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Il mito di crono Dolore e depressione nel disperato bisogno di

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Il mito di crono Dolore e depressione nel disperato bisogno di
Il mito di crono
Dolore e depressione nel disperato bisogno di maternità
Dott. Francesco Attorre
Saggio sull’origine del male e sul dolore della vita
La cronaca degli ultimi tempi non esita tante, troppe volte, con indicibile ferocia e
crudeltà, a ferire le nostre coscienze riproponendoci “scene” e prospettandoci
“scenari” dal sapore apocalittico che i nostri sensi avrebbero fatto bene a meno di
esperire nella loro intrinseca “dimensione di realtà”, lasciandoli vivere nella innocuità
della fantasia, quel luogo dove tutto diviene possibile, dove il Peccato Originale
dell’uomo di assomigliare a Dio, di “addormentarsi e risvegliarsi Signore del Cielo e
della Terra”, scopre tutta la sua fragile concretezza proprio in quella nudità, cioè in un
“corpo” che condensa su di sé tutte le spinte dinamiche dell’ essere umano, a
qualunque livello esse siano collocate. Già, il corpo. Quel corpo che Icaro ha consegnato
alle ali del padre Dedalo perché gli “regalassero il sole”. Quel corpo che riesce a
costituirci parte di una “meravigliosa immensità”. Quel corpo sul quale vibrano
instancabili “sentimenti, emozioni, sensazioni”. Quel corpo “custode” della nostra
anima, del suo anelito verso l’«eternità». Eppure quello stesso corpo si scopre, oggi più
che mai, nella sua straordinaria vulnerabilità, in grado di farsi carico dell’Infinito, fino a
pretendere di possederlo con la “morte”, nella morte. Una morte che diviene forza
vieppiù irrefrenabile e che lentamente e subdolamente si impossessa di tutto quanto ci
appartiene. Il vuoto dell’oblio diviene “significato” e riempie paradossalmente le nostre
coscienze, fino ad ubriacarle ed obnubilarle. E così ci troviamo qui a cercare ragioni che
possano in qualche misura rendere meno tremenda l’idea che una madre possa
“squarciare” il capo del proprio bambino, o lo possa “soffocare” in una vasca da bagno,
o lo possa “deporre” come un qualsiasi alimento in un freezer e lasciarlo sadicamente
congelare, o lo possa “buttare”, come fosse sudicia immondizia, dentro un cassonetto
perché sia triturato insieme agli altri rifiuti e di lui non rimanga più traccia. Le ragioni di
tale scempio ci sono, e probabilmente sono tante, ma non è ritrovandole e
circoscrivendole in definite categorie dalle quali staremo attenti di “mantenerci alla
larga” che la nostra anima sarà paga. Qualunque sforzo ciascuno di noi possa fare non
sarà mai in grado di esimerlo dall’essere presente più che mai dentro un male che non
è solo quello che ci fanno vedere in una scatola magica che ha la pretesa di dirci la
Verità; il male di chi condivide un tempo ed uno spazio che un Disegno più grande,
infinitamente più grande di noi, ci ha dato in grazia, è inesorabilmente il “male di
ciascuno di noi”. Ed un percorso alla ricerca delle ragioni profonde di questo male finirà
inevitabilmente per scandagliare l’anima di ognuno di noi fino a far riaffiorare ciò che
temevamo, ciò che ci illudevamo fosse morto per sempre, negli “inferi” del nostro
inconscio, laddove Crono aveva fatto precipitare i suoi fratelli Ciclopi ed Ecantochiri
affinchè nessuno potesse prendere il suo posto, neppure i suoi figli, i quali furono da
egli divorati uno ad uno sino a quando l’inganno di Rea, la quale già nel nome si porta il
peso della colpa, riuscì a salvare l’ultimo dei suoi figli, Zeus, ossia l’unica “possibilità di
salvezza”, l’unica speranza perché la verità si vestisse di un corpo e attraverso quel
corpo potesse”cambiare la storia”. Il mito, nel suo rincorrere il cambiamento,
accompagna da sempre l’essere umano e continuerà a farlo per sempre. Ecco il motivo
per cui ho scelto di partire da Crono e di lasciarci accompagnare, in questo viaggio alla
ricerca di un frammento di “senso”, dall’inconscio, da colui cioè che ci appartiene
probabilmente più di ogni altra cosa, da colui che ci permette di metterci in gioco senza
razionalizzazioni, senza giustificazioni, nella nudità della nostra umanità. Forse, alla fine
di questo momento che mi onoro di condividere con il lettore, quella nube che pervade
il cielo della nostra coscienza ci sembrerà meno scura. Forse riusciremo a scorgere un
bagliore di luce tra le mura di una caverna che ora ci sembra tetra e senza uscita e per
questo ci terrorizza lasciandoci sprofondare nel baratro di un “angoscia” che, incapace
di viversi nella sua violenza, sceglie di chiamarsi “depressione”, diventando una
malattia “socialmente accettata” e per questo evidentemente assai meno “pericolosa”.
La nostra trattazione coinvolgerà contemporaneamente mamma e bambino,
rivolgendosi un momento all’una ed un momento all’altro, oppure rivolgendosi ad essi
in quell’ “unicum” che vengono a generare, una sorta di universo laddove l’una si perde
nell’altro e viceversa. E’ impossibile considerare l’una prescindendo dall’altro. Il perché
diventerà chiaro via via che queste righe scorreranno. “Mamma e bambino sono e
resteranno inseparabili”. Ogni individuo, secondo Eric Berne, vive la sua vita come
prigioniero di un “copione” del copione del proprio destino. Tale copione viene scritto
nel quotidiano trans agire per tre anni di seguito dalla madre e dal figlio. Ciascuno di noi
quindi viene inconsciamente a progettare un piano di vita, e lo fa nei primi tre anni suoi
di vita. Tale copione è la conseguenza del condizionamento culturale cui l’infante viene
sottoposto. È, in ultima analisi, un piano di vita che viene redatto nella prima infanzia e
che subisce varie riscritture via via che l’individuo diventa adulto, ma la cui trama ed il
finale rimangono sostanzialmente immutati. Una volta Freud comparò la coscienza
umana a un salottino in cui si ricevono individui di ogni genere. Nella stanza d’ingresso,
dietro la porta chiusa dell’inconscio, si affolla la massa rimossa di essenze psichiche, ed
alla soglia c’è un guardiano che fa accedere alla coscienza solo quando si addica al
salotto. Le resistenze, focus di ogni intervento in campo psicoanalitico, possono avere
quindi tre origini: il salotto, cioè la coscienza, che non vuole fare entrare determinate
cose; il guardiano, una specie di negoziatore tra la coscienza e l’inconscio che, per
quanto assai subordinato alla coscienza, possiede pur tuttavia una volontà propria e
talvolta sbarra il passo caparbiamente all’ ingresso anche di coloro cui la coscienza è
ospitale; e l’inconscio stesso che non ha voglia di trattenersi nell’ambiente decoroso e
soporifero del salotto. Ecco cosa ci aspetta nel viaggio alla ricerca del “mistero”
dell’uomo. Ci imbatteremo con Colonne d’Ercole all’apparenza insuperabili. Ma
l’orizzonte che si spalanca oltre è strabiliante, assolutamente straordinario, talmente
sublime da vedere un sacrificio come quello che l’analisi “psicoanalitica” permette, a
chi le si avvicina con animo innocente e libero di volare tra i suoi cieli immensi senza il
timore di cadere a strapiombo nel baratro delle proprie inconfessabili paure, di
compiere. C’era una volta una donna, racconta Georg Groddeck, un medico allievo di
Sigmund Freud che si è molto occupato dello studio dell’inconscio e di ciò che accade
nella mente della madre che aspetta un bambino come pure nella mente dei bambini
sin dalle primissime fasi della loro vita neonatale, la cui madre respinse la figlioletta
appena nata e non scelse di allattarla, per quanto l’avesse fatto con gli altri figli,
dandola in consegna alla governante e al poppatoio. La piccina però prediligeva lasciarsi
torturare dai crampi della fame piuttosto che ciucciare una tettarella di gomma e
sarebbe morta se il medico non avesse con veemenza fatto recedere la madre dalla sua
repulsione per la figlioletta. Dopo poco quella madre prima insensibile, divenne
oltremodo apprensiva. Fu chiamata una balia, e la madre non lasciava trascorrere ore
senza andare a vedere la bambina. La bambina adesso prosperava, e divenne una
donna assai robusta. Divenne la preferita della madre, che fino alla morte le corse
dietro implorando un po’ del suo affetto. Ma nella figlia era ormai cristallizzato “l’odio”.
La sua vita fu una catena di ostilità, dura come l’acciaio, i cui singoli anelli furono
fucinati dalla “vendetta”. Ha vessato, senza sosta, la madre finchè è vissuta; l’ha
abbandonata, indifferente, sul letto di morte; ha perseguitato, senza rendersene conto,
tutti coloro che in qualche modo le ricordavano la madre e ha conservato, sino alla fine
dei suoi giorni, quell’avidità che le fu inesorabilmente instillata dalla fame. Non ha mai
avuto figli. Coloro che odiano la madre non hanno figli, ed è tanto vero che, nei
matrimoni sterili, si può supporre senz’altro che una delle due parti sia ostile alla
propria madre. Chi odia sua madre ha paura del proprio figlio, perché l’uomo vive
secondo il principio quel che è fatto è reso. Al contempo si strugge dal desiderio
terribile di avere un bambino. Deambula persino come le gravide. Quando vede un
lattante, le si gonfia il seno, e quando le sue amiche sono incinte, la sua pancia
aumenta. Per anni, viziata dalla vita e dalla ricchezza, si era recata quotidianamente, in
qualità di infermiera ausiliaria, in una reparto di maternità, dove puliva i bambini,
lavava le facce e si prendeva cura di partorienti e puerpere; nel suo folle desiderio si
portava i neonati al seno privo di latte, di nascosto, come una criminale. Ella ha vissuto
di odio, di paura, di invidia e dalla fame, straziante e concupiscente, di qualcosa che
non poteva avere. Secondo la teoria psicoanalitica, la psicosi maniaco-depressiva può
essere fatta risalire allo stadio orale dello sviluppo psico-sessuale. Se, durante la sua
infanzia, un soggetto non ha sofferto di difficoltà e privazioni nell’allattamento al seno,
è probabile che il piacere sia un tratto saliente della sua struttura di personalità. Cosi si
forma, appunto secondo la teoria psicoanalitica, il tipo “ottimista” di persona che crede
in se stessa e negli altri: ogni cosa che intraprenderà gli riuscirà. In più sarà flemmatico
e fatalista, perché il seno materno farà scorrere, in eterno, latte per lui. E proprio
perché da infante fu trattato cosi generosamente, un altro suo tratto di carattere sarà
proprio la generosità dovuta alla sua profonda “identificazione nella figura femminile”.
Al contrario, se l’infante non sarà gratificato, durante l’allattamento, da adulto
svilupperà un attitudine essenzialmente pessimistica: sarà un tipo apprensivo e non si
stancherà mai di chiedere perché, non potrà mai restare soddisfatto e così, alla fine, si
convincerà che non lo potrà mai essere. Il compito della mamma è essenziale per la vita
del bambino, non solo per quanto attiene alla sua protezione, pulizia, cura, ma per
qualcosa di assolutamente insolito che la mamma viene ad essere in grado di mettere
in atto durante le primissime fasi di vita del suo bambino: “costituirgli la dimensione
dell’Inconscio”, cioè permettere che il suo Es, quella forza indefinibile ed incontenibile,
divenga qualcosa di più, di qualcosa di assolutamente definito, ossia il suo inconscio.
Ogni uomo è vissuto da una realtà per lui oscura. In lui c’è un “Es”, qualcosa di
portentoso, una forza travolgente che governa tutto ciò che egli compie, tutto ciò che
gli accade. Di questo Es noi conosciamo soltanto quanto si trova all’interno della nostra
coscienza. In massima parte esso si trova in una regione impenetrabile. E quando,
grazie alla mamma, diviene “inconscio”, si appropria di simboli e immagini per
cominciare finalmente, nella sua nuova veste, a vivere in un mondo parallelo, in un
mondo alternativo dove l’unica cosa che conta è seguire la “felicità”, sfiorarla,
afferrarla. Durante l’allevamento del piccolo la mamma emette molteplici e variegati
segnali metacomunicativi (ammiccamenti, smorfie, corrugamenti) che sfuggono persino
alla sua consapevolezza, ed è attraverso tali segnali che si realizza il “condizionamento
culturale del bambino”, ossia il suo inserimento nel contesto socio-culturale in cui è
stato collocato dal “destino”. L’infante infatti non sa parlare, né tanto meno comprende
il “linguaggio articolato-simbolico” usato dalla madre. Egli utilizza, in qualità di segnali,
unicamente le numerose posture ed il gesticolare che inevitabilmente accompagnano
le frasi materne. Solo a questi egli è in grado di attribuire un significato e quindi può
trasformarli in messaggi, dotati di un potere informativo. L’infante comincia ad
adottare un comportamento comunicativo verbale soltanto durante il terzo anno di
vita. Ma a quell’epoca egli ha già dovuto imparare, sotto la pressione materna, quando
può mangiare e quando deve dormire. Ha già imparato a controllare gli sfinteri, cioè a
soddisfare i suoi bisogni vescicali e rettale quando e dove vuole la mamma. Il primo
comportamento culturalmente definito e il “comportamento sfinterico”; esso dimostra,
in ultima analisi, che l’infante di 18 mesi di età ha già afferrato, nella sua essenza e
grazie ai segnali della madre, l’intimo significato comune ad ogni tipo di cultura: egli ora
è infatti capace di dilazionare il soddisfacimento di un bisogno-pulsione. Benché vittima
di tensioni muscolari quanto mai impellenti, egli soddisfa i suoi bisogni vescicali e rettali
nei tempi e nei modi prescritti dell’area culturale nella quale è stato gettato dalla
nascita e di cui la madre interpreta per lui la normativa ed il sistema-valori. Il
condizionamento culturale è il processo che trasforma l’infante, cioè il bambino che
non parla, in una persona. E a tutto questo contribuisce in modo determinante la
mamma. Eppure nessuno di noi sembra memoria di tutto questo. Non ricordiamo nulla
di questa fase così importante, così tremendamente contrassegnante la nostra vita.
Non è abbastanza singolare che non sappiamo più niente dei nostri primi tre anni di
vita? Qua e la affiora la debole memoria di un volto, di una porta, di una carta da parati
o di qualcosa che potremmo avere visto durante la primissima infanzia. Ma nessuno è
in grado di ricordare in alcun modo i suoi primi passi e il modo in cui ha imparato a
parlare, mangiare, vedere, sentire. Eppure sono tutte esperienze vissute. È
immaginabile che un bambino, la prima volta che scivola in una stanza, provi
impressioni più profonde di quelle di un adulto durante un viaggio in Italia. È
immaginabile che un bambino, la prima volta che si rende conto che quella persona con
quel sorriso benevolo è la sua mamma, ne ricavi un emozione più profonda di un uomo
che sposa la donna amata. Perché dimentichiamo tutto ciò? In realtà noi non
dimentichiamo quei primi tre anni, ma il loro ricordo abbandona la nostra coscienza per
continuare a vivere nell’inconscio e rimane così vivo che tutto quello che facciamo si
nutre di questo patrimonio inconscio di ricordi: camminiamo come allora imparammo a
fare, parliamo e percepiamo come facevamo allora. Ci sono quindi cose che, rifiutate
dalla coscienza benché siano necessarie per vivere, vengono conservate, proprio
perché necessarie, in regioni del nostro essere che definiamo inconscio. Ma perché la
coscienza dimentica esperienze senza le quali l’uomo non può esistere? Proviamo a
domandarci perché le mamme sanno tanto poco dei loro figli e perché anche loro
dimenticano l’essenziale di questi tre anni? Forse le madri fingono soltanto di
dimenticare. O forse davvero non hanno più coscienza dell’essenziale. L’essere adulti è
un prendersi gioco di se, di questo essere bambini dal quale non usciremo mai. Lo si è
di rado adulti, si fa soltanto finta, come un bambino gioca a fare il grande. Non appena
viviamo profondamente siamo bambini, e l’Es è la nostra vera vita. Basta guardare un
essere umano nei momenti di profondo dolore o di grande gioia: il suo volto si fa
infantile, infantili si fanno i suoi movimenti, la voce riacquista quella duttilità e il cuore
gli batte come nell’infanzia, gli occhi brillano o si velano. Basta osservare qualcuno che
crede di esser solo e subito ne emerge il bambino. Talvolta il modo assai buffo: si
sbadiglia, ci si gratta smodatamente la testa e il sedere, ci si mettono le dita nel naso
etc……. la vita inizia con l’essere bambini e percorre su mille strade l’età adulta verso la
meta di tornare bambini: l’unica differenza è che taluni tornano bambini, altri puerili.
Per capire quanto è forte l’Es, basta veder per strada alcune bambine che sembrano
madri, delle proprie madri, o lattanti con il volto da vecchi. Tutto quanto appare ai
nostri occhi, ossia l’habitus che assumiamo, è gestito dall’ Es nella sua dimensione più
evoluta: l’inconscio. Tutti gli uomini provano l’invidia di non essere donna e di non
poter diventare madre. E lo dimostra la stessa lingua: l’uomo più virile non si vergogna
di dire che ha “concepito” questo o quel pensiero, parla del suo “figlio spirituale” e
definisce un azione portata faticosamente a compimento un “parto difficile”. Che ogni
persona consista di un maschile e di un femminile è un fatto scientificamente fondato,
per quanto spesso nel pensare e nel parlare non se ne tenga conto, come spesso
accade per le verità scientifiche. Quindi nell’essere che chiamiamo uomo è presente un
femminile e nella donna un maschile, e nell’idea dell’uomo di avere un bambino l’unica
cosa strana è il fatto che sia negata tenacemente. Ma la negazione niente toglie al
fatto. La cosa più evidente in una gravida è il pancione. Anche nell’uomo la pancia
prominente può essere interpretata come un fenomeno gravidico. Naturalmente egli
non ha un bambino nel ventre, ma si crea questa pancia prominente bevendo,
mangiando, ingurgitando aria etc… perché desidera essere gravido e, grazie alla pancia
crede di essere gravido. Ci sono gravidanze simboliche e nascite simboliche, esse
nascono nell’inconscio e durano più o meno a lungo, ma scompaiono senza eccezioni
quando si scopre il significato simbolico dei loro processi inconsci. L’Es è così singolare
che non si preoccupa affatto della scienza anatomo-fisiologica, e ripete
autocraticamente la vecchia saga della nascita di Atena dalla testa di Zeus. Questo mito,
come gli altri, è sgorgato dal regno dell’inconscio. I fenomeni collaterali della
gravidanza, la nausea, il mal di denti, hanno in molte circostanze, radici simboliche. Le
emorragie di ogni genere, soprattutto, naturalmente, le emorragie uterine, ma anche
emorragie nasali, anali, polmonari, hanno uno stretto rapporto con le presentazioni
della nascita. La piaga dei vermi intestinali, da cui sono perseguitati per tutta la vita,
hanno spesso la sua origine nell’associazione di verme-bambino e scompare non
appena si sottrae al vermicello il terreno di cultura del desiderio simbolico inconscio.
L’Es, la cosa da cui siamo vissuti, non riconosce come date neppure le differenze
sessuali, proprio come accade per le differenze di età. Ci sono persone che soffrono di
flatulenza dopo aver mangiato cavolo,piselli,fagioli,carote e cetrioli. Ogni tanto anche i
dolori di parto iniziano con il mal di pancia e la stessa nascita è accompagnata da
vomito e diarrea. I collegamenti che l’Es, in modo abbastanza folle per il nostro
stimatissimo intelletto, stabilisce nell’inconscio, sono addirittura ridicoli. Così ad
esempio esso trova nel cavolo analogie con la testa del bambino, i piselli e i fagioli se ne
stanno nel loro baccello come il bambino nella culla o nel ventre materno, la minestra e
la purea di piselli ci ricordano i pannolini. Quando i bambini giocano con un cane, lo
osservano e ne seguono con vivo interesse tutte le attività, vedono talvolta che, la dove
si trova l’organo che serve ai suoi bisognini, emerge una cosina rossa a punta che
sembra una carota. Segnalano questo strano fenomeno alla mamma o a chi si trovi nei
pressi, e apprendono dalle parole o dallo sguardo imbarazzato dell’adulto che di quella
cosa non si parla, anzi, non la si nota nemmeno. L’inconscio conserva quell’
espressione, con maggiore o minore chiarezza, e poiché una volta ha associato la punta
rossa del cane a una carota, rimane ostinatamente attaccato all’idea che anche le
carote siano cose proibite, e quando gli offrono di mangiarle risponde con disgusto e
nausea, oppure con una gravidanza simbolica. Perché anche in questo l’inconscio
infantile è piuttosto sciocco rispetto al nostro già lodato intelletto, perché crede che i
semi del bambino giungano nella pancia, dove crescono, attraverso la bocca, col cibo;
allo stesso modo in cui i bambini credono che da un seme di ciliegia inghiottito crescerà
loro nella pancia un ciliegio. Che però quella cosa rossa del cane abbia a che fare con il
concepimento dei bambini, nella loro oscura innocenza infantile lo sanno altrettanto
bene o altrettanto confusamente come sanno che il seme per il fratellino o la sorellina,
prima di penetrare nella mamma, deve trovarsi in qualche modo e da qualche parte in
quella strana appendice dell’uomo e del maschietto che sembra una codina attaccata al
posto sbagliato cui è appeso un sacchettino con due uova o noci e di cui si può parlare
soltanto con cautela, che si può toccare soltanto quando si fa pipì e con la quale
soltanto la mamma può giocare. Il cetriolo è indigesto perché presenta fatali
somiglianze esterne con il membro paterno e, anche all’interno, contiene semi che
simboleggiano i semi di futuri figli. Se osserviamo per 24 ore di seguito una mamma col
suo bambino si può già vedere una buona dose di indifferenza, disgusto, odio. Infatti in
ogni mamma, oltre all’amore per il figlio, esiste anche l’avversione per il figlio. L’uomo è
soggetto a una legge che dice: laddove è amore, c’è anche odio; laddove è rispetto, c’è
anche disprezzo; laddove è ammirazione, c’è anche invidia. Si tratta di una legge
universale, e anche le madri non fanno eccezione. Accade che l’inconscio conosca
questo sentimento di odio. E allora la mamma non sa o non vuole sapere niente
dell’odio contro il figlio, ecco perché non si ricorda quasi niente dei primi anni di vita
del figlio. La nausea della gravidanza nasce dalla ripugnanza dell’Es per qualcosa che si
trova all’interno dell’organismo. La nausea esprime il desiderio di allontanare questo
elemento ripugnante, e il vomito costituisce il tentativo di sbarazzarsene. In questo
caso, quindi, desiderio e tentativo di aborto. Con il mal di denti l’Es dice, con la voce
sommessa ma penetrante dell’inconscio: “non masticare, abbi cura di te, sputa quel
che ti piacerebbe mangiare!” E’ vero che quando la gravida ha mal di denti,
l’avvelenamento operato dal seme dell’uomo è ormai cosa fatta, ma forse l’inconscio
spera di potersi liberare di quel poco veleno, purchè non se ne aggiunga di nuovo. In
effetti esso cerca di uccidere il veleno vivo della fecondazione, e proprio con il mal di
denti. Perché, e qui emerge nuovamente quella totale mancanza di logica che pone l’ Es
molto al di sotto dell’intelletto pensante, l’inconscio confonde dente e bambino. Per
l’inconscio il dente è un bambino. Il dente è il bambino della bocca, la bocca è l’utero in
cui esso cresce proprio come il feto cresce nel ventre materno. Questo simbolismo è
profondamente radicato nell’uomo, altrimenti non si potrebbe parlare, per la vulva, di
piccole e grandi labbra. Il mal di denti è quindi il desiderio inconscio che il seme del
bambino si ammali e muoia. Vomito e mal di denti scompaiono quando la mamma
prende coscienza del suo desiderio inconscio che il bambino muoia. Spesso accade che
una donna desideri un bambino con tutto il cuore e pure rimanga infertile, non perché
lei o il marito siano sterili, ma perché c’è una corrente nel suo Es che afferma
ostinatamente: è meglio che tu non abbia figli. E ogniqualvolta esiste la possibilità di
una fecondazione, quando il liquido seminale è in vagina, questa corrente diventa così
potente da impedire che essa abbia luogo. Essa chiude la bocca dell’utero, sviluppa un
veleno che uccide lo spermatozoo, o uccide l’uovo. Il risultato è sempre lo stesso: non si
ha la gravidanza soltanto perché l’Es non lo vuole. Quando nell’Es è l’odio ad avere la
prevalenza, esso costringe la donna a ballare o a cavalcare o a viaggiare o addirittura a
visitare persone che fanno uso di amichevoli aghi o sonde o veleni o a cadere o a farsi
spingere e maltrattare o ad annegare. Si, possono anche accadere cose ridicole, per le
quali neppure l’Es sa cosa sta facendo. Così la nobildonna che conduce un esistenza
elevata, ben al di sopra del suo basso ventre, è solita fare pediluvi caldi per poter
abortire innocentemente. Ma il bagno caldo è soltanto gradito al feto, e ne favorisce la
crescita. Ogni tanto, come vediamo, l’Es si prende gioco di sé. Il bambino nasce per
odio. La mamma non ne può più di essere grassa e di portarsi dietro tutti quei chili di
peso: per questo lo butta fuori, e senza troppe delicatezze. Se questo disgusto non si
verifica, il bambino rimane nel ventre materno e si pietrifica. L’amore materno è
naturale, è radicato in ciascuna madre sin dall’inizio, è un sentimento sacro che per la
donna è innato. C’è in primo luogo il momento del concepimento, il ricordo cosciente o
meno di un istante beato. Perché senza questo sentimento davvero celeste non si ha
nessun concepimento. Per determinare le sensazioni dell’Es occorre rivolgersi agli
organi attraverso i quali esso parla: gli organi del piacere della donna. C’è da restare
stupiti per quanto poco le pareti vaginali o le labbra della vulva, il clitoride o i capezzoli
si curano del ribrezzo della coscienza. Essi reagiscono a modo loro allo sfregamento e
alla stimolazione, che l’atto sessuale sia gradito o meno alla persona pensante. Ci sono
molte donne che, specie quelle che si suppongono frigide, hanno una forte paura ad
andarsene da sole nel bosco o nella notte buia: ma per l’inconscio la paura è la
conseguenza di un desiderio represso, e chi teme lo stupro lo desidera. Molte donne
desiderano essere vittime di uno stupro, anche se fanno di tutto per non ammetterlo.
Se una donna comincia a frugare tra i suoi ricordi, troverà tutta una serie di momenti in
cui ha sudato freddo perché Le era parso di sentire un passo dietro di sé, in cui si è
svegliata in un qualche albergo col pensiero: ma ho chiuso la porta a chiave? In cui si è
infilata gelando sotto le coperte, gelando, perché doveva raffreddare il calore interiore,
onde non essere bruciata. Quante donne fanno la lotta col loro amato simulando uno
stupro. Ogni donna desidera, inconsciamente, questa estrema prova d’amore: essere
così bella e seducente che l’uomo dimentichi ogni altra cosa e non sappia far altro che
“amarla”. Lo vogliono tutte, e chi lo nega si sbaglia o mente consapevolmente. Se una
donna chiudesse gli occhi e sognasse liberamente, senza intenzioni o pregiudizi, in
pochi secondi sarebbe avvinta dalle immagini del sogno, trascinata, tanto che a
malapena oserà pensare ancora, respirare ancora. Ecco i rami calpestati, un balzo
repentino e l’hanno afferrata alla gola, gettata a terra, le hanno lacerato ciecamente i
vestiti, e proverebbe una paura folle……..eppure continuerebbe a sognare il martirio, la
vagina, il bambino nel suo ventre, il tribunale e il nuovo con il suo stupratore davanti al
giudice vestito di nero, straziata dal sapere che Lei desiderava ciò che egli ha fatto e per
cui sta scontando la pena. Terribile, inconcepibile e follemente avvincente. O
sognerebbe un’altra scena, quella della nascita del bambino, o quella in cui lei sta
lavorando e si punge le mani con l’ago mentre il bambino gioca spensierato ai suoi piedi
e lei non sa come nutrirlo. Povertà, indigenza, miseria. E poi viene il principe, buono,
nobile e magnifico, che l’ama, che lei ama ed al quale lei rinuncia. E un’ultima scena, il
bambino che cresce nel suo ventre e con lui la paura della sua nascita, e lei lo soffoca,
lo affoga in uno stagno e poi scompare lei stessa davanti al giudice, in quanto assassina.
D’un tratto si apre il mondo delle fiabe, si allestisce una pira, l’infanticida è legata al
palo e le fiamme le lambiscono i piedi. E se la donna ascoltasse cosa le sta sussurrando
il suo Es, sentirebbe che indica il palo e le lingue di fuoco suggerendole di chi sono quei
piedi che uniscono alla fiamma quanto c’è di più profondo nel suo essere. E si
accorgerebbe che è sua madre. L’inconscio è enigmatico, e tra foresta, forte e forza
sonnecchiano angeli e demoni. Una delle radici dell’amore materno è costituita dal
piacere provato durante il concepimento. Ancora, non possiamo non riconoscere la
sensazione per la mamma di essere l’unica persona al mondo responsabile di un essere
vivente, legata all’idea di proteggere un essere indifeso e di nutrirlo col proprio sangue.
Ebbene, questa idea conferisce alla madre la sensazione di essere simile a Dio e susciti
quindi in lei una pia devozione per la Vergine Maria. Il corpo femminile presenta uno
spazio cavo e vuoto che in gravidanza è riempito dal bambino. La donna percepisce sin
dall’infanzia la mancanza di qualcosa, in relazione al suo basso ventre (invidia del pene)
che in molti casi si spinge fino a ledere profondamente l’autostima della donna stessa.
A un certo momento, ma comunque molto presto, vuoi osservando, vuoi in un altro
modo, la bambina si accorge che le manca qualcosa che invece hanno sia il bambino
che l’uomo. La piccola, quindi, si accorge che le manca un pezzo e interpreta questo
fatto come un difetto del suo essere. A ciò si riallacciano idee di colpa e vergogna.
All’inizio la speranza che questo difetto possa scomparire con la crescita tiene ancora a
bada il sentimento di inferiorità, ma questa speranza non si realizza, e rimangono
soltanto un senso di colpa dai fondamenti sempre più vaghi e un anelito indefinibile,
fenomeni entrambi che perdono gradualmente e costantemente chiarezza per
acquistare invece intensità emotiva. Questo va avanti per lunghi anni nella vita
profonda della donna, uno strazio che non smette di bruciare. E poi giunge il momento
del concepimento, la magnificenza della sazietà, della “scomparsa del vuoto”,
dell’invidia lacerante e della vergogna. E poi nasce una nuova speranza, la speranza che
nel suo corpo cresca una nuova parte del suo essere, per l’appunto il figlio, che non
avrà questo difetto perché sarà maschio. Ogni gravida, nel suo inconscio, desidera dare
alla luce un figlio maschio. L’inconscio di una donna immagina il suo bambino dell’età di
due anni, felicemente disteso sul fasciatolo, nell’atto di innaffiare spensieratamente il
mondo con un alto zampillo ad arco……….. E’una fantasia molto suggestiva, in relazione
a quanto abbiamo detto…… Il fatto che il bambino sia concepito, cresca e divenga
pesante si impossessa anche in un altro modo dell’anima femminile, intrecciandosi con
abitudini saldamente radicate e sfruttando, per legare la madre al figlio, affetti che
dominano il cuore umano e la vita umana a partire dagli strati più nascosti
dell’inconscio. Un bambino seduto sul vasino non ama cedere subito quello che
l’adulto, cui questa occupazione dà meno piacere, pretende da lui prima teneramente e
poi con sempre maggiore insistenza. Nel basso ventre hanno sede, nella zona del retto
e della vescica, nervi sensibili quanto inclini al piacere, la cui stimolazione suscita
sensazioni gradevoli. Basta ricordare perché i bambini, tante volte, giocando o facendo i
compiti, si strofinano inquieti sulla sedia, oppure dimenano le gambe finchè non
risuonano le parole fatali della mamma: “amore, ti scappa la pipì?” Perché tutto
questo? Ma no, è la voluttà a creare questa situazione, una forma singolare di auto
gratificazione, esercitata sin dall’infanzia e in seguito perfezionata sino a divenire
“costipazione”; soltanto che, purtroppo, a quel punto l’organismo non risponde più con
la voluttà ma, per il senso di colpa legato alla masturbazione, produce mal di testa o
vertigini o mal di pancia o come altro si possono chiamare le incalcolabili conseguenze
dell’abitudine di procurarsi durevolmente una pressione sui nervi genitali. È facile
pensare, a questo punto, a coloro che abitualmente escono senza aver provveduto ad
evacuare per poi essere colpiti dal bisogno per strada; costoro lottano con crampi
violenti, della cui dolcezza essi stessi non sono coscienti. Soltanto chi si renda conto
della regolarità e della completa mancanza di necessità di queste lotte tra essere
umano e “ano” giunge gradualmente alla logica conclusione che qui l’inconscio si
dedica innocentemente a pratiche onanistiche. Ebbene, anche la gravidanza è una
masturbazione innocente, solo in modo molto più intenso, perché qui il peccato è
sacro. Ma tutta la sacralità dell’essere non impedisce che l’utero gravido stimoli i nervi
e provochi voluttà. E tale voluttà non viene percepita dalla coscienza. Il movimento del
bambino ha la stessa valenza dell’atto sessuale, per l’inconscio. Addirittura lo stesso
parto è un atto di voluttà suprema la cui impressione rimane come amore per il figlio,
come amore materno. Chi assiste ad un parto assiste ad un evento sbalorditivo: la
partoriente urla e si lamenta, ma nel suo volto brilla un’eccitazione incredibile e i suoi
occhi emanano quello strano bagliore che nessun uomo dimentica, dopo che l’ha fatto
nascere negli occhi di una donna. Sono occhi strani, occhi stranamente velati, che
parlano di voluttà. E che cosa c’è di inaudito e di incredibile nel fatto che il dolore possa
essere piacere, piacere supremo? La vagina della donna è davvero insaziabile. Qual è la
vagina femminile che si accontenterebbe di avere dentro di sé in membro grande un
dito quando può averne uno forte come il braccio di un bambino? La fantasia della
donna lavora con strumenti potenti, l’ha sempre fatto e lo farà sempre. Tanto più
grande il membro, tanto più alto il piacere: durante il parto il bambino lavora con il suo
testone nel canale vaginale, sede della gioia della donna, proprio come il membro di un
uomo, con lo stesso movimento, avanti e indietro, su e giù, con la stessa durezza e
violenza. Certo, fa male, questo supremo e per questo indimenticabile e sempre
desiderato atto sessuale, ma costituisce il vertice di tutte le gioie femminili. È
interessante riflettere su quanto accade ai bambini durante il bagnetto. In genere la
cosa si svolge, dice Groddeck, tra urla e strepiti, ma queste urla si instaurano in
presenza di determinate procedure e cessano con altre. Il bambino che un attimo prima
gridava, mentre gli si lavava il viso (perché gli si copre la bocca, naso e occhi), si
tranquillizza all’istante quando la morbida spugna lo accarezza avanti e indietro tra le
gambe. Anzi, il suo visetto assume un’espressione quasi rapita, ed egli è tranquillissimo.
E la mamma, che poco prima doveva sgridare o consolare il bambino per
quell’antipatico bagnetto, assume all’improvviso un tono tenero, amorevole, quasi
innamorato, ed anche lei rimane per qualche istante rapita e i suoi movimenti si fanno
diversi, più morbidi e amorevoli. Alla non sa che sta procurando al bimbo un “piacere
sessuale”, che sta insegnando al bimbo la masturbazione, ma il suo Es lo sa e lo sente. È
l’atto erotico a provocare sul volto di madre e figlio quell’espressione di piacere. È la
mamma a dare al bambino lezioni di onanismo, e lo deve fare perché la natura
ammucchia la sporcizia che deve essere lavata proprio laddove si trovano gli organi del
piacere. Quel che si chiama pulizia, l’uso zelante del bidet, il lavarsi dopo aver evacuato,
le lavande, altro non sono se non una ripetizione, imposta dall’inconscio, di queste
gradevolissime ore di apprendimento con la madre. La mania della pulizia è soltanto il
pretesto con cui l’inconscio inganna la coscienza, la menzogna che permette di essere
fedeli, nella lettera, al divieto materno. Lo stesso dicasi della rimozione delle fantasie
erotiche. Se si va in profondità, in ogni persona si trovano mille forme di erotismo.
Abbiamo detto che la madre si trasforma stranamente quando pulisce gli organi genitali
del suo bambino. Ella non è cosciente, ma proprio quel piacere inconscio goduto
insieme costituisce un legame fortissimo, e dare piacere a un bambino, in qualsiasi
forma, suscita nell’adulto l’amore per quel bambino. Ancora più che tra due amanti, nel
rapporto tra madre e figlio il dare procura più beatitudine del ricevere. L’Es, l’inconscio,
pensa simbolicamente, e nel suo simbolismo identifica, e adopera indifferentemente,
“bambino” e “organo genitale”. L’organo genitale femminile è per lui la cosuccia, la
bambina, la figlioletta o la sorellina, l’amichetta; quello maschile l’ometto, il bambinello
, il figlioletto, il fratellino. Ogni essere umano ama tremendamente i suoi organi
genitali, e non può essere altrimenti perché è a loro che deve il suo piacere e la sua
vita. È difficile immaginare l’entità di questo amore, ed è questo grande amore che l’Es
trasferisce sul bambino, confondendo per così dire l’organo genitale col bambino.
Buona parte dell’amore materno deriva dall’amore che la madre prova per il proprio
organo genitale e da ricordi di pratiche onanistiche. Questo è fondamentalmente il
motivo per cui in genere le donne amano i bambini più degli uomini. Per l’Es non
esistono concetti di per sé delineati: esso lavora per campi concettuali, per complessi
che insorgono nel corso di processi simbolici e associativi. L’anello nuziale è considerato
il simbolo del matrimonio, ma sono pochissimi a capire perché questo cerchietto
esprima la comunanza coniugale. Le massime per cui l’anello sarebbe un vincolo o
significherebbe l’amore eterno, senza inizio e senza fine, permettono di trarre qualche
conclusione sull’umore e sulle esperienze di chi adoperi questi modi di dire: ma non
spiegano il fenomeno per cui potenze ignote hanno scelto un anello per indicare lo
stato matrimoniale. Se però partiamo dal presupposto che il senso del matrimonio sta
nella fedeltà coniugale, la spiegazione risulta assai semplice. L’anello rappresenta
l’organo genitale femminile, mentre il dito è l’organo genitale maschile. L’anello non
deve essere infilato in nessun altro dito se non in quello del legittimo sposo: è quindi la
promessa che l’anello della donna non accoglierà altro organo genitale se non quello
del consorte. Questa identificazione dell’anello o organo femminile è imposta all’uomo
dall’Es, e ciascuno può verificarlo quotidianamente su di sé e sugli altri osservando
come si giochi sull’anello nuziale. Questo gioco, questo muovere l’anello avanti e
indietro, questo girarlo e rigirarlo inizia sotto l’influsso di determinate impressioni, che
è facile indovinare e che perlopiù non affiorano completamente alla coscienza. È un
movimento che tradisce l’eccitazione sessuale, eppure anche coloro che sanno
interpretare questo simbolo continuano a giocare con l’anello: debbono farlo. I simboli
non li inventa nessuno, perché ci sono e fanno parte del patrimonio inalienabile
dell’uomo; si potrebbe addirittura pensare che ogni pensiero e azione cosciente è una
conseguenza ineluttabile di questo processo simbolico inconscio; che l’uomo è vissuto
dal simbolo. Altrettanto inevitabile del simbolo, per il destino umano, è l’impulso a
compiere associazioni, che in fondo è la medesima cosa, perché durante i processi
associativi in realtà si creano collegamenti tra simboli. Nel caso dell’anello, ad esempio,
risulta che la simbolizzazione inconscia di anello e dito come donna e uomo dà luogo a
un’evidente rappresentazione del “coito”. Se ci soffermiamo per esempio sulla nostra
Lingua, troveremo: amore e piacere, tuoni e fulmini, petto e diletto, cuore e dolore,
culla e tomba, vita e morte, qua e là, su e giù, piangere e ridere, paura e terrore, sole e
luna, paradiso e inferno. Le idee si affastellano e, nel riflettere, pare al soggetto il quale
associa liberamente che all’improvviso gli sia nato davanti tutto l’edificio della lingua,
quasi che colonne , facciate, tetti, torri, porte, finestre e pareti si siano formati sotto i
suoi occhi come banchi di nebbia. Si sentirà scosso nel suo intimo e l’incomprensibile gli
si avvicinerà, quasi soffocandolo. L’impulso dell’associazione si serve della rima o delle
allitterazioni o di sequenze affettive. Osserviamo un lattante. È probabile che egli ami
molto il latte. Dopo alcuni anni il latte gli sarà indifferente o addirittura sgradito, come
accade a molti bambini, ma in questo momento egli non desidera altro che bere; due
minuti dopo è stanco e vuole dormire, oppure gridare o giocare. Sottrae il suo favore a
un oggetto, il latte, e lo rivolge all’altro, il sonno. Gli si presentano quindi di continuo
una serie di emozioni di suo gusto: egli si cerca la possibilità di riprocurarsi daccapo
questa o quella sensazione, perché determinate inclinazioni sono per lui necessità vitali
e lo accompagneranno per tutta la vita. Ma tra tutte le inclinazioni, quella per la
mamma, unica tra tutti gli esseri viventi, una inclinazione che determina però anche il
suo contrario, ossia repulsione, è immutabile, così come quella per se stesso. In ogni
caso essa è certamente la prima e si costituisce già nel ventre materno. Ebbene su
questo essere, la “madre”, il bambino ammucchia tanta della sua affettività, almeno
per un certo tempo, che tutti gli altri non vengono neppure presi in considerazione. Ma
questo affetto è, come ogni altro affetto e anzi più di ogni altro affetto, ricco di
delusioni. Il mondo affettivo del bambino si fa una “imago” della mamma (una
rappresentazione o forse più di una) e la vita affettiva di quel bambino che diventerà
uomo tenderà per tutta l’esistenza verso questa imago materna, con tanta intensità
che ad esempio lo struggente desiderio di sonno, di morte, di quiete, di riparo può
essere considerato un anelito all’imago materna. Il “transfert”, che caratterizza i
movimenti di vita di ogni individuo, altro non è se non il risveglio dell’amore sopito per
l’imago materna ogni qualvolta l’individuo si trova dinanzi a persone che per taluni
aspetti emozionali e/o affettivi richiamano quelli da lui sperimentati precocemente nel
contatto con la propria madre. I due eventi più importanti della vita femminile e, in
senso lato, di ogni uomo, poiché senza questi eventi egli non esisterebbe, sono legati al
dolore: “il primo atto sessuale e il parto”. Eppure sono due eventi dal “piacere
incoercibile”. La fantasia della prima notte di nozze, col suo corollario di “paura di una
violenza”che mai come allora viene desiderata. E poi il parto, di cui abbiamo già in
precedenza evidenziato il carattere di eccitazione sessuale. Il dolore quindi non è un
ostacolo per il piacere, bensì è una condizione stessa del piacere. Di conseguenza non è
vero che il desiderio di procurare dolore sia innaturale e perverso. Il sadismo ed il
masochismo sono due tendenze umanissime ed irrinunciabili ed esistono senza
eccezione in ogni uomo e fanno parte del suo essere, come la pelle e i capelli. Se una
giovane donna si lasciasse andare alla passione, amando davvero, mostrando
liberamente la nudità della sua anima, la vedremmo senza problemi mordere e
graffiare come un animale, sarebbe capace di fare del male e provarne piacere. La
crudeltà, il sadismo, se così vogliamo chiamarlo, non è estraneo alle donne; non
occorre essere una madre snaturata per tormentare i propri figli. Molte donne sono
compiaciute alla vista del volto stupito e offeso del loro bambino ogniqualvolta gli
tolgono il capezzolo dalla boccuccia intenta a poppare. Un gioco, certo, facilmente
comprensibile e, in questa o quell’altra forma, comune a tutti, perché tutti amiamo
punzecchiare i bambini. Ma è comunque un gioco legato a uno strazio se pensiamo a
quanto abbiamo detto precedentemente a proposito dei simboli. La bocca che succhia
è l’organo sessuale femminile che accoglie in sé, quale membro maschile, il capezzolo.
Esiste un’ affinità simbolica, un’affinità assai stretta tra l’atto di succhiare e l’atto
sessuale, un simbolismo che viene usato al servizio e per il rafforzamento del legame
tra madre e figlio. E come la donna, che si suppone votata alla sofferenza, si compiace
di procurare dolore, così anche l’uomo più violento cerca il dolore, il piacere dell’uomo
è la fatica, il tormento dell’impegno, l’attrazione del pericolo, la battaglia e, se vuole, la
guerra. La guerra con uomini, cose, pensieri, e l’avversario che più lo fa soffrire e
l’impegno che quasi lo soffoca sono quelli che ama di più. Più di ogni altra cosa ama
però la donna, che gli infligge mille ferite. Non dobbiamo meravigliarci quindi dell’uomo
che corre dietro a una civetta senza cuore. E se un uomo ama ardentemente la sua
amata avrà un cuore crudele, profondamente crudele, di quella crudeltà che sembra
benevola e ferisce giocando. L’uomo allora è concepito nel dolore, perché il vero
concepimento avviene la prima notte, e nasce nel dolore. E ancora è concepito e nasce
nel sangue. Si dice che il bimbo viene alla luce, e l’uomo ama questa luce: se la cerca e
se la crea nelle tenebre della notte. Esce da una prigione, verso la libertà. E più di ogni
altra cosa l’uomo ama la libertà. Per la prima volta respira, assapora il piacere di far
entrare in sé l’aria della vita: per tutta la vita respirare liberamente sarà per lui la cosa
più bella. Durante il parto è colto dalla paura, la paura di soffocare: e la paura rimane
per tutti i giorni della sua vita la compagna di ogni gioia sublime, di ogni gioia che gli fa
battere forte il cuore. Prova dolore, nel suo incedere verso la libertà; e dolore egli
provoca alla mamma con la sua testa dura: cercherà in eterno di rivivere questa duplice
esperienza. E la prima cosa che colpisce i suoi sensi è l’odore del sangue, frammisto ai
vapori stranamente eccitanti del grembo femminile. Nel nostro naso c’è un punto che
possiede una stretta affinità con la zona sessuale. Il lattante lo possiede come l’uomo
adulto. Tuttavia, il sangue che si versa quando nasce un bimbo e la cui essenza egli inala
col primo respiro, tanto che non la dimenticherà mai, è il sangue della mamma.
Possibile che egli non ami questa mamma? Possibile che non lo unisca a lei un legame
di sangue diverso da quello cui abitualmente si pensa? E, celato nel profondo, dietro
tutto ciò attende qualcos’altro, un qualcosa che unisce il bambino alla madre con mani
forti come quelle di un dio: la colpa e la morte. Perché chi sparge sangue dovrà vedere
sparso anche il proprio sangue. La madre è la culla e la tomba, dà la vita e la morte.
Ricapitolando allora, ogni donna, ogni madre, prova una profonda avversione nei
confronti del figlio. Le ragazzine addirittura crescono con la paura di concepire un figlio.
L’educazione delle nostre figlie consiste nel tentativo di proteggerle da due cose:
“contagi sessuali” e “figli nati al di fuori del matrimonio”, e a tal fine la società presenta
loro gli organi genitali come peccaminosi e il parto come un grande pericolo. Nelle
fanciulle il desiderio di avere un figlio nasce, con un’intensità che solo pochi
percepiscono, in un periodo in cui esse non distinguono ancora tra bambini nati
all’interno o al di fuori del matrimonio. Ma nell’essenza della donna e della persona
umana sono insiti alcuni motivi, immutabili, per odiare i bambini. In primo luogo il figlio
sottrae alla donna parte della sua bellezza, e non solo durante la gravidanza; infatti va
distrutto qualcosa che non è possibile riparare. Un seno cadente e un ventre flaccido
sono considerati brutti e, per apprezzarli, una civiltà deve attribuire grande importanza
all’abbondanza della prole. Un figlio comporta fatica, lavoro, preoccupazioni, ma
soprattutto impone alla madre di rinunziare a mille cose che varrebbe la pena di vivere.
Certo le gioie della maternità possono compensare tutte queste sofferenze, ma il
contrappeso esiste, dove si ripete continuamente una rinunzia che comporta ferite e
pene. L’odio di una madre per il suo bambino riconosce, ad ogni modo, la sua origine, in
relazione al complesso di Edipo. Madre e figlia sono sempre e senza eccezioni rivali e, di
conseguenza, nutrono l’una nei confronti dell’altra l’odio tipico delle rivali.
L’espressione vecchia strega maledetta ha una motivazione ben più profonda del fatto
che la madre aspetta un bambino. La strega getta un incantesimo sull’uomo amato:
così è nella fiaba, e così è anche nell’inconscio della bambina. Il concetto di strega
deriva dal complesso di Edipo: la strega è la mamma che, con le sue arti magiche, lega a
sé il padre, per quanto egli in realtà appartenga alla figlia. In altre parole madre e strega
sono, per l’Es dell’anima affabulatrice dell’umanità, la medesima cosa. Ci troviamo di
fronte ad una esperienza di odio di un figlio nei confronti della madre che ha qualcosa
di stupefacente ne che soltanto in misura minima trova il suo contrappeso nella
convinzione che esistano streghe giovani e belle, empie creature dai capelli rossi,
convinzione nata dall’odio della madre che invecchia nei confronti della figlia giovane e
focosa, mestruata da poco (ecco i capelli rossi). È chiaro allora come l’odio nei confronti
della madre da parte della figlia si acuisca in occasione della gravidanza di quest’ultima.
Infatti, per essere incinta, la mamma deve aver ricevuto quelle carezze paterne che la
figlia rivendica per sé. Ella si è procurata il bambino esercitando ingiustamente le sue
arti magiche e quindi ingannando la figlia. In ogni figlia divampa, durante la gravidanza
della madre, un’atroce gelosia; essa non è sempre evidente, ma esiste. E, sia che si
esprima sia che rimanga celata nel profondo, è sempre repressa e rimossa dalla
violenza del precetto morale “onora tuo padre e tua madre altrimenti morirai”, talvolta
di più talvolta di meno, ma sempre col medesimo risultato, quello di far nascere un
complesso di colpa. E tale complesso di colpa pretende una punizione, e precisamente
una punizione nella stessa forma della colpa in questione. Ella ha odiato sua madre, e
allora il figlio che porta in grembo la ripagherà della stessa moneta. Ella voleva
derubare sua madre dall’amore del padre: la stessa sorte toccherà a lei per mano della
figlia che nascerà. Occhio per occhio, dente per dente. Ecco in parte anche il perché
l’inconscio della maggior parte delle donne desidera un figlio maschio. Il senso di colpa
che ogni figlia prova nei confronti della madre le impone di essere capace di odiare il
bambino che porta in grembo: non c’è nulla da fare. Ancora, durante il parto il
bambino, proprio per il fatto di nascere sparge il sangue della madre. E chi sparge
sangue dovrà vedere sparso anche il proprio sangue. La donna in stato interessante non
può far altro che temere il bambino che sta per nascere: sarà il vendicatore. E nessuno
sarà tanto buono da amare sempre il vendicatore, neppure la mamma. Portare in
grembo un figlio del proprio padre è un desiderio che accompagna una donna, nel suo
inconscio, per tutta la vita. E a questo desiderio di incesto si associa la parola idiota.
Non esiste una sola donna che prima o poi non abbia pensato che suo figlio sarebbe
nato idiota o sarebbe comunque rincretinito in seguito. Perché la convinzione che dal
rapporto sessuale col padre debba nascere un figlio mostruoso è profondamente
radicata nell’uomo moderno. Una interessante riflessione da fare è la seguente: il
simbolo più chiaro dell’organo femminile, che si manifesta già nella parola UTERO, è la
MADRE, infatti in tedesco utero si dice GEBARMUTTER, e contiene quindi la parola
MUTTER, che significa madre. Per l’Es, che procede per simboli, l’organo genitale
femminile è la genitrice, la madre. Quando la figlia maledice la madre, maledice anche il
simbolo, il proprio organo genitale, il proprio essere in grado di generare, il proprio
essere donna e madre. Ora, torniamo un po’ indietro al bambino. Nella vita del
bambino non nato c’è un elemento che merita attenzione assoluta: il suo essere solo
con sé stesso; egli non solo non ha un mondo per sé. Se nutre un interesse, può
trattarsi in sostanza soltanto di un interesse per sé. Egli pensa soltanto a sé, tutti i suoi
moti affettivi sono rivolti al proprio microcosmo. C’è da meravigliarsi che questa
abitudine esercitata sin dall’inizio, questa abitudine forzata, accompagni l’uomo per
tutta la vita? Quindi l’oggetto della capacità di amare ogni essere umano sarebbe in
primo luogo e quasi esclusivamente se stesso. Nove mesi di rapporto con se stesso,
imposti dalla natura durante il periodo prenatale, sono un mezzo rispettabile per
raggiungere questo scopo. Ebbene, tutta la nostra vita è guidata, senza che noi lo
sappiamo, da questo desiderio di tornare nel ventre della madre. Tutti i bambini amano
la mamma, in modo non infantile, innocente e puro, ma con ardore e passione, ebbri di
sensualità, son tutta la forza di un amore voluttuoso. È importante a questo punto
citare il complesso di castrazione, perché ci permetterà di comprendere cosa si agita
negli abissi dell’inconscio della donna in taluni momenti della sua vita. Ad un certo
punto il bambinello si accorge della differenza tra i due sessi. In se stesso, nel papà e
nei fratelli egli vede un appendice dall’aspetto particolarmente buffo, che serve per
giocare. Nella mamma e nella sorella vede invece un buco da cui si affaccia carne viva
simile a quella di una ferita. Il suo giovane cervello ne trae una conseguenza oscura e
indistinta, ovvero che ad alcune persone sia tolta, strappata, ripiegata in dietro,
schiacciata o tagliata via la codina con cui sono nate, affinchè potessero esserci anche
le bambine e le donne, di cui il buon Dio ha bisogno perché nascano i bambini. E in un
altro momento, nella sua strana confusione nei confronti di queste cose inaudite, egli
decide che la codina è stata tagliata, perché ogni tanto la mamma fa nel vasino, invece
della pipì giallo chiaro, sangue rosso. Quindi ogni tanto il pipino, il pivellino da cui
zampilla l’acqua, le viene tagliato, sicuramente la notte dal papà. E da questo momento
il bambino sviluppa una specie di disprezzo per il sesso femminile, paura per la propria
virilità e lo struggente desiderio di riempire col suo pivellino il buco della mamma e poi
le ferite delle altre bambine e donne, dormendo con loro. Per la donna l’idea della
castrazione è più gravosa che per l’uomo. La bambina si accorge al primo sguardo della
sua mancanza: “io sono già castrata, la mia sola speranza è che la ferita si cicatrizzi e ne
fuoriesca una nuova estremità di quella carne da dominatore”. Rinunziare a questa
speranza, venire a capo della sensazione della propria inferiorità e trasformare anzi
questa sensazione in una sincera professione di femminilità, nell’orgoglio e nell’amore
di essere donna, richiede aspre lotte, prima che si completi la rimozione: tutto ciò deve
essere calato nel profondo e sepolto ben bene; e già la minima oscillazione delle masse
sepolte provoca sconvolgimenti tremendi. Ogni mestruazione, ogni volta che
l’emorragia mensile si ripresenta, questo marchio di Caino della donna, risveglia il
complesso di castrazione, e dalla palude dell’inconscio salgono veleni rimossi che
turbano, insieme a molte altre cose, la limpida ingenuità della persona umana. C’è un
fatto che dobbiamo considerare, ossia come l’ebbrezza, la concupiscenza, il piacere
sessuale della donna aumentino di gran lunga durante questi giorni di sangue, e come
per l’animale, che certamente non è inferiore all’uomo, in questo periodo c’è qualcosa
in lei che attrae l’uomo; e l’amplesso durante l’emorragia è il più ardente e felice; lo
sarebbe ancora di più se la morale non gli avesse opposto la sua proibizione. Il fatto che
le cose stiano davvero così è dimostrato anche dal fatto che oltre tre quarti di tutti gli
stupri avvengano durante le mestruazioni. In altre parole: nella donna mestruata c’è
qualcosa di misterioso che induce nell’uomo un furore il quale non arresta neppure di
fronte al delitto. Eva seduce Adamo: le cose stanno proprio così, lo sono sempre state e
lo rimarranno per sempre. Possiamo ben comprendere cosa, la perdita delle
mestruazioni che si realizza con la gravidanza e con il puerperio possa cagionare nell’Es
della donna. Quanta rabbia, quanta aggressività……. L’emorragia mestruale quindi
come mezzo di cui la natura si serve per attrarre l’uomo. La natura che vuole solo il
perpetuo scambio di geni per la prosecuzione della specie (“il gene egoista” - Richard
Dawkins). Inoltre quando una donna ha le mestruazioni non può essere incinta. Con
l’emorragia, l’Es fornisce al coniuge un’inconfutabile testimonianza della fedeltà della
sua donna. “Vedi”, gli dice, “se adesso nasce un bambino, è tuo, perché quando sei
arrivato io sanguinavo”. Il divieto che la società impone al rapporto sessuale durante il
periodo mestruale rimuove il desiderio e modifica la sua direzione, ma non lo uccide. Lo
costringe soltanto a cercare altrove la propria soddisfazione. Il desiderio dell’uomo di
unirsi alla donna è legato, come abbiamo detto, alla seduzione operata dal sangue, lo
stesso sangue la cui essenza il bambino inala al momento del parto. Quello che lo eccita
è allora il sangue: divamperà quindi il suo impulso alla crudeltà, che era presente in lui
sin dall’inizio. Inventa armi, escogita operazioni, conduce guerre, erige mattatoi perché
vi siano uccise ecatombe di buoi, scala le montagne, prende il mare, cerca il polo nord o
le regioni più interne del Tibet, caccia, pesca, picchia i suoi figli e tuona con la moglie. Il
desiderio della donna invece segue un'altra strada: ella si mette un pannolino tra le
cosce e pratica inconsciamente la masturbazione, con il pretesto universalmente
accettato della purezza. E quando è pura indossa il pannolino, col pretesto della
cautela, un giorno prima, e sempre per cautela lo tiene un giorno di più. E se la cosa
non la soddisfa, fa in modo che l’emorragia duri di più o si presenti più spesso.
L’impulso all’amore di sé si trova davanti una via più libera e getta, grazie al desiderio
sessuale della donna, le fondamenta della nostra cultura, la pulizia e quindi le
condutture idriche, i bagni e le canalizzazioni, l’igiene e il sapone, e inoltre la
predilezione per la purezza mentale, alla nobiltà spirituale, l’armonia interiore della
persona che tende sempre verso l’alto, mentre l’uomo in quanto adoratore del sangue,
penetra nelle misteriose viscere del mondo e “lavora duramente” alla vita. Abbiamo in
più di una circostanza detto che l’odore del ventre materno e del sangue che ne
fuoriesce è una delle prime percezioni dell’essere umano. C’è poi un periodo in cui il
naso del piccolo cittadino del mondo si accontenta dell’odore della propria urina e delle
proprie feci, alternato ai profumi del latte materno e dei peli che la mamma ha sotto le
ascelle, mentre costante è l’effetto del profumo intenso, penetrante ed indimenticabile
delle lochiazioni. La mamma rivive, nel periodo immediatamente dopo il parto, le
proprie memorie di lattante, che forniscono la possibilità di trasferire sul bambino il suo
amore per se stessa; si risvegliano così il piacere, da tempo dimenticato, legato
all’odore dei pannolini. Ella inspira inoltre tutti gli odori che salgono dai capelli e da
tutto il corpo del piccolo, e le cose rimangono così a lungo, perché il bambino è basso e
la mamma alta, tanto che ogni volta che gli si avvicina percepisce per prima cosa, con la
vista e con l’olfatto, i suoi capelli, la qual cosa non è affatto irrilevante perché proprio
agli organi dell’amore è attaccata una peluria così abbondante. Il bambino invece si
trova su un terreno differente. Nei primi anni di vita egli sente l’odore di gambe e piedi,
perché il bambino è basso e gli adulti sono alti. Il bambino è in un certo senso costretto
a sperimentare con il naso tutti i processi che si svolgono nell’area dell’addome
materno, per cui egli percepirà anche quei particolari cambiamenti di odore che in ogni
donna si verificano ogni quattro settimane. Sperimenterà anche l’eccitazione cui la
madre è soggetta durante il suo periodo; gli si comunicherà l’atmosfera dei vapori
sanguigni, intensificando il suo desiderio di incesto. Da queste impressioni eccitanti
nascono lotte interiori d’ogni genere che egli oscuramente avverte; vi si allacciano
delusioni profonde e dolorose, rafforzate dal dolore, dai cambiamenti d’umore,
dall’agitazione e dalle emicranie della mamma. Abbiamo detto in precedenza che il
senso ultimo cui tende l’inconscio umano è quello di rientrare nel ventre materno da
cui è uscito. Gli esseri umani dimenticano di essere stati nel ventre materno perché è
terribile pensare di essere stati cacciati dal paradiso, ma altrettanto terribile è l’idea di
essere stati al buoi di una tomba; dimentichiamo come siamo venuti al mondo, perché
la paura di soffocare provata in quell’occasione è stata insopportabile. Vediamo quindi
come sia intrecciato il rapporto che lega la madre al proprio bambino. Un rapporto che
può spingersi oltre qualsiasi confine, fino ad un atto estremo di ricongiungimento che
nelle maglie del delirio riporta coercitivamente le due anime insieme, in quell’abbraccio
ideale della fantasia, dove vita e morte sono un tutt’uno. Ci si domanda, da più parti,
che peso abbia la malattia mentale nel comportamento materno che spinge oltre la vita
del proprio figlio cagionandone la morte. So è attribuita molta importanza al fenomeno
depressivo post-partum quale cofattore di un processo delittuoso che inevitabilmente
con il bambino al quale ha tolto la vita muore anche la mamma, in una parte del suo
corpo e della sua anima che in quel bambino aveva scelto di dimorare. Una mamma.
Già la mamma, quella mamma che, nonostante tutto quanto nei meandri della sua
psiche si possa trovare, rappresenta l’unico mezzo con il quale il bambino, il suo
bambino, scopre se stesso, il suo corpo, il mondo, l’immensità del mondo. Quando
viene al mondo, non dobbiamo dimenticarlo, il piccolo essere ha già una storia-la storia
dei nove mesi intercorsi tra il concepimento e la nascita – e, com’è ovvio, reca
un’importanza genetica, ereditata dai genitori e dalle loro famiglie. Entrambi i fattori
influiscono sul suo temperamento, sulle sue inclinazioni, le sue doti e predisposizioni.
Ma la formazione del carattere dipende da altro: risulta decisivo se all’inizio della vita,
ancora nel grembo materno, il bambino ha conosciuto amore, protezione, tenerezza e
comprensione oppure ha subito rifiuto, freddezza, incomprensione, indifferenza
quando non, addirittura crudeltà. I bambini che oggi commettono omicidi sono spesso
nati da madri adolescenti tossicodipendenti. Assenza, abbandono e traumi sono in
questi casi all’ordine del giorno (Karr-Morse, Wiley, 1997). I neurobiologi hanno
scoperto in anni recenti che i bambini traumatizzati e gravemente trascurati rilevano
lesioni evidenti nelle aree del cervello correlate alle emozioni e, addirittura, che un
terzo del cervello può risultare danneggiato. Secondo gli scienziati, ciò è dovuto al fatto
che i traumi gravi comportano nel neonato una produzione continua di ormoni dello
stress, capaci di distruggere i neuroni già presenti o appena formati e le loro
connessioni. L’esperienza della crudeltà subìta da piccoli rende gli individui totalmente
succubi, incapaci di provare sentimenti di empatia per la sofferenza dei loro simili.
Quell’esperienza ha il potere di trasformarli in esseri umani in cui è innescata una
bomba a orologeria: senza esserne consapevoli, aspettano l’occasione più opportuna
per scaricare su altri (e prima fra tutti sui figli loro stessi) la rabbia accumulata, che essi
non hanno mai potuto esprimere. Fin dai primissimi giorni di vita (fin dall’ottavo
giorno), il neonato si mette in comunicazione con la madre per mezzo di informazioni
propriocettive. Infatti egli si accorge subito se viene tenuto in braccio da una persona
occasionale; il modo insolito con cui viene tirato su dalla culla, con cui viene trattato in
grembo e con cui viene stretto fra le braccia e, finanche, il modo con cui viene cullato lo
fa subito strillare, in preda ad evidente disagio. Il pianto comunica a chi lo tiene in
braccio questo disagio, tanto che questi, in gran fretta e non senza un certo impaccio,
lo ripassa, se può, alla madre. A questo punto, il neonato si calma: il suo volto esprime
soddisfazione beata (delizia) e il suo corpo si rilassa. Anche questi sono segnali per la
madre, che proprio in tal modo può modulare la sua stretta che finisce per diventare
tenero abbraccio. L’ideale abbraccio della madre è quello che avvolge il figlioletto,
mettendolo a contatto con il proprio corpo il massimo possibile, senza ostacolarne la
respirazione: il petto,le braccia e le mani materne devono fare del loro meglio per
ricreare viepiù l’avvolgimento totale già sperimentato nel grembo perduto. E se
l’abbraccio materno non basta, vi sono altri elementi analoghi a quelli sperimentati
nell’utero; in casi come questi , la madre passa a dondolare dolcemente il suo piccolo in
senso orizzontale. Ma se questo non bastasse, ella è pronta ad alzarsi e camminare
avanti ed indietro per la stanza, continuando a cullare il piccolo. Tutte queste intimità
hanno uno specifico effetto rilassante, perché riproducono certi ritmi già sperimentati
nella vita prenatale. La madre, sbirciando il figlioletto, arriva a sintonizzare il dondolio
della culla, dosando con estrema finezza il numero delle scosse da imprimervi al
minuto. È stato sperimentalmente dimostrato che, a ritmi molto lenti oppure molto
rapidi, il dondolio della culla perde il suo effetto calmante, che si ottiene solo quando la
culla raggiunge le 60-70 oscillazioni al minuto, cioè il ritmo del battito cardiaco di un
adulto. Il pianto umano è simile a quello delle piccole scimmie che emettono una serie
di suoni striduli e ritmici, ma è senza lacrime e, nelle prime settimane di vita, anche il
bambino piange allo stesso modo. Dopo questo breve periodo, al segnale vocale si
aggiungono le lacrime. Più tardi, nella vita adulta, le lacrime potranno presentarsi
anche da sole, come segnale silenzioso. Per qualche ragione , dice Morris, è stato
trascurato il fatto che, solo tra tutti i primati, l’uomo piange con le lacrime, ma è ovvio
che ciò deve avere un significato peculiare per la nostra specie. Secondo lui, in primo
luogo, questo segnale visivo è reso efficace perché le nostre guance sono prive di peli e
le lacrime vi scivolano copiosamente, ma la chiave è data dalla risposta materna:
quando il bambino piange, la madre gli asciuga gli occhi. Ciò significa detergere
dolcemente la pelle del viso, cioè stabilire un intimo contatto che esercita sul piccolo
un’azione calmante; forse è questa la funzione fondamentale della copiosa
lacrimazione che così spesso bagna il viso del giovane animale umano: la lacrimazione
copiosa si è evoluta come “sostituto dell’urina”, capace di stimolare una risposta di
contatto intimo nei momenti di difficoltà interpersonali. Infatti la madre, nella specie
umana come in molte altre specie, prova un fortissimo impulso a pulire il corpo della
sua prole, quando si sia bagnato d’urina ad esempio. Secondo D. Morris, dunque, il
pianto dell’adulto ha lo stesso significato comunicativo dell’enuresi notturna di un
bambino che deve fronteggiare la nascita della sorellina. Il comportamento materno
non è qualcosa che deriva alla donna geneticamente, almeno non soltanto. Esso è la
risultante di fattori innati e fattori appresi. Gli esperimenti di Noble e Curtis sui pesci,
quelli sulle tacchine ottenuti da Lorenz e la sua équipe, i dati etologici di Schaller sulle
scimmie antropomorfe, tutti stanno a dimostrare che esso si realizza compiutamente
solo sulla base di informazioni trasmesse per via esosomatica, ossia culturale. I
comportamenti riservati alla prole potrebbero in tal modo venire ridimensionati a
“comportamenti di osservazione”. Una mamma impara a fare la mamma solo se ha
avuto una mamma che glielo ha saputo insegnare. È così. Inutile negare. Non glielo dice
il DNA come deve fare. Non è previsto in natura per nessuno tra gli esseri viventi. Noble
e Curtis sostituirono le uova di una coppia inesperta , ossia che si riproduceva per la
prima volta, con uova appartenenti a un’altra specie. Quando le uova si schiusero, i due
pesci accettarono i nuovi nati come se fossero loro figli e li allevarono; e ogni volta che
si imbattevano in piccoli della loro specie, non esitavano a mangiarli. Questa tendenza
si rilevò definitiva quando la coppia potè allevare figli propri: appena schiuse le uova, i
nuovi nati venivano divorati dai loro genitori, che avevano imparato a considerare
propri tutto un altro tipo di figli. Esiste dunque, fin dalla specie filogeneticamente più
antiche, un particolare tipo di apprendimento che rende capaci gli individui di
distinguere fra prole propria e prole di altra specie. “L’istinto” dei nostri due pesciolini
era stato deviato per sempre da una informazione aberrante. Dal canto suo, l’èquipe di
Lorenz, nel proseguire sue proprie finalità sperimentali, si trovò nella necessità di
rendere sorde varie tacchine che, per altro, poterono incubare normalmente le loro
uova. Ma quando esse si dischiusero, le tacchine cominciarono a beccare a sangue i
loro piccoli che teneramente pigolavano intorno: si comportavano come son solite fare
con qualsiasi intruso che si avvicini troppo al loro nido, paventando intenzioni ostili nei
riguardi della loro prole inetta. Evidentemente nemmeno le tacchine possiedono
adeguate informazioni genetiche circa l’aspetto esteriore dei loro piccoli, ma si servono
di particolari segnali acustici per distinguerli dai loro predatori e dalle loro prede.
Infatti la tacchina becca qualunque cosa si muova nelle vicinanze della sua area di
difesa (territorio) e che non sia tanto grande da scatenare una reazione di fuga che
trascenda la sua aggressività. Quindi solo l’espressione sonora del pulcino che pigola è
in grado di facilitare le reazioni materne e mettere sotto inibizione l’aggressività. La
specie umana, come tutte le specie a prole inetta, possiede un tipo di apprendimento
in fase precoce che permette al neonato di riconoscere la mamma ed alla mamma di
riconoscere il neonato. Tale apprendimento va sotto il nome di IMPRINTING e si
realizza in un periodo sensibile, critico, che di norma è precoce e breve, è irreversibile,
ossia una volta attuato non regredisce più, ed inoltre non necessita di una ricompensa,
anzi le punizioni possono rinforzarlo. In una pagina indimenticabile l’imprinting è stato
descritto dal suo scopritore, Konrad Lorenz. Egli fece covare a una grossa tacchina 10
uova selvatiche per 27 giorni. Poi queste vennero tenute 24 ore in una incubatrice,
dove passarono le ultime fasi della maturazione. Da una delle dieci uova appena
schiuse, poste sotto il termoforo che sostituiva il tiepido ventre materno, venne fuori
una testa inclinata che guardò Lorenz con i suoi occhio scuri. Lo fisso molto a lungo e
quando egli fece un movimento e pronunciò una parola, quel minuscolo essere lo
salutò; con il collo ben teso e la nuca appiattita pronunciò rapidamente un tenero,
fervido pigolio. Per tutta risposta Lorenz la portò in giardino dove una grassa bianca oca
domestica avrebbe dovuto farle da madre, secondo le modalità sperimentali prefissate.
Lorenz infilò la mano sotto il ventre della vecchia oca e vi sistemò la piccina. Mentre
meditava soddisfatto davanti al nido, un flebile pigolio interrogativo risuonò da sotto
l’oca: “vivivivivivi?” In tono pratico e rassicurante, la vecchia oca rispose con lo stesso
verso, espresso secondo una modalità diversa: “gangganggang.” Ma, invece di
tranquillizzarsi, come avrebbe fatto ogni ochetta, questa rapidamente sbucò da sotto le
tiepide piume, guardò su con un solo occhio verso il viso di Lorenz e poi si allontanò
dall’oca emettendo il tipico verso delle ochette abbandonate: “fip….fip….fip….”. la
povera ochetta se ne stava li tutta tesa, continuando a lamentarsi, a metà strada fra
l’oca e Lorenz, quando questi fece un lieve movimento; subito il pianto cessò e la
piccola gli andò incontro con il collo proteso, nuovamente salutandolo con un fervido
“vivivivi”. Lorenz senza capire ciò che stava succedendo, prese la piccola con fare
scientifico, la rimise sotto il ventre dell’oca bianca e grassa e fece per andarsene, dopo
qualche passo, risuonò alle sue spalle un noto “fip….fip….fip….”: l’ochetta gli correva
dietro disperatamente. A questo punto, l’andatura rapida e impetuosa della corsa non
poteva essere più equivocata; l’ochetta preferiva alla bianca e grassa coca domestica in
canuto scienziato: questi era sua madre. L’ochetta venne portata in casa e
solennemente battezzata con il nome di Martina. Ben presto Martina riuscì a
convincere la sua madre elettiva che, almeno per il momento, era assolutamente da
escludersi che si potesse allontanare da lei e abbandonarla per un solo minuto. Essa
cadeva in un tale stato di disperazione e di insicurezza ed il suo pianto era talmente
straziante che, dopo qualche tentativo, Lorenz si diede per vinto e approntò un cestino
per potersela portare sempre dietro in spalla. Per la notte poi preparò una culla
elettricamente riscaldata che sistemò in un angolo della sua camera da letto. E, quando
Lorenz stava per addormentarsi, Martina emise il solito richiamo “vivivivivi?” che,
tradotto nel nostro linguaggio, sembrerebbe così. “io sono qui, tu dove sei?” Di fronte
all’assonnato silenzio del suo partner, il richiamo si fece dapprima più incalzante finchè
non vi fu uno scoppio di striduli insistenti “fip…fip…fip…”, che costrinsero Lorenz ad
uscire da suo letto e affacciarsi alla culla. Martina lo accolse beata con un “vivivivivi” di
sollievo. Poi si addormentò. Non era passata neppure un’ora, quando risuonò, nel buio
della stanza, il solito “vivivivivi” interrogativo, che ripropose, senza scampo, la sequenza
di prima. E poi di nuovo alle dodici meno un quarto e poi all’una. Alle tre meno un
quarto, Lorenz prese la culla e la pose a portata di mano, presso la testata del letto.
Quando, secondo le previsioni, alle tre e trenta, si fece sentire il solito richiamo
interrogativo, Lorenz rispose, nel suo stentato modo di comunicare, con un
“ganggangganggang” e diede qualche colpetto alla coperta termostatica che ricopriva
Martina. “Vrrrrr”, rispose Martina: io sto già dormendo, buonanotte! Nel complesso –
dice Lorenz – Martina era una bambina molto buona. Non dipendeva da una sua
ostinazione il fatto che non riuscisse a star sola neppure un minuto: bisogna pensare
che per un giovane uccello della sua specie, che vive normalmente allo stato selvaggio,
il perdere la madre e i fratelli significa una morte sicura. E dal punto di vista biologico è
assai significativo che quelle pecorelle smarrite non pensano più né a mangiare, né a
bere, è a dormire e, fino all’esaurimento totale, investono ogni scintilla di energia in
quei gridi di aiuto, grazie ai quali sperano di ritrovare la madre. Con questo tipo di
apprendimento precocissimo e irreversibile, infatti, la natura riesce a superare uno
degli svantaggi inevitabilmente insito nella modalità di trasmissione delle informazioni
genetiche. Il messaggio generico è, per sua stessa natura, generico ed incapace di
prevedere le fattezze individuali dell’oca madre. Se un’ochetta dovesse essere “istruita”
geneticamente riguardo alla madre, potrebbe avere ragguagli solo intorno ad una
madre e non intorno alla propria madre in particolare – dice Mainardi. Spetta alle
informazioni esosomatiche questo compito e solo esse permettono il rapporto interindividuale: solo a mezzo di questo tipo di comunicazione, gli esseri viventi finiscono
per riconoscersi come individui. Secondo le più recenti acquisizioni della biologia, la fine
del periodo critico dell’imprinting sembra dovuta alla comparsa di uno stato
emozionale detto, dai biologi, paura. Essi, con particolari accorgimenti sperimentali,
hanno potuto concludere che la paura non dipende in assoluto dall’età, ma dal
contrasto tra la percezione di un oggetto familiare e uno non familiare, dalla differenza
tra una situazione sperimentata e una nuova. Riconoscere che una cosa è nuova
richiede una precedente esperienza. Se questa manca non può avvenire una tale
discriminazione e di conseguenza neppure l’insorgere della paura. Per tutte queste
considerazioni si può dire che, nella specie umana, il periodo critico in cui è possibile
l’imprinting termina all’ottavo mese. Sulla base delle ricerche cliniche di Spitz si può
ritenere che l’infante di homo sapiens, il quale sperimenta l’ansia, se non già nel
grembo materno, alla nascita, fa la sua conoscenza con la paura a circa otto mesi di età.
Spitz ha denominato erroneamente questa situazione infantile “angoscia dell’ottavo
mese”: qui il bambino resta vittima di un inedito stato emotivo perché, per la prima
volta in vita sua, è in grado di stabilire che si trova in presenza di un volto sconosciuto.
Fino ad allora aveva sorriso indifferentemente a qualsiasi volto umano che gli si
presentasse davanti perché non sapeva distinguere fra volto della madre e volto
sconosciuto. Solo quando la maturazione è avanzata una tale discriminazione diventa
possibile. Si fa così la conoscenza con una nuova emozione: la “paura”. Allo scadere del
periodo neonatale, a circa trenta giorni di età, l’infante comincia a sorridere al volto
umano, sia esso quello della madre o di un qualsiasi altro osservatore. Come ha potuto
precisare Spitz, cui dobbiamo questi risultati, l’infante sorride solo se il volto umano si
presenta dirimpetto. Non sorride se il volto umano gli viene presentato di profilo.
L’infante, a differenza del neonato, è dunque in grado di ricevere, oltre le informazioni
propriocettive (provenienti dalle sensibilità profonde e inerenti l’equilibrio corporeo) e
quelle sonore, informazioni visive. Tra i due e i sei mesi l’infante può distinguere la
figura dallo sfondo e i visi benevoli da quelli ostili o corrucciati. Riesce quindi a
riconoscere e quindi a distinguere il “segnale di approvazione” ed il “segnale di
disapprovazione”. Egli comincia ben presto ad attribuirvi il giusto significato e così il
segnale viene trasformato in messaggio. Esso fornisce all’infante questo tipo di
informazione: bravo, ti stai comportando come desidero io! Ti voglio bene e ti starò
sempre vicino. Nell’altro caso, il messaggio trasformato nel nostro linguaggio articolatosimbolico potrebbe suonare pressappoco così: Pericolo! Non ti stai comportando come
piace a me: resterai a vedertela da solo. In questo modo, la madre sceglie
inconsapevolmente dal repertorio del suo infante i comportamenti che giudica
opportuni e conformi alle sue esigenze culturali, mentre elimina quelli che non riesce
ad apprezzare. Infatti la disapprovazione materna (oppure quella di ogni persona
importante) induce nell’infante uno stato di disagio intollerabile per evitare il ripetersi
del quale questi comincia a comportarsi in modo conforme ai desideri materni. Freud
ha insistito efficacemente su questa primordiale esperienza di disagio cui soggiace
l’infante passato dalla disapprovazione materna. Egli etichettò questa situazione con il
termine “Hilflosigkeit” (l’esser senza aiuto). Qui il lattante, che dipende interamente
dagli altri per il soddisfacimento delle sue tensioni (o, che è lo stesso), per la
soddisfazione dei suoi bisogni: sete, fame, pulizia, calore, ecc….), vive un’esperienza
drammatica: si coglie come un essere impotente a procacciarsi l’azione-oggetto
specifica, capace di metter fine alla tensione interna. È dopo aver sperimentato tale
situazione di pericolo (perdita o separazione dalla madre) che comincia a viverla come
una persona onnipotente. In quanto esperienza universale, attraverso la quale
debbono passare tutti i lattanti, la Hilflosigkeit crea il “bisogno di essere amati”. Questo
bisogno non abbandonerà mai più l’uomo per tutto il corso della sua esistenza. Quante
innumerevoli cose legano la madre al proprio bambino. Essa è l’origine di tutto il suo
universo di corpo e psiche, e, paradossalmente, la sua fine. Prima allora di cercare di
comprendere se e quanto possa influire, in modalità ancora da definire, una condizione
psicopatologica franca in un comportamento materno aberrante, io vorrei porre
l’attenzione del lettore sul fatto che una madre può trovarsi nella condizione di essere
inadeguata, prima ancora che assassinata, e questo naturalmente rappresenta una
fonte di pericolo continuo per il suo bambino. E probabilmente la responsabilità
andrebbe addebitata all’allevamento operato su quella mamma quando era infante. Ci
sono, come possiamo vedere, moltissimi punti di osservazione dai quali possiamo
formulare ipotesi critiche, moltissime stazioni che cadenzano tutto l’arco di vita di
quella donna-mamma, ciascuna delle quali direi “fondamentale”. Un bambino
possiamo educarlo in modo da farlo diventare come piace a noi. Dal bambino si può
ottenere rispetto, aspettarsi che condivida pienamente i nostri sentimenti, nell’amore e
nell’ammirazione del bambino ci si può rispecchiare, di fronte a lui ci si può sentire
forti, quando se ne è stanchi lo si può affidare ad altri; grazie a lui è possibile, infine,
sentirsi al centro dell’attenzione: gli occhi del bambino seguono ogni movimento della
madre. Una donna che abbia dovuto a suo tempo reprimere e rimuovere tutti questi
bisogni con la propria madre, per quanto possa essere una persona colta, dinanzi alla
propria creatura li sentirà ridestarsi dal profondo del proprio inconscio e tendere al
soddisfacimento. Il bambino lo avverte chiaramente, e rinuncia presto ad esprimere le
proprie esigenze, quando però, in seguito, nell’adulto emergono, durante la terapia, i
sentimenti infantili di abbandono, ciò avviene con una sofferenza ed una disperazione
di tale intensità che ci risulta evidente che quel bambino non sarebbe sopravissuto al
proprio dolore. Per sopravvivere avrebbe dovuto poter contare proprio su
quell’ambiente empatico, assecondante che gli era mancato. Dunque i sentimenti
erano stati respinti nell’inconscio. Mettere in dubbio questa dinamica vorrebbe dire
smentire i numerosissimi dati che provengono dal lavoro terapeutico. Nella difesa, per
esempio, dal sentimento di abbandono provato durante la prima infanzia si possono
riconoscere vari meccanismi. Accanto alla semplice negazione troviamo perlopiù la
lotta spossante e senza tregua per raggiungere – con l’aiuto di simboli (droga e
sostanze da cui si diventa dipendenti, gruppi, culti di ogni tipo, perversioni) – il
soddisfacimento dei bisogni rimossi e nel frattempo divenuti perversi. L’adattamento ai
bisogni dei genitori conduce allo sviluppo della “personalità come sé”, ovvero a ciò che
si definisce un falso sé. L’individuo sviluppa un atteggiamento in cui si limita ad apparire
come ci si aspetta che debba essere, e si identifica totalmente con i sentimenti che
mostra. Il suo vero sé non può formarsi né svilupparsi, perché non può essere vissuto.
Ogni essere umano ha dentro di sé un cantuccio, a lui stesso più o meno celato, in cui si
trova l’apparato scenico del dramma della sua infanzia. Gli unici che con certezza
avranno accesso a questo deposito saranno i nostri figli. Per mezzo loro, l’apparato
scenico sarà vitalizzato: il dramma va avanti. Che cosa capita quando la madre non è in
grado di aiutare il proprio figlio? Che cosa capita quando non solo non riesce ad
indovinare e ad esaudire i bisogni del figlio, ma presenta anche lei carenze affettive,
cosa che si verifica molto sovente? In tal caso cercherà di soddisfare i propri bisogni
personali servendosi del bambino, anche se questo non esclude un forte legame
affettivo. A questa relazione di sfruttamento mancano però componenti che sono di
importanza vitale per il bambino, come l’affidabilità, la continuità e la costanza;
soprattutto manca lo spazio in cui i l bambino potrebbe vivere i suoi sentimenti e le sue
sensazioni. Il bambino sviluppa allora quegli atteggiamenti di cui la madre ha bisogno,
atteggiamenti che al momento gli salvano la vita (ossia gli assicurano “l’amore” della
madre o del padre), ma che alla lunga gli impediranno di essere se stesso. In tal caso i
bisogni naturali tipici dell’età del bambino non vengono integrati nella personalità, ma
vengono scissi o rimossi. Pur senza esserne consapevole, questo individuo continuerà in
seguito a vivere immerso nel proprio passato. Il rischio più grande, a questo punto, è
che la sua struttura di personalità ne resti più o meno gravemente condizionata, fino a
cristallizzarsi in quello che oggi probabilmente è il disturbo di personalità più frequente
(stime attendibili riportano un coinvolgimento del 5% della popolazione mondiale) e più
difficile da gestire, sia farmacologicamente che psicoterapeuticamente, ossia il
“disturbo borderline di personalità”. Gli individui con tale disturbo compiono sforzi
disperati per evitare abbandoni reali o immaginati. La percezione della separazione o
del rifiuto imminenti, o la perdita di qualche strutturazione esterna, possono portare ad
alterazioni profonde dell’immagine di sé, dell’umore, della cognitività e del
comportamento. Tali individui provano intensi timori di abbandono e rabbia
inappropriata anche quando si trovano ad affrontare separazioni reali limitate nel
tempo. Sono intolleranti allo stare soli, così come sono più che mai bisognosi, fino a
livelli di esasperazione, perché altre persone siano con loro. I loro sforzi disperati per
evitare l’abbandono possono includere “azioni impulsive”, come ad es. comportamenti
auto mutilanti o suicidari. Hanno una modalità di relazione instabile ed intensa.
Possono idealizzare protettori od amanti potenziali al primo o secondo incontro,
chiedere di trascorrere molto tempo insieme, e condividere i dettagli più intimi all’inizio
di una relazione. Comunque possono passare rapidamente dall’idealizzare allo
svalutare le altre persone, sino a distruggerle fisicamente e psicologicamente. Questi
individui empatizzano con gli altri e li coccolano, ma solo con l’aspettativa che gli altri
saranno presenti a loro volta per soddisfare le loro necessità. Sono inclini a
cambiamenti improvvisi e drammatici della loro visione degli altri, che possono essere
visti alternativamente come supporti benefici o come crudelmente punitivi. Possono
manifestare un disturbo dell’identità caratterizzato da un’immagine di sé o da una
percezione di sé marcatamente e persistentemente instabile. Sono individui che
possono essere improvvisamente passare dal ruolo di supplice, bisognoso di aiuto, a
quello di giusto vendicatore di un maltrattamento precedente, e se pensiamo ai
maltrattamenti subiti durante la sua infanzia dalla bambina che poi diventerà
borderline, possiamo comprendere quali prevedibili disastri rischiano di essere
cagionati nel figlio che alla porterà. Gli individui con Disturbo Borderline
frequentemente esprimono rabbia inappropriata ed intensa, o hanno difficoltà a
controllare la propria rabbia. Durante i periodi di stress estremo, quale può essere una
gravidanza, possono presentare sintomi preoccupanti come ideazione paranoie ( ad es.
sentirsi perseguitati) o sintomi dissociativi, con parti di sé che prendono in mano la loro
vita senza che essi se ne rendano conto, con le conseguenze che possiamo immaginare,
anche se, fortunatamente, l’intensità di tali sintomi è alquanto lieve nella maggioranza
dei casi. Una strutturazione di personalità così gravemente compromessa riconosce una
storia, un termine che si ripete e si ripeterà più volte nel corso di questa trattazione, in
cui era comune abuso fisico e/o sessuale, incuria, conflitto ostile e perdita precoce o
separazione dei genitori. Ritorna in gioco più che mai il “bisogno dell’altro”, ed una
“storia da condividere insieme all’altro”. E il primo altro che ogni bambino incontra nel
suo “scontro con la vita” è, inevitabilmente, la mamma. Il bisogno di un essere umano,
e quindi di un bambino, nasce dalla carne (dai muscoli lisci e/o striati; dalle ghiandole
endocrine e/o esocrine…) e si intrinseca nella carne (nei muscoli lisci e/o striati, nelle
ghiandole endocrine e/o esocrine) e non trova adeguato altro sistema espressivo che
questo. Chi è chiamato a rispondere a tale bisogno è la mamma. In base a come ella
risponderà, il bambino si formerà un suo modo, una volta diventato adulto, di
rispondere. La mamma impara a fare la mamma. Viceversa non lo saprebbe fare, come
non lo saprebbe fare nessun mammifero. Schaller, nei suoi resoconti, circa la
riproduzione dei gorilla in cattività, riferisce qualcosa che apparentemente avrebbe
dell’incredibile: “il parto più recente di gorilla è avvenuto allo zoo di Washinton, D.C.,
alle sei antimeridiane del 9 settembre 1961, dopo circa 266 giorni di gravidanza…..
Nessuno assistè alla nascita. La femmina depose il piccolo a terra senza interessarsi a
lui, né reagire in alcun modo quando il piccolo venne tolto dalla gabbia. Ma al centro
IRSAC, vicino a Bakavu, dove vivendo due gorilla adulti, una femmina riservò al suo
piccolo un trattamento ben più triste. Il 26 ottobre 1959, la femmina interruppe il suo
pasto, si distese, ed alzò la gamba destra. Si vide spuntare la testa del piccolo. Dopo
cinque minuti, secondo gli indigeni che assistettero al parto, si ruppe il sacco amniotico.
Poi, metà seduta e metà distesa, la femmina afferrò con le due mani la testa del piccolo
e tirò. Spezzo il cordone ombelicale, portò il piccolo alla bocca, gli strappò con un
morso una mano ed un piede e gli trafisse il cranio con un canino”. Agli albori di quel
processo di separazione che è detto “ominazione”, scene del genere non dovettero
essere molto rare. E non perché i genitori fossero gelosi del figlio nel raffigurarselo
come futuro rivale. Molto più probabilmente non sapevano che farsene, non sapevano
come allevarlo. Essi potevano benissimo cadere in preda al panico di fronte al compito
nuovo. Schaller, da profondo conoscitore delle scimmie antropomorfe, ha tentato di
riabilitare il suo gorilla precisando che gli animali in cattività, quando vedono un
neonato per la prima volta, non capiscono di cosa si tratti e ne hanno paura:
Probabilmente – conclude l’etologo – i gorilla e gli altri mammiferi che vivono in gruppo
(come l’uomo) imparano ad allevare la loro prole osservando le altre madri. Che cosa
allora si nasconda, sotto quel velo chiamato “depressione”, ci appare forse un po’ più
chiaro alla luce di quanto abbiamo visto. La gravidanza per ogni essere vivente è il
momento in cui la sua origine divina si veste di realtà e si manifesta in tutta la sua
potenza. Per l’uomo rappresenta il contatto con l’Infinito, con la dimensione
soprannaturale della creazione, con un’anima che si costituisce vita ed abita un corpo,
nutrendosi di quel corpo, in un continuum di eternità. La madre ed il materno sono gli
anelli di passaggio della catena trans generazionale. Quando il bambino nasce eredita
attraverso il canale bioumorale tutta una serie di informazioni emotive che si
trasmettono attraverso la fisicità (i recettori vengono eccitati sull’area adrenergica). Ma
oltre alle informazioni emotive egli riceve anche e soprattutto proiezioni (p.es. la scelta
del nome). La madre, quando nasce il figlio, viene chiamata a sviluppare l’empatia, che
si intrinseca attraverso un processo di regressione della mamma a quando lei era feto;
ella va nella sua preistoria che è fatta sostanzialmente di mostri ( con la conseguente
paura di partorire un mostro) che consente alla donna stessa di costruirsi l’immagine
del figlio, e così lei si costruisce un bambino interno cicciottello e ricciolino che smussi
in qualche modo il mostro di paura. Ma se la donna ha avuto un difficile rapporto con la
madre, questa donna va a percorrere “l’area dell’archetipo materno negativo”. E allora
la sua maternità sarà vissuta in maniera catastrofica, con conseguenze inimmaginabili.
Per interrompere allora questa catena c’è bisogno di una terza persona che si faccia
carico delle angosce arcaiche e gliele restituisca trasformate, e questa terza figura viene
ad essere rappresentata dalla figura maschile, dal partner il quale, attraverso il suo lato
femminile faccia questo lavoro di assorbimento e restituzione. Se vogliamo, possiamo
identificare taluni fattori di rischio per quelli che potrebbero essere i comportamenti
aberranti della madre nei confronti del proprio bambino o, da un’altra prospettiva, per
quella che potrebbe essere la predisposizione all’insorgenza di una evidenza
fenomenologica di sintomatologia “depressiva” nel puerperio. Una gravidanza ad
esempio in cui la donna esperisce fantasie di danno genetico patologiche, che
occupano in modo eccessivo la sua mente per cui essa non si costruisce l’immagine
bella del figlio interno, come anche una donna che in gravidanza esperisce angosce di
morte che la spingono ad assicurarsi che la gravidanza vada bene per cui non le
permettono di costruirsi l’immagine bella del figlio materno, o ancora una donna che
esperisca fantasie di essere danneggiate durante il parto per cui essa costruisce
l’immagine di un figlio persecutore. Tutto questo naturalmente si complica
terribilmente in presenza di una sintomatologia ansiosa o di un habitus depressivo della
donna, e naturalmente raggiunge il suo culmine di gravità in termini potenziali se la
donna in gravidanza viene lasciata in solitudine, esperendo le fantasie persecutorie o,
peggio ancora, la assenza di fantasie, senza alcun punto di riferimento al quale
aggrapparsi nei momenti di angoscia e sconforto. È quindi assolutamente
fondamentale la “reverie” paterna, di una figura intimamente legata alla gravida, che
sappia assorbire le angosce di regressione materna, liberando la donna dal compito di
sopportare una ulteriore gravidanza oltre quella che la sua “biologia” le sta imponendo.
Il bambino, che alla nascita non corrisponde al bambino immaginario dei suoi genitori o
è addirittura assente nella mente dei genitori, vivrà la sua vita sin dai suoi inizi nel ruolo
di capro espiatorio, in condizioni di abuso, deprivato di cure, o seviziato, maltrattato
fisicamente o costretto ad essere come i genitori lo vogliono o ad essere il ricettacolo
delle parti negative della famiglia. Vivrà in una condizione in cui il parametro della
normalità è ciò che lui riceve e non risponderà reagendo e arrabbiandosi con il mondo e
con gli uomini ma generando un profondo senso di colpa che, poiché si struttura in una
fase iniziale dello sviluppo, è un senso di colpa arcaico dovuto ad una colpa senza nome
commessa dal bambino, che Neumann ha chiamato “senso di colpa primario” (E.
Neumann, 1980), che ha una connotazione archetipica. Per tutto il suo sviluppo il senso
di colpa primario determina nel bambino la convinzione che non è amato perché è un
anormale, immondo, secondo la logica che “essere amati significa che si è stati buoni;
mentre se non si è stati amati significa che si è cattivi” (E. Neumann, 1980). Il senso di
colpa permane lasciando il bambino nella solitudine e nello smarrimento in un mondo
che è caos e annullamento, ed espulso dall’ordine naturale, dubita poi del proprio
diritto all’esistenza. Oltre al “senso di colpa primario”, con il suo potere devastante e
psicotizzante, il bambino è sollecitato da altri sentimenti, soprattutto quando il suo Io,
seppur fragile, ha la possibilità di un qualche funzionamento: l’angoscia per gli abusi
subiti e per l’attesa e la minaccia del loro imminente ripetersi, la depressione derivante
dalle carenti cure affettive e del pericolo di perdere garanzie affettive, il senso di colpa
secondario, derivante dal provare sentimenti di ira, rabbia, ostilità, che sono reazioni
normali in altre condizioni di vita, non sono permessi né accettabili in un contesto
ambientale abusante in cui al bambino non è dato viverli, esprimerli, descriverli, ma ci
si deve difendere per impedire che le sue verità siano evidenti soprattutto a se stesso.
Ora, quel bambino diventerà adulto. E se è una bambina, diventerà donna. E
probabilmente mamma. E allora? Le conseguenze sono abbastanza prevedibili, se
mettiamo insieme i tanti elementi raccolti sino a questo momento. Entriamo dunque
nel merito specifico del fenomeno depressivo, le cui ripercussioni, nel periodo postpartum, come abbiamo visto, possono essere assai devastanti. La depressione postpartum, secondo le ultime ricerche, colpisce il 10-15% delle donne nei primi mesi dopo
il parto. Oltre a causare la sofferenza e l’angoscia della madre in quel periodo
temporale in cui, invece, non ci dovrebbe essere spazio se non per momenti di gioia, la
depressione post-partum deteriora le relazioni matrimoniali ed influenza
negativamente lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino. Nonostante le potenziali
conseguenze deleterie della depressione post-partum e l’opportunità di ripetuti
contatti clinici nel periodo del post-partum, la ricerca dimostra, purtroppo, come fino al
90% delle depressioni post-partum non siano adeguatamente diagnosticate e trattate.
Generalmente, ci si dimentica che fino ad un terzo di tutte le depressioni post-partum
ha origine nel corso della gravidanza e quindi il termine depressione post-partum è,
strettamente parlando, una denominazione errata, che potenzialmente devia
l’attenzione medica dal pericolo precedente al parto. Se non teniamo presente che una
“depressione post-partum” è effettivamente una “depressione perinatale”, e che una
parte significativa della cosiddetta depressione post-partum ha effettivamente inizio
nella gravidanza, le opportunità di individuare la depressione resteranno dimenticate.
Per questa ragione antecedente al parto forse è meglio riferirsi alla depressione che si
verifica nel periodo post-partum con la denominazione di “depressione perinatale”. Nel
50% delle donne in fase post-partum è osservato un “profondo sentimento di
tristezza”, che esordisce acutamente, sin dai primi giorni dopo il parto. L’umore si
presenta ansioso o timoroso; occasionalmente può essere associata un’euforia instabile
e assai fragile. La caratteristica più rimarchevole della tristezza post-partum è la labilità
affettiva e dell’umore: crisi di pianto incontrollabile possono presentarsi all’improvviso
o senza nessuna ragione, e possono passare altrettanto improvvisamente; alcune
donne, pur non essendo in grado di trattenere le lacrime, possono insistere nel dire che
sono felici. Possono osservarsi anche affaticamento, difficoltà di concentrazione ed
insonnia. In genere questa sintomatologia scompare, se non vi sono componenti di
carattere depressivo o borderline, spontaneamente e completamente entro due
settimane. Tale sintomatologia la possiamo distinguere chiaramente dalla depressione
post-partum perché quest’ultima è ad esordio più tardivo, in genere oltre le tre
settimane nel post-partum, cos’ come dalla psicosi post-partum, la quale può avere un
esordio entro i primi tre giorni del puerperio, e si può presentare con una evidente
labilità, tuttavia la comparsa successiva di sintomi psicotici la differenzia francamente
dalla tristezza post-partum. Una possibile causa di questa condizione, che possiamo
definire come “depressione da maternità”, è legata con ogni probabilità al trauma
psichico della separazione interna dal bambino, ai cambiamenti delle abitudini di vita
connessi all’allattamento, alle ansie o ai dispiaceri per la salute del bambino, alla
mancanza di sonno ed agli effetti dell’ospedalizzazione. Una franca sindrome
depressiva, invece, riconosce un quadro clinico sovrapponibile a quello del disturbo
depressivo non correlato al parto, caratterizzato da irritabilità, insistenti richieste di
consulti sulla crescita e la salute del proprio bambino, abitualmente sano, diminuzione
della fiducia in sé stessa da parte della donna e sentimenti di colpa per l’incapacità di
fare sufficientemente, e bene, quello che pensano sia necessario. Viene riconosciuta,
dalla statistica psichiatrica, la presenza di una serie di fattori che potrebbero favorirne
l’insorgenza, come un’età superiore ai trent’anni, disturbi fisici o dubbi manifestati
sull’opportunità di portare avanti la gravidanza, e fattori psicologici e sociali, quali
appartenenza a classi sociali inferiori, disagiate condizioni economiche e abitative,
contrasti coniugali, rapporti difficili con i propri genitori o con i suoceri. Mi sembra che
l’analisi psicologica sin qui effettuata abbia già contribuito a chiarire abbastanza in
termini di dinamiche psichiche tutto quanto diviene poi osservabile come dato
statistico. Un’ultima situazione strettamente connessa con il post-partum è la psicosi
puerperale. Tale condizione clinica presenta peculiari caratteristiche cliniche ed
evolutive. L’esordio è improvviso e si verifica in genere tra il 5° ed il 25° giorno dopo il
parto; raramente, comunque, prima della terza giornata. Sintomi prodromici di non
frequente osservazione possono essere: insonnia con incubi ed agitazione notturna,
inquietudine, spossatezza, irritabilità, cefalea e variazioni dell’umore. Il quadro clinico è
quello di una sindrome confusionale e delirante, con diffidenza , incoerenza,
irrazionalità e reazioni inconsulte verso il bambino, oppure può assumere l’aspetto di
una psicosi affettiva, di tipo maniacale o depressivo, di una schizofrenia o di una forma
schizoaffettiva. La donna può apparire perplessa, a tratti sconvolta, con fenomeni di
illusioni percettive e falsi riconoscimenti. Il contenuto del delirio può essere
rappresentato da tematiche di negazione del matrimonio e della maternità o di paura o
certezza che il bambino le sia stato sottratto o sostituito. L’evoluzione è caratterizzata
da miglioramenti e da brevi e frequenti riaccensioni della sintomatologia, in genere per
un periodo di 3 – 5 mesi. Si tratta comunque di situazioni che vengono facilmente
osservate, per cui l’intervento si impone abbastanza precocemente, a differenza di
quanto avviene in caso di una sindrome depressiva o di un disturbo borderline di
personalità. Cohen, nel suo “Theory and Practice of Psychiatry”, spiega come l’evidenza
biologica suggerisca che i disturbi dell’umore, e tra essi il disturbo depressivo, siano da
considerare vere e proprie malattie. È pur vero però, dice lo stesso autore, che sono
malattie né intimamente connesse con la storia di vita individuale di ciascun, singolo,
soggetto, così come la sua peculiare struttura di personalità. Infine, conclude, fino
all’85% dei soggetti depressi fa esperienza, nella sua vita, di episodi multipli di malattia,
per cui diviene progressivamente sempre più difficile distinguere la malattia dalla
persona. Quindi comprendiamo bene come persona e malattia siano viepiù intrecciate
nel caso della depressione. Risulta difficile, allora, parlare di malattia, addebitando la
responsabilità di ciò che ci ripugna, di ciò che ci offende nel profondo, ad una patologia
che basterebbe solo “curare” perché l’essere umano possa tornare ad essere la
“meravigliosa creatura” che è. In realtà l’eterno dilemma dell’esistere e del morire, del
bene e del male, del giorno e della notte, vive dentro ogni uomo e continuerà a farlo
per sempre. Non riconoscere la parte cattiva di ogni essere umano significa perdere di
vista il significato intrinseco della storia dell’uomo, prima che dell’uomo stesso. Ma
l’uomo esiste in relazione ad una storia. È la sua collocazione all’interno di una storia
che gli conferisce una dimensione di vita, una dignità. Non possiamo prescindere da ciò
se vogliamo conoscere la verità delle cose. Ed è per rispetto a questa verità che a
questo punto si impone la necessità di chiamare in causa il dato scientifico, quello che
da più parti viene riconosciuto come l’unico in grado di essere obbiettiva bile e
pertanto meritevole di attenzione. Naturalmente tutto ciò non è vero, ma la
spiegazione rimanda ad un discorso molto ampio che esula dal nostro specifico campo
di interesse, motivo per cui lasceremo all’elemento biologico lo spazio che merita,
ricordando che non può in alcun modo essere scisso dal tessuto psicologico del quale
fornisce unicamente il substrato biochimico ed al quale attribuisce un dinamismo vitale
che si chiama “anima”. Le neuroscienze sono ad un passo dallo scoprire finalmente
l’inconscio. Sarà questa la svolta. Per chi come me lo ha sempre pensato non è che una
conferma. Per molti altri sarà un mea culpa dal sapore amaro. Ciò che lo psicanalista
Silvano Arieti, 50 anni fa, aveva ipotizzato sulla depressione e sulla schizofrenia, oggi,
con l’ausilio di esami strumentali più che mai sofisticati, è stato perfettamente
dimostrato, come ad esempio la deafferentazione frontale in corso di schizofrenia. Lo
straordinario prodigio cui stiamo assistendo è quello di vedere confermato proprio
dalle neuroscienze quanto postulato dalla psicoanalisi quanto tale supporto non era
neppure ipotizzabile. Questo conferisce, al dialogo psicoanalitico, un valore ancora più
grande. Viene oggi con convinzione ristabilita la centralità dell’emozione in quanto in
grado di permettere alla coscienza di esistere. “Emozione e coscienza” sono
intimamente congiunte, ed è dal loro interscambio reciproco che l’individuo si
costituisce realtà reagente all’ambiente in cui è collocato. Secondo la teoria del dual
aspect monism, mente e cervello sono in sostanza la medesima cosa, pur utilizzando
due linguaggi differenti. L’uomo è l’insieme delle connessioni che si sono stabilite nel
corso della storia dell’individuo. Ritorna, come vediamo, la storia a decidere chi siamo.
L’indagine analitica altro non è se non una lettura critica della storia. L’uomo si
distingue dagli altri animali non solo per il possesso e la trasmissione di generazione in
generazione di quell’apparato sovra biologico che è la civiltà, ma anche , se la storia e i
cambiamenti nel tempo sono caratteristiche essenziali della civiltà umana e quindi
dell’uomo, per il desiderio di cambiare la propria civiltà, e quindi di “cambiare se
stesso”. Nel creare la storia l’uomo “crea se stesso”. Il processo storico poggia dunque
sul desiderio dell’uomo di diventare altro da ciò che è. E tale desiderio è
sostanzialmente un desiderio inconscio. Ancora oggi l’umanità crea la storia senza
essere assolutamente consapevole di ciò che vuole veramente o di quali condizioni
sarebbero necessarie per porre fine alla sua infelicità; di fatto ciò che sta facendo
sembra renderla sempre più infelice. Tale infelicità si chiama progresso, ma si veste di
depressione. E cosi, dal desiderio, dalla rimozione, dalla sofferenza dell’anima, si giunge
al compromesso con il corpo, con la sua carne. In una realtà olistica, quella della
malattia. In questa sede sarà chiaro come l’elemento biologico non faccia altro che
sposare quanto l’arte psicoanalitica sta cercando da sempre di affermare, ossia che
l’uomo vive nell’equilibrio delle istanze psicologiche dell’Es (inconscio), che vive in
ossequio al principio di piacere, dell’Io che vive in ossequio al principio di realtà e del
Super - io che si pone quale giudice, quale arbitro dell’incontro-scontro tra “Inconscio”
ed “Io”. I neurotrasmettitori celebrali altro non sono se non le parole attraverso le quali
si inviano i “messaggi d’amore e di odio” lungo le miliardi di sinapsi che collegano tra
loro tutti i miliardi di neuroni in dotazione ad ogni essere umano. Ebbene, la risposta al
perché della fenomenologia della depressione e forse della gran parte dei disturbi
psichiatrici la neuro psicobiologia ce la fornisce. Essa va sotto il nome di Serotonina.
Verosimilmente rappresenta il messaggero universale del viaggio dell’uomo verso
l’Infinito. Gli altri neurotrasmettitori risentono in diverso modo della veicolazione della
serotonina nei circuiti celebrali, ecco perché ritengo che il ruolo chiave sia senza ombra
di dubbio giocato proprio dalla serotonina lungo il percorso storico dell’uomo. Ed a
riprova di ciò è stato dimostrato come il sottotipo recettoriali 5-HT4 a livello del SNC
sembri modulare il rilascio di vari neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina,
serotonina stessa, gaba, potenziando la trasmissione sinaptica e la memoria. I corpi dei
neuroni serotoninergici sono localizzati sulla linea mediana del tronco celebrale a livello
del bulbo, ponte e mesencefalo, concentrati nei nuclei del rafe. I nuclei del rafe danno
origine ad un gruppo omogeneo di neuroni che proiettano i propri assoni verso tutte le
principali aree del Sistema Nervoso Centrale (SNC): corteccia,talamo,amigdala,
ippocampo,nuclei della base, nucleo accumbens, cervelletto, midollo spinale. Le fibre
serotoninergiche che proiettano verso le lamine I e II verso il nucleo spinale del
trigemino, indicano un coinvolgimento del sistema serotoninergici nel controllo del
dolore. La serotonina, attraverso le sue proiezioni verso le diverse aree cerebrali,
partecipa al controllo di numerose funzioni come il sonno, il tono dell’umore, l’ansia e
la paura, l’aggressività, la motivazione e la ricompensa, l’apprendimento e la memoria,
il controllo della fame, le funzioni sessuali, la regolazione dei ritmi circadiani, la
regolazione del neuroendocrino, la risposta allo stress e la sensibilità al dolore. Non
posso non soffermarmi un attimo sull’importanza di tutto ciò. Lo stesso mediatore
responsabile del disturbo psichiatrico che terrorizza solo a pensarlo è poi colui ci
permette di vivere in un certo senso la nostra umanità, di esperire stati d’animo,
sensazioni, di sognare, di conoscere, in una parola, di vivere. E allora qual è il senso di
tutto ciò? Lascio al lettore la sua personale risposta. Sembra ormai dimostrato come la
via serotoninergica che inizia nel Nucleo Mediano del Rafe e innerva l’ippocampo
dorsale aumenti la resistenza e la tolleranza allo stress, per cui la modulazione del
sistema serotoninergico influenzerebbe le aree principali coinvolte nel Disturbo di
Panico, ad esempio, attraverso una riduzione dell’attività noradrenergica, una riduzione
del rilascio di CRF ed una modificazione dei comportamenti di difesa/fuga. In corso di
depressione, cosi come in molte altre malattie psichiatriche, il livello di serotonina
cerebrale è ridotto. È stata riscontrata, nei soggetti con condotte suicidarie, una
riduzione del binding del trasportatore della serotonina a livello della corteccia
prefrontale dorso laterale, orbito frontale ed a livello del talamo. La presenza di una
riduzione del trasportatore i soggetti con condotte suicidarie concorda con il riscontro
di una relazione tra riduzione della funzione serotoninergici e discontrollo degli impulsi.
Qui si impone un’altra riflessione. Nelle patologie in cui il soggetto non è in grado di
controllare i propri impulsi (Piromania Gioco d’azzardo patologico, Cleptomania,
Disturbo esplosivo intermittente, Tricotilomania), il livello di serotonina è viepiù basso,
cos’ come accade nella depressione ed in molte altre malattie psichiatriche, tant’è vero
che la terapia per tali disturbi è condotta con SSRI per aumentare il livello proprio di
serotonina. E allora appare più che mai chiaro come un soggetto depresso non possa
riuscire a controllare i propri impulsi perché colui il quale determina il
padroneggiamento, il controllo appunto degli impulsi proprio a livello biologico, è da
egli prodotto in scarsa, scarsissima quantità. Di conseguenza egli è fortemente a rischio
di compiere qualcosa che si impone senza che riesca a frenarla in alcun modo. Lo stesso
discorso vale per il disturbo ossessivo-compulsivo, ossia per quella particolare
situazione in relazione alla quale il soggetto non riesce a controllare i suoi pensieri, che
gli si impongono al di là di ogni suo sforzo di cacciarli via. Ed assumono un carattere
coercitivo obbligandolo a dei comportamenti che egli non vorrebbe ma che divengono
indispensabili, inarrestabili nel loro attuarsi. Anche qui il livello di serotonina è più che
mai ridotto ed il soggetto può potenzialmente commettere qualsiasi gesto,
associandolo a qualsiasi pensiero. Ma non è ancora finita. Sembra che le aree
maggiormente coinvolte nell’Ansia Sociale siano rappresentate dall’amigdala, dai gangli
basali ed ai circuiti frontali; dato che il sistema serotoninergici si estende sia a livello
dell’amigdala che a livello dei circuiti corticostraiatali, è possibile ipotizzare che la
serotonina rivesta un ruolo anche nella genesi dell’Ansia Sociale. Modelli animali hanno
dimostrato che una riduzione della funzione serotoninergici porta all’evitamento di
comportamenti sociali di tipo affiliativi, mentre l’incremento della funzione
serotoninergici porta ad un’incremento della socializzazione. Questo quindi ci dice
come un soggetto con depressione tenda a distaccarsi emozionalmente e fisicamente
dagli altri. E allora una mamma può anche arrivare a non percepire più il proprio figlio
con quel trasporto emozionale che ci aspetteremmo. L’ansia è definibile come uno
stato di inquietudine, un’attesa timorosa di eventi negativi, infausti, ma , mentre la
paura è un’emozione che origina da una minaccia reale, l’ansia è priva di un oggetto o
di un evento scatenante definito, configurandosi come una risposta ad un pericolo
indefinito, vago, verso il quale l’individuo percepisce un sentimento di inadeguatezza. È
quindi una risposta emotiva fisiologica, in quanto determina un aumento della vigilanza
e dell’attenzione al fine di affrontare al meglio situazioni di stress; se però si manifesta
in assenza di fattori scatenanti o si protrae nel tempo o si rivela controproducente ed
interferisce con il funzionamento globale dell’individuo, diviene patologica.
Recentemente, l’ipotesi neuroanatomica del Disturbo di Panico, è stata rivista alla luce
delle nuove acquisizioni ottenute dalla ricerca preclinica nel settore della neurobiologia
dei meccanismi di ansia, paura ed evitamento e dalle evidenze cliniche dell’efficacia
terapeutica degli SSRI. Risulta chiaro che l’attacco di panico rappresenta una risposta
comune a varie cause ed è abbastanza simile alle conseguenze fisiologiche e
comportamentali che si osservano negli animali da esperimento in seguito a stimoli
condizionati dalla paura. Queste risposte sono verosimilmente mediate da specifici
circuiti cerebrali che coinvolgono primariamente l’amigdala e le sue proiezioni
all’ippocampo, alla corteccia prefrontale, all’ipotalamo ed al tronco encefalico. Al
centro del vissuto di ansia sono entrate di prepotenza l’amigdala e le strutture
limbiche, che sappiamo essere il crocevia delle emozioni. E qui ritorna la serotonina. Il
trasmettitore per eccellenza. Quindi una alterazione nel suo fluire diviene importante
nel gestire le emozioni e nell’esperire in un certo modo una sensazione di ansia e di
paura. Ma questo è intimamente legato poi a tutto l’apparato simbolico di cui la nostra
mente si nutre, a tutto l’universo fantastico in cui è orbitante. E così la serotonina,
ancora una volta, entra di diritto nella nostra psiche e ci resta. In ultima analisi vorrei
citare la relazione che lega serotonina e psicosi, cioè alla patologia psichiatrica per
eccellenza quella che porta il termine di Schizofrenia. La Psicosi viene definita come una
sindrome in cui si ha una compromissione del giudizio di realtà caratterizzata in primis
da deliri ed allucinazioni. Con particolare riferimento alla schizofrenia queste
manifestazioni vengono definite come sintomi positivi (“o più recentemente come
dimensione psicopatologica della distorsione di realtà”), mentre in senso lato vengono
considerati come psicotici anche sintomi come ritiro sociale, appiattimento affettivo,
abulia, definiti come sintomi negativi o, meglio, dimensione “impoverimento”. Nel
corso degli anni è stata raccolta una grande mole di dati riguardo al coinvolgimento
della 5-HT nella genesi dei sintomi delle dimensioni psicopatologiche considerate
cruciali nelle Psicosi. Principalmente gli studi hanno seguito tre linee di evidenza: 1)
azione psicotomimetica di molecole con meccanismo d’azione serotoninergico; 2)
alterazione del metabolismo serotoninergico in pazienti psicotici (studi sul liquor, sulle
piastrine e post-mortem; 3) azione di farmaci con meccanismo serotoninergico nel
ridurre sintomi psicotici spontanei o indotti. Una ultima considerazione in merito a
questo è rilevata al fatto che il disturbo di borderline di personalità con le sue condotte
molto spesso imprevedibili e disastrose sia per l’individuo in questione che per chi gli
vive accanto, riconosce un intervento di carattere farmacologico basato sugli SSRI ad
altissimi dosaggi, a riprova di quanto la serotonina sia invischiata in problematiche di
personalità che possono anche passare non diagnosticate in quanto apparentemente
compatibili con una modalità di vita normale, ma che in realtà possono essere causa di
situazioni terribili, come stiamo avendo modo di comprendere con sempre maggiore
amarezza, negli ultimi tempi. Siamo allora arrivati al dunque. Una riduzione di
serotonina può anche essere responsabile di taluni, a volte anche molto gravi, sintomi
psicotici. Credo che a questo punto il quadro si sia definitivamente chiarito. Nel
momento in cui il soggetto è in preda ad un episodio depressivo, in relazione al suo
ridotto livello di serotonina circolante, egli è in balia di ansia, angoscia, panico,
ossessioni, compulsioni, deliri ed allucinazioni. Non è più padrone di sé. Potrebbe
attuare qualsiasi comportamento, anche quello più insensato. Quando una donna viene
in un certo senso obbligata a strutturare un assetto di personalità di tipo depressivo, si
convincerà irrimediabilmente di essere fondamentalmente cattiva. Si lamenta della
propria avidità, egoismo, competitività, vanità, orgoglio, rabbia, invidia, lussuria. Ritiene
perversi e pericolosi tutti questi normali aspetti dell’esperienza. Teme di essere
intrinsecamente distruttiva. Queste angosce possono assumere un tono più o meno
orale (“ho paura che la mia fame possa distruggere gli altri”), o di livello anale (“la mia
opposizione e il mio sadismo sono pericolosi”) o una dimensione più edipica (“i miei
desideri di competizione e di conquistarmi l’amore sono malvagi”). Le personalità
depressive hanno tratto dalle loro esperienze di perdita non elaborate la convinzione
che sia stato qualcosa in loro ad allontanare l’oggetto. Hanno trasformato il sentimento
di essere rifiutate nella condizione inconscia di meritare quel rifiuto, di averlo
provocato con le proprie mancanze, e che in futuro saranno inevitabili altri rifiuti se
qualcuno arriverà a conoscerle intimamente. Tentano con tutte le forze di essere
persone “buone” ma temono di essere scoperte nelle loro pecche e allontanate come
persone indegne. E la reazione ad un senso di colpa che appare, in certi casi,
incommensurabile, può rivelarsi, purtroppo, assolutamente imprevedibile. Inoltre, in
corso di un episodio prolungato o meno di melanconia, si assiste ad una regressione
della libido oggettuale, cioè dell’investimento libidico sul mondo esterno, a livelli
pregenitali di tipo orale cannibalico e sadico-anale, mentre l’Io opera una intensa
regressione narcisistica; entrambi i movimenti contribuiscono a costituire, nella vera
posizione melanconica, l’autenticità dell’organizzazione psicotica. In questa situazione
tutto corre il rischio di complicarsi viepiù sia per il soggetto presentante la
fenomenologia depressiva, sia per chi gli vive accanto. Il problema però non è tanto
questo. Qui non si tratta di criminalizzare un certo tipo di persona. Qui si tratta di
guardare le cose a 360 gradi, nel bene e nel male. E allora la domanda cruciale che ci si
pone non può che essere la seguente: è l’abbassamento del livello di serotonina il
responsabile della depressione nel post-partum oppure è il post-partum un evento
scatenante che produce l’abbassamento del livello di serotonina e quindi la
depressione nel post-partum? La risposta probabilmente può fornircela una breve
analisi su due paradigmi di depressione che ci vengono forniti uno da esperienze di
laboratorio, l’altro dalla storia personale di ciascun individuo. Mi riferisco alla
“depressione da separazione” ed al “lutto”. Per la depressione da separazione
dobbiamo chiamare in causa per prima cosa gli esperimenti effettuati da Spitz. Questi è
arrivato alla conclusione che durante il primo semestre di vita, la sicurezza dell’infante
ha le sue radici nel comportamento intimo che la madre ed il figlio hanno potuto
realizzare. La sicurezza acquisita in quest’epoca assicura un rapido sviluppo ponderale e
psicomotorio nel secondo semestre. Ma questo non è tutto; a seconda del tipo di
esperienze intime occorse nel primo e nel secondo semestre di vita, le strutture
affettive di quella che sarà la personalità dell’infante nell’età adulta saranno plasmate
in un modo o nell’altro. E sono le strutture affettive quelle che condizionano i nostri più
radicati automatismi relazionali (Durand e Cherpllod, 1963). In altri termini il normale
sviluppo affettivo e ponderale dipende dai segnali che l’infante ha ricevuto dalla madre,
dalla loro costanza, dalla loro qualità e dalla loro certezza e stabilità. Essi sono dotati di
enormi potenzialità maturative e securizzanti. Questi segnali della madre sono
determinati dal suo atteggiamento affettivo inconscio, cioè il comportamento della
madre si manifesta in forme comunicative di cui essa stessa non si rende
necessariamente conto. Però il comportamento materno può presentare deviazioni
qualitative e quantitative assai varie. Quali saranno le conseguenze di tali deviazioni
sull’infante? Quale sarà, ad esempio, il condizionamento culturale di un infante, la cui
madre lo rifiuti attivamente o passivamente? Spitz è riuscito ad identificare in alcune
madri un atteggiamento di base consistente nel rifiuto globale della maternità, vale a
dire della gravidanza, del bambino e finanche dell’atto sessuale che lo aveva generato.
In tali casi, il neonato può non mostrare alcuna difficoltà a poppare il latte dal
poppatoio, mentre rifiuta il seno materno. Infatti, quando vi viene attaccato, la madre
lo tratta come un estraneo, come una cosa e non come un essere vivente; ella assume
atteggiamenti di rifiuto, è rigida e tesa nel corpo, nelle mani e nel viso. È evidente che
l’infante è rimasto contagiato emotivamente: la conseguenza del rifiuto materno è il
rifiuto del seno materno. Ostilità genera ostilità, amore genera amore. In altre madri,
Spitz riuscì ad identificare un atteggiamento basale condizionato essenzialmente dalla
preoccupazione eccessiva di non essere all’altezza del loro compito, cioè di non essere
capaci di soddisfare tutte le richieste e le esigenze del loro bambino. In conseguenza di
un tale stato di tensione emotiva, queste madri non erano in grado di distinguere se il
loro bambino aveva fame o piangeva per altra ragione. A seguito di queste
comunicazioni distorte si verificano stati di tensione muscolare generalizzata sia nel
lattante che nella madre. Il terzo tipo di madre deviante, secondo Spitz, è quella che
nutre sentimenti di ostilità diffusa e fluttuante. Tale situazione di base induce
atteggiamenti ansiosi di facciata nei confronti di tutto ciò che concerne il proprio
bambino. Questo tipo di madre potè venire rintracciato in un istituto di pena dove
venivano rinchiuse giovani gestanti condannate per reati diversi (delitti sessuali,
omicidio, furto). Queste ragazze partorivano nell’istituto e qui allevavano i loro
bambini, durante il loro primo anno di vita. All’osservazione clinica tutte si mostravano
assai reticenti nel toccare i loro figlioletti e pertanto riuscivano sempre a persuadere
l’una o l’altra delle loro amiche a sostituirle nel cambio dei panni se il bambino si
sporcava, nel fargli il bagno, nel somministrare il latte dal poppatoio.
Contemporaneamente si divulgano, nei loro discorsi in camerata, sulla fragilità e sulla
vulnerabilità dei lattanti; una di loro – dice Spitz – voleva ripetere: un movimento falso
potrebbe ferirlo! Non vi è chi non possa vedere che tali comportamenti sono
sintomatici di ostilità repressa, confermata da numerose paraprassie in cui i bambini
venivano messi in serio pericolo. Una delle 20 madri osservate da Spitz somministrò
con la pappa una spilla da balia aperta; a un’altra sfuggiva di mano il suo bambino e si
scusava con le astanti dicendosi “maldestra”; l’ultima, infine, stringeva talmente il
bavero intorno al collo del suo bambino da renderlo cianotico. I bambini di tali madri, la
cui cura fondamentalmente era quella di evitare al massimo i contatti fisici con il
proprio figlio, erano tendenzialmente esposti a disordini cutanei, di tipo dermico. Nel
tentativo di interpretare in chiave psicodinamica tale sintomatologia morbosa, Spitz vi
attribuisce un significato comunicativo (linguaggio del corpo). Secondo lui, tali eruzioni
cutanee potevano essere spiegate come un vero e proprio comportamento
provocatorio nei confronti della madre che cosi era costretta a toccare più di frequente
il suo bambino; oppure come un estremo rimedio di carattere autoerotico: egli in tal
modo riesce a provocarsi da solo gli stimoli tattili che la madre gli rifiuta. Possiamo ora
passare al quarto gruppo di madri devianti osservate da Spitz. Qui vennero collocate
quelle madri instabili, che presentavano impreviste e tumultuose oscillazioni del
comportamento, che andavano cioè dalla tenerezza all’ostilità manifesta: erano le
madri che,con estrema disinvoltura, passavano dai baci alle botte. I loro bambini
presentavano caratteristici comportamenti autoerotici: l’attività di veglia principale in
questi infanti era rappresentata da un ritmico,stereotipato dondolarsi su se stessi.
Seguono le madri con oscillazioni cicliche del tono dell’umore, cioè pazienti affette da
psicosi maniaco-depressiva. Tali madri hanno, nei riguardi dei loro bambini, un
atteggiamento costante per diversi mesi che poi, improvvisamente, vira nel suo
opposto e tale permane per un periodo di tempo altrettanto lungo. I loro figli tendono
a scegliere come oggetto dei loro giochi le loro stesse feci e possono finanche
ingoiarsele (coprofagia). L’ultimo gruppo di madri devianti era costituito da coloro che
erano riuscite a compensare i sentimenti di ostilità nei riguardi della loro prole. Per
queste madri, il figlio non è oggetto di amore ma serve loro come soddisfazione
esibizionistica. Poiché si rendono conto che l’atteggiamento nei riguardi del loro
bambino è improprio, vengono prese da sentimenti di colpa e si difendono con
comportamenti correttivi di marca conformistica: dolcezza di parata, untuosa e acida
nello stesso tempo. Spitz potè stabilire che tale tipo di madre è frequente soprattutto
negli ambienti intellettuali; i loro bambini erano decisamente aggressivi, preferivano
evitare i rapporti interpersonali e mostravano interesse per gli oggetti inanimati, di cui
erano abili manipolatori. Chi tentava di stabilire con essi un approccio, veniva respinto
da atteggiamenti di difesa dettati da evidente ostilità. Secondo Spitz una relazione
madre/figlio può essere definita normale quando essa soddisfa contemporaneamente
sia la madre che il figlio. Nei loro rapporti quotidiani, madre e figlio vivono
continuamente tensioni che suscitano continui specifici bisogni. Questi, a loro volta,
debbono venire soddisfatti ricorrendo a specifiche azioni-oggetto. Il soddisfacimento
contemporaneo e reciproco di tali tensioni-bisogno, che insorgono e si amplificano
sommandosi nell’uno e nell’altro polo del sistema diadico madre-bambino, sta alla
base di un valido, economico rapporto interpersonale. Solo un rapporto interpersonale
di tal fatta è capace di fornire le cariche securizzanti e le conseguenti spinte maturative
necessarie ad un armonico e progressivo sviluppo ponderale, psicomotorio ed affettivo
dell’infante. Con questo criterio si possono facilmente distinguere relazioni madre/figlio
dannose, sistematizzate da Spitz in due grandi categorie: a) relazioni madre/figlio
inadeguate; b) relazioni madre/figlio insufficienti. Finora abbiamo sommariamente
descritto i sei tipi di relazione madre/figlio inadeguate, che stanno alla base delle turbe
psico-tossiche dell’infanzia. Nei quadri clinici, in precedenza descritti, la madre, infatti,
finisce per agire, nei riguardi del proprio figlio, al pari di una tossina. Il secondo tipo di
relazioni dannose madre/figlio è caratterizzato, più che da derivazioni qualitative, da
veri e propri momenti deficitari, cioè da fattori di ordine puramente quantitativo. Qui
rientrano i bambini che sono stati privati della presenza fisica della madre. Benché il
bambino abbia a sua disposizione la quantità necessaria di nutrimento, igiene e calore,
il tutto fornito da personale specializzato secondo orari e metodiche scientificamente
valiate, egli può tuttavia andare incontro a disturbi dell’accrescimento ponderale e
dello sviluppo psicomotorio fino a presentare un quadro clinico caratteristico: la
depressione anaclitica fino all’ospitalismo. È come se lo si fosse privato di un elemento
indispensabile alla vita. A questo bambino mancano infatti le dosi sufficienti di intimità.
Spitz ha denominato questa seconda categoria di relazioni dannose madre/figlio turbe
da carenza affettiva, in quanto il quadro clinico ricalca quello osservabile in casi di
avitaminosi. Tali turbe vennero distinte in due tipi: a) turbe da carenza affettiva
parziale; b) turbe da carenza affettiva totale. Nel corso delle sue sistematiche
osservazioni cliniche, Spitz potè isolare un vasto gruppo di bambini che vennero seguiti
fino al 18° mese di età; essi, dopo aver sperimentato un soddisfacente rapporto con la
loro madre per almeno sei mesi, ne erano stati privati, a causa di motivi contingenti,
per un periodo più o meno lungo. Dapprima il bambino si faceva piagnucoloso e
tiranneggiava il sostituto materno; poi il pianto si trasformava in grida. Si manifestava
calo del peso corporeo e lo sviluppo psicomotorio si arrestava. Se il periodo di
separazione dalla madre si prolungava, il bambino finiva per assumere posizioni
caratteristiche: preferiva la posizione prona a quella supina. Infine l’espressione del viso
perdeva in vivacità fino a diventare immutabile; cessava ogni pianto e il silenzio veniva
rotto da rare grida. Alla fine interveniva un vero e proprio letargo. Questo è il decorso
della “depressione anaclitica”, che ha la sua causa nelle carenze affettive parziali. Essa
può regredire se il bambino viene tempestivamente restituito alla madre. Qualora la
carenza affettiva si prolunghi e diventi totale, si trapassa gradatamente nella sindrome
clinica detta ospitalismo. Gli effetti della carenza affettiva totale vennero studiati da
Spitz in un gruppo di lattanti posti in brefotrofio dopo il terzo mese di vita, previo
svezzamento. Essi dunque erano stati allevati al seno delle loro madri e fino ad allora
avevano presentato uno sviluppo regolare. Dopo di che vennero affidati al personale
specializzato dell’istituzione che, com’è facilmente prevedibile, deve rispettare turni
regolari di servizio. Cosicché, durante la giornata, essi dovevano sperimentare almeno
tre figure materne, dal punto di vista dietetico, igienico ed assistenziale venivano
prestate cure ineccepibili, ma poiché ogni infermiera in servizio era tenuta ad occuparsi
simultaneamente di 10 bambini, essi finivano per ricevere, essi finivano per ricevere,
ad ogni turno di servizio, solo la decima parte di intimità disponibile. In queste
circostanze, i suddetti bambini attraversavano rapidamente tutti gli stadi clinici della
depressione anaclitica, poi il ritardo psicomotorio si faceva sempre più evidente.
Completamente inattivi, i bambini passavano le ore di veglia nel loro lettino indifferenti
a ogni sollecitazione ambientale. A quattro anni di età, alcuni non riuscivano ancora a
camminare, mentre altri non sapevano nemmeno raggiungere la stazione eretta, né
controllavano gli sfinteri. Alcuni altri non parlavano, né sapevano mangiare o vestirsi da
soli. L’intimità dunque è un fattore indispensabile alla crescita ed allo sviluppo
armonico della persona. Abbiamo anche citato, in tema di depressione da separazione,
le esperienze di laboratorio di Harlow e della sua èquipe. Questi ultimi con le loro
ricerche hanno voluto studiare le scelte comportamentali cui arriva una scimmia
Macaca mulatta, appena nata, nel tentativo di soddisfare le sue tensioni-bisogno
quando venga posta in condizioni di carenza affettiva. Dapprima alcune scimmiette
vengono separate dalla madre naturale e poste a contatto con madri artificiali dotate di
certe caratteristiche somatiche essenziali (occhi, bocca, tronco, seno, ecc…). Seguono
poi le esperienze con madri-modello estremamente semplificate (rulli di gomma
rivestiti di tessuto spugnoso, riscaldati o raffreddati a seconda delle esigenze
sperimentali). Seguono infine le esperienze di isolamento totale in cui le scimmiette
restavano sole nella gabbia per sei mesi senza avere alcun contatto con esseri viventi di
qualsiasi specie (deprivazione sociale). Nel primo, e forse più classico, esperimento si
potè chiaramente dimostrare che la scimmietta, in assenza della madre naturale,
sceglie come azione-oggetto specifica,atta al soddisfacimento delle sue tensionibisogno, un modello di madre-carezzevole. Ciò appare evidente quando si destano
specifiche tensioni-bisogno,quali fame, paura,esplorazione. Infatti, se una scimmietta
appena nata viene stivata in una gabbia in cui siano state preventivamente alloggiate
due madri-modello, l’una fatta di filo di ferro e l’altra rivestita di tessuto morbido e
spugnoso, essa si mostra subito interessata alla seconda anche se la prima ha nel suo
grembo il poppatoio ripieno di latte. Le circostanze sperimentali poterono infatti
dimostrare che la scimmietta, durante le sue ore di veglia, trascorreva 60 minuti
attaccata alla madre di filo di ferro, mentre preferiva restare abbracciata all’altra per 15
ore al giorno, evidentemente gratificata dal contatto soffice e morbido del panno che la
ricopriva. E se nella gabbia faceva la sua comparsa improvvisa un oggetto spaventevole,
la scimmietta correva a chiedere conforto e sicurezza alla madre carezzevole,
trascurando sistematicamente l’altra da cui pure riceveva il nutrimento necessario alla
sua crescita. Inoltre solo la madre carezzevole sembrava in grado di rifornire la
scimmietta delle necessarie cariche securizzanti per iniziare un comportamento
esplorativo ma l’esplorazione della gabbia, come la manipolazione incuriosita degli
oggetti sconosciuti e finanche la suzione del latte offerto dal surrogato di ferro erano
tutti comportamenti che venivano attuati senza mai perdere il contatto fisico con il
surrogato in panno; almeno una delle zampe posteriori restava attaccata al corpo della
madre seconda. Il contatto fisico, quindi, è, secondo Harlow, una variabile
estremamente importante nel determinismo di risposte comportamentali affettive,
mentre l’allattamento in se stesso ha un’importanza del tutto trascurabile: “il valore
dell’allattamento al seno tra i neonati umani sta più nel contatto fisico con il corpo della
madre che nel latte in sé stesso”. In altri successivi esperimenti vennero costruiti
modelli di mamme “calde” e modelli di mamme “frigide”. Le scimmie in esperimento
vennero allevate per 4 settimane a contatto di un surrogato materno riscaldato: esse
mostrano molto attaccamento per tale “oggetto” che pure era stato estremamente
stilizzato nelle sue sembianze; in tutto il tempo di esperimento, il contatto e l’uso di
esso come base per l’esplorazione della gabbia si mostrano in costante ascesa. Quando
nella gabbia il surrogato riscaldato venne sostituito da uno simile ma freddo, la
scimmietta si andò a raggomitolare in un angolo,ignorando manifestamente tale
versione di madre-modello sia nel suo comportamento di suzione, che nel suo
comportamento esplorativo che in quello di sonno. Per altre scimmiette il trattamento
venne invertito: furono poste subito dopo la nascita, in una gabbia fornita di mamma
fredda, cui non mostravano alcun attaccamento: tale tipo di oggetto veniva
sistematicamente evitato e ignorato né la successiva esposizione a un surrogato caldo
potè realizzare un’inversione di tendenza: non si verificò, nemmeno in tali circostanze,
nessuna risposta affettiva. Al centro di ricerche del Wisconsin si conclude testualmente
che il fatto di essere stata allevata insieme a una mamma frigida sembra abbia
raffreddato in questa scimmietta ogni spinta motivazionale verso la madre in generale,
anche verso di quelle capaci di offrire tepore e contatto soffice si potè quindi procedere
ad un’ulteriore sofisticazione dell’esperimento: si esposero ambedue le scimmiette ad
una situazione-stimolo spaventevole, presenza di surrogati materni tenuti, questa
volta, a temperatura ambiente. La prima delle 2, cioè l’esemplare che potè avere i
primissimi contatti post-natali con la madre calda, ripose correndo verso il surrogato e
l’abbracciò in cerca di sicurezza; l’altra, che era stata allevata in presenza della madre “
frigida”, scappò via in un cantuccio della gabbia e li si rannicchiò tremebonda. L’ultimo
esperimento dell’èquipe del Wisconsin’s Regional Primate Research Center consistette
nel separare, subito dopo la nascita, delle scimmiette Rhesus dalla loro madre e nel
tenerle in camera di isolamento per sei mesi. Qui le scimmiette venivano deprivate di
ogni contatto fisico e visivo con altri esseri viventi. In questo assoluto isolamento esse
svilupparono gravi deficit nel comportamento locomotorio, esplorativo e sociale. La
maggior parte del loro tempo in gabbia veniva speso in comportamenti autoerotici: le
scimmiette stavano per tutto il tempo della vegli, in un angolo della gabbia
rannicchiate in sé stesse oppure si dondolavano aritmicamente e con fare vuoto e
stereotipato. Trascorsi i sei mesi di isolamento, le scimmiette venivano inserite in un
contesto interpersonale dove mostravano comportamenti sociopatici: attaccavano i
neonati o i maschi dominanti, dimostrando chiaramente di direzionare la loro
aggressività verso bersagli inappropriati. Del pari le femmine, sottoposte ad isolamento
assoluto, si mostravano immature sessualmente: dopo essere state fecondate
artificialmente, al momento del parto si mostravano indifferenti o brutali nei riguardi
dei loro figlioletti. Tutti i tentativi per modificare gli effetti devastanti di un isolamento
assoluto e precocissimo si sono mostrati infruttuosi, salvo uno. Condizionamenti
avversativi produssero infatti lievissime modificazioni comportamentali. Del pari
fallirono i tentativi di esposizione dei soggetti devianti a coetanei socialmente maturi; le
scimmie normali si comportavano aggressivamente nei riguardi delle devianti e cosi
facendo rinforzavano il loro repertorio di condotte sociopatiche un tenue filo di
speranza si ebbe quando le scimmie isolate vennero messe a contatto con madrimodello (surrogati ricoperti di panno e riscaldati a temperature maggiorate rispetto alla
temperatura ambiente): dopo qualche giorno, le scimmie sottoposte a totale e
precocissimo isolamento entravano in contatto con questi surrogati materni e quando
questi si facevano abbastanza frequenti comparivano comportamenti di locomozione,
di esplorazione, ecc… se nella gabbia equipaggiata di madre calda e carezzevole si
alloggiavano due scimmiette isolate, invece di una allora si verificavano addirittura
comportamenti sociali a tipo di gioco, anche se persistevano però i disordini del
comportamento. A questo punto le scimmiette isolate per sei mesi vennero messe in
contatto con scimmiette normali di tre mesi si età, cioè con scimmiette più giovani di
loro. Troppo immature per essere aggressive, queste scimmiette di tre mesi si
comportavano proprio come delle terapiste: esse prima si avvicinavano e poi si
attaccavano ai loro pazienti devianti e riuscivano a stabilire con loro rapporti lucidi
anche se ad un livello rudimentale. La coppia terapista/paziente si incontrava per due
ore al giorno, tre volte la settimana. Dapprima la scimmietta sottoposta ad isolamento
totale per sei mesi (cioè la scimmietta-paziente) si andava a raggomitolare tremebonda
e spaurita in un angolo della gabbia, ma in capo ad una settimana essa rispondeva ai
contatti fisici della scimmietta-terapista; gradualmente esse integravano
comportamenti comunicativi di gioco; così i disordini comportamentali delle scimmiette
isolate cadevano a livelli insignificanti. Dopo sei mesi di un totale trattamento
psicoterapico, cioè al momento in cui le scimmiette isolate compivano il loro primo
anno di vita, esse avevano sviluppato la locomozione, il comportamento esplorativo e
ludico quanto le loro terapiste. Il tipo di gioco era specifico del sesso di appartenenza: i
maschi isolati preferivano azzuffarsi nella mischia mentre le femmine preferivano giochi
senza contatti fisici. A questo punto, pazienti e terapiste vennero trasportate via dalle
loro gabbie individuali e inserite in un branco dove vennero lasciate vivere in comunità
per un anno. Le scimmiette isolate apparivano completamente guarite. All’attività
ludica, esse cominciarono a preferire attività sociali più mature: la pulizia reciproca del
pelo o rapporti eterosessuali. Questa si può dire sia la prova definitiva della loro totale
riabilitazione affettiva: esse, in altri termini, erano capaci di adottare comportamenti
genitalizzati. Dalla donna-madre dipende dunque normalità e felicità dell’umanità
intera? A questa conclusione portano i dati etologici, clinici e sperimentali sull’intimità.
L’altro modello di depressione che abbiamo citato all’inizio è quello legato al lutto. Un
essere umano che prima di allora viveva la sua vita normalmente si trova dapprima ad
esperire “angoscia e disperazione” per la constatazione della separazione, e
successivamente mette in atto una “introiezione” dell’oggetto amato nell’ultimo
disperato tentativo di ridargli la vita, di renderlo immortale, ma unitamente a ciò, in
questo estrinsecarsi fenomenologico depressivo,egli mette in atto una violenta scarica
aggressiva verso l’oggetto che lo ha abbandonato. E poiché tale oggetto è dentro di lui,
nelle sue fantasie, egli rivolge tale tremenda scarica aggressiva verso se stesso, nel
tentativo suicidario. Ecco allora un aspetto importante connesso alla depressione: il
delirio di colpa tipico del paziente depresso, è proprio legato alla consapevolezza di
questa enorme cattiveria, gratuita, che egli sente di liberare, e che nelle sue fantasie è
rivolta a tutti gli oggetti che lo hanno abbandonato e poi, in ultima analisi a se stesso,
nel tentativo ideale di ricongiungersi ad essi, già uccisi precedentemente nel suo
mondo simbolico. Quindi la serotonina non potrà mai abbassarsi “ di sua spontanea
volontà”. Si abbasserà nel momento in cui i circuiti mentali che veicolano i pensieri
aumenteranno le scariche inibitorie sui centri cellulari produttori del mediatore
sinaptica, e questo accade man mano che pensieri “ a contenuto negativo” si insinuano,
lentamente ed inesorabilmente, nel tessuto mentale dell’individuo. Questa è
sostanzialmente la predisposizione di cui si parla. Essa deriva da una esperienza
primordiale alla quale il bambino è stato sottoposto, ossia quella del “rifiuto”. Poiché
tutte le volte che, nel corso dei suoi primi trenta mesi ha chiesto e non solo non ha
avuto risposte ma addirittura gli è persino stato impedito, vietato di chiedere, ad
esempio impedendogli di piangere, egli ha imparato che è meglio non chiedere. Ma se
non deve chiedere non ha neanche bisogno di riconoscere l’altro. E allora l’altro
comincia a non esistere nel suo mondo fantastico. Comincia a morire. Ecco perché la
gravidanza ed il parto possono essere momenti a rischio; perché posso slatentizzare
quei germi piantati in epoche molto precoci. E questo perché nella esperienza della
maternità c’è un richiamo a questa esperienza primordiale della madre, con il
riaffiorare di tutte le spinte aggressive e violente. All’inizio di questo lavoro abbiamo
visto come l’inconscio umano sia ricco di elementi bizzarri, stravaganti, assolutamente
difficile da interpretare. Ma l’inconscio è soprattutto carico quasi straripante, di rabbia
e disperazione. E la rabbia è un sentimento molto pericoloso, le cui conseguenze
possono essere molto gravi. Il biologico si inserisce solo e soltanto in un secondo
momento. Che lo vogliamo o no è questo ciò che accade, le ragioni di questa rabbia
vanno ricercate lontano nel tempo, e vanno al di là persino della storia singola di
ciascuno di noi. Investono i nostri antenati e giù ancora, fino all’inizio del tempo, fino al
momento in cui l’uomo dagli alberi ha scelto di abitare la terra, smettendo di cibarsi di
frutta per cacciare e cibarsi di carne. Ma una volta sceso sulla terra (probabilmente è
questo ciò che la storia ci presenta come il “ peccato originale”) egli ha dovuto
difendersi dai predatori, oltre che diventare predatore stesso. Ha dovuto imparare a
predare per sopravvivere. Ed è allora che ha smesso in atto, unico tra tutti i mammiferi,
una modalità di accadimento della prole che vede nell’allungamento dell’infanzia e
nella “ malversazione”, ciò del maltrattamento il suo filo portante. Ciò gli ha permesso
di formare gruppi saldamente aggregati e fortemente rabbiosi, in grado di conquistare
il territorio, guerreggiando, ed appropriarsi delle risorse. A fronte di una azione di
malversazione parentale, un bambino, in luogo di prendere congedo dal genitore, o di
ammonirlo affinché receda dal malcostume relazionale, vi si “stringe con maggior
forza”. E addirittura ciò che costituisce l’aspetto davvero singolare, riduce o distorce la
rappresentazione mentale dell’abuso a favore dell’abusante. Accade allora che quanto
più un bambino venga maltrattato tanto meno veda i maltrattamenti subiti e tanto più
sia spinto ad attribuire a una causa di fantasia l’origine della sofferenza. La portata di
questo fenomeno apparentemente secondario, potrebbe essere superiore di quanto
non sembri a prima vista. La personalità si forma in un tempo del quale all’individuo,
come abbiamo visto, non resta memoria. Lo sviluppo del cervello, avviene mediante “
sinaptogenesi”, o formazione dei circuiti nervosi. Essi, verosimilmente, rappresentano
la base fisiologica delle funzioni neurologiche. Il Sistema Limbico-composto da
Amigdala, Giro del Cingolo, Ipotalamo, Ippocampo, più altre strutture meno
direttamente implicate- può essere considerato, ancorché in modo schematico, la sede
delle principali funzioni emotive e relazionali, in quanto è funzionalmente attivo ogni
volta che nell’individuo si svolge un atto emotivo o relazionale. La sinaptogenesi del
sistema limbico avviene in circa trenta mesi. Quindi dopo in trenta mesi il cervello che
presiede coordinazione della relazionalità, avendo concluso la sinaptogenesi, perde
parallelamente la sua duttilità e rende la formazione relazionale dell’individuo
completa e irreversibile. In modo adulto di pensare e conoscere, inizia il suo sviluppo
intorno ai sei anni. È a quest’età che entra in funzione lo strato evolutivamente più
recente del cervello, il quale, per funzionare, deve parallelamente alimentare se stesso
e togliere iniziativa fisiologica agli strati che l’hanno preceduto. La sua attivazione è
possibile solo mediante la contemporanea inibizione dell’attività degli strati precedenti.
È per definizione impossibile che un individuo riconosca in modo diretto la sua
formazione relazionale. Essa si rivolge in un tempo nel quale la percezione degli eventi
è affidata ad uno strato del cervello diverso da quello in uso dai sei anni in poi.
Chiunque abbia più di sei anni,non ha accesso al ricordo dei suoi primi sei anni di vita,
dato che una parte del suo stesso cervello inibisce la memoria di quel tempo e un’altra
la distorce sottovalutando i maltrattamenti e sopravvalutando i maltrattatori, in un
processo che prende il nome di “minimizzazione dell’azione antisociale parentale”.
Ogni bambino porta innato un comportamento di attaccamento che lo porta a
promuovere il contatto col genitore. Possiamo, seguendo il criterio della
interpretazione evolutiva, scomporre tale comportamento in un certo numero di atti e
valutare la natura di ciascuno di essi. Tra le azioni riflesse del neonato, per esempio,
annotiamo quattro atti: a) il riflesso di ricerca del capezzolo; b) il riflesso di suzione; c) il
riflesso di afferramento; d) il riflesso di Moro, che consiste nella reazione che si attiva
quando la testa del bambino cade all’indietro: egli protende in avanti le braccia
congiungendole sul petto in un gesto di afferramento,. Questi 4 riflessi possono
lavorare assieme solo se presenti in serie e indicano la progressione nel compito di
ricerca di un genitore dal quale trarre nutrimento. Il riflesso di Moro e quello di
afferramento - che consiste nello stringere la mano quando vengono stimolati il palmo
e le dita del neonato – servono per aggrapparsi al corpo materno. Gli altri due, per
andare alla ricerca del capezzolo e succhiarne il latte. La spiegazione funzionale
rimanda al compito che il figlio deve svolgere se vuole essere unito alla madre e da lei
nutrito. La spiegazione funzionale del riflesso di stringere la mano rimanda al retaggio
del tempo in cui avevamo ancora la pelliccia, come le altre 192 specie di scimmie con
cui condividiamo l’Ordine dei Primati. Tra le cinquemila specie di mammiferi, l’uomo è
l’unico a sopportare la presenza massiccia di aggressione e distacco nelle sue relazioni
interpersonali di stretto contatto. I mammiferi non trascurano i figli, non li lasciano
deliberatamente reclamare il ripristino del pieno rapporto, non delegano a terzi
l’accudimento precoce, non consentono ad alcuno di interporsi, neanche fisicamente,
tra essi e la prole. Egualmente, nei rapporti della coppia coniugale, ove questa sussista
(essendo le cure parentali dei mammiferi affidate prevalentemente alla sola madre,
contrariamente a ciò che accade tra gli uccelli), i genitori non litigano, non divergono
sull’interesse comune di accudire efficientemente la prole, non si separano, non
formano seconde e terze coppie, parallele o sostitutive. Quando un figlio malversato da
un genitore risponde l’asservimento e la minimizzazione, certamente non sta favorendo
se stesso. Il soggetto beneficiato è la sequenza genica, ossia egli stesso come corpo, con
alte probabilità di divenire progenitore. Ciò che ci interessa comprendere, infine, è che
chi assimila nel periodo critico antisocialità parentale, si tramuta a sua volta in un
genitore meno efficiente. Dal punto di vista squisitamente psicoanalitico, un excursus
rapidissimo sull’uomo come essere sociale, ci conduce ad attribuire, in concomitanza
con il passaggio evoluzionistico da scimmia ad uomo, al prolungato permanere dei figli
in una condizione di dipendenza dai genitori, un peso determinante, in quella che
potremmo definire nevrosi collettiva, ossia nevrosi dell’intera società, nelle maglie della
quale verosimilmente si annida lo spettro di una crisi di identità dai risvolti assai
indecifrabili. Tale prolungata dipendenza infantile e tale prolungata tutela da parte dei
genitori comportano pesanti effetti sulla vita sessuale sia dei genitori sia dei figli. Per
quel che riguarda i genitori, è chiaro che la sessualità degli adulti, mentre serve allo
scopo socialmente utile della procreazione, in certo senso costituisce per l’individuo un
fine a sé stante, in quanto fonte di un piacere che, secondo Freud, è il piacere più alto.
La sessualità degli adulti, nella misura in cui è limitata da regole miranti a conservare
l’istinto familiare e nella misura in cui il desiderio di soddisfazione sessuale è deviato e
sfruttato al fine di conservare un’istituzione socialmente utile, è un chiaro esempio di
subordinazione del principio di piacere al principio di realtà che è la rimozione; come
tale è respinta dall’assenza inconscia dell’uomo e perciò conduce alla nevrosi. Il
prolungamento dell’infanzia ha conseguenze ancor più lontane. Da un lato, le cure dei
genitori proteggono l’infanzia dalla dura realtà; essa rappresenta quindi un periodo di
privilegiata irresponsabilità e di libertà dal dominio del principio di realtà. Questo stato
di cose permette ed incoraggia una precoce fioritura dei desideri fondamentali
dell’essere umano, senza rimozione e sotto il segno del principio di piacere. D’altro lato,
l’oggettiva dipendenza dalle cure dei genitori, soprattutto della madre, favorisce nel
bambino un atteggiamento di dipendenza nei confronti della realtà ed inculca un
bisogno passivo di essere amato (stato di dipendenza), bisogno che dà il tono a tutte le
successive relazioni interpersonali. Questa vulnerabilità psicologica è successivamente
sfruttata per ottenere la sottomissione alle autorità sociali ed al principio di realtà in
genere. In tal modo il prolungamento dell’infanzia avvia in due direzioni contraddittorie
i desideri dell’uomo: dal lato soggettivo, verso una totale indulgenza al piacere libero
dai limiti della realtà; dal lato oggettivo, verso un’impotente dipendenza dagli altri. Le
due tendenze entrano in conflitto perché le prime esperienze di libertà e di abbandono
al piacere devono soccombere di fronte al principio di realtà, con una capitolazione
imposta dall’autorità dei genitori sotto la minaccia di sottrarre al figlio il loro amore. E
poiché il principio di piacere è costretto a cedere contro voglia e per ragioni che il
bambino non capisce, in circostanze che riproducono le sue prime esperienze di
dipendenza impotente (angoscia), la capitolazione può avvenire soltanto in virtù della
rimozione. Per questo costituisce un trauma dal quale l’individuo non si rimetterà mai
psicologicamente. Ma nell’inconscio permangono i sogni rimossi di completa
indulgenza al piacere, e formano il nucleo della nevrosi universale dell’umanità e della
sua inquietudine e scontentezza, il “cor irrequietum” di Sant’Agostino. Il conflitto
infantile tra l’effettiva impotenza e i sogni di onnipotenza costituisce anche il tema
fondamentale nella storia dell’umanità. E in entrambi i conflitti, nella storia
dell’individuo come nella storia della specie, la posta in gioco è il “significato
dell’amore”. E la scienza ci viene in aiuto dimostrandoci che l’ossitocina, il principale
trasmettitore del Giro del Cingolo, è responsabile, se somministrata per via nasale, di
un aumento delle capacità, da parte dell’essere umano come di ogni essere vivente, di
socializzare. L’ossitocina quindi come la sostanza chimica della socializzazione, come
quel trasmettitore legato ai meccanismi della relazione sociale. Ma essa è prodotta
dalla neuroipofisi, l’unica parte della ipofisi di diretta discendenza dal sistema nervoso,
durante il parto, per facilitare le contrazioni uterine. Vediamo allora come la natura ha
previsto, in concomitanza con il parto, la liberazione di una parola d’ordine, di una
password in grado di consolidare la socializzazione madre-bambino, la loro relazione. E
se pensiamo al fatto che è parte del Sistema Nervoso, quindi molto del nostro
inconscio, se non tutto, a determinare la produzione e la liberazione, possiamo ben
comprendere come il “MATERNAL LOVE” ED IL “ROMANTIC LOVE”, che hanno il loro
determinante biologico nella ossitocina, siano direttamente vincolati a tutto quanto
abbiamo enucleato in precedenza, ossia al gioco di forze psichiche cui le nostre istanze
di personalità sono poste, sin dall’inizio della loro storia. Ancora una volta biologico e
psicologico si mescolano, inesorabilmente, in un’unica, indissolubile, realtà. Lascio al
lettore, alla sua capacità di leggere criticamente questo excursus che ci ha visti
immergerci nel’anima dell’uomo, fino agli abissi del cuore, le considerazioni finali. Forse
sarebbe opportuno domandarci un po’ di più qual è il senso di quanto accade attorno a
noi provando a leggere ciò che accade dentro di noi. La risposta è con ogni probabilità
nel nostro DNA. Sarebbe bello imparare a leggerlo non solo in termini di basi azotate ,
zuccheri, aminoacidi e proteine. Contiene l’Es, non lo dobbiamo dimenticare. E nei
gameti c’è un frammento dell’Es dei nostri genitori e dei loro e così via fino all’origine
della storia. Jung parlava di “inconscio collettivo”. Aveva ragione. Siamo legati
all’infinito. Dal suo caldo abbraccio non ce ne possiamo liberare. Lasciamocene allora
cullare. Come avveniva quando eravamo nel ventre della mamma. Nel nostro paradiso.
Quello dal quale il nostro inconscio non si è mai allontanato. Quello al quale, alla fine
del tempo, ritornerà.
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 Alice Miller: (“Il risveglio di Eva”, ed. Raffaello Cortina, 2002).
 Alice Miller: (“Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé”, ed. Bollati
Boringhieri, 2004).
 Francesco Montecchi: (“L’abuso all’infanzia come radice della psicopatologia” –
Psicologia, Psicopatologia Psicosomatica della donna, 2, 1, 1994).
 David. P. Moore: (“The little Black book of Psychiatry” ed. Mediserve, 2003):
 Desmond Morris: (“La scimmia nuda – studio zoologico sull’animale uomo”, ed.
Bompiani, 2002).
 Gianpaolo Pierri: (“Compendio di Psichiatria”, ed. Ambrosiana, 1997).
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