un argomento per intellettuali che si sfidano a colpi di fioretto sul
terreno dell’antropologia, della filosofia, della teologia dal
momento che, divisi dalle opinioni sulle cose ultime o dai
128
BABBO NATALE
loro sottoprodotti, tutti quanti (fedeli, laici, atei, agnostici,
chierici bianchi o rossi o neri…) sarebbero stati investiti e
dunque accomunati da un altro movimento “di riflusso”, di
cui i nuovi miti (Babbo Natale in pole position) non erano
che gli alfieri: il benessere irruppe fragorosamente nel Vecchio Continente dopo l’evento bellico (Lévi-Strauss, sempre a proposito dell’“esecuzione” del 1951 davanti alla cattedrale di Digione, dice che «da circa tre anni» l’attività
economica in Francia era tornata normale, ma nel giro di
poco tempo avrebbe cominciato a marciare al ritmo forsennato che darà a Roland Barthes gli elementi per scrivere
e pubblicare, nel 1957, Miti d’oggi), e con il benessere s’impiantò anche da noi il complicato apparato produttivo, tecnico, estetico, mitografico che aveva fatto degli Stati Uniti
la punta di diamante del nuovo pensiero occidentale.
Di conseguenza, certo, in Francia, in Italia, in Germania
si poteva continuare a discutere su Babbo Natale, ma risultava sempre più difficile considerarlo un invasore o un corpo estraneo, perfettamente inserito com’era nella logica che
portava questi paesi a produrre Citroën DS e motorini Piaggio, a scoprire le gite fuori porta e le vacanze estive, ad accendere i primi televisori, a farsi conquistare da Hollywood,
a dimenticare il lied o la canzone napoletana affidandosi ai
quattro quarti del rock’n’roll. Anno dopo anno, insomma,
discutere su Babbo Natale diventava sempre più un esercizio di autocoscienza. Un esercizio a cui, secondo LéviStrauss, avrebbero partecipato paradossalmente persino i
rappresentanti del mondo cristiano nell’episodio di Digione.
«La Chiesa», scrive Lévi-Strauss sempre in Babbo Natale giustiziato, «non ha torto quando denuncia, nella credenza di Babbo Natale, il più solido bastione e uno dei più
attivi focolai del paganesimo nell’uomo moderno [...]. Resta da sapere se l’uomo moderno non possa difendere anch’egli i suoi diritti nell’essere pagano». E poi, rintraccian-
11. CHRISTMAS BEFORE NIGHTMARE
129
do dietro l’origine nicolaiana di Santa Claus un’origine ancora più antica – i Saturnali, come già abbiamo visto –,
l’antropologo francese conclude in questo modo: «il re dei
Saturnali è a sua volta l’erede di un prototipo antico che,
dopo aver impersonato per un mese il re Saturno ed essersi permesso ogni eccesso, veniva solennemente sacrificato
sull’altare del Dio. Nell’autodafé di Digione, ecco dunque
ricostruito l’eroe con tutti i suoi caratteri [...]. Volendo distruggere Babbo Natale, il clero digionese non ha fatto altro che restituire nella sua interezza, dopo un’eclisse di
qualche millennio, una figura rituale».
Dallo scontro si passò quindi all’assimilazione. L’Olanda e la Finlandia, per esempio, cercarono di saltare sul carro del vincitore e rivendicarono la paternità di Babbo Natale cercando di sfruttare come cassa di risonanza gli stessi
media che ne avevano segnato la fortuna negli States – ma
riferendosi non ai folletti o agli spiriti dei boschi della loro
tradizione bensì alla versione esportata in tutto il mondo
da Haddon Sundblom. In altri paesi, riconosciuta l’origine
americana di Santa Claus, i vecchi portadoni sopravvissero in una dimensione sempre più marginale. È il caso della nostra Befana, nata probabilmente sulle ceneri di Diana
e dei culti della fertilità, diffusasi soprattutto nell’Italia
centro-meridionale durante il Medioevo e alla quale Babbo Natale concesse perlomeno la subalternità – un destino
simile toccò ai Krampus della tradizione tirolese, ai topini
bianchi dei villaggi sul Reno, all’Hoteiosho di origine nipponica e così via. Allo stesso modo di quanto sarebbe accaduto per il cinema e la musica popolare, le province dell’Impero sperimentarono la fruizione di miti e prodotti secondo una logica binaria. Locale e globale, vale a dire, iniziarono a correre in parallelo – una corsa che, nel tempo,
sarebbe diventata sempre più impari.
130
BABBO NATALE
Sbaragliata la concorrenza, conquistato il mondo intero
anche grazie al fatto di incarnare in modo neppure troppo
latente la tematica della protezione e della gratificazione
assolute (ovvero, due tra i capisaldi del pensiero occidentale contemporaneo), Babbo Natale è diventato un punto
di riferimento talmente solido e scontato da essere ormai
un tema sul quale esercitare un’infinità di variazioni. Libri,
film, fumetti, canzoni e altri prodotti della nostra cultura
(anche di quella antagonista) non hanno più la forza di
esercitare su Santa Claus una funzione di vera contaminazione. O, meglio, la figura di Santa Claus è un elemento ormai “centrale” della nostra cultura, così consunstanziale al
sistema che degnamente rappresenta il fatto che su di essa
è solo possibile svolgere un lavoro di interpretazione. Se,
come abbiamo visto, fino ai primi decenni del Novecento
11. CHRISTMAS BEFORE NIGHTMARE
131
ci troviamo davanti a un aggregato ancora sufficientemente magmatico da poter venire fecondato, plasmato, “corretto” da una filastrocca di grande successo, da un romanzo, da una campagna pubblicitaria, oggi sarebbe necessario un cambiamento epocale, qualcosa che scuota le fondamenta della nostra civiltà per candidare Santa Claus a
un’ulteriore metamorfosi e soprattutto per mettere in discussione un ruolo elargitivo che neanche la più ardita al-
legoria sulla potenza e sulla pervasività della produzione
industriale riuscirebbe a eguagliare.
Celebrato dalla cultura mainstream o “detournato” da
quella antagonista, arruolato dalla letteratura popolare (i
fumetti, ad esempio, dall’italiano Dylan Dog di “Chi ha
ucciso Babbo Natale?” alle più note rivisitazioni di Disney,
Marvel e DC Comics, una tra tutte lo scontro con l’alieno
ultraviolento Lobo dal quale il Vecchio con la slitta viene
sottoposto alle sevizie più penose), ingaggiato come protagonista per decine di film natalizi, Santa Claus emerge
132
BABBO NATALE
puntualmente da queste fiction rientrando nella sua versione che ormai possiamo considerare “classica”, al pari di
un grande attore la cui immagine non ha la minima possibilità di venire intaccata per più di una stagione dai ruoli
volta per volta interpretati.
Se dunque su Babbo Natale è possibile compiere soltanto un esercizio di esegesi, possiamo ricordare almeno due
film del passato recente che meglio di altri prodotti sono
riusciti a mettere in luce aspetti interessanti (e inquietanti)
della sua natura e del suo rapporto con la nostra società.
Il primo è Polar Express, uscito nelle sale di tutto il mondo alla fine del 2004 e diretto da Robert Zemeckis avvalendosi della “performance capture”, una nuova tecnica che
consente di catturare appunto movimenti ed espressioni
facciali di attori in carne e ossa per riversarli su personaggi
creati al computer. Il risultato di questo ibrido tra “animazione” e “live action”, almeno nel caso di Polar Express, è un
film dal respiro quasi epico, un’epica oscura e schiacciante
in cui Babbo Natale viene mostrato in tutta la sua dimensione di monarca assoluto, più “Piccolo Padre” che Re Sole.
Il Polar Express è un treno che porta al Polo Nord i miscredenti, ovvero quei bambini che (per arroganza o insicurezza, o per qualunque altro motivo sia capace di allontanarli dalle convinzioni “rette” e “giuste” dei propri simili) si rifiutano di credere a Babbo Natale. Una volta che i
protagonisti giungono a destinazione, però, gli spettatori
più scafati vengono subito colti dal sospetto che il “regno
di Babbo Natale” immaginato dagli autori del film sia una
versione infiocchettata e – non si capisce quanto volontaria – della Metropolis di Lang. Mai il rosso di Santa Claus
aveva avuto sfumature tanto regali. Mai il suo mondo si era
mostrato come un apparato totalitario fondato sulla tecnica e su una spettacolarità sincronica che porta i piccoli
11. CHRISTMAS BEFORE NIGHTMARE
133
protagonisti a un’immediata conversione – un rientro nei
ranghi che fa gridare vendetta a tutti i Franti e i Lucignoli
dell’immaginario infantile – e gli spettatori adulti con un
minimo di senso critico a domandarsi se “conservare lo
sguardo incantato” (e poi, incantato su che cosa?) valga un
consenso senza condizioni, mentre gli elfi marciano quasi
al passo dell’oca e Santa Claus, distante e siderale come un
dio precristiano, saluta a braccio teso una folla adorante
che a certi critici ha ricordato le adunate oceaniche di Norimberga e piazza Venezia.
Per alcuni osservatori Polar Express non è altro che la
declinazione della favola di Santa Claus in chiave neocon –
l’umiltà, la fede e la carità senza sfumature a cui i bambini
vengono “educati” grazie all’incontro con questo Grande
Vecchio sono parse troppo simili alla dottrina Bush. È possibile tuttavia che il film celi una dottrina e un messaggio
134
BABBO NATALE
ancora più nascosti. La fede, l’umiltà, la carità, più che valori di approdo, svolgono un ruolo strumentale, sono cioè
la chiave d’accesso (e il pretesto) per celebrare il mondo
come uno strabiliante regalificio senza vie d’uscita, un utero meccanico e spettacolare continuamente gravido, capace di alimentarsi da sé grazie a un moto perpetuo dalla misteriosa scintilla scatenante, al pari di una rotativa ossessivamente accesa ventiquattr’ore su ventiquattro, gettandoci nelle spire della quale senza più alcuna riserva diventano automaticamente inservibili anche tutti i valori che oggi si illudono di poter governare o dare un senso al mondo
(vengano essi dalla dottrina neocon, da quella liberal, dalla morale cattolica, dalla teologia della liberazione, dal progressismo laico di matrice europea…) per ottenere in cambio una nuova, ineffabile quanto spaventosa, promessa di
immortalità.
Ed è qui che entra in gioco il secondo film. Si tratta del
Nightmare before Christmas di Tim Burton. Se Polar Express dà l’idea di un lapsus tragico e abissale sul mondo in
11. CHRISTMAS BEFORE NIGHTMARE
135
cui viviamo (al pari della pubblicità della Telecom firmata
da Spike Lee), Tim Burton, con la macabra gentilezza che
ha reso inconfondibile la sua poetica e con il suo struggente amore per tutti i dark sides dell’esistente, riesce a suggerire le motivazioni profonde che stanno dietro il carnevale
concentrazionario di Zemeckis. Il colpo di genio di Burton
consiste nell’aver immaginato Halloweentown (ovvero il
regno dei morti) e il paese di Babbo Natale (il nostro mondo) come due universi paralleli, legati l’uno all’altro da una
legge di complementarità cosmica ma – e qui, vedremo, la
lucida analisi dei nostri tempi – suscettibili di venire in
contatto tra loro con risultati sempre più traumatici.
Quando infatti Jack Skellington, il re delle zucche, l’innocente scheletro di Halloween, scoperta una porta di accesso tra i due mondi, decide di “invadere” il regno di
Babbo Natale sostituendosi per un anno a Santa Claus nella distribuzione dei regali, genera sì terrore tra gli abitanti
del mondo “reale”, ma dal terrore si passa subito alla violenza: interviene prima la televisione a stigmatizzare il ge-
136
BABBO NATALE
sto e poi l’esercito, la contraerea, l’artiglieria pesante, che
scaricando i propri missili sul povero re delle zucche (impegnato a solcare allegramente i cieli a bordo di una bara
trainata da renne-scheletro) riesce infine ad abbatterlo.
Giustizia è fatta: Skellington ritorna a Halloweentown e
Santa Claus riprende posizione sul suo trono.
Viviamo in un mondo sempre più chiuso, sembra suggerire Burton, in cui ci si illude di liberarsi completamente dalla morte, dalle potenze oscure, dal proprio stesso destino
utilizzando come esorcismo finale un gigantesco apparato
mediatico-tecnologico. Non è un suggerimento da poco.
Perché, proprio girando intorno alla dinamica messa in scena da Burton, indagandola, sezionandola, mettendola in
contatto con i vecchi esorcismi contro le forze invernali è
possibile giungere al cuore del “problema Santa Claus”, capire qual è il suo vero ruolo nel mondo in cui viviamo e, ripercorrendo a ritroso tutte le sue precedenti incarnazioni,
riconoscerlo come la manifestazione postmoderna di un
problema che ha a che fare con gli albori della nostra civiltà.
12. In fine
È del giugno 2005 la notizia di un incredibile esperimento portato a termine con successo dall’Università di
Pittsburgh. Alcuni scienziati hanno provocato la cessazione delle funzioni vitali in un gruppo di cani, svuotandogli
le vene, sostituendo il sangue con una soluzione salina a
sette gradi centigradi. Poi, dopo tre ore di morte apparente – niente respiro né attività cardiaca, nessun segnale cerebrale – sono riusciti a invertire il processo. Il sangue è
stato ripompato nel corpo delle bestie che, sollecitate con
elettroshock e ossigeno per rimettere in moto cuore e polmoni, hanno “ripreso a vivere” senza segni di danneggiamento per gli organi vitali. Le prime sperimentazioni sugli
esseri umani, dichiarano da Pittsburgh, potranno cominciare non prima del 2015.
Pur non potendosi parlare di reversibilità della morte
cerebrale (nei cani le cellule dell’encefalo sono state per tre
ore in una situazione di “addormentamento”, senza sperimentare tuttavia quella necrosi che è ancora protetta dal
crisma del non ritorno), ciò che è accaduto a Pittsburgh –
insieme a ciò che accade quotidianamente nei più sofisticati laboratori scientifici del pianeta – desta il consueto
sentimento contrastante di euforia e spavento. E costringe
chi può alle ratifiche dell’Erode di Oscar Wilde, il quale in
Salomè, di fronte alla notizia di un Messia capace di resu-
138
BABBO NATALE
scitare gli uomini, afferma sconcertato: «Gli si dica, così ha
disposto Erode il re: “Io non ti concedo di resuscitare i
morti”. Cambiare l’acqua in vino… guarire i ciechi e i lebbrosi… egli può fare queste cose se gli aggrada. Ma resuscitare i morti… Sarebbe terribile se i morti ritornassero».
Se l’intelligenza collettiva delle multinazionali potesse
esprimersi tramite un solo portavoce, se i fotogrammi degli spot pubblicitari mostrassero per un attimo il proprio
negativo, se la volontà di potenza della scienza e della tecnica spezzasse la propria circolarità in nome dello spavento supremo che le ha dato vita, verrebbero espresse le stesse parole di Erode in Salomè. Con una semplice ma fondamentale differenza: a suscitare sconcerto non sarebbe l’effettiva possibilità di una resurrezione, ma il ritorno dei
12. IN FINE
139
morti inteso come pensiero, sospetto, sentimento della fine – un sentimento, un sospetto, un pensiero che si crede
di poter cancellare o rimuovere per sempre grazie alla forza dell’apparato tecnico, produttivo, scientifico, mediatico
che oggi domina il mondo occidentale. Un tentativo che,
come detto nel capitolo precedente, è reso molto bene dalla scena di Nightmare before Christmas in cui Jack Skellington viene abbattuto dalla contraerea nella vana speranza che ricacciarlo in Halloweentown (ovvero, depennare
dalle nostre teste il sentimento della fine) significhi richiudere per sempre la soglia che collega il mondo dei vivi – il
regno di Santa Claus – a quello dei defunti.
Quando abbiamo detto che la Coca-Cola, arruolando
Santa Claus come testimonial, non si limitò ad aggirare una
legge che proibiva di produrre materiale pubblicitario in
cui venissero mostrati under 12 mentre bevevano la bibita
ma cristallizzò nella sua estetica un vero e proprio spirito
guida, non ci riferivamo solo al desiderio di incrementare la
propria “potenza di fuoco” – un desiderio che certamente
muoveva gli uomini di Atlanta mentre sognavano un futuro in cui la Coke, a imitazione dell’ubiquità del Vecchio con
la slitta, fosse presente in tutti i luoghi del pianeta. Adottare Santa Claus significava anche fare proprio (da veri adep-
140
BABBO NATALE
ti) un messaggio sulle cose ultime di cui il portadoni stava
diventando una delle più compiute incarnazioni. Questo
messaggio, appunto, dice: «Non morirete più».
Nei capitoli precedenti abbiamo ripercorso la storia della Coca-Cola prendendo la multinazionale di Atlanta come
modello di una determinata logica aziendale. L’abbiamo
descritta come una struttura dominata da un’ansia per la
sopravvivenza – e per la conquista di sempre maggiori spazi di manovra – che sembra quasi lo spostamento su altri
fronti della lotta per la prosecuzione della specie. Proprio
in ragione di questo “spostamento”, abbiamo creduto di
poter dire che le multinazionali non hanno nel loro codice
genetico un necessario amore per i paesi che le ospitano,
così come non riconoscono (se non come sponde su cui
giocarsi la partita) nell’etica o nella morale dominante un
ostacolo insuperabile. In poche parole siamo arrivati ad affermare, rischiando la retorica, che le aziende di grosse dimensioni tendono per loro natura a riconoscere nell’uomo
una funzione puramente strumentale, non un fine ma un
elemento necessario alla propria sopravvivenza. Per trasformare gli uomini in consumatori e i consumatori in “fedeli”, abbiamo visto che le industrie si avvalgono di narrazioni di grande suggestione – ciò che è stato definito “creazione del fantasma” o del “doppio ectoplasmatico”. Ma,
questo il punto, al di là del valore d’uso degli oggetti che
pure conserva un’importanza, la fidelizzazione dei consumatori, il nostro lasciarci affascinare e sedurre da un prodotto commerciale, quell’ineffabile sensazione di gratificazione e protezione che ci si insinua quando volenti o nolenti pensiamo al sistema delle merci, non prende le mosse dal
prodotto in sé, ma dalla sua “aura”, dal “fantasma”, dalla
narrazione che lo circonda e di cui, più che essere espressione, la merce rappresenta il medium, la porta di accesso.
Ora, i vari tipi di “fantasma” che circondano i prodotti
12. IN FINE
141
commerciali di largo consumo, seppure distinguibili tra di
loro come altrettante divinità di un singolare pantheon postcristiano (il carattere o la poetica della Coca-Cola presenta delle differenze rispetto a quello della Nike, di Versace,
di McDonald’s…), condividono lo stesso messaggio di
fondo – «non morirete mai» –, un messaggio che trova nella funzione distributiva di Santa Claus un’espressione suprema: se non sovraordinata sicuramente riassuntiva.
Qual è, bisogna domandarsi allora, il vero senso del donare che, giunto all’apice con Santa Claus, caratterizza anche
le sue precedenti incarnazioni? Marcel Mauss, nel suo celebre Saggio sul dono, analizzando le dinamiche che regolano
tutta una serie di società preindustriali, ci insegna che elemosine, potlatch, banchetti nuziali, alienazioni di oggetti
senza immediato corrispettivo non sono propriamente atti
gratuiti e nello stesso tempo si allontanano dal modello classico dello scambio a fine di lucro. Il dono vincola chi lo riceve – un vincolo sociale ma anche magico, esoterico. L’oggetto donato in determinati contesti arcaici ha cioè un suo particolare “valore” capace di tenere invisibilmente in contatto
elargitore e beneficiario, col risultato di rafforzare tutta una
serie di legami, e di obblighi, che contribuiscono alla buona
142
BABBO NATALE
conservazione del corpus sociale – ma questa promozione di
ben determinati rapporti interpersonali, riletta da alcuni interpreti di Mauss come la base di una possibile convivenza
alternativa rispetto a quella fondata sull’utilitarismo dell’Occidente avanzato, è destinata a dissolversi quando l’atto del
donare si inscrive nell’universalità, di conseguenza nell’anonimato, del sistema a cui fa capo Santa Claus.
A maggior ragione, non sono atti gratuiti i doni scambiati in occasione di quelle celebrazioni tramite cui si cercava,
nelle società antiche, di esorcizzare la potenza mortifera delle forze invernali. Abbiamo visto come la festa di san Nicola (e le sue successive declinazioni premoderne, come la festa degli Innocenti) nasca sulle ceneri delle feriae precristiane – ancora una volta i Saturnali che, in prossimità del solstizio d’inverno, utilizzavano lo scambio di doni, lo spreco,
lo scatenamento orgiastico, il sovvertimento temporaneo
12. IN FINE
143
dei ruoli per ingraziarsi le forze ultraterrene così da favorire
il buon esito dei raccolti (Saturno è il dio dell’agricoltura) e,
dunque, la sopravvivenza dell’intera comunità.
Santa Claus, sull’operato del quale la gratuità è smentita dalle stesse pubblicità di Sundblom che vedono la distribuzione di regali premiata dai suoi destinatari in modo
quasi tautologico con un ulteriore oggetto di consumo (naturalmente una bottiglia di Coca-Cola, che il vecchio beve
avidamente per ristorarsi dalle proprie fatiche), presenta
nella sua festa molti elementi di contatto con i grandiosi
olocausti – più o meno codificati, più o meno trasformati
in feriae o liturgie – delle società antiche, ma ha pure la caratteristica di rivolgersi a una precisa categoria sociale: i
bambini. Si potrebbe pensare che in questo caso il dono
abbia il semplice scopo di incoraggiare l’obbedienza dei
più piccoli, premiati annualmente in ragione della loro
buona condotta. A questo tuttavia si unisce un elemento
più nascosto. Chi dice infatti che i bambini abbiano diritto a un premio quando magari per esercitare una forza
preventiva basterebbe un apparato sanzionatorio?
Lévi-Strauss, sempre in Babbo Natale giustiziato, oltre
alla già citata parentela coi Saturnali, ha creduto di rintracciare più di una somiglianza tra la distribuzione dei doni operata da Babbo Natale e le elargizioni a favore dei
bambini presenti nei rituali di alcune civiltà primitive o comunque preindustriali. In particolare Strauss prende in
esame il mito dei “katchina”, diffusosi presso gli indiani
Pueblo sin dai tempi in cui queste tribù si trasferirono nei
villaggi a sud-ovest degli Stati Uniti.
I katchina sarebbero gli spiriti dei bambini annegati nei
fiumi nel corso delle migrazioni ancestrali i quali, a ricorrenze periodiche, tornano a minacciare i Pueblo. Si tratta di
una visita dall’oltretomba; per esorcizzarla, la tribù di pellerossa escogitò una messa in scena: gli adulti, travestiti da spi-
144
BABBO NATALE
riti dei morti, terrorizzavano o premiavano i bambini del villaggio nel corso di danze rituali che, oltre ad avere il compito di cacciare i katchina, rappresentavano per i più piccoli
(che non avevano la possibilità di riconoscere, sotto il travestimento, i propri genitori) una prova iniziatica. Nel complicato gioco di specchi tra gli adulti-travestiti e i bambini, questi ultimi, afferma Lévi-Strauss, sono non-iniziati, cioè non
sono ancora entrati nel consesso sociale ma, proprio per
questo, si possono considerare anche dei super-iniziati. I
bambini, vale a dire, nella finzione rituale – assorbendo e riflettendo il travestimento degli adulti – rappresenterebbero
i morti. Sono loro i veri strumenti di comunicazione con l’aldilà. I doni di cui sono destinatari svolgono allora un ruolo
di scambio, servono cioè a placare le forze sotterranee, a ricacciare periodicamente gli spiriti dei defunti nel loro regno
– spiriti con i quali, tuttavia, pur nell’ambito della “messa in
scena”, esiste ancora un incontro ravvicinato.
Lévi-Strauss porta altri esempi (le questue nell’Inghilterra fino al XVIII secolo, per dirne uno) in cui le categorie
12. IN FINE
145
presociali, donne e bambini, intrattengono con gli iniziati
scambi di simile significato. Forse il caso che viene in mente con più facilità è quello di Halloween, la festa di Ognissanti nel corso della quale i bambini, travestiti da spiriti dei
morti, girano di casa in casa, ricevendo dai vivi-adulti i piccoli doni simbolici che serviranno a rispedire le loro rappresentazioni nell’oltretomba almeno per un altro anno.
Con la nascita di Santa Claus questo esorcismo subisce
un cambiamento epocale. Interrottosi il confronto ravvicinato tra vivi e morti, il compito di distribuire i doni, di placare gli spiriti dei defunti, di annichilire il sospetto, la sensazione, il pensiero della fine viene affidato a un mediatore. A un simbolo, vale a dire, a uno spirito, a una mitologia.
È come se gli adulti a un certo punto abbiano firmato una
delega che li solleva dall’avere rapporti troppo intimi con
Thanatos, affidando il “lavoro sporco” a un monopolista
vestito di rosso i cui poteri (ubiquità, capacità pressoché illimitata di disporre dei frutti dei nostri sistemi produttivi)
sembrano far impallidire le caratteristiche presenti nei portatori di doni delle epoche passate.
Nella notte di Natale, allora, ci sono effettivamente due
figure in concorrenza tra di loro, investite di una missione
che si propongono di portare a compimento da posizioni e
con strumenti decisamente diversi – la nascita del dio cristiano, che offre vita eterna attraverso la morte carnale; la
battaglia di Santa Claus contro la morte carnale, combattuta attraverso una totalitaria distribuzione di regali. Quale tra questi due sistemi per confrontarci (o per rimuovere)
il sentimento della fine sia oggi più praticato è sin troppo
evidente. Resta solo da ricordare che Santa Claus è un perfetto simbolo del nostro apparato tecnico, produttivo, mediatico. Affidando a lui il compito di neutralizzare il sentimento della fine, non facciamo che rimettere le nostre speranze di amnesia sulla mortalità nel sistema che governa la
146
BABBO NATALE
società in cui viviamo – quella che oggi potremmo troppo
semplicisticamente chiamare globalizzazione. Babbo Natale è dunque lo spirito del capitalismo avanzato. All’esorcismo contenuto nella distribuzione di regali di cui è indiscusso protagonista si rifanno, con sfumature diverse, praticamente tutte le narrazioni scaturite dall’attività delle imprese postmoderne (prima tra le altre, come abbiamo visto, la Coca-Cola). È curioso allora che l’uccisione del dio
cristiano secondo Nietzche, agevolata dal senso di protezione offertoci dal progresso tecnico e scientifico in antitesi al terrore millenario dell’uomo di fronte alla wilderness
dello stato di natura, anziché portarci ad affrontare con lucidità la circostanza della nostra finitudine, ci spinga verso
un nuovo rifiuto dell’irreversibile, una rimozione ottenuta
proprio attraverso l’apparato che avrebbe dovuto essere,
secondo le previsioni del filosofo tedesco, lo strumento
della nostra emancipazione. La sensazione è che quanto più
la rimozione si fa profonda tanto più la dimensione dell’esorcismo è costretta a crescere in potenza e pervasività.
«Non morirete mai!», dice Babbo Natale attraversando
sulla slitta gli scacchieri delle nostre città e ricevendo conferme dai movimenti delle presse negli opifici, dagli impulsi delle antenne radiofoniche e televisive, dall’insonnia delle rotative tipografiche, dalle turbine delle centrali elettriche, dai codici binari dei calcolatori elettronici. E tuttavia,
disseppellendo l’istanza disperata che si cela dietro questo
messaggio benaugurale, facendosi spazio a fatica tra le luci,
i colori, il traffico, le carte da regalo, spingendoci nell’occhio del ciclone che alimenta il movimento orgiastico della
notte di Natale, è possibile riuscire a cogliere un lapsus, un
sovvertimento, forse anche un’ancora di salvezza: un riflesso da lemure sulla giubba di Santa Claus e, nel suo messaggio, l’anagramma dopomoderno del memento mori.
Nota bibliografica
Sulla Coca-Cola
Imprescindibile è il lavoro monumentale di Mark Pendergast For
God, Country and Coca-Cola: The Definitive History of the Great
American Soft Drink and the Company That Makes It, attualmente
pubblicato negli Stati Uniti da Basic Books e apparso anche in Italia
nel 1993 da Piemme con il titolo Per Dio la Patria e la Coca-Cola. Importanti sono anche The Real Thing: Truth and Power at the CocaCola Company, di Costance L. Hays, pubblicato da Random House
(2004); The Sprankling Story of Coca-Cola, di Gyvel Young-Witzel e
Michael Karl Witzel, pubblicato da Voyageur Press (2002); Il mito
Coca-Cola, di Jean-Pierre Keller, pubblicato in Italia da Lupetti
(1986); Una storia del mondo in sei bicchieri, di Tom Standage, pubblicato in Italia da Codice (2005).
Su San Nicola/Santa Claus
Tra le tante fonti disponibili, sono state prese in esame: San Nicola di Bari, di Gerardo Cioffari (edizioni San Paolo, 1988); Da San Nicola a Santa Claus. Un’indagine antropologica, di Elvira S. Tiberini
(Bagatto Libri 1987); San Nicola il barese, di Ignazio Schino (Schena
1993); San Nicola è amante dei forestieri, di Franco Sorrentino (Edizioni Giuseppe Laterza 1997); La storia di Babbo Natale, di Carlo
Sacchettoni (Edizioni Mediterranee 1996); Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana, di Claudio Corvino e Erberto Petoia (Newton Compton 2004); Babbo Natale giustiziato, di Claude Lévi Strauss
(Sellerio 2002); The Night Before Christmas: A Visit from St Nicholas,
di Clement C. Moore (Harcourt Children’s Books 2003); The Autobiography of Santa Claus, di Jeff Guinn (Tarcher 2003).
150
NOTA BIBLIOGRAFICA
Sui temi più generalmente legati alla società dei consumi
Tra i vari testi tenuti presenti dall’autore, meritano una menzione
particolare: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss (Einaudi 2002), Lo scambio simbolico e la morte, di Jean Baudrillard (Feltrinelli 1979), Il sogno della
merce, sempre di Baudrillard (Lupetti 2002), Miti d’oggi, di Roland
Barthes (Einaudi 2004), Dialettica dell’illiuminismo, di Max
Horkheimer e Theodor W. Adorno (Einaudi 1997), Il godimento come fattore politico, di Slavoj Zizek (Raffaello Cortina 2001); Il grande
altro. Nazionaliso, godimento, cultura di massa, sempre di Zizek (Feltrinelli 1999); L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di Walter Benjamin (Einaudi 2000), Massa e potere, di Elias Canetti (Adelphi 2004); Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla
Grande Guerra a Salò, di Antonio Gibelli (Einaudi 2005); Stanze, di
Giorgio Agamben (Einaudi 1993).
Indice
BABBO NATALE
1. Santa Claus: l’impossibilità di diventare adulti
2. Coca-Cola, anno XLV (1931)
3. Morte e rinascita di un commesso viaggiatore
4. San Nicola: agiografia di un uomo d’azione
5. L’anima e il corpo della bibita
6. San Nicola alla conquista dell’Europa
7. La svastica sul logo
8. Martin Lutero contro san Nicola
9. La conquista della Terra
10. Uno spettro si aggira per l’America
11. Christmas before Nightmare
12. In fine
Nota bibliografica
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43
55
67
74
88
96
110
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137
149
Collana «Le terre»
25. David Denby, Grandi libri, traduzione di Lucia Olivieri.
26. Valentino Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio. (2a ed.)
27. Tim Page, Dawn Powell. Una biografia, traduzione di Chiara
Vatteroni.
28. Alessandro Zaccuri, Citazioni pericolose. Il cinema come critica
letteraria.
29. Claudio Damiani, Eroi.
30. Michele Lauria, L’Amante Assente. (2a ed.)
31. Camillo Langone, Cari italiani vi invidio.
32. Gabriella Sica, Poesie familiari. (2a ed.)
33. John Fante, Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken
(1930-1952), introduzione di Michael Moreau. Traduzione di
Alessandra Osti.
34. Gore Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo,
traduzione di Laura Pugno. (3ª ed.)
35. Richard Stengel, Breve storia della piaggeria, traduzione di Daniele
Ballarini.
36. Tommaso Orsini, Quintodecimo. I sogni dei fanatici, i paradisi
delle sette.
37. Seamus Heaney, Beowulf, a cura di Massimo Bacigalupo. Con un
saggio di John R.R. Tolkien. Con testo inglese a fronte. (Poesia)
38. Joel Dyer, Raccolti di rabbia, traduzione di Pietro Meneghelli.
(Interventi)
39. Anton La Guardia, Terra Santa, guerra profana, traduzione di
Nazzareno Mataldi. (Interventi)
40. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla libertà. Il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre, traduzione di
Pietro Meneghelli. (Interventi) (3a ed.)
41. Roberto Galaverni, Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei.
(Scritture)
42. Pier Luigi Celli, Breviario di cinismo ben temperato, presentazione di Domenico De Masi. (Scritture)
43. Filippo Tuena, La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo. Lettere scelte 1532-1564. (Scritture)
44. Gore Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità. Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq e altri saggi, traduzione di Luca Scarlini e Laura Pugno. (Interventi)
(3a ed.)
45. Philippe Beaussant, Anche il Re Sole sorge al mattino. Una giornata di Luigi XIV, prefazione di Giuliano Ferrara. Traduzione di Laura Pugno. (Scritture)
46. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, American Lies. Ascesa e
caduta della Enron. (Interventi)
47. Ekkehart Krippendorff, L’arte di non essere governati. Politica etica
da Socrate a Mozart, traduzione di Vinicio Parma. (Pensiero)
48. Dag Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cristianesimo e nell’islam, prefazione di Franco Cardini. (Civiltà)
49. Jacques Allaman, Cecenia. Ovvero, l’irresistibile ascesa di Vladimir
Putin, traduzione di Giuliano Cianfrocca. (Interventi)
50. Antonio Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinema
americano. (Scritture)
51. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio. La guerra americana all’Iraq e il genocidio umanitario, traduzione di Thomas Fazi, Andreina
Lombardi Bom, Nazzareno Mataldi, Pietro Meneghelli, Vincenzo
Ostuni e Isabella Zani. (Interventi).
52. Mario Gamba, Questa sera o mai. Storie di musica contemporanea.
(Scritture)
53. Christopher Hitchens, Processo a Henry Kissinger, traduzione di
Marco Pettenello. (Interventi)
54. James Wilson, La terra piangerà. Le tribù native americane dalla
preistoria ai nostri giorni, traduzione di Alberto Bracci Testasecca.
(Civiltà)
55. Baruch Kimmerling, Politicidio. Ariel Sharon e i palestinesi, traduzione di Elisa Bonaiuti. (Interventi)
56. Colm Tóibín, Amore in un tempo oscuro. Vite gay da Wilde ad
Almodóvar, traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)
57. Robert Nozick, Invarianze. La struttura del mondo oggettivo, introduzione di Sebastiano Maffettone. Traduzione di Gianfranco Pellegrino. (Pensiero)
58. Manlio Dinucci, Il potere nucleare, prefazione di Giulietto Chiesa. (Interventi)
59. Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, prefazione di Massimo Brutti, con un’intervista a Giovanni Pellegrino. (Interventi) (2a ed.)
60. Clyde V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell’unilateralismo
americano, traduzione di Irene Floriani. (Interventi)
61. Will Hutton, Europa Vs. USA. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa, prefazione di Guido Rossi, con un
saggio di Massimiliano Panarari. Traduzione di Fabrizio Saulini. (Interventi)
62. Gianfranco Fini, L’Europa che verrà. Il destino del continente e il
ruolo dell’Italia, a cura di Carlo Fusi, prefazione di Giuliano Amato.
(Interventi)
63. Thomas Cahill, Desiderio delle colline eterne. Il mondo prima e dopo Gesù, traduzione di Nazzareno Mataldi. (Civiltà)
64. William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, con un aggiornamento di Nafeez Mossadeq Ahmed. Traduzione di Giorgio Bizzi, Maria
Fausta Marino, Riccardo Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani.
(Interventi) (4a ed.)
65. Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La strategia dei neoconservatori per dividere l’Europa. (Interventi)
66. Gore Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000, postfazione di Claudio Magris. Traduzione di Stefano Tummolini.
(Scritture)
67. James Bamford, L’orecchio di Dio. Anatomia e storia della National
Security Agency, traduzione di Riccardo Masini. (Interventi)
68. Tariq Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq, traduzione di Francesca Minutiello. (Interventi)
69. Klaus K. Klostermaier, Induismo. Una introduzione, traduzione di
Mimma Congedo. (Civiltà)
70. John H. Berthrong - Evelyn Nagai Berthrong, Confucianesimo.
Una introduzione, traduzione di Marcello Ghilardi. (Civiltà)
71. Hilary Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, introduzione di Mario De Caro, traduzione di Gianfranco Pellegrino.
(Pensiero)
72. Lapo Pistelli - Guelfo Fiore, Semestre nero. Berlusconi e la politica
estera, prefazione di Lucio Caracciolo. (Interventi)
73. Henri de Grossouvre, Parigi Berlino Mosca. Geopolitica dell’indipendenza europea, prefazione di Pierre Marie Gallois. Traduzione di Maura Posponi. (Interventi)
74. Jonathan Spence, Mao Zedong, traduzione di Loredana Baldinucci. (Biografie)
75. Paul Johnson, Napoleone, traduzione di Ilaria Belliti. (Biografie)
76. Philip Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo,
prefazione di Franco Cardini. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Civiltà)
77. Franco Ferrucci, Il teatro della fortuna. Potere e destino in Machiavelli e Shakespeare. (Scritture)
78. Gore Vidal, Democrazia tradita. Discorso sullo stato dell’Unione
2004 e altri saggi, traduzioni di Marina Astrologo, Giuseppina Oneto e Stefano Tummolini. (Interventi)
79. Ekkehart Krippendorff, Critica della politica estera, prefazione
di Gian Giacomo Migone. Traduzione di Elisabetta Dal Bello.
(Pensiero)
80. John Gray, Al Qaeda e il significato della modernità, postfazione
di Sebastiano Maffettone. Traduzione di Lorenzo Greco. (Pensiero)
81. Gret Haller, I due Occidenti. Stato, nazione e religione in Europa e
negli Stati Uniti, con una postfazione dell’autrice all’edizione italiana.
Traduzione di Francesca Febbraro. (Interventi)
82. Paolo Cacace, L’atomica europea. I progetti della guerra fredda, il
ruolo dell’Italia, le domande del futuro, prefazione di Sergio Romano. (Interventi)
83. Richard Heinberg, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, le
nuove guerre, il futuro dell’energia, prefazione all’edizione italiana di
Alfonso Pecoraro Scanio, prefazione all’edizione statunitense di Colin J. Campbell, prefazione dell’autore all’edizione italiana. Traduzione di Nazzareno Mataldi. (Interventi)
84. Michele Lauria, Telekom Serbia, pupi e pupari, con la collaborazione di Laura Trovellesi. (Interventi)
85. David Ray Griffin, 11 settembre. Cosa c’è di vero nelle “teorie del
complotto”, prefazione all’edizione inglese di Michael Meacher, prefazione all’edizione statunitense di Richard Falk. Traduzione di Giuseppina Oneto. (Interventi)
86. Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla verità. Tutte le menzogne
dei governi occidentali e della Commissione “indipendente” USA sull’11
settembre e su Al Qaeda, traduzione di Nazzareno Mataldi, Pietro
Meneghelli, Matteo Sammartino, Francesca Valente e Piero Vereni.
(Interventi)
87. Franco Rella, Pensare per figure, Freud, Platone, Kafka, il postumano. (Pensiero)
88. Robert R. Reich, Perché i liberal vinceranno ancora, prefazione di
Walter Veltroni, con un saggio di Massimiliano Panarari. Traduzione
di Francesca Minutiello. (Interventi)
89. Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il
mondo delle lettere e delle arti, postfazione di Giovanni Fasanella.
Traduzione di Silvio Calzavarini. (Interventi)
90. Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, postfazione di Andrea Zanzotto. Traduzione di Pietro Meneghelli. (Scritture)
91. Fausto Bertinotti - Lidia Menapace - Marco Revelli, Nonviolenza.
Le ragioni del pacifismo. (Interventi)
92. Victoria Shofield, Kashmir. India, Pakistan e la guerra infinita, traduzione di Massimiliano Manganelli. (Storia)
93. El Hassan Bin Talal, Il cristianesimo nel mondo arabo, prefazione
di Carlo d’Inghilterra, prefazione all’edizione italiana del cardinale Pio
Laghi. Traduzione di Flavia Tesio Romero. (Civiltà)
94. Andrea Ricci, Dopo il liberismo. Proposte di una politica economica di sinistra, prefazione di Luciano Gallino. (Interventi)
95. Valentino Zeichen, Passeggiate romane. (Poesia)
96. Bernard Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il
vero, prefazione di Salvatore Veca. Traduzione di Gianfranco Pellegrino.
97. Thomas Cahill, Giovanni XXIII, traduzione di Elisa Bonaiuti. (Biografie)
98. Piero Sanavio, La gabbia di Pound. (Biografie)
99. Riccardo Bagnato - Benedetta Verrini, Armi d’Italia. Protagonisti
e ombre di un made in Italy di successo. (Interventi)
100. Klaus K. Klostermaier, Buddhismo. Una introduzione, traduzione di Nicoletta Sereggi. (Civiltà)
101. James Miller, Daoismo. Una introduzione, traduzione di Marcello Ghilardi. (Civiltà)
102. Walter Friedrich Otto, Le Muse e l’origine divina della parola e
del canto, a cura di Susanna Mati. Postfazione di Franco Rella. Premessa di Giampiero Moretti. (Scritture)
103. Massimo Nava, Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace, fotografie di Livio Senigalliesi. Prefazione di Claudio Magris. (Interventi)
104. Bernard Stiegler, Passare all’atto, prefazione di Roberto Esposito. Traduzione di Elena Imbergamo. (Pensiero)
105. Giulietto Chiesa, Cronache marxziane, a cura di Massimiliano
Panarari. (Interventi)
106. Jean-Michel Valantin, Hollywood, il Pentagono e Washington. Il
cinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai giorni
nostri, traduzione di Jacopo De Michelis. (Interventi)
107. Clement Leibovitz - Alvin Finkel, Il nemico comune. La collusione antisovietica fra Gran Bretagna e Germania nazista, prefazione di
Christopher Hitchens. Traduzione di Silvio Calzavarini. (Storia)
108. Leonard Peltier, La mia danza del sole. Scritti dalla prigione, a cura di Harvey Arden. Prefazione di Ramsey Clark. Traduzione di Giuliano Bottali e Sibilla Drisaldi. (Interventi)
109. Givanni Fasanella - Corrado Incerti, Sofia 1973: Berlinguer deve
morire, prefazione di Giuseppe Vacca. (Interventi)
110. Daniele Ganser, Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, prefazione di Giuseppe De Lutiis. Traduzione di Silvio Calzavarini. (Storia)
111. Dag Tessore, Introduzione a Ratzinger. Le posizioni etiche, politiche, religiose di Benedetto XVI, postfazione di Bartolomeo I patriarca
di Costantinopoli. (Interventi)
112. R.W.B. Lewis, Dante Alighieri. Una biografia attraverso le opere,
traduzione di Giueseppina Oneto. (Biografie)
113. La mente e la natura. Per un naturalismo liberalizzato, a cura di Mario De Caro e David Macarthur, prefazione di Armando Massarenti.
Traduzione di Lorenzo Greco e Gianfranco Pellegino. (Pensiero)
114. Gore Vidal, L’invenzione degli Stati Uniti. I padri: Washington,
Adams, Jefferson, traduzione di Marina Astrologo. (Storia)
115. Ekkehart Krippendorf, Shakespeare politico. Drammi storici,
drammi romani, tragedie, traduzione di Robin Benatti e Francesca
Materzanini. (Scritture)
116. Thomas Cahill, come i greci fondarono l’Occidente, traduzione di
Guido Lagomarsino. (Civiltà)
117. Michel Onfray, Trattato di ateologia. Fisica della metafisica, traduzione di Gregorio De Paola. (Interventi)
118. Nicola Lagioia, Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario. (Memi)
119. Paolo Zanotti, Il gay. Dove si racconta come è stata inventata l’identità omosessuale. (Memi)
Finito di stampare
nel mese di novembre 2005
dalla tipografia Graffiti srl
Via Catania, 8 Pavona (Albano - Roma)
per conto di
Fazi Editore
CAPITOLO
161
Fly UP