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Luoghi che raccontano/racconto dei luoghi
LUOGHI CHE RACCONTANO/RACCONTO DEI LUOGHI: SPAZI ED OGGETTI DOMESTICI TRA BIOGRAFIA E CULTURA Sabina Giorgi Alessandra Fasulo Università Sapienza di Roma e-mail del relatore [email protected] 0. Introduzione. In quanto segue analizzeremo, come luogo di incontro interculturale, i salotti delle case di famiglie di classe media marocchine e italiane. I livelli dell’incontro, infatti, in questi spazi, sono molteplici. In primo luogo si tratta delle zone condivise delle case, dove convergono i membri familiari per attività comuni. In secondo luogo, sono le stanze deputate all’incontro con l’Altro, con gli ospiti. Infine, per quanto riguarda le case marocchine, sono i luoghi della preghiera, e quindi di un’apertura verso l’esterno di portata significativa. Tali incontri, potenziali o realizzati, sono inscritti in queste aree dello spazio domestico attraverso l’arredo e il decoro, dando luogo all’intersezione delle dimensioni del pubblico e del privato secondo modalità e criteri che rivelano molto degli abitanti delle case e delle loro comunità culturali. Nell’eleggere una stanza come unità di analisi si è voluto integrare l’osservazione dello spazio - "il luogo che racconta" -, al "racconto dei luoghi", ovvero alle descrizioni realizzate dai partecipanti alla ricerca nel corso delle presentazioni della propria abitazione fatte sia in presenza che in assenza del ricercatore. 1. Spazi domestici e vita culturale Con Benjamin, si può citare Edgar Allan Poe come "primo fisionomista dell'intérieur" (2000 [1935]), non solo per il saggio La filosofia del mobilio (1997)1 in cui critica l’estetica americana nell’arredo che privilegia il valore commerciale degli oggetti, ma anche perché gli stessi racconti polizieschi si muovono all’ombra dei segreti nascosti negli interni borghesi. Le analisi di Benjamin sull'intérieur borghese del XIX secolo illustrano efficacemente il potere dei luoghi domestici di raccontare le caratteristiche e le trasformazioni culturali di un gruppo sociale in un certo contesto storico. Egli fa notare come, a seguito dello sviluppo industriale ed economico moderno che porta l'individuo borghese ad un'intensificazione della sua vita pubblica e produttiva, l'interno domestico si costruisce per il "privato cittadino […] in contrasto col luogo di lavoro" (p. 11), andando a strutturare in modo peculiare la separazione fra sfera pubblica e privata (cfr. Bresnahan, 2003). Da questo spazio ci si aspetta di venire "cullati nelle proprie illusioni" (Benjamin, 2000 [1935], p. 11); è il luogo di rimozione della storia e delle sue frenesie, che si "difende" dall'esterno e dalle sue innovazioni, in cui "anche le tracce dell'inquilino si imprimono" (ibid. p. 12), poiché "abitare significa lasciare tracce" (ibidem). Tra le stanze più rappresentative compare il salotto, inteso come "palcoscenico" -e quindi spazio della messa in scena per altri, gli ospiti- del proprio "sognante" universo privato: "Di qui hanno origine le fantasmagorie dell'intérieur. Per il privato cittadino, esso rappresenta l'universo. In esso egli raccoglie il lontano e il passato. Il suo salotto è un palco nel teatro universale." (Benjamin 2000 [1935], p. 11). Il saggio Philosophy of Forniture (Philosophie de l'ameublement), riedito nel volume Abitazioni immaginarie di Poe (1997), fu tradotto da Baudelaire e pubblicato per la prima volta in francese nel 1852 su Le Magasin des familles. La riedizione del 1997 contiene anche un saggio di Antonio Prete, in cui vengono confrontate le visioni di Poe e Baudelaire sull'intérieur. Se Poe riconosce una doppia funzione dell'intérieur: -"universo illusorio d'un riscatto degli oggetti dalla mercificazione e, insieme, recinto di una segretezza torbida" (Prete, 1997, p. 226)-, Baudelaire lo elegge luogo in cui insistono "molteplici contiguità: con la lontananza, con la città, con il desiderio" (ibidem). 1 1 E ancora: "Rendere l'immagine di quei saloni dove l'occhio si perdeva fra tendaggi ampi e cuscini gonfi, dove specchiere e causeuses schiudevano, davanti agli sguardi degli ospiti, portali di chiesa e gondole su cui, simili alla luna, si posava la luce a gas emanata da una sfera di cristallo." (2000 [1982], p. 226). Il ruolo occupato dal salotto all'interno della famiglia borghese, in Italia, a partire dal XIX secolo, è stato analizzato da prospettive disciplinari diverse. Nato come spazio sociale dell'abitazione, deputato all'accoglienza di coloro che non partecipavano direttamente alla vita privata della famiglia, il salone o salotto diventa espressione di un modello culturale di riferimento -quello borghese appunto- che si fa trasversale alle classi sociali. Nelle successive semplificazioni che investono il modello abitativo nel passaggio dalla residenza aristocratica alla casa alto borghese, borghese e piccolo borghese, fino ad arrivare a quella di una più eterogenea classe media, il salone/salotto/sala da pranzo resiste ai tentativi di razionalizzazione, di modernizzazione dell'abitare e di standardizzazione dell'arredamento che prendono corpo nel periodo della ricostruzione del secondo dopo guerra e nei successivi anni del boom economico: "L'oggetto delle cure dei rinnovatori e insieme della più ostinata conservazione da parte delle famiglie d'ogni censo è l'aborrito e borghesissimo salotto" (Casciato, 1988, p. 586). Se altri spazi della casa inscrivono pienamente il processo di modernizzazione in atto primo fra tutti la cucina- il salotto diventa il luogo per eccellenza di "conservazione dell'immagine ideale della casa" (p. 587), all'interno del quale la famiglia costruisce rappresentazioni di successo da offrire ad uno sguardo esterno. Per la famiglia di classe media, in particolare, esso diventa emblema di acquisizione di status e di avvenuta trasformazione sociale. E’ luogo di esposizione e spazio del “superfluo”, sottratto alle quotidiane attività della famiglia. Tale modello culturale, seppure con i dovuti ridimensionamenti, si rivela persistente e radicato anche nella contemporaneità2 (Rami Ceci, 1996), così che studi e ricerche prevalentemente di matrice europea- sullo spazio abitativo continuano a scegliere questa stanza della casa come luogo elettivo di indagine. Giuliani (1987) ne sottolinea l'interesse a partire dalla constatazione della eterogeneità lessicale utilizzata dagli abitanti per riferirsi a questa stanza. A fronte di una quasi assoluta omogeneità nell'etichettamento di altri luoghi della casa (es. cucina, camera da letto) che, pur essendo attraversati e contraddistinti da funzionalità plurime (es. camera da letto usata anche come ufficio), tuttavia conservano la denominazione abituale, il salone è chiamato variamente salotto, sala da pranzo, soggiorno, e loro diminutivi (salottino ecc). Giuliani ipotizza che a tali differenti categorizzazioni corrispondano diversi modelli culturali e abitativi. Tra i tre modelli individuati (il tipo "tradizionale borghese", "tradizionale popolare" e "moderno"), il più comune fra i residenti studiati è il tipo "moderno", caratterizzato dalla presenza di un'unica grande stanza che accoglie funzioni diverse (dal ricevimento degli ospiti alle attività di svago e di intrattenimento familiare). I risultati della ricerca mostrano come in questa stanza multifunzionale, prevalentemente definita dagli abitanti "salone" o "soggiorno", insistano diversi livelli di ambiguità nel rapporto fra caratteristiche fisiche dello spazio, tipi di attività che vi si svolgono e valori veicolati. Se nella scelta dell'arredamento vi è integrazione e commistione di funzionalità diverse, le attività che vi confluiscono e i valori di riferimento attributi dagli abitanti Si segnala la ricerca di Rami Ceci (1996) in un quartiere medio-borghese di Roma (Prati), finalizzata a conoscere la relazione fra spazio abitativo ed etica della famiglia borghese del XX secolo. Attraverso la raccolta di storie di vita degli abitanti "storici" del quartiere l’Autore ha voluto indagare come fosse cambiata la percezione del proprio "habitat" dalla fine del primo trentennio del XX secolo fino ai nostri giorni. La ricerca ha messo in evidenza una sostanziale continuità nelle descrizioni degli spazi abitativi e nelle rappresentazioni ad essi attribuite, Si rivela quindi un codice comune -formalizzato in una estetica dello spazio - che valica i limiti temporali ed esprime "valori di ceto" perseveranti e radicati (p. 252). 2 2 rivelano la persistenza di un modello di tipo tradizionale che distingue le varie stanze della casa in base al livello di esposizione e di rapporto con il pubblico. Sono soprattutto le ricerche etnografiche di tradizione francese ad essersi occupate di "topografia dello spazio domestico" (Bonnot, 2002), e dell'allestimento e del decoro degli interni contemporanei (cfr. Segalen, Le Wita, 1993). In particolare, Chevalier (1992; 1999) concentra la sua indagine sul séjour, in quanto spazio comune della famiglia, per analizzare il modo in cui il decoro di questa stanza -in famiglie di un quartiere residenziale di Nanterre- rifletta peculiari processi di "appropriazione" degli oggetti del mercato di massa (es. mobilio, televisione, oggetti vari) nel perseguire particolari "progetti sociali" degli abitanti delle case. In quest'ottica, l'oggetto esposto è visto come "mediatore delle relazioni che l'individuo intrattiene con il suo ambiente e con gli altri" (Chevalier, 1992, p. 404). Anche Bonnin e Perrot (1989), nello studio del decoro domestico nel contesto rurale francese della Margeride, concentrano la loro attenzione sul soggiorno inteso come "frontiera del privato e del pubblico" dove "il lavoro delle apparenze per sé e per gli altri è il più evidente, e il gioco della rappresentazione sociale il più intenso" (p. 45). In quel che segue descriveremo quindi il salone come luogo di incontro e mediazione tra istanze culturali di diversa natura e provenienza, e anche come contesto in cui, nel caso di una “rilocazione” (Baynham, De Fina 2005), si creano processi sincretici tra cultura di provenienza e cultura di arrivo. 2. Etnografia dell’abitare 2.1 Partecipanti Il presente contributo si basa su una ricerca etnografica riguardante 8 famiglie italiane a Roma, tre famiglie marocchine a Rabat e a Salè, e due famiglie marocchine a Roma. I dati delle famiglie italiane sono stati raccolti all'interno di un progetto di ricerca internazionale sulla vita quotidiana di famiglie di classe media in cui entrambi i genitori lavorano, condotto in Italia, Svezia e USA (Pontecorvo, Fatigante, Arcidiacono, 2007; www.celf.ucla.edu), e svolto nel periodo 2002-2006. I dati relativi alle famiglie marocchine di classe media sono stati acquisiti, invece, nell’ambito della ricerca di dottorato di una delle autrici (Giorgi, 2008) compiuta nel periodo 2005-2007, anch’essa ideata mutuando –e ri-definendo- l’impostazione di ricerca del progetto internazionale. Le famiglie i cui dati compaiono nella seguente esposizione sono rappresentate nella Tabella 1 (tutti i nomi sono fittizi). Nome famiglia Mnoha Badou Papi Pico Ripe Giti Cali Olmi Membri (età) Madre: Naima (45); Padre: Rashid (46); Figlio: Mgid (10); Figlio: Amid (5). Madre: Fatima (41); Padre: Ali (41); Figlia: Samia (16); Figlia: Aisha (12); Figlio: Assan (9). Madre: Souad (54); Gino (47); Figlia: Najet (23); Figlia: Nadine (19) Madre: Letizia (46); Padre: Giorgio (50); Figlia: Daniela (12); Figlia: Serena (10). Madre: Gaia (47); Padre: Marco (54); Figlio: Leonardo (13); Figlio: Andrea (9). Madre: Emma (34); Padre: Paolo (42); Figlia: Elena (8); Figlia: Alice (1 anno e mezzo). Madre: Renata (41); Padre: Flavio (44); Figlia: Carla (8); Figlia: Elisa (3). Madre: Arianna (43); Padre: Marcello (43); Figlio: Fabrizio (11); Figlio: Davide (7). Città di residenza Rabat Roma Roma Roma Roma Roma Roma Roma Tab.1 Famiglie che compaiono in questo studio 2.2. Metodologia La vita domestica è stata studiata unendo alla prospettiva etnografica l’uso di strumenti di registrazione video per documentare, in modo intensivo nell’arco di una settimana, le attività e le pratiche quotidiane dei membri familiari. A fare da supporto all’etnografia visiva, il progetto di 3 ricerca prevedeva l’uso di un complesso apparato di strumenti. Una parte di essi erano orientati a studiare in modo specifico gli spazi e gli oggetti domestici. La rilevazione degli attributi fisici della casa è stata ottenuta attraverso la mappatura dell'abitazione e la collezione di foto di spazi ed oggetti. La conoscenza delle pratiche spaziali faceva parte della più ampia etnografia visiva realizzata nelle famiglie, che ha visto anche la redazione di schede etnografiche digitali (tracking data) per annotare gli spostamenti dei vari membri all'interno dei vari ambienti ogni 10 minuti. Le interpretazioni e le rappresentazioni dei componenti della famiglia sulla propria casa sono state sollecitate sia in sede di intervista -con parti tematiche relative alla storia dell'abitazione e degli oggetti-, sia attraverso audio e video tour. Questi ultimi hanno permesso di raccogliere le narrazioni sui luoghi domestici che costituiscono l'oggetto di indagine del presente contributo. 2.1. Raccontare i luoghi Gli audio tour sono descrizioni della casa, audioregistrate, fatte da uno o più membri della famiglia al ricercatore nel corso di una sorta di visita guidata; i video tour, invece, descrizioni che tutti i membri della famiglia individualmente, muniti di telecamera, hanno svolto come compito di ricerca (Ochs et al., 2006). In particolare, per il video tour veniva richiesto ai membri della famiglia di mostrare la casa dal proprio punto di vista, soffermandosi sugli spazi e sugli oggetti considerati più significativi. Tecniche simili all'audio tour sono state impiegate nella ricerca etnografica come strumento di indagine del rapporto fra soggetto e percezione del proprio spazio. Ne è un esempio lo studio di Bendiner-Viani (2005) che, attraverso "tour guidati" di un quartiere di Brooklyn fatti dai residenti insieme alla ricercatrice, si interroga sul modo in cui gli individui costruiscono il "senso di casa" nello spazio pubblico. Altre analogie si stabiliscono con la tecnica del "go-along" o "street phenomenology" usata da Kusenbach, 2003, per esplorare due quartieri di Los Angeles attraverso i tragitti e gli spostamenti interni comunemente compiuti -a piedi o in bicicletta- dai loro residenti. I "tour" sembrano prevalentemente legati a spazi esterni: le potenzialità narrative di oggetti e arredi domestici sono invece sfruttate da Dei (in preparazione) attraverso una tecnica di intervista chiamata “biografia degli oggetti”. Nella letteratura di riferimento sembra, invece, non avere la stessa diffusione l'uso del video-tour che, in questo studio, si è rivelato una fonte particolarmente interessante. Il fatto di essere svolto in assenza del ricercatore induce alla costruzione di racconti autonomi, strutturati da modalità narrative diverse per tipologia (sintetiche descrizioni-elenco, concatenazioni libere di memorie legate agli oggetti e agli spazi tipo "stream of consciousness", narrazioni fiction che ricostruiscono, attraverso la descrizione dello spazio, pratiche, abitudini, umori, discorsi), per tonalità di voce e per il tipo di destinatario immaginato (es. il gruppo dei ricercatori, un generico pubblico virtuale)3. La tecnica si inserisce a pieno titolo nella pratica della self-ethnography, che consiste nell’affidare a membri del contesto di osservazione la produzione del dato etnografico (Johnson, Chambers, Tincknell, 2004). 3. Il salone marocchino: uno spazio consacrato al rapporto con l’Altro 3.1 Saloni marocchini a Rabat Il primo spazio in cui si è avuto accesso -da ospite- nelle case marocchine è il “salone degli invitati” (bit dial diaf). E’ spesso la stanza più grande della casa, anche laddove gli spazi domestici siano ridotti, riservata alla preghiera, o ad accogliere - come dice Rashid della famiglia Mnoha"qualcuno dall'esterno" (intervista 03/03/2006). Essa è distinto dalla bit l'glus o séjour, il salone più piccolo, che costituisce lo spazio in cui la famiglia trascorre la maggior parte del proprio tempo. Tour della casa che possono avvicinarsi a quanto noi intendiamo per video tour, sono stati utilizzati da Linde e Labov (1975) per studiare la rappresentazione linguistica dell’orientamento spaziale. La maggior parte di queste descrizioni di appartamenti hanno assunto la forma di tour/percorsi (versus mappe) immaginari che trasformavano lay-out spaziali in narrazioni organizzate temporalmente (cfr. de Certeau, 2001). 3 4 Nel soggiorno infatti si consumano i pasti principali, si lavora, si guarda la televisione, i bambini vi svolgono i compiti, e si ricevono gli ospiti più intimi. "Le persone intime sono con noi qui", precisa Rashid Mnoha (03/03/2006 Int.). Tre lati del perimetro della bit dial diaf , o salone grande, sono integralmente occupati da un divano composto di tre corpi di grandezza simile, sui quali poggiano cuscini che, oltre a fare da schienale, delimitano i principali spazi di seduta. Inoltre, i cuscini sono facilmente rimovibili nel caso in cui il divano debba trasformarsi in letto e quindi in stanza che consente una ospitalità più prolungata. Le bit dial diaf contengono inoltre un tavolo tondo su cui posare i cibi, uno stereo dove ascoltare musica, tappeti di preghiera ripiegati, copie del Corano e una serie di oggetti e quadri che ritraggono immagini della Mecca, sure del Corano, calligrafie sacre che riproducono il nome di Allah4 (vedi fig. 1 e 2). Le pareti sono prive di foto personali o di oggetti immediatamente riconducibili alla singola biografia familiare. Fatima Badou, durante una conversazione informale, ha spiegato che dove si prega non possono esserci foto. Ciò che colpisce -da ospite occidentale accolta nei grandi saloni delle famiglie in Marocco- sono appunto le pareti vuote e la ripetitività del decoro di queste stanze tra le varie case visitate. Tale assenza di personalizzazione, tale omogeneità e la forte codificazione simbolica dello spazio creano disagio a chi sia abituato a scenari diversi, in quanto non si offrono strumenti di lettura e interpretazione rispetto alle caratteristiche specifiche della famiglia presso cui si è in visita. La conoscenza con essa risulta completamente affidata a quanto avviene in presenza, ha bisogno del dialogo. Lo spazio e i pochi, convenzionali oggetti, accolgono senza rivelare. Fig. 1 Salone degli invitati (bit dial diaf) della Famiglia Mnoha Fig. 2 Esempio di inscrizione coranica raffigurante la Mecca esposta nel salone degli invitati della Famiglia Zaidi (non analizzata in questo testo) Ciò che il decoro permette di leggere è invece la connessione della famiglia con una più ampia comunità di riferimento, con un orizzonte simbolico condiviso, quello islamico, di cui non si fanno appropriazioni peculiari, ma se ne riproducono gli elementi in modo convenzionale. Vediamo dunque alcune delle descrizioni offerteci attraverso i video tour affidati ai membri familiari5. Una prima peculiarità è la scelta -inedita e mai verificatasi con le famiglie italiane- da Nelle grandi case delle famiglie emigrate, costruite in quartieri residenziali e periferici delle città marocchine, la grandezza delle stanze e l'accuratezza dei dettagli diventano emblema di un successo sociale conseguito, di un benessere economico raggiunto. In particolare all'interno di questi ambienti, il salotto si arricchisce di dettagli preziosi, tra cui soffitti decorati dal lavoro di artigiani specializzati che riproducono in basso rilievo fiori e volute. 5 Ci sembra interessante far notare come il video tour della casa da parte di persone marocchine si ritrovi in contesti diversi da quello di ricerca, come ad esempio le presentazioni video home made, generalmente finalizzate alla vendita o all'affitto di abitazioni private, pubblicate su YouTube. In particolare, il video "Maison à louer à Saïdia", sebbene privo di commenti audio, inizia proprio dal salone della casa. Altri video amatoriali -ai quali si aggiungono quelli di artigiani o aziende- sono dedicati specificamente al "salon marocain". Si segnala il video "le salon marocain de la 4 5 parte della persona incaricata del video tour di avvalersi di un cameraman per poter comparire nel video ed offrire così le proprie spiegazioni. Nella descrizione – ripresa dal figlio - che Naima Mnoha fa della propria casa, il “gran salon” viene presentato per primo. Il video tour, in questo senso, riproduce virtualmente una modalità tipica di accoglienza nello spazio domestico. Sembra evidente che, nel presentare il “gran salon”, Naima faccia riferimento ad un certo modello di casa che include questa stanza come uno dei suoi spazi previsti. Nello stesso tempo esso viene descritto in modo particolarmente valorizzante, come si vede nella conclusione della descrizione, in fondo all’estratto che segue. 6 Estratto 1 (i simboli di trascrizione sono in nota ; la traduzione italiana è a seguire) Famiglia Mnoha - Video tour Madre. 1. 2. 3. 4. 5. Madre: → 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. → 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. Madre: → → → → […] c'est: notre salon. c'est le grand salon, (0.5) où (.) la famille réunit:: >toute la famille< se réunit dans cettedans ces salon. c'est: le salon des invitations. d↑e- des invites. (.) mh? ici, on:::: (3.0) ((Naima agita le mani perché ha difficoltà a trovare le parole. La ripresa si interrompe)) ( ) ce salon est décoré par eh::: telles choses, de:s photos: du Coran eh:: eh: des tableaux, il y a:: un tableau ici (1.5) où il y a des:: eh:: des choses eh::: formidables ((si tratta di un quadro cinese dove è ricamato un paesaggio)) il y a deux tableaux ou bien trois tableaux où il y a le Coran. mh? eh:::: (1.0) eh:::: ici, toute la famille on- eh::: le Ramadan on::::: ((apre le mani e le solleva in alto)) réunit ici on:: eh::: on mange ici, on:: fait des:: tellement des choses dans ce (.) salon. c'est le grand salon de cette maison. […] è: nostro salone. è il gran salone, (0.5) dove (.) la famiglia riunisce:: >tutta la famiglia< si riunisce in questoin questo salone. è: il salone degli inviti. d↑i- degli invitati. mh? qui, si:::: (3.0) ( ) questo salone è decorato da eh::: queste cose, de:lle foto: del Corano eh:: eh:: dei quadri, c'è:: un quadro qui (1.5) dove ci sono delle:: eh:: delle cose eh:: formidabili ci sono due quadri o meglio tre quadri dove c'è il Corano. mh? eh:::: (1.0) eh:::: qui, tutta la famiglia si- eh::: il Ramadan si::::: ((apre le mani e le solleva in alto)) riunisce qui si:: eh::: maison de Ibrahim", in cui una voce femminile si sofferma a commentare in inglese il soffitto decorato del salone della sua casa. 6 Convenzioni di trascrizione : : allungamento del suono che precede , tono ascendente . tono discendente M (carattere maiuscolo), aumento di volume °° sensibile abbassamento del volume di voce ? tono interrogativo __ (stile sottolineato) enfasi sensibile innalzamento del tono sensibile abbassamento del tono (1.0) durata di una pausa in secondi. [ ] inizio e fine della sovrapposizione tra parlanti = allacciamento (mancanza di scansione tra due parole) (trattino) troncamento della pronuncia, interruzione >< accelerazione del ritmo dell’eloquio <> decelerazione del ritmo dell’eloquio ( ) turno bianco, parole non comprensibili (( )) annotazioni su aspetti paraverbali e contestuali 6 13. 14. si mangia qui, si:: fanno delle:: talmente tante cose in questo (.) salone. è il gran salone di questa casa. Il primo elemento che viene menzionato è la funzione di accoglienza per la “famiglia che si riunisce”, con cui si intende la famiglia allargata, categoria che immediatamente viene ampliata in quella di “invitati”. Il secondo elemento ad apparire è il decoro: vengono mostrati i quadri appesi alle pareti, ovvero iscrizioni coraniche e un paesaggio cinese ricamato con fili colorati e descritto con enfasi. L’estratto si chiude tornando di nuovo alla famiglia. Questa volta però è l’occasione festiva del Ramadan ad essere introdotta dalla descrizione. Tale precisazione contribuisce a rendere ancora più esplicita la dimensione temporale che insiste su questa stanza della casa. Il “grand salon” è consacrato al tempo dello straordinario, sia quello della festa e di preparazione del rituale (es. al Ramadan o alle cerimonie che scandiscono il ciclo di vita dell’individuo: battesimi, matrimoni, funerali) che apre più che in altre occasioni la “piccola famiglia”7 all’esterno. Il salone assume dunque i confini di uno spazio consacrato al rapporto con l’Altro in una progressione che distingue inizialmente il Sé familiare dall’Altro familiare (la famiglia estesa), dallo straniero (che si concretizza nell'uso generico del termine "invitati"), fino ad arrivare alla sfera della relazione con il divino (ricordata dalla presenza di immagini del Corano). 3.2 Saloni marocchini a Roma Il ruolo svolto dalla casa nelle esperienze diasporiche (ma non solo), come luogo elettivo del ricordo e di strumento di ordinamento della vita quotidiana, è ormai noto in letteratura. La casa fornisce "direzioni di esistenza" (Douglas, 1991, p. 290), in quanto spazio controllabile attraversato da insiemi di comportamenti e azioni regolari che strutturano la vita domestica. Rapport e Dawson (1998) fanno notare che tale routinizzazione spazio-temporale assume caratteristiche estetiche e morali (p. 7), poiché concorre alla costruzione di un modello ideale di collettività, di distribuzione delle risorse al suo interno, della giustizia, dei ruoli degli individui, dei diritti e doveri di ciascun abitante. La casa è un microcosmo che funziona da modello per interpretare la propria esperienza quotidiana e per strutturarla e proiettarla all'esterno. Tuttavia - suggerisce Berger (1984 cit. in Rapport, Dawson, 1998) - in un mondo in movimento, fatto di lavoratori globali, di emigrazioni ed esodi, è opportuno riflettere su quali nuovi significati la casa possa assumere. L'ipotesi è che piuttosto che spazio fisico, essa appaia sempre più sottoforma di insiemi di routine e di pratiche esportabili altrove, ovvero opinioni, stili di abbigliamento, ecc. Casa come habitus, pratiche incorporate, per dirla con le parole di Bourdieu (1969); come performance (Bammer, 1992, cit. in Rapport, Dawson, 1998). Una casa "behavioural and ideational, that individuals construct and enact" (Rapport, Dawson, 1998, p. 8). I contributi raccolti nell'ormai noto testo Migrants of Identity intendono riflettere proprio sulla relazione fra la nozione di casa, ovvero sulla sua trasformazione, in rapporto al movimento degli individui intorno al mondo (ibidem). A questo fine le narrazioni sulla casa diventano il contesto di ricerca ideale per trovare il modo in cui gli individui costruiscano moving home di vario tipo, "case cognitive" in transito (ibidem). La rilevanza assunta dal salone degli invitati per le famiglie marocchine è ancora più evidente nelle case di alcune famiglie immigrate a Roma. L’organizzazione architettonica degli appartamenti romani ha in alcuni casi indotto una fusione di salotto e soggiorno -e delle relative funzioni- nelle abitazioni delle famiglie marocchine conosciute a Roma. Ma la differenza principale è che queste zone diventano nella diaspora dei "paesaggi del ricordo" (Assmann, 1997 [1992]). Perde dunque forza quel modello che determina la sostanziale omogeneità delle abitazioni in Marocco in termini di assenza di personalizzazione, e ci si trova in presenza di scenari domestici più eterogenei. Sono visibili, tra le altre cose, “Petite famille” è un’espressione utilizzata spesso da Naima Mnoha nel corso del video tour a ridosso di quegli ambienti della casa che sono espressione più diretta dell’intimità familiare. 7 7 "appropriazioni" (Giorgi, Padiglione, Pontecorvo, 2007) di singoli membri della famiglia che espongono propri oggetti, inscrizioni della famiglia come gruppo attraverso fotografie o altro, oggetti e mobili marocchini e infine decori ed estetiche legate al luogo di arrivo. Queste trasformazioni avvengono però su un substrato di continuità. La famiglia Badou dal 2003 vive all'interno di una occupazione abitativa in una zona centrale di Roma. La casa è su due piani: il piano terra è suddiviso in un primo spazio aperto che include il salotto e un angolo cottura, una stanza da letto -di dimensioni ridotte- per la coppia, e un bagno. La parte superiore, soppalcata, accoglie le tre camerette dei figli. Il salotto marocchino qui ricreato (vedi fig. 3) si fa riconoscere dal grande divano, composto da supporti bassi in legno disposti a ferro di cavallo lungo i tre lati della stanza, su cui sono stati collocati materassi e cuscini rimovibili che fanno da poggia-schiena, entrambi rivestiti da stoffe sontuose. Lo spazio centrale è occupato da un tappeto e da due tavoli bassi sui quali la famiglia mangia. Per la famiglia Badou, arredare la propria casa in "stile marocchino" significa avere la possibilità di riordinare e sostenere un'identità in transito, scongiurandone la dispersione: Estratto 2 . Famiglia Badou - Audio tour madre (Fatima parla italiano) 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. Madre: → → […] ultimamente ho::: potuto arredare la mia casa, a stile marocchino, perché come io sono marocchina, non ho mai potuto dimenticare questa:: mh::: questo modo di- di- arre- arredare una stanza perché io sono venuta:: come persona ma io::: c'ho dietro:: l- mial:: mia ah::: una grande cultura, religione mh:: tante cose non posso dimenticare (.) anche se io cammino, >non cammino così< io:: s↑enza casa la persona, senza mh:: un luogo dove abitare quando: cammina mh: dentro la sua borsa c'è tutta una storia non posso dirti Arredare per Fatima significa inscrivere nello spazio la sua appartenenza culturale in modo intelligibile. L'uso del termine "stile" rinvia alla presenza di una modellizzazione riconoscibile, ad una specifica modalità di espressione attraverso caratteristiche formali definite e riproducibili. In particolare Fatima si riferisce al salotto marocchino che ha potuto ricreare nella stanza principale della casa, creata tramite pareti divisorie di cartongesso e legno nello spazio originariamente indifferenziato. Fig. 3 Salone marocchino della Famiglia Badou Fig. 4 Pannello "con il mare" utilizzato come schienale di parte del salone della Famiglia Badou 8 Fatima riesce bene a far comprendere in che cosa consistano quelle moving home che le persone, nella migrazione, conducono con sé. Attraverso l'affermazione "non ho mai potuto dimenticare questa:: mh::: questo modo di- di- arre- arredare una stanza", messo in relazione esplicita con la proria appartenenza culturale “come io sono marocchina”, Fatima sottolinea sia la rilevanza del salone nella cultura di appartenenza sia la sua vitalità nella propria memoria personale. Quel "non posso dimenticare" può essere interpretato quindi in modo almeno duplice: sia come determinazione ad auto-affermarsi nella propria specificità culturale, sia come preoccupazione nei confronti dell'eventualità dell’oblio. La parte conclusiva dell'estratto afferma con forza la centralità della casa nell’esperienza di migrazione: una persona che cammina, anche se cammina, anche se, quindi, ha scelto di pensarsi in movimento ha bisogno di "un luogo dove abitare". La casa cioè diventa risorsa irrinunciabile, spazio vitale necessario a conservare la propria storia e identità. Alla fine dell'estratto, in cui si contrappone il movimento e la base a cui tornare, con un dolente "non posso dirti", Fatima evoca l'immagine della borsa e del suo contenuto (quest'ultimo identificato, nei turni successivi non riportati, in numeri di telefono, lettere, passaporto) che concretizzano metaforicamente l’esiguità del patrimonio di cultura materiale cui i migranti posso far riferimento in terra straniera; senza una casa, la loro appartenenza si riduce a quanto può entrare in una borsa. Se i saloni delle famiglie immigrate sanciscono nuovamente la rilevanza di questo spazio domestico, tuttavia nuovi aspetti e nuove relazioni sembrano inscriversi tra le sue mura, o meglio, sulle sue pareti. In Marocco a colpire il nostro sguardo era la percezione del vuoto -inteso come assenza del personale familiare a favore della presenza del collettivo simbolico- che caratterizza le sue pareti, mentre nelle case delle famiglie immigrate esse diventano una superficie narrante, con immagini ed oggetti che rimandano alla migrazione e all'interpretazione che di essa viene fatta dai suoi protagonisti. Così nel salone "tradizionale" di Fatima si trovavano fino a non molto tempo fa 8 immagini che ritraevano il mare sotto molteplici sembianze: tranquilli scenari costieri, disegni di barche. Oggetti acquistati a Porta Portese, tra cui vecchi pannelli figurativi in bianco e nero un tempo utilizzati per decorare gli scompartimenti dei treni (vedi fig. 4). Le immagini riprodotte erano burrascosi mari in tempesta solcati da velieri in difficoltà a cui Fatima aveva aggiunto un po' di colore dipingendo, con un rosa vistoso, le cime, "per cancellare i simboli" che vi erano impressi, diceva. Queste immagini le piacevano perché erano in grado di legare i ricordi personali a simbologie più generali: le ricordavano allo stesso tempo l'oceano su cui si affaccia Casablanca (la propria città di origine), e i rischi, i pericoli a cui va incontro chi decide di emigrare: il mare "rappresenta il viaggio il rischio il::: per cercare un:: un'altra vita" (audio tour Fatima Badou; turno non riportato). Anche nella casa di Souad Papi, residente a Roma da ventisei anni e sposata con un italiano, il salotto costituisce l'unico angolo marocchino della casa. Viene riprodotta la struttura convenzionale del salone "tradizionale" (essenzialmente la forma del divano, la tipologia degli arredi e dei tessuti), tuttavia nelle decorazioni emergono interessanti differenze rispetto sia alle rarefatte stanze viste in Marocco, sia alla casa di Fatima appena discussa. Se Fatima tematizzava la migrazione, mettendone in scena una metafora condivisa (quella del mare) e, per alcuni versi, retoricamente costruita per rafforzarne il messaggio di denuncia sociale, il salone di Souad Negli ultimi due anni i quadri sono scomparsi in seguito ai lavori di ristrutturazione che la famiglia Badou ha svolto nella casa. Da allora non sono stati più appesi. Il loro posto è stato preso da quadri raffiguranti il Corano e da immagini della Mecca. Tale assenza viene motivata da Fatima dal fatto che sono in attesa di trasferirsi nella casa popolare e che quindi non serve decorare un luogo che a breve deve essere lasciato. Tuttavia se questa spiegazione può chiarire -per alcuni versi- l'assenza di tali inscrizioni più "personali", la sola presenza di calligrafie coraniche può essere letta nei termini di un ritorno del modello culturale di riferimento -questa volta autosufficiente ai fini della costruzione di una rappresentazione identitaria della famiglia- che sembra andare di pari passo con la sedimentazione e la crescente elaborazione della propria esperienza migratoria. 8 9 somiglia all’accattivante vetrina di un'agenzia di viaggi satura di souvenir e di merci del souk9 (vedi fig. 5 e 6). Fig 5 Souvenir esposti nel salone marocchino di Souad Papi (foto del tavolo) Fig 6 Souad Papi e il suo salone marocchino Ceramiche decorative raffiguranti tajine10 in miniatura, babuche11 mai utilizzate lasciate ai margini del tappeto per evocare pratiche abituali, sedute in pelle, cuscini berberi, teiere, foulard usati come tessuti decorativi che incorniciano foto o insiemi di oggetti, come quelli disposti -ed esposti- sul tavolo tondo ai piedi delle scale di ingresso: un'accurata composizione formata da scatole di henne, bicchieri e vassoio da the, cartoline raffiguranti donne berbere che danzano, riviste italiane (Traveller) dedicate al Marocco poste accanto ai quadri che racchiudono sure coraniche. Oggetti che raccontano dello sguardo ormai allontanato e defamiliarizzato di Souad sul proprio paese di origine, vissuto con lo stesso affascinato straniamento di un viaggiatore che si circonda di souvenir come segni dell'effimera esperienza consumata (MacCannel, 1976; Padiglione, 2006). I souvenir diventano "simbolo di uno scambio attivato", dell'incontro di due mondi (Padiglione, 2006, p. 85) percepiti appunto come tali, ormai separati e distinti. In conclusione, la complessa e densa opera di ri-significazione messa in atto dalle famiglie marocchine immigrate a Roma nei confronti della propria appartenenza culturale di origine sembra trovare proprio nel salone uno spazio privilegiato di espressione e di interpretazione. 4. Una irrinunciabile socialità – il salotto italiano e la nostalgia dell’ospite Nelle case visitate a Roma il salone mostra una più ampia gamma di denominazioni e destinazioni d’uso rispetto alle case marocchine e una varietà maggiore nelle scelte di arredo e decorazione. Ciò che ci permette di considerare all’interno di una categoria spaziale unitaria tali luoghi è, da un lato, il fatto che l’alternanza tra le definizioni nel corso delle spiegazioni dei membri familiari spesso include comunque il termine salone o salotto, dall’altro lato la sistematica menzione della funzione del ricevimento degli ospiti relativamente a una certa stanza della casa. Come vedremo però– e arriviamo così ad un nucleo problematico rivelato proprio dalla comparazione – gli ospiti sono più spesso un residuo simbolico che una presenza concreta. Quando i membri della famiglia arrivano, nel corso del loro tour, nello spazio in questione, un primo elemento comune attraverso le famiglie e i membri della stessa famiglia riguarda una doppia descrizione: la funzione “ufficiale” dell’ospitalità, che spiega la presenza stessa di uno spazio dedicato nella casa, e usi quotidiani, quindi più abituali, ma percepiti come inappropriati. Mercato. Pentola in terracotta a forma di cono usata per stufati di carne e pesce. 11 Tradizionali calzature marocchine. 9 10 10 Tutti e quattro i membri della famiglia Ripe, ad esempio, notano questa doppia identità della loro sala da pranzo, anche se con sfumature diverse nella tonalità affettiva della descrizione. Nella loro casa, gli spazi comuni associabili alla funzione salotto sono due, separati da parete divisoria. In uno, che i membri della famiglia chiamano soggiorno, ci sono due grandi divani e una grande tv; nell’altro che chiamano “sala da pranzo” si trova un ampio tavolo con sei sedie intorno (vedi fig. 7). Vediamo di seguito i passaggi relativi a questo secondo spazio: Estratto 3 Famiglia Ripe - Video tour Madre 1. 2. 3. 4. 5. 6. Madre: → → → questa è la stanza meno usata di tutte (2.0) ((accende la luce)) <la sa:la: da pra:nzo> ((con tono ironico)) (3.0) la stanza anche che mi piace meno di tutti (2.0) come si vede ormai usata più che altro come: stanza hobby. (4.0) difficile che venga usata: per il motivo per il quale è stata inventata (1.0) ma non pensiamo di cambiarla Si può notare la contrapposizione tra modello e pratica, espresso tramite qualificatori temporali di frequenza (“meno usata di tutte”, “ormai usata più che altro come stanza hobby” e “difficile che venga usata”) e riferimenti espliciti alla funzione convenzionale (“il motivo per cui è stata inventata”). In questa sintetica presentazione, accompagnata anche ad una esplicita dichiarazione di disaffezione allo spazio in oggetto (riga 3), emerge una sorta di paradosso permanente interno alla casa, per cui esiste un luogo designato ad attività che non vi vengono svolte se non a cadenza annuale; lo stesso spazio può venire usato ad altri scopi, tuttavia questi non assumono legittimità e non reindirizzano aspetto e definizione dello spazio stesso. Anzi, a chiusura della descrizione, la madre specifica che non si ha intenzione di cambiare. Fig 7 Sala da pranzo della Famiglia Pico con scorcio sul soggiorno Le descrizioni dei figli sono simili (ne riportiamo soltanto una), ma traspare meno problematicità, grazie probabilmente al fatto che non sono coinvolti nelle decisioni. Ancora si nota una divergenza tra riferimento agli usi effettivi e richiamo all’uso convenzionalmente deputato. Estratto 4 Famiglia Ripe - Video tour Figlio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Leonardo: → → benvenuti nel soggiorno cioè eh: benvenuti nella sala da pranzo degli ospiti (1.0) qui non ci stiamo quasi mai, se non per fare: (.) un po'di compiti o: le cose nostre: come il mio modelli:smo, e cose varie insomma qui è dove ammucchiamo di solito la roba. l'unica volta che viene utilizzata per il suo vero scopo è quando ci sono de dei grandi pranzi e delle grandi cene 11 8. 9. 10. → come il cenone di Natale. qui è dove passo la mia maggior parte del tempo a fare i compiti, se per caso non ci sta nessun altro posto in giro. Come si vede, i figli che pure utilizzano la stanza lo fanno consapevoli che la funzione di ospitalità crea affordances (col suo lungo tavolo vuoto e l’assenza di altre attività domestiche in corso) per occupazioni che richiedono estesi piani di appoggio (i compiti, il modellismo), ma con una chiara percezione della transitorietà che emerge dai termini usati nel riferire su di esse (“di solito ammucchiamo la roba” “un po’ di compiti” “se per caso non ci sta nessun altro posto in giro”). Insomma, in questa famiglia si anticipa un tema ricorrente nei nuclei familiari italiani, ovvero la tensione tra un modello di casa che prevede, verrebbe da dire con perentorietà, spazi riservati all’ospitalità, ed abitudini di vita che rendono le occasioni sociali limitate, e le stanze comuni clandestinamente riutilizzate da membri del nucleo familiare ristretto. La famiglia Pico partiva da una conformazione analoga, cioè due spazi separati (che loro chiamano salotto e soggiorno) ma che si sono dovuti fondere per far spazio alla stanza delle figlie. Nonostante la fusione, la stanza che è occupata da un grande tavolo resta inutilizzata nei giorni feriali se non, di nuovo, per attività scolastiche. Vediamo di seguito la testimonianza della madre e del padre. Estratto 5 Famiglia Pico - Video tour Madre 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. Madre: → 11. 12. 13. 14. 15. 16. allora questo è il soggiorno, (4.0) e il salotto. ((inquadra il divano accostato alla parete)) ecco questa stanza: ecco di solito: la viviamo di più il sabato e la domenica: perché ci pranziamo: ci ceniamo: e: comunque: insomma la viviamo di più in questi giorni >gli altri giorni è un po': bè magari forse: ecco per: per le bambine è diverso perché loro ci fanno i compiti< comunque diventa una zona: una: una zona relax per quanto riguarda ecco >il sabato e la domenica che siamo un pochino più a casa< ((Letizia ha inquadrato tutto il tempo la parte della stanza in cui c'è il tavolo)) ecco questo (.) allora(.) questa: stanza: nel tempo: ha avuto: delle: modifiche prima era praticamente un salotto, poi da quando (.) sono nate le bambine per esigenze °abbiamo avuto° l'esigenza di creare una stanza a loro, e abbiamo abbinato e fatto praticamente soggiorno e salotto tutti e due insieme (7.0) qui è la zona dove poi noi (.) soprattutto quando invitiamo perso:ne facciamo fe:sta e: è questa la stanza che che usiamo. Di nuovo, notiamo come l’organizzazione della stanza e del mobilio sia spiegata in primo luogo in riferimento agli ospiti e alla festività, a cui viene contrapposto l’uso informale del luogo stesso per i compiti o altre attività di "relax". L’invasione di attività non consone alle destinazioni convenzionali delle stanze provoca un disturbo su cui le famiglie stesse fanno auto-ironia: Estratto 6 Famiglia Olmi - Video tour Madre 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. Madre: → → → poi spostandoci nel resto di ca:sa ((MA ritorna nel salotto)) qui c'è il biliardino dei bambini, questa è una cosa e:: che è comparsa l'anno scorso con cui loro hanno molto giocato, è molto carino averlo gli amici che vengono lo apprezzano, a me fa molto disordine io: insomma l'ho accettato mio malgrado, capisco: che è una cosa molto carina, però certo e:: così il mio senso boh forse di decoro borghese della casa amerebbe non avere in mezzo un biliardino, ma insomma nello stesso tempo è una cosa molto carina ci abbiamo giocato anche qualche volta io e Marcello, ma Davide ne è molto geloso. 12 In questo caso, un oggetto che sarebbe espulso secondo una certa idea di spazio rientra per così dire dalla finestra attraverso il consenso sociale esterno alla sua presenza (“gli amici che vengono lo apprezzano”). Riassumendo questa prima parte dell’analisi sui dati italiani, notiamo il riferimento comune a un modello che prevede, anche se variamente disposti, due spazi-funzione: una zona con divano/poltrone/televisione, e una zona con tavolo grande. Queste due funzioni sono distinte, anche se di volta a volte possono ritrovarsi fuse o essere distinte in salotto/soggiorno oppure soggiorno/sala da pranzo. Possiamo affermare che si tratti di un modello in quanto esso viene mantenuto a fronte di una mancanza d’uso, nonché in quanto viene giustificata e presentata come una lacuna la mancanza o la forte riduzione di uno dei due spazi. Rispetto a quanto osservato nelle famiglie marocchine, però, la grandezza degli spazi e degli arredi motivata dal pensiero dell’ospite rivela qui aspetti problematici: gli ospiti ci sono poco, i grandi tavoli restano vuoti o usati come piani d’appoggio per attività non pertinenti, settori a volte di considerevole ampiezza della casa restano inutilizzati. Sebbene il modello non venga messo in discussione (cfr. la Famiglia Ripe che sottolinea la volontà di non modificare le cose, o la Famiglia Pico che continua a rievocare il salotto soppresso) esso rende visibile la modificazione della vita sociale delle famiglie borghesi nelle città, in termini di forte riduzione della socialità allargata, dai pasti all’ospitalità residenziale (“questo è un divano letto”, dice il padre di un’altra famiglia ancora, “se mai ci dovesse capitare di ospitare qualcuno”). Il modello di casa che viene riprodotto, con i suoi spazi per gli ospiti, si pone dunque come concretizzazione di una prescrizione culturale nei confronti dell’ospitalità; allo stesso tempo, questi spazi e il loro arredo si fanno monumento di una socialità ormai quasi virtuale, e testimonianza – a volte lievemente imbarazzante –di una riduzione d’uso dello spazio domestico alle sole presenze della famiglia nucleare. Per quanto riguarda invece gli arredi e i decori, ritroviamo piuttosto chiaramente nei saloni italiani gli elementi identificati già da Benjamin come caratterizzanti questi spazi in bilico tra il pubblico e il privato, ovvero il “lontano” (nel senso di esotico) e il “passato”, che a volte possono coincidere. In generale, nei nostri dati, si potrebbe dire che gli oggetti selezionati per questi spazi rientrano sotto due generali categorie: una è il “raro”, come opposto al “frequente” che implicitamente caratterizza il quotidiano, l’altra il “dono”. Troviamo cioè strumenti per hobbies abbandonati o troppo poco perseguiti (come attività musicali o artistiche), ricordi di viaggi o di persone lontane, oggetti delle famiglie di origine dei membri della coppia, collezioni di cui si sottolinea il contributo di altri. Vediamo qualche esempio prima di commentare queste scelte. Estratto 7 Famiglia Pico - Video tour Padre 1. 2. 3. Padre: → questa è una fm Nikon completamente manuale, quando avevo più tempo stampavo anche in bianco e nero ma (3.0) questo è il mio ultimo trofeo nel campo del nuoto, (1.0) Estratto 8 Famiglia Giti - Video tour Madre 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. Madre: → → e dietro c'è il mio violoncello che purtroppo è:: (.) questo è il mio passato °non si vede molto° perché io ho suonato undici anni il violoncello poi (.) ultimamente non: da a- >diciamo< da anni che non (.) non lo suono più purtroppo= =però io spero sempre che un giorno, siccome questa è una cosa che uno non lo dimentica, non è come le lingue, spero di suonarlo (.) ((la voce su questa parola assume un'inflessione particolare, quasi nostalgica)) [ … ] >tutto quello< che ci piaceva o che ha qualche valore Fig. 8 Violoncello della madre della Famiglia Giti dietro la televisione 13 11. 12. 13. 14. 15. 16. → → lo abbiamo messo in questa- questa vetrina, […] questo ho dimenticato di: far vedere a, come oggetto che mi piace o mi è vicino perché, ci- ci lega a- a (Lofoten) che è un isola in Norvegia dove ce l'hanno regalato, un posto sperdutissimo Estratto 9 Famiglia Pico - Video tour Madre 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. Madre: → → questa è una vetrinetta un- una vetrina molto dove io tengo tutti i miei oggettini un po' particolari sono delle: un po' collezioni: ecco mi piacciono tantissimo (.) gli elefanti quindi spesso me li rega:lano questi per esempio vengono da- da Venezia mio cognato me li ha regalati Estratto 10 Famiglia Cali - Audio tour Padre 1. 2. 3. 4. 5. Padre: → Fig. 9 Vetrina della madre della Famiglia Pico ho una piccola mania ho, faccio soltanto due collezioni ( ) una sono i manuali, ce ne ho qualche centinaio, e:: e l’altra sono le terre da paesi lontani […] questa viene dal deserto del Sinai, questa qui da Ayers Rock ((mentre elenca le sue terre, le mostra ai ricercatori, sono all’interno di piccoli contenitori di vetro trasparente, sigillati con il coperchio e il nastro adesivo)) Che cosa dunque caratterizza i salotti delle case italiane? Sottratti all’occupazione del quotidiano, visto il persistere di una potenzialità di accoglienza che non fa sottomettere questi spazio ad esigenze funzionali, i salotti accolgono, da un lato, “lo straordinario”: sono musei del viaggio (estratto 10) e della collezione (estratti 9 e 10), esibiscono monumenti alle passioni poco coltivate (estratti 7 e 8) o alle aspirazioni non ancora perseguite; sono dunque un insieme di documenti biografici delle esistenze vissute e di quelle virtuali dei Sé storici e dei Sé ideali dei singoli e della famiglia come gruppo. Crediamo che la funzione ospitante, anche se assente nelle sue incarnazioni più ovvie, è importante perché incoraggia e dà senso a queste inscrizioni, a questo lavoro museale in uno spazio pur ormai così privato e concluso. La casa, paradossalmente, acquista significato per i suoi abitanti attraverso la mediazione di uno sguardo esterno introdotto e prescritto da un modello abitativo diffuso su base culturale. Le testimonianze del “dono” sono un altro modo in cui il legame sociale si manifesta in questi spazi: collezioni arricchite da amici e parenti (estratto 9), presenti dunque nel ricordo e nel discorso con la menzione dell’origine di questo o quel pezzo, regali di nozze (estratto 8) o oggetti che ricongiungono i membri della famiglia alla famiglia più estesa, come ad esempio gli oggetti che vengono dalle case delle famiglie di origine della coppia. Questi elementi contribuiscono a una spiegazione della persistenza del modello del salotto borghese: pur nella contrazione di spazi delle case delle odierne città, pur nella sempre più invasiva moltiplicazione di beni e merci all’interno della casa, spazi relativamente sottoutilizzati non cambiano destinazione. La presenza dell’Altro non si configura necessariamente come regolare e concreto ingresso di ospiti; piuttosto, essa ha uno statuto simbolico potente, ed è installata nel cuore delle abitazioni come inesausto destinatario di processi autoriflessivi. 14 5. Un’ “intoccabile” socialità Foucault (2001 [1984], p. 22) sottolinea il carattere di "intoccabilità" delle "numerose opposizioni" usate per significare e classificare gli spazi: E probabilmente, la nostra vita è ancora governata da un certo numero di opposizioni che non si possono toccare, che l'istituzione e la pratica non hanno ancora osato violare; opposizioni che ammettiamo come date una volte per tutte; per esempio, tra lo spazio privato e lo spazio pubblico, tra lo spazio familiare e lo spazio sociale, tra lo spazio culturale e lo spazio dell'utile, tra lo spazio del tempo libero e quello del lavoro; tutti animati ancora da una sorda sacralizzazione. Queste classificazioni binarie -la loro persistenza, il loro ancora attuale successorestituiscono, secondo Foucault, una concezione dello spazio contemporaneo che non riesce a desacralizzarsi completamente, perché definito sulla base della qualità delle relazioni, delle reciproche collocazioni fra i soggetti. Nel nostro caso il salone diventa l'emblema di uno spazio che, nella contemporaneità familiare e nonostante le ridefinizioni funzionali, sembra mantenere nelle rappresentazioni delle famiglie coinvolte -con modalità e livelli diversi- una certa tendenza alla conservazione, alla tesaurizzazione non tanto delle sue caratteristiche formali, quanto di parte delle funzioni e delle simboliche che hanno decretato la sua comparsa, nel contesto occidentale, inizialmente nella casa alto borghese sin dalla fine del XIX secolo, e successivamente nelle abitazioni delle famiglie di classe media intorno agli anni '50 ed oltre. Questa "sacralizzazione" è legata non solo al fatto di accogliere con pertinenza, in quanto luogo-soglia, alcune delle maggiori opposizioni definite "intoccabili" da Foucault (privato/pubblico, familiare/sociale, tempo libero/lavoro), ma anche di continuare a fondare la propria identità sul riconoscimento della centralità della relazione con l'altro, offrendo uno spazio deputato alla sua costruzione e mantenimento. Se nelle case marocchine a Rabat lo spazio rarefatto del grand salon è saturo di presenze sacralizzate – il luogo della preghiera e di ospiti tutt’altro che rari – e in quelle marocchine a Roma vi si concentrano esposizioni identitarie fortemente marcate – nelle case di italiani a Roma gli ospiti scarseggiano e a tutta prima sembrerebbe che gli spazi ad essi dedicati siano prossimi a una cancellazione dal modello abitativo comune. Tuttavia, vediamo che le prescrizioni culturali relative alla disposizione degli spazi domestici, pur nelle riletture e nei sincretismi effettuati dai singoli nuclei familiari, conservano soprattutto un principio di socialità. Esse installano un passaggio nell’interiorità dei luoghi privati attraverso cui si mantiene aperto il contatto con l’esterno, e inducono nei residenti quelle autorappresentazioni che solo un occhio esterno può giustificare. Sono zone di dialogo, che sia racconto di sé, storia di migrazione o preghiera. Bibliografia Assmann, J. (1997). La memoria culturale. Torino: Einaudi (ed. or. 1992). Bammer, A. (1992). Editorial. New Formations: Journal of Culture/Theory/Practice, 2, 2, 1-24. Baynham, M., & De Fina, A. (2005). Dislocations/Relocations: Narrative of Displacement. Manchester: St Jerome. Bendiner-Viani, G. (2005). Guided Tours in Prospect Height, Brooklyn. Space and Culture, 8, 4, 459-471. Benjamin, W. (2000a). Parigi, la capitale del XIX secolo. Exposés. In W. 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