Il mito di crono Dolore e depressione nel disperato bisogno di
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Il mito di crono Dolore e depressione nel disperato bisogno di
Il mito di crono Dolore e depressione nel disperato bisogno di maternità Dott. Francesco Attorre Saggio sull’origine del male e sul dolore della vita La cronaca degli ultimi tempi non esita tante, troppe volte, con indicibile ferocia e crudeltà, a ferire le nostre coscienze riproponendoci “scene” e prospettandoci “scenari” dal sapore apocalittico che i nostri sensi avrebbero fatto bene a meno di esperire nella loro intrinseca “dimensione di realtà”, lasciandoli vivere nella innocuità della fantasia, quel luogo dove tutto diviene possibile, dove il Peccato Originale dell’uomo di assomigliare a Dio, di “addormentarsi e risvegliarsi Signore del Cielo e della Terra”, scopre tutta la sua fragile concretezza proprio in quella nudità, cioè in un “corpo” che condensa su di sé tutte le spinte dinamiche dell’ essere umano, a qualunque livello esse siano collocate. Già, il corpo. Quel corpo che Icaro ha consegnato alle ali del padre Dedalo perché gli “regalassero il sole”. Quel corpo che riesce a costituirci parte di una “meravigliosa immensità”. Quel corpo sul quale vibrano instancabili “sentimenti, emozioni, sensazioni”. Quel corpo “custode” della nostra anima, del suo anelito verso l’«eternità». Eppure quello stesso corpo si scopre, oggi più che mai, nella sua straordinaria vulnerabilità, in grado di farsi carico dell’Infinito, fino a pretendere di possederlo con la “morte”, nella morte. Una morte che diviene forza vieppiù irrefrenabile e che lentamente e subdolamente si impossessa di tutto quanto ci appartiene. Il vuoto dell’oblio diviene “significato” e riempie paradossalmente le nostre coscienze, fino ad ubriacarle ed obnubilarle. E così ci troviamo qui a cercare ragioni che possano in qualche misura rendere meno tremenda l’idea che una madre possa “squarciare” il capo del proprio bambino, o lo possa “soffocare” in una vasca da bagno, o lo possa “deporre” come un qualsiasi alimento in un freezer e lasciarlo sadicamente congelare, o lo possa “buttare”, come fosse sudicia immondizia, dentro un cassonetto perché sia triturato insieme agli altri rifiuti e di lui non rimanga più traccia. Le ragioni di tale scempio ci sono, e probabilmente sono tante, ma non è ritrovandole e circoscrivendole in definite categorie dalle quali staremo attenti di “mantenerci alla larga” che la nostra anima sarà paga. Qualunque sforzo ciascuno di noi possa fare non sarà mai in grado di esimerlo dall’essere presente più che mai dentro un male che non è solo quello che ci fanno vedere in una scatola magica che ha la pretesa di dirci la Verità; il male di chi condivide un tempo ed uno spazio che un Disegno più grande, infinitamente più grande di noi, ci ha dato in grazia, è inesorabilmente il “male di ciascuno di noi”. Ed un percorso alla ricerca delle ragioni profonde di questo male finirà inevitabilmente per scandagliare l’anima di ognuno di noi fino a far riaffiorare ciò che temevamo, ciò che ci illudevamo fosse morto per sempre, negli “inferi” del nostro inconscio, laddove Crono aveva fatto precipitare i suoi fratelli Ciclopi ed Ecantochiri affinchè nessuno potesse prendere il suo posto, neppure i suoi figli, i quali furono da egli divorati uno ad uno sino a quando l’inganno di Rea, la quale già nel nome si porta il peso della colpa, riuscì a salvare l’ultimo dei suoi figli, Zeus, ossia l’unica “possibilità di salvezza”, l’unica speranza perché la verità si vestisse di un corpo e attraverso quel corpo potesse”cambiare la storia”. Il mito, nel suo rincorrere il cambiamento, accompagna da sempre l’essere umano e continuerà a farlo per sempre. Ecco il motivo per cui ho scelto di partire da Crono e di lasciarci accompagnare, in questo viaggio alla ricerca di un frammento di “senso”, dall’inconscio, da colui cioè che ci appartiene probabilmente più di ogni altra cosa, da colui che ci permette di metterci in gioco senza razionalizzazioni, senza giustificazioni, nella nudità della nostra umanità. Forse, alla fine di questo momento che mi onoro di condividere con il lettore, quella nube che pervade il cielo della nostra coscienza ci sembrerà meno scura. Forse riusciremo a scorgere un bagliore di luce tra le mura di una caverna che ora ci sembra tetra e senza uscita e per questo ci terrorizza lasciandoci sprofondare nel baratro di un “angoscia” che, incapace di viversi nella sua violenza, sceglie di chiamarsi “depressione”, diventando una malattia “socialmente accettata” e per questo evidentemente assai meno “pericolosa”. La nostra trattazione coinvolgerà contemporaneamente mamma e bambino, rivolgendosi un momento all’una ed un momento all’altro, oppure rivolgendosi ad essi in quell’ “unicum” che vengono a generare, una sorta di universo laddove l’una si perde nell’altro e viceversa. E’ impossibile considerare l’una prescindendo dall’altro. Il perché diventerà chiaro via via che queste righe scorreranno. “Mamma e bambino sono e resteranno inseparabili”. Ogni individuo, secondo Eric Berne, vive la sua vita come prigioniero di un “copione” del copione del proprio destino. Tale copione viene scritto nel quotidiano trans agire per tre anni di seguito dalla madre e dal figlio. Ciascuno di noi quindi viene inconsciamente a progettare un piano di vita, e lo fa nei primi tre anni suoi di vita. Tale copione è la conseguenza del condizionamento culturale cui l’infante viene sottoposto. È, in ultima analisi, un piano di vita che viene redatto nella prima infanzia e che subisce varie riscritture via via che l’individuo diventa adulto, ma la cui trama ed il finale rimangono sostanzialmente immutati. Una volta Freud comparò la coscienza umana a un salottino in cui si ricevono individui di ogni genere. Nella stanza d’ingresso, dietro la porta chiusa dell’inconscio, si affolla la massa rimossa di essenze psichiche, ed alla soglia c’è un guardiano che fa accedere alla coscienza solo quando si addica al salotto. Le resistenze, focus di ogni intervento in campo psicoanalitico, possono avere quindi tre origini: il salotto, cioè la coscienza, che non vuole fare entrare determinate cose; il guardiano, una specie di negoziatore tra la coscienza e l’inconscio che, per quanto assai subordinato alla coscienza, possiede pur tuttavia una volontà propria e talvolta sbarra il passo caparbiamente all’ ingresso anche di coloro cui la coscienza è ospitale; e l’inconscio stesso che non ha voglia di trattenersi nell’ambiente decoroso e soporifero del salotto. Ecco cosa ci aspetta nel viaggio alla ricerca del “mistero” dell’uomo. Ci imbatteremo con Colonne d’Ercole all’apparenza insuperabili. Ma l’orizzonte che si spalanca oltre è strabiliante, assolutamente straordinario, talmente sublime da vedere un sacrificio come quello che l’analisi “psicoanalitica” permette, a chi le si avvicina con animo innocente e libero di volare tra i suoi cieli immensi senza il timore di cadere a strapiombo nel baratro delle proprie inconfessabili paure, di compiere. C’era una volta una donna, racconta Georg Groddeck, un medico allievo di Sigmund Freud che si è molto occupato dello studio dell’inconscio e di ciò che accade nella mente della madre che aspetta un bambino come pure nella mente dei bambini sin dalle primissime fasi della loro vita neonatale, la cui madre respinse la figlioletta appena nata e non scelse di allattarla, per quanto l’avesse fatto con gli altri figli, dandola in consegna alla governante e al poppatoio. La piccina però prediligeva lasciarsi torturare dai crampi della fame piuttosto che ciucciare una tettarella di gomma e sarebbe morta se il medico non avesse con veemenza fatto recedere la madre dalla sua repulsione per la figlioletta. Dopo poco quella madre prima insensibile, divenne oltremodo apprensiva. Fu chiamata una balia, e la madre non lasciava trascorrere ore senza andare a vedere la bambina. La bambina adesso prosperava, e divenne una donna assai robusta. Divenne la preferita della madre, che fino alla morte le corse dietro implorando un po’ del suo affetto. Ma nella figlia era ormai cristallizzato “l’odio”. La sua vita fu una catena di ostilità, dura come l’acciaio, i cui singoli anelli furono fucinati dalla “vendetta”. Ha vessato, senza sosta, la madre finchè è vissuta; l’ha abbandonata, indifferente, sul letto di morte; ha perseguitato, senza rendersene conto, tutti coloro che in qualche modo le ricordavano la madre e ha conservato, sino alla fine dei suoi giorni, quell’avidità che le fu inesorabilmente instillata dalla fame. Non ha mai avuto figli. Coloro che odiano la madre non hanno figli, ed è tanto vero che, nei matrimoni sterili, si può supporre senz’altro che una delle due parti sia ostile alla propria madre. Chi odia sua madre ha paura del proprio figlio, perché l’uomo vive secondo il principio quel che è fatto è reso. Al contempo si strugge dal desiderio terribile di avere un bambino. Deambula persino come le gravide. Quando vede un lattante, le si gonfia il seno, e quando le sue amiche sono incinte, la sua pancia aumenta. Per anni, viziata dalla vita e dalla ricchezza, si era recata quotidianamente, in qualità di infermiera ausiliaria, in una reparto di maternità, dove puliva i bambini, lavava le facce e si prendeva cura di partorienti e puerpere; nel suo folle desiderio si portava i neonati al seno privo di latte, di nascosto, come una criminale. Ella ha vissuto di odio, di paura, di invidia e dalla fame, straziante e concupiscente, di qualcosa che non poteva avere. Secondo la teoria psicoanalitica, la psicosi maniaco-depressiva può essere fatta risalire allo stadio orale dello sviluppo psico-sessuale. Se, durante la sua infanzia, un soggetto non ha sofferto di difficoltà e privazioni nell’allattamento al seno, è probabile che il piacere sia un tratto saliente della sua struttura di personalità. Cosi si forma, appunto secondo la teoria psicoanalitica, il tipo “ottimista” di persona che crede in se stessa e negli altri: ogni cosa che intraprenderà gli riuscirà. In più sarà flemmatico e fatalista, perché il seno materno farà scorrere, in eterno, latte per lui. E proprio perché da infante fu trattato cosi generosamente, un altro suo tratto di carattere sarà proprio la generosità dovuta alla sua profonda “identificazione nella figura femminile”. Al contrario, se l’infante non sarà gratificato, durante l’allattamento, da adulto svilupperà un attitudine essenzialmente pessimistica: sarà un tipo apprensivo e non si stancherà mai di chiedere perché, non potrà mai restare soddisfatto e così, alla fine, si convincerà che non lo potrà mai essere. Il compito della mamma è essenziale per la vita del bambino, non solo per quanto attiene alla sua protezione, pulizia, cura, ma per qualcosa di assolutamente insolito che la mamma viene ad essere in grado di mettere in atto durante le primissime fasi di vita del suo bambino: “costituirgli la dimensione dell’Inconscio”, cioè permettere che il suo Es, quella forza indefinibile ed incontenibile, divenga qualcosa di più, di qualcosa di assolutamente definito, ossia il suo inconscio. Ogni uomo è vissuto da una realtà per lui oscura. In lui c’è un “Es”, qualcosa di portentoso, una forza travolgente che governa tutto ciò che egli compie, tutto ciò che gli accade. Di questo Es noi conosciamo soltanto quanto si trova all’interno della nostra coscienza. In massima parte esso si trova in una regione impenetrabile. E quando, grazie alla mamma, diviene “inconscio”, si appropria di simboli e immagini per cominciare finalmente, nella sua nuova veste, a vivere in un mondo parallelo, in un mondo alternativo dove l’unica cosa che conta è seguire la “felicità”, sfiorarla, afferrarla. Durante l’allevamento del piccolo la mamma emette molteplici e variegati segnali metacomunicativi (ammiccamenti, smorfie, corrugamenti) che sfuggono persino alla sua consapevolezza, ed è attraverso tali segnali che si realizza il “condizionamento culturale del bambino”, ossia il suo inserimento nel contesto socio-culturale in cui è stato collocato dal “destino”. L’infante infatti non sa parlare, né tanto meno comprende il “linguaggio articolato-simbolico” usato dalla madre. Egli utilizza, in qualità di segnali, unicamente le numerose posture ed il gesticolare che inevitabilmente accompagnano le frasi materne. Solo a questi egli è in grado di attribuire un significato e quindi può trasformarli in messaggi, dotati di un potere informativo. L’infante comincia ad adottare un comportamento comunicativo verbale soltanto durante il terzo anno di vita. Ma a quell’epoca egli ha già dovuto imparare, sotto la pressione materna, quando può mangiare e quando deve dormire. Ha già imparato a controllare gli sfinteri, cioè a soddisfare i suoi bisogni vescicali e rettale quando e dove vuole la mamma. Il primo comportamento culturalmente definito e il “comportamento sfinterico”; esso dimostra, in ultima analisi, che l’infante di 18 mesi di età ha già afferrato, nella sua essenza e grazie ai segnali della madre, l’intimo significato comune ad ogni tipo di cultura: egli ora è infatti capace di dilazionare il soddisfacimento di un bisogno-pulsione. Benché vittima di tensioni muscolari quanto mai impellenti, egli soddisfa i suoi bisogni vescicali e rettali nei tempi e nei modi prescritti dell’area culturale nella quale è stato gettato dalla nascita e di cui la madre interpreta per lui la normativa ed il sistema-valori. Il condizionamento culturale è il processo che trasforma l’infante, cioè il bambino che non parla, in una persona. E a tutto questo contribuisce in modo determinante la mamma. Eppure nessuno di noi sembra memoria di tutto questo. Non ricordiamo nulla di questa fase così importante, così tremendamente contrassegnante la nostra vita. Non è abbastanza singolare che non sappiamo più niente dei nostri primi tre anni di vita? Qua e la affiora la debole memoria di un volto, di una porta, di una carta da parati o di qualcosa che potremmo avere visto durante la primissima infanzia. Ma nessuno è in grado di ricordare in alcun modo i suoi primi passi e il modo in cui ha imparato a parlare, mangiare, vedere, sentire. Eppure sono tutte esperienze vissute. È immaginabile che un bambino, la prima volta che scivola in una stanza, provi impressioni più profonde di quelle di un adulto durante un viaggio in Italia. È immaginabile che un bambino, la prima volta che si rende conto che quella persona con quel sorriso benevolo è la sua mamma, ne ricavi un emozione più profonda di un uomo che sposa la donna amata. Perché dimentichiamo tutto ciò? In realtà noi non dimentichiamo quei primi tre anni, ma il loro ricordo abbandona la nostra coscienza per continuare a vivere nell’inconscio e rimane così vivo che tutto quello che facciamo si nutre di questo patrimonio inconscio di ricordi: camminiamo come allora imparammo a fare, parliamo e percepiamo come facevamo allora. Ci sono quindi cose che, rifiutate dalla coscienza benché siano necessarie per vivere, vengono conservate, proprio perché necessarie, in regioni del nostro essere che definiamo inconscio. Ma perché la coscienza dimentica esperienze senza le quali l’uomo non può esistere? Proviamo a domandarci perché le mamme sanno tanto poco dei loro figli e perché anche loro dimenticano l’essenziale di questi tre anni? Forse le madri fingono soltanto di dimenticare. O forse davvero non hanno più coscienza dell’essenziale. L’essere adulti è un prendersi gioco di se, di questo essere bambini dal quale non usciremo mai. Lo si è di rado adulti, si fa soltanto finta, come un bambino gioca a fare il grande. Non appena viviamo profondamente siamo bambini, e l’Es è la nostra vera vita. Basta guardare un essere umano nei momenti di profondo dolore o di grande gioia: il suo volto si fa infantile, infantili si fanno i suoi movimenti, la voce riacquista quella duttilità e il cuore gli batte come nell’infanzia, gli occhi brillano o si velano. Basta osservare qualcuno che crede di esser solo e subito ne emerge il bambino. Talvolta il modo assai buffo: si sbadiglia, ci si gratta smodatamente la testa e il sedere, ci si mettono le dita nel naso etc……. la vita inizia con l’essere bambini e percorre su mille strade l’età adulta verso la meta di tornare bambini: l’unica differenza è che taluni tornano bambini, altri puerili. Per capire quanto è forte l’Es, basta veder per strada alcune bambine che sembrano madri, delle proprie madri, o lattanti con il volto da vecchi. Tutto quanto appare ai nostri occhi, ossia l’habitus che assumiamo, è gestito dall’ Es nella sua dimensione più evoluta: l’inconscio. Tutti gli uomini provano l’invidia di non essere donna e di non poter diventare madre. E lo dimostra la stessa lingua: l’uomo più virile non si vergogna di dire che ha “concepito” questo o quel pensiero, parla del suo “figlio spirituale” e definisce un azione portata faticosamente a compimento un “parto difficile”. Che ogni persona consista di un maschile e di un femminile è un fatto scientificamente fondato, per quanto spesso nel pensare e nel parlare non se ne tenga conto, come spesso accade per le verità scientifiche. Quindi nell’essere che chiamiamo uomo è presente un femminile e nella donna un maschile, e nell’idea dell’uomo di avere un bambino l’unica cosa strana è il fatto che sia negata tenacemente. Ma la negazione niente toglie al fatto. La cosa più evidente in una gravida è il pancione. Anche nell’uomo la pancia prominente può essere interpretata come un fenomeno gravidico. Naturalmente egli non ha un bambino nel ventre, ma si crea questa pancia prominente bevendo, mangiando, ingurgitando aria etc… perché desidera essere gravido e, grazie alla pancia crede di essere gravido. Ci sono gravidanze simboliche e nascite simboliche, esse nascono nell’inconscio e durano più o meno a lungo, ma scompaiono senza eccezioni quando si scopre il significato simbolico dei loro processi inconsci. L’Es è così singolare che non si preoccupa affatto della scienza anatomo-fisiologica, e ripete autocraticamente la vecchia saga della nascita di Atena dalla testa di Zeus. Questo mito, come gli altri, è sgorgato dal regno dell’inconscio. I fenomeni collaterali della gravidanza, la nausea, il mal di denti, hanno in molte circostanze, radici simboliche. Le emorragie di ogni genere, soprattutto, naturalmente, le emorragie uterine, ma anche emorragie nasali, anali, polmonari, hanno uno stretto rapporto con le presentazioni della nascita. La piaga dei vermi intestinali, da cui sono perseguitati per tutta la vita, hanno spesso la sua origine nell’associazione di verme-bambino e scompare non appena si sottrae al vermicello il terreno di cultura del desiderio simbolico inconscio. L’Es, la cosa da cui siamo vissuti, non riconosce come date neppure le differenze sessuali, proprio come accade per le differenze di età. Ci sono persone che soffrono di flatulenza dopo aver mangiato cavolo,piselli,fagioli,carote e cetrioli. Ogni tanto anche i dolori di parto iniziano con il mal di pancia e la stessa nascita è accompagnata da vomito e diarrea. I collegamenti che l’Es, in modo abbastanza folle per il nostro stimatissimo intelletto, stabilisce nell’inconscio, sono addirittura ridicoli. Così ad esempio esso trova nel cavolo analogie con la testa del bambino, i piselli e i fagioli se ne stanno nel loro baccello come il bambino nella culla o nel ventre materno, la minestra e la purea di piselli ci ricordano i pannolini. Quando i bambini giocano con un cane, lo osservano e ne seguono con vivo interesse tutte le attività, vedono talvolta che, la dove si trova l’organo che serve ai suoi bisognini, emerge una cosina rossa a punta che sembra una carota. Segnalano questo strano fenomeno alla mamma o a chi si trovi nei pressi, e apprendono dalle parole o dallo sguardo imbarazzato dell’adulto che di quella cosa non si parla, anzi, non la si nota nemmeno. L’inconscio conserva quell’ espressione, con maggiore o minore chiarezza, e poiché una volta ha associato la punta rossa del cane a una carota, rimane ostinatamente attaccato all’idea che anche le carote siano cose proibite, e quando gli offrono di mangiarle risponde con disgusto e nausea, oppure con una gravidanza simbolica. Perché anche in questo l’inconscio infantile è piuttosto sciocco rispetto al nostro già lodato intelletto, perché crede che i semi del bambino giungano nella pancia, dove crescono, attraverso la bocca, col cibo; allo stesso modo in cui i bambini credono che da un seme di ciliegia inghiottito crescerà loro nella pancia un ciliegio. Che però quella cosa rossa del cane abbia a che fare con il concepimento dei bambini, nella loro oscura innocenza infantile lo sanno altrettanto bene o altrettanto confusamente come sanno che il seme per il fratellino o la sorellina, prima di penetrare nella mamma, deve trovarsi in qualche modo e da qualche parte in quella strana appendice dell’uomo e del maschietto che sembra una codina attaccata al posto sbagliato cui è appeso un sacchettino con due uova o noci e di cui si può parlare soltanto con cautela, che si può toccare soltanto quando si fa pipì e con la quale soltanto la mamma può giocare. Il cetriolo è indigesto perché presenta fatali somiglianze esterne con il membro paterno e, anche all’interno, contiene semi che simboleggiano i semi di futuri figli. Se osserviamo per 24 ore di seguito una mamma col suo bambino si può già vedere una buona dose di indifferenza, disgusto, odio. Infatti in ogni mamma, oltre all’amore per il figlio, esiste anche l’avversione per il figlio. L’uomo è soggetto a una legge che dice: laddove è amore, c’è anche odio; laddove è rispetto, c’è anche disprezzo; laddove è ammirazione, c’è anche invidia. Si tratta di una legge universale, e anche le madri non fanno eccezione. Accade che l’inconscio conosca questo sentimento di odio. E allora la mamma non sa o non vuole sapere niente dell’odio contro il figlio, ecco perché non si ricorda quasi niente dei primi anni di vita del figlio. La nausea della gravidanza nasce dalla ripugnanza dell’Es per qualcosa che si trova all’interno dell’organismo. La nausea esprime il desiderio di allontanare questo elemento ripugnante, e il vomito costituisce il tentativo di sbarazzarsene. In questo caso, quindi, desiderio e tentativo di aborto. Con il mal di denti l’Es dice, con la voce sommessa ma penetrante dell’inconscio: “non masticare, abbi cura di te, sputa quel che ti piacerebbe mangiare!” E’ vero che quando la gravida ha mal di denti, l’avvelenamento operato dal seme dell’uomo è ormai cosa fatta, ma forse l’inconscio spera di potersi liberare di quel poco veleno, purchè non se ne aggiunga di nuovo. In effetti esso cerca di uccidere il veleno vivo della fecondazione, e proprio con il mal di denti. Perché, e qui emerge nuovamente quella totale mancanza di logica che pone l’ Es molto al di sotto dell’intelletto pensante, l’inconscio confonde dente e bambino. Per l’inconscio il dente è un bambino. Il dente è il bambino della bocca, la bocca è l’utero in cui esso cresce proprio come il feto cresce nel ventre materno. Questo simbolismo è profondamente radicato nell’uomo, altrimenti non si potrebbe parlare, per la vulva, di piccole e grandi labbra. Il mal di denti è quindi il desiderio inconscio che il seme del bambino si ammali e muoia. Vomito e mal di denti scompaiono quando la mamma prende coscienza del suo desiderio inconscio che il bambino muoia. Spesso accade che una donna desideri un bambino con tutto il cuore e pure rimanga infertile, non perché lei o il marito siano sterili, ma perché c’è una corrente nel suo Es che afferma ostinatamente: è meglio che tu non abbia figli. E ogniqualvolta esiste la possibilità di una fecondazione, quando il liquido seminale è in vagina, questa corrente diventa così potente da impedire che essa abbia luogo. Essa chiude la bocca dell’utero, sviluppa un veleno che uccide lo spermatozoo, o uccide l’uovo. Il risultato è sempre lo stesso: non si ha la gravidanza soltanto perché l’Es non lo vuole. Quando nell’Es è l’odio ad avere la prevalenza, esso costringe la donna a ballare o a cavalcare o a viaggiare o addirittura a visitare persone che fanno uso di amichevoli aghi o sonde o veleni o a cadere o a farsi spingere e maltrattare o ad annegare. Si, possono anche accadere cose ridicole, per le quali neppure l’Es sa cosa sta facendo. Così la nobildonna che conduce un esistenza elevata, ben al di sopra del suo basso ventre, è solita fare pediluvi caldi per poter abortire innocentemente. Ma il bagno caldo è soltanto gradito al feto, e ne favorisce la crescita. Ogni tanto, come vediamo, l’Es si prende gioco di sé. Il bambino nasce per odio. La mamma non ne può più di essere grassa e di portarsi dietro tutti quei chili di peso: per questo lo butta fuori, e senza troppe delicatezze. Se questo disgusto non si verifica, il bambino rimane nel ventre materno e si pietrifica. L’amore materno è naturale, è radicato in ciascuna madre sin dall’inizio, è un sentimento sacro che per la donna è innato. C’è in primo luogo il momento del concepimento, il ricordo cosciente o meno di un istante beato. Perché senza questo sentimento davvero celeste non si ha nessun concepimento. Per determinare le sensazioni dell’Es occorre rivolgersi agli organi attraverso i quali esso parla: gli organi del piacere della donna. C’è da restare stupiti per quanto poco le pareti vaginali o le labbra della vulva, il clitoride o i capezzoli si curano del ribrezzo della coscienza. Essi reagiscono a modo loro allo sfregamento e alla stimolazione, che l’atto sessuale sia gradito o meno alla persona pensante. Ci sono molte donne che, specie quelle che si suppongono frigide, hanno una forte paura ad andarsene da sole nel bosco o nella notte buia: ma per l’inconscio la paura è la conseguenza di un desiderio represso, e chi teme lo stupro lo desidera. Molte donne desiderano essere vittime di uno stupro, anche se fanno di tutto per non ammetterlo. Se una donna comincia a frugare tra i suoi ricordi, troverà tutta una serie di momenti in cui ha sudato freddo perché Le era parso di sentire un passo dietro di sé, in cui si è svegliata in un qualche albergo col pensiero: ma ho chiuso la porta a chiave? In cui si è infilata gelando sotto le coperte, gelando, perché doveva raffreddare il calore interiore, onde non essere bruciata. Quante donne fanno la lotta col loro amato simulando uno stupro. Ogni donna desidera, inconsciamente, questa estrema prova d’amore: essere così bella e seducente che l’uomo dimentichi ogni altra cosa e non sappia far altro che “amarla”. Lo vogliono tutte, e chi lo nega si sbaglia o mente consapevolmente. Se una donna chiudesse gli occhi e sognasse liberamente, senza intenzioni o pregiudizi, in pochi secondi sarebbe avvinta dalle immagini del sogno, trascinata, tanto che a malapena oserà pensare ancora, respirare ancora. Ecco i rami calpestati, un balzo repentino e l’hanno afferrata alla gola, gettata a terra, le hanno lacerato ciecamente i vestiti, e proverebbe una paura folle……..eppure continuerebbe a sognare il martirio, la vagina, il bambino nel suo ventre, il tribunale e il nuovo con il suo stupratore davanti al giudice vestito di nero, straziata dal sapere che Lei desiderava ciò che egli ha fatto e per cui sta scontando la pena. Terribile, inconcepibile e follemente avvincente. O sognerebbe un’altra scena, quella della nascita del bambino, o quella in cui lei sta lavorando e si punge le mani con l’ago mentre il bambino gioca spensierato ai suoi piedi e lei non sa come nutrirlo. Povertà, indigenza, miseria. E poi viene il principe, buono, nobile e magnifico, che l’ama, che lei ama ed al quale lei rinuncia. E un’ultima scena, il bambino che cresce nel suo ventre e con lui la paura della sua nascita, e lei lo soffoca, lo affoga in uno stagno e poi scompare lei stessa davanti al giudice, in quanto assassina. D’un tratto si apre il mondo delle fiabe, si allestisce una pira, l’infanticida è legata al palo e le fiamme le lambiscono i piedi. E se la donna ascoltasse cosa le sta sussurrando il suo Es, sentirebbe che indica il palo e le lingue di fuoco suggerendole di chi sono quei piedi che uniscono alla fiamma quanto c’è di più profondo nel suo essere. E si accorgerebbe che è sua madre. L’inconscio è enigmatico, e tra foresta, forte e forza sonnecchiano angeli e demoni. Una delle radici dell’amore materno è costituita dal piacere provato durante il concepimento. Ancora, non possiamo non riconoscere la sensazione per la mamma di essere l’unica persona al mondo responsabile di un essere vivente, legata all’idea di proteggere un essere indifeso e di nutrirlo col proprio sangue. Ebbene, questa idea conferisce alla madre la sensazione di essere simile a Dio e susciti quindi in lei una pia devozione per la Vergine Maria. Il corpo femminile presenta uno spazio cavo e vuoto che in gravidanza è riempito dal bambino. La donna percepisce sin dall’infanzia la mancanza di qualcosa, in relazione al suo basso ventre (invidia del pene) che in molti casi si spinge fino a ledere profondamente l’autostima della donna stessa. A un certo momento, ma comunque molto presto, vuoi osservando, vuoi in un altro modo, la bambina si accorge che le manca qualcosa che invece hanno sia il bambino che l’uomo. La piccola, quindi, si accorge che le manca un pezzo e interpreta questo fatto come un difetto del suo essere. A ciò si riallacciano idee di colpa e vergogna. All’inizio la speranza che questo difetto possa scomparire con la crescita tiene ancora a bada il sentimento di inferiorità, ma questa speranza non si realizza, e rimangono soltanto un senso di colpa dai fondamenti sempre più vaghi e un anelito indefinibile, fenomeni entrambi che perdono gradualmente e costantemente chiarezza per acquistare invece intensità emotiva. Questo va avanti per lunghi anni nella vita profonda della donna, uno strazio che non smette di bruciare. E poi giunge il momento del concepimento, la magnificenza della sazietà, della “scomparsa del vuoto”, dell’invidia lacerante e della vergogna. E poi nasce una nuova speranza, la speranza che nel suo corpo cresca una nuova parte del suo essere, per l’appunto il figlio, che non avrà questo difetto perché sarà maschio. Ogni gravida, nel suo inconscio, desidera dare alla luce un figlio maschio. L’inconscio di una donna immagina il suo bambino dell’età di due anni, felicemente disteso sul fasciatolo, nell’atto di innaffiare spensieratamente il mondo con un alto zampillo ad arco……….. E’una fantasia molto suggestiva, in relazione a quanto abbiamo detto…… Il fatto che il bambino sia concepito, cresca e divenga pesante si impossessa anche in un altro modo dell’anima femminile, intrecciandosi con abitudini saldamente radicate e sfruttando, per legare la madre al figlio, affetti che dominano il cuore umano e la vita umana a partire dagli strati più nascosti dell’inconscio. Un bambino seduto sul vasino non ama cedere subito quello che l’adulto, cui questa occupazione dà meno piacere, pretende da lui prima teneramente e poi con sempre maggiore insistenza. Nel basso ventre hanno sede, nella zona del retto e della vescica, nervi sensibili quanto inclini al piacere, la cui stimolazione suscita sensazioni gradevoli. Basta ricordare perché i bambini, tante volte, giocando o facendo i compiti, si strofinano inquieti sulla sedia, oppure dimenano le gambe finchè non risuonano le parole fatali della mamma: “amore, ti scappa la pipì?” Perché tutto questo? Ma no, è la voluttà a creare questa situazione, una forma singolare di auto gratificazione, esercitata sin dall’infanzia e in seguito perfezionata sino a divenire “costipazione”; soltanto che, purtroppo, a quel punto l’organismo non risponde più con la voluttà ma, per il senso di colpa legato alla masturbazione, produce mal di testa o vertigini o mal di pancia o come altro si possono chiamare le incalcolabili conseguenze dell’abitudine di procurarsi durevolmente una pressione sui nervi genitali. È facile pensare, a questo punto, a coloro che abitualmente escono senza aver provveduto ad evacuare per poi essere colpiti dal bisogno per strada; costoro lottano con crampi violenti, della cui dolcezza essi stessi non sono coscienti. Soltanto chi si renda conto della regolarità e della completa mancanza di necessità di queste lotte tra essere umano e “ano” giunge gradualmente alla logica conclusione che qui l’inconscio si dedica innocentemente a pratiche onanistiche. Ebbene, anche la gravidanza è una masturbazione innocente, solo in modo molto più intenso, perché qui il peccato è sacro. Ma tutta la sacralità dell’essere non impedisce che l’utero gravido stimoli i nervi e provochi voluttà. E tale voluttà non viene percepita dalla coscienza. Il movimento del bambino ha la stessa valenza dell’atto sessuale, per l’inconscio. Addirittura lo stesso parto è un atto di voluttà suprema la cui impressione rimane come amore per il figlio, come amore materno. Chi assiste ad un parto assiste ad un evento sbalorditivo: la partoriente urla e si lamenta, ma nel suo volto brilla un’eccitazione incredibile e i suoi occhi emanano quello strano bagliore che nessun uomo dimentica, dopo che l’ha fatto nascere negli occhi di una donna. Sono occhi strani, occhi stranamente velati, che parlano di voluttà. E che cosa c’è di inaudito e di incredibile nel fatto che il dolore possa essere piacere, piacere supremo? La vagina della donna è davvero insaziabile. Qual è la vagina femminile che si accontenterebbe di avere dentro di sé in membro grande un dito quando può averne uno forte come il braccio di un bambino? La fantasia della donna lavora con strumenti potenti, l’ha sempre fatto e lo farà sempre. Tanto più grande il membro, tanto più alto il piacere: durante il parto il bambino lavora con il suo testone nel canale vaginale, sede della gioia della donna, proprio come il membro di un uomo, con lo stesso movimento, avanti e indietro, su e giù, con la stessa durezza e violenza. Certo, fa male, questo supremo e per questo indimenticabile e sempre desiderato atto sessuale, ma costituisce il vertice di tutte le gioie femminili. È interessante riflettere su quanto accade ai bambini durante il bagnetto. In genere la cosa si svolge, dice Groddeck, tra urla e strepiti, ma queste urla si instaurano in presenza di determinate procedure e cessano con altre. Il bambino che un attimo prima gridava, mentre gli si lavava il viso (perché gli si copre la bocca, naso e occhi), si tranquillizza all’istante quando la morbida spugna lo accarezza avanti e indietro tra le gambe. Anzi, il suo visetto assume un’espressione quasi rapita, ed egli è tranquillissimo. E la mamma, che poco prima doveva sgridare o consolare il bambino per quell’antipatico bagnetto, assume all’improvviso un tono tenero, amorevole, quasi innamorato, ed anche lei rimane per qualche istante rapita e i suoi movimenti si fanno diversi, più morbidi e amorevoli. Alla non sa che sta procurando al bimbo un “piacere sessuale”, che sta insegnando al bimbo la masturbazione, ma il suo Es lo sa e lo sente. È l’atto erotico a provocare sul volto di madre e figlio quell’espressione di piacere. È la mamma a dare al bambino lezioni di onanismo, e lo deve fare perché la natura ammucchia la sporcizia che deve essere lavata proprio laddove si trovano gli organi del piacere. Quel che si chiama pulizia, l’uso zelante del bidet, il lavarsi dopo aver evacuato, le lavande, altro non sono se non una ripetizione, imposta dall’inconscio, di queste gradevolissime ore di apprendimento con la madre. La mania della pulizia è soltanto il pretesto con cui l’inconscio inganna la coscienza, la menzogna che permette di essere fedeli, nella lettera, al divieto materno. Lo stesso dicasi della rimozione delle fantasie erotiche. Se si va in profondità, in ogni persona si trovano mille forme di erotismo. Abbiamo detto che la madre si trasforma stranamente quando pulisce gli organi genitali del suo bambino. Ella non è cosciente, ma proprio quel piacere inconscio goduto insieme costituisce un legame fortissimo, e dare piacere a un bambino, in qualsiasi forma, suscita nell’adulto l’amore per quel bambino. Ancora più che tra due amanti, nel rapporto tra madre e figlio il dare procura più beatitudine del ricevere. L’Es, l’inconscio, pensa simbolicamente, e nel suo simbolismo identifica, e adopera indifferentemente, “bambino” e “organo genitale”. L’organo genitale femminile è per lui la cosuccia, la bambina, la figlioletta o la sorellina, l’amichetta; quello maschile l’ometto, il bambinello , il figlioletto, il fratellino. Ogni essere umano ama tremendamente i suoi organi genitali, e non può essere altrimenti perché è a loro che deve il suo piacere e la sua vita. È difficile immaginare l’entità di questo amore, ed è questo grande amore che l’Es trasferisce sul bambino, confondendo per così dire l’organo genitale col bambino. Buona parte dell’amore materno deriva dall’amore che la madre prova per il proprio organo genitale e da ricordi di pratiche onanistiche. Questo è fondamentalmente il motivo per cui in genere le donne amano i bambini più degli uomini. Per l’Es non esistono concetti di per sé delineati: esso lavora per campi concettuali, per complessi che insorgono nel corso di processi simbolici e associativi. L’anello nuziale è considerato il simbolo del matrimonio, ma sono pochissimi a capire perché questo cerchietto esprima la comunanza coniugale. Le massime per cui l’anello sarebbe un vincolo o significherebbe l’amore eterno, senza inizio e senza fine, permettono di trarre qualche conclusione sull’umore e sulle esperienze di chi adoperi questi modi di dire: ma non spiegano il fenomeno per cui potenze ignote hanno scelto un anello per indicare lo stato matrimoniale. Se però partiamo dal presupposto che il senso del matrimonio sta nella fedeltà coniugale, la spiegazione risulta assai semplice. L’anello rappresenta l’organo genitale femminile, mentre il dito è l’organo genitale maschile. L’anello non deve essere infilato in nessun altro dito se non in quello del legittimo sposo: è quindi la promessa che l’anello della donna non accoglierà altro organo genitale se non quello del consorte. Questa identificazione dell’anello o organo femminile è imposta all’uomo dall’Es, e ciascuno può verificarlo quotidianamente su di sé e sugli altri osservando come si giochi sull’anello nuziale. Questo gioco, questo muovere l’anello avanti e indietro, questo girarlo e rigirarlo inizia sotto l’influsso di determinate impressioni, che è facile indovinare e che perlopiù non affiorano completamente alla coscienza. È un movimento che tradisce l’eccitazione sessuale, eppure anche coloro che sanno interpretare questo simbolo continuano a giocare con l’anello: debbono farlo. I simboli non li inventa nessuno, perché ci sono e fanno parte del patrimonio inalienabile dell’uomo; si potrebbe addirittura pensare che ogni pensiero e azione cosciente è una conseguenza ineluttabile di questo processo simbolico inconscio; che l’uomo è vissuto dal simbolo. Altrettanto inevitabile del simbolo, per il destino umano, è l’impulso a compiere associazioni, che in fondo è la medesima cosa, perché durante i processi associativi in realtà si creano collegamenti tra simboli. Nel caso dell’anello, ad esempio, risulta che la simbolizzazione inconscia di anello e dito come donna e uomo dà luogo a un’evidente rappresentazione del “coito”. Se ci soffermiamo per esempio sulla nostra Lingua, troveremo: amore e piacere, tuoni e fulmini, petto e diletto, cuore e dolore, culla e tomba, vita e morte, qua e là, su e giù, piangere e ridere, paura e terrore, sole e luna, paradiso e inferno. Le idee si affastellano e, nel riflettere, pare al soggetto il quale associa liberamente che all’improvviso gli sia nato davanti tutto l’edificio della lingua, quasi che colonne , facciate, tetti, torri, porte, finestre e pareti si siano formati sotto i suoi occhi come banchi di nebbia. Si sentirà scosso nel suo intimo e l’incomprensibile gli si avvicinerà, quasi soffocandolo. L’impulso dell’associazione si serve della rima o delle allitterazioni o di sequenze affettive. Osserviamo un lattante. È probabile che egli ami molto il latte. Dopo alcuni anni il latte gli sarà indifferente o addirittura sgradito, come accade a molti bambini, ma in questo momento egli non desidera altro che bere; due minuti dopo è stanco e vuole dormire, oppure gridare o giocare. Sottrae il suo favore a un oggetto, il latte, e lo rivolge all’altro, il sonno. Gli si presentano quindi di continuo una serie di emozioni di suo gusto: egli si cerca la possibilità di riprocurarsi daccapo questa o quella sensazione, perché determinate inclinazioni sono per lui necessità vitali e lo accompagneranno per tutta la vita. Ma tra tutte le inclinazioni, quella per la mamma, unica tra tutti gli esseri viventi, una inclinazione che determina però anche il suo contrario, ossia repulsione, è immutabile, così come quella per se stesso. In ogni caso essa è certamente la prima e si costituisce già nel ventre materno. Ebbene su questo essere, la “madre”, il bambino ammucchia tanta della sua affettività, almeno per un certo tempo, che tutti gli altri non vengono neppure presi in considerazione. Ma questo affetto è, come ogni altro affetto e anzi più di ogni altro affetto, ricco di delusioni. Il mondo affettivo del bambino si fa una “imago” della mamma (una rappresentazione o forse più di una) e la vita affettiva di quel bambino che diventerà uomo tenderà per tutta l’esistenza verso questa imago materna, con tanta intensità che ad esempio lo struggente desiderio di sonno, di morte, di quiete, di riparo può essere considerato un anelito all’imago materna. Il “transfert”, che caratterizza i movimenti di vita di ogni individuo, altro non è se non il risveglio dell’amore sopito per l’imago materna ogni qualvolta l’individuo si trova dinanzi a persone che per taluni aspetti emozionali e/o affettivi richiamano quelli da lui sperimentati precocemente nel contatto con la propria madre. I due eventi più importanti della vita femminile e, in senso lato, di ogni uomo, poiché senza questi eventi egli non esisterebbe, sono legati al dolore: “il primo atto sessuale e il parto”. Eppure sono due eventi dal “piacere incoercibile”. La fantasia della prima notte di nozze, col suo corollario di “paura di una violenza”che mai come allora viene desiderata. E poi il parto, di cui abbiamo già in precedenza evidenziato il carattere di eccitazione sessuale. Il dolore quindi non è un ostacolo per il piacere, bensì è una condizione stessa del piacere. Di conseguenza non è vero che il desiderio di procurare dolore sia innaturale e perverso. Il sadismo ed il masochismo sono due tendenze umanissime ed irrinunciabili ed esistono senza eccezione in ogni uomo e fanno parte del suo essere, come la pelle e i capelli. Se una giovane donna si lasciasse andare alla passione, amando davvero, mostrando liberamente la nudità della sua anima, la vedremmo senza problemi mordere e graffiare come un animale, sarebbe capace di fare del male e provarne piacere. La crudeltà, il sadismo, se così vogliamo chiamarlo, non è estraneo alle donne; non occorre essere una madre snaturata per tormentare i propri figli. Molte donne sono compiaciute alla vista del volto stupito e offeso del loro bambino ogniqualvolta gli tolgono il capezzolo dalla boccuccia intenta a poppare. Un gioco, certo, facilmente comprensibile e, in questa o quell’altra forma, comune a tutti, perché tutti amiamo punzecchiare i bambini. Ma è comunque un gioco legato a uno strazio se pensiamo a quanto abbiamo detto precedentemente a proposito dei simboli. La bocca che succhia è l’organo sessuale femminile che accoglie in sé, quale membro maschile, il capezzolo. Esiste un’ affinità simbolica, un’affinità assai stretta tra l’atto di succhiare e l’atto sessuale, un simbolismo che viene usato al servizio e per il rafforzamento del legame tra madre e figlio. E come la donna, che si suppone votata alla sofferenza, si compiace di procurare dolore, così anche l’uomo più violento cerca il dolore, il piacere dell’uomo è la fatica, il tormento dell’impegno, l’attrazione del pericolo, la battaglia e, se vuole, la guerra. La guerra con uomini, cose, pensieri, e l’avversario che più lo fa soffrire e l’impegno che quasi lo soffoca sono quelli che ama di più. Più di ogni altra cosa ama però la donna, che gli infligge mille ferite. Non dobbiamo meravigliarci quindi dell’uomo che corre dietro a una civetta senza cuore. E se un uomo ama ardentemente la sua amata avrà un cuore crudele, profondamente crudele, di quella crudeltà che sembra benevola e ferisce giocando. L’uomo allora è concepito nel dolore, perché il vero concepimento avviene la prima notte, e nasce nel dolore. E ancora è concepito e nasce nel sangue. Si dice che il bimbo viene alla luce, e l’uomo ama questa luce: se la cerca e se la crea nelle tenebre della notte. Esce da una prigione, verso la libertà. E più di ogni altra cosa l’uomo ama la libertà. Per la prima volta respira, assapora il piacere di far entrare in sé l’aria della vita: per tutta la vita respirare liberamente sarà per lui la cosa più bella. Durante il parto è colto dalla paura, la paura di soffocare: e la paura rimane per tutti i giorni della sua vita la compagna di ogni gioia sublime, di ogni gioia che gli fa battere forte il cuore. Prova dolore, nel suo incedere verso la libertà; e dolore egli provoca alla mamma con la sua testa dura: cercherà in eterno di rivivere questa duplice esperienza. E la prima cosa che colpisce i suoi sensi è l’odore del sangue, frammisto ai vapori stranamente eccitanti del grembo femminile. Nel nostro naso c’è un punto che possiede una stretta affinità con la zona sessuale. Il lattante lo possiede come l’uomo adulto. Tuttavia, il sangue che si versa quando nasce un bimbo e la cui essenza egli inala col primo respiro, tanto che non la dimenticherà mai, è il sangue della mamma. Possibile che egli non ami questa mamma? Possibile che non lo unisca a lei un legame di sangue diverso da quello cui abitualmente si pensa? E, celato nel profondo, dietro tutto ciò attende qualcos’altro, un qualcosa che unisce il bambino alla madre con mani forti come quelle di un dio: la colpa e la morte. Perché chi sparge sangue dovrà vedere sparso anche il proprio sangue. La madre è la culla e la tomba, dà la vita e la morte. Ricapitolando allora, ogni donna, ogni madre, prova una profonda avversione nei confronti del figlio. Le ragazzine addirittura crescono con la paura di concepire un figlio. L’educazione delle nostre figlie consiste nel tentativo di proteggerle da due cose: “contagi sessuali” e “figli nati al di fuori del matrimonio”, e a tal fine la società presenta loro gli organi genitali come peccaminosi e il parto come un grande pericolo. Nelle fanciulle il desiderio di avere un figlio nasce, con un’intensità che solo pochi percepiscono, in un periodo in cui esse non distinguono ancora tra bambini nati all’interno o al di fuori del matrimonio. Ma nell’essenza della donna e della persona umana sono insiti alcuni motivi, immutabili, per odiare i bambini. In primo luogo il figlio sottrae alla donna parte della sua bellezza, e non solo durante la gravidanza; infatti va distrutto qualcosa che non è possibile riparare. Un seno cadente e un ventre flaccido sono considerati brutti e, per apprezzarli, una civiltà deve attribuire grande importanza all’abbondanza della prole. Un figlio comporta fatica, lavoro, preoccupazioni, ma soprattutto impone alla madre di rinunziare a mille cose che varrebbe la pena di vivere. Certo le gioie della maternità possono compensare tutte queste sofferenze, ma il contrappeso esiste, dove si ripete continuamente una rinunzia che comporta ferite e pene. L’odio di una madre per il suo bambino riconosce, ad ogni modo, la sua origine, in relazione al complesso di Edipo. Madre e figlia sono sempre e senza eccezioni rivali e, di conseguenza, nutrono l’una nei confronti dell’altra l’odio tipico delle rivali. L’espressione vecchia strega maledetta ha una motivazione ben più profonda del fatto che la madre aspetta un bambino. La strega getta un incantesimo sull’uomo amato: così è nella fiaba, e così è anche nell’inconscio della bambina. Il concetto di strega deriva dal complesso di Edipo: la strega è la mamma che, con le sue arti magiche, lega a sé il padre, per quanto egli in realtà appartenga alla figlia. In altre parole madre e strega sono, per l’Es dell’anima affabulatrice dell’umanità, la medesima cosa. Ci troviamo di fronte ad una esperienza di odio di un figlio nei confronti della madre che ha qualcosa di stupefacente ne che soltanto in misura minima trova il suo contrappeso nella convinzione che esistano streghe giovani e belle, empie creature dai capelli rossi, convinzione nata dall’odio della madre che invecchia nei confronti della figlia giovane e focosa, mestruata da poco (ecco i capelli rossi). È chiaro allora come l’odio nei confronti della madre da parte della figlia si acuisca in occasione della gravidanza di quest’ultima. Infatti, per essere incinta, la mamma deve aver ricevuto quelle carezze paterne che la figlia rivendica per sé. Ella si è procurata il bambino esercitando ingiustamente le sue arti magiche e quindi ingannando la figlia. In ogni figlia divampa, durante la gravidanza della madre, un’atroce gelosia; essa non è sempre evidente, ma esiste. E, sia che si esprima sia che rimanga celata nel profondo, è sempre repressa e rimossa dalla violenza del precetto morale “onora tuo padre e tua madre altrimenti morirai”, talvolta di più talvolta di meno, ma sempre col medesimo risultato, quello di far nascere un complesso di colpa. E tale complesso di colpa pretende una punizione, e precisamente una punizione nella stessa forma della colpa in questione. Ella ha odiato sua madre, e allora il figlio che porta in grembo la ripagherà della stessa moneta. Ella voleva derubare sua madre dall’amore del padre: la stessa sorte toccherà a lei per mano della figlia che nascerà. Occhio per occhio, dente per dente. Ecco in parte anche il perché l’inconscio della maggior parte delle donne desidera un figlio maschio. Il senso di colpa che ogni figlia prova nei confronti della madre le impone di essere capace di odiare il bambino che porta in grembo: non c’è nulla da fare. Ancora, durante il parto il bambino, proprio per il fatto di nascere sparge il sangue della madre. E chi sparge sangue dovrà vedere sparso anche il proprio sangue. La donna in stato interessante non può far altro che temere il bambino che sta per nascere: sarà il vendicatore. E nessuno sarà tanto buono da amare sempre il vendicatore, neppure la mamma. Portare in grembo un figlio del proprio padre è un desiderio che accompagna una donna, nel suo inconscio, per tutta la vita. E a questo desiderio di incesto si associa la parola idiota. Non esiste una sola donna che prima o poi non abbia pensato che suo figlio sarebbe nato idiota o sarebbe comunque rincretinito in seguito. Perché la convinzione che dal rapporto sessuale col padre debba nascere un figlio mostruoso è profondamente radicata nell’uomo moderno. Una interessante riflessione da fare è la seguente: il simbolo più chiaro dell’organo femminile, che si manifesta già nella parola UTERO, è la MADRE, infatti in tedesco utero si dice GEBARMUTTER, e contiene quindi la parola MUTTER, che significa madre. Per l’Es, che procede per simboli, l’organo genitale femminile è la genitrice, la madre. Quando la figlia maledice la madre, maledice anche il simbolo, il proprio organo genitale, il proprio essere in grado di generare, il proprio essere donna e madre. Ora, torniamo un po’ indietro al bambino. Nella vita del bambino non nato c’è un elemento che merita attenzione assoluta: il suo essere solo con sé stesso; egli non solo non ha un mondo per sé. Se nutre un interesse, può trattarsi in sostanza soltanto di un interesse per sé. Egli pensa soltanto a sé, tutti i suoi moti affettivi sono rivolti al proprio microcosmo. C’è da meravigliarsi che questa abitudine esercitata sin dall’inizio, questa abitudine forzata, accompagni l’uomo per tutta la vita? Quindi l’oggetto della capacità di amare ogni essere umano sarebbe in primo luogo e quasi esclusivamente se stesso. Nove mesi di rapporto con se stesso, imposti dalla natura durante il periodo prenatale, sono un mezzo rispettabile per raggiungere questo scopo. Ebbene, tutta la nostra vita è guidata, senza che noi lo sappiamo, da questo desiderio di tornare nel ventre della madre. Tutti i bambini amano la mamma, in modo non infantile, innocente e puro, ma con ardore e passione, ebbri di sensualità, son tutta la forza di un amore voluttuoso. È importante a questo punto citare il complesso di castrazione, perché ci permetterà di comprendere cosa si agita negli abissi dell’inconscio della donna in taluni momenti della sua vita. Ad un certo punto il bambinello si accorge della differenza tra i due sessi. In se stesso, nel papà e nei fratelli egli vede un appendice dall’aspetto particolarmente buffo, che serve per giocare. Nella mamma e nella sorella vede invece un buco da cui si affaccia carne viva simile a quella di una ferita. Il suo giovane cervello ne trae una conseguenza oscura e indistinta, ovvero che ad alcune persone sia tolta, strappata, ripiegata in dietro, schiacciata o tagliata via la codina con cui sono nate, affinchè potessero esserci anche le bambine e le donne, di cui il buon Dio ha bisogno perché nascano i bambini. E in un altro momento, nella sua strana confusione nei confronti di queste cose inaudite, egli decide che la codina è stata tagliata, perché ogni tanto la mamma fa nel vasino, invece della pipì giallo chiaro, sangue rosso. Quindi ogni tanto il pipino, il pivellino da cui zampilla l’acqua, le viene tagliato, sicuramente la notte dal papà. E da questo momento il bambino sviluppa una specie di disprezzo per il sesso femminile, paura per la propria virilità e lo struggente desiderio di riempire col suo pivellino il buco della mamma e poi le ferite delle altre bambine e donne, dormendo con loro. Per la donna l’idea della castrazione è più gravosa che per l’uomo. La bambina si accorge al primo sguardo della sua mancanza: “io sono già castrata, la mia sola speranza è che la ferita si cicatrizzi e ne fuoriesca una nuova estremità di quella carne da dominatore”. Rinunziare a questa speranza, venire a capo della sensazione della propria inferiorità e trasformare anzi questa sensazione in una sincera professione di femminilità, nell’orgoglio e nell’amore di essere donna, richiede aspre lotte, prima che si completi la rimozione: tutto ciò deve essere calato nel profondo e sepolto ben bene; e già la minima oscillazione delle masse sepolte provoca sconvolgimenti tremendi. Ogni mestruazione, ogni volta che l’emorragia mensile si ripresenta, questo marchio di Caino della donna, risveglia il complesso di castrazione, e dalla palude dell’inconscio salgono veleni rimossi che turbano, insieme a molte altre cose, la limpida ingenuità della persona umana. C’è un fatto che dobbiamo considerare, ossia come l’ebbrezza, la concupiscenza, il piacere sessuale della donna aumentino di gran lunga durante questi giorni di sangue, e come per l’animale, che certamente non è inferiore all’uomo, in questo periodo c’è qualcosa in lei che attrae l’uomo; e l’amplesso durante l’emorragia è il più ardente e felice; lo sarebbe ancora di più se la morale non gli avesse opposto la sua proibizione. Il fatto che le cose stiano davvero così è dimostrato anche dal fatto che oltre tre quarti di tutti gli stupri avvengano durante le mestruazioni. In altre parole: nella donna mestruata c’è qualcosa di misterioso che induce nell’uomo un furore il quale non arresta neppure di fronte al delitto. Eva seduce Adamo: le cose stanno proprio così, lo sono sempre state e lo rimarranno per sempre. Possiamo ben comprendere cosa, la perdita delle mestruazioni che si realizza con la gravidanza e con il puerperio possa cagionare nell’Es della donna. Quanta rabbia, quanta aggressività……. L’emorragia mestruale quindi come mezzo di cui la natura si serve per attrarre l’uomo. La natura che vuole solo il perpetuo scambio di geni per la prosecuzione della specie (“il gene egoista” - Richard Dawkins). Inoltre quando una donna ha le mestruazioni non può essere incinta. Con l’emorragia, l’Es fornisce al coniuge un’inconfutabile testimonianza della fedeltà della sua donna. “Vedi”, gli dice, “se adesso nasce un bambino, è tuo, perché quando sei arrivato io sanguinavo”. Il divieto che la società impone al rapporto sessuale durante il periodo mestruale rimuove il desiderio e modifica la sua direzione, ma non lo uccide. Lo costringe soltanto a cercare altrove la propria soddisfazione. Il desiderio dell’uomo di unirsi alla donna è legato, come abbiamo detto, alla seduzione operata dal sangue, lo stesso sangue la cui essenza il bambino inala al momento del parto. Quello che lo eccita è allora il sangue: divamperà quindi il suo impulso alla crudeltà, che era presente in lui sin dall’inizio. Inventa armi, escogita operazioni, conduce guerre, erige mattatoi perché vi siano uccise ecatombe di buoi, scala le montagne, prende il mare, cerca il polo nord o le regioni più interne del Tibet, caccia, pesca, picchia i suoi figli e tuona con la moglie. Il desiderio della donna invece segue un'altra strada: ella si mette un pannolino tra le cosce e pratica inconsciamente la masturbazione, con il pretesto universalmente accettato della purezza. E quando è pura indossa il pannolino, col pretesto della cautela, un giorno prima, e sempre per cautela lo tiene un giorno di più. E se la cosa non la soddisfa, fa in modo che l’emorragia duri di più o si presenti più spesso. L’impulso all’amore di sé si trova davanti una via più libera e getta, grazie al desiderio sessuale della donna, le fondamenta della nostra cultura, la pulizia e quindi le condutture idriche, i bagni e le canalizzazioni, l’igiene e il sapone, e inoltre la predilezione per la purezza mentale, alla nobiltà spirituale, l’armonia interiore della persona che tende sempre verso l’alto, mentre l’uomo in quanto adoratore del sangue, penetra nelle misteriose viscere del mondo e “lavora duramente” alla vita. Abbiamo in più di una circostanza detto che l’odore del ventre materno e del sangue che ne fuoriesce è una delle prime percezioni dell’essere umano. C’è poi un periodo in cui il naso del piccolo cittadino del mondo si accontenta dell’odore della propria urina e delle proprie feci, alternato ai profumi del latte materno e dei peli che la mamma ha sotto le ascelle, mentre costante è l’effetto del profumo intenso, penetrante ed indimenticabile delle lochiazioni. La mamma rivive, nel periodo immediatamente dopo il parto, le proprie memorie di lattante, che forniscono la possibilità di trasferire sul bambino il suo amore per se stessa; si risvegliano così il piacere, da tempo dimenticato, legato all’odore dei pannolini. Ella inspira inoltre tutti gli odori che salgono dai capelli e da tutto il corpo del piccolo, e le cose rimangono così a lungo, perché il bambino è basso e la mamma alta, tanto che ogni volta che gli si avvicina percepisce per prima cosa, con la vista e con l’olfatto, i suoi capelli, la qual cosa non è affatto irrilevante perché proprio agli organi dell’amore è attaccata una peluria così abbondante. Il bambino invece si trova su un terreno differente. Nei primi anni di vita egli sente l’odore di gambe e piedi, perché il bambino è basso e gli adulti sono alti. Il bambino è in un certo senso costretto a sperimentare con il naso tutti i processi che si svolgono nell’area dell’addome materno, per cui egli percepirà anche quei particolari cambiamenti di odore che in ogni donna si verificano ogni quattro settimane. Sperimenterà anche l’eccitazione cui la madre è soggetta durante il suo periodo; gli si comunicherà l’atmosfera dei vapori sanguigni, intensificando il suo desiderio di incesto. Da queste impressioni eccitanti nascono lotte interiori d’ogni genere che egli oscuramente avverte; vi si allacciano delusioni profonde e dolorose, rafforzate dal dolore, dai cambiamenti d’umore, dall’agitazione e dalle emicranie della mamma. Abbiamo detto in precedenza che il senso ultimo cui tende l’inconscio umano è quello di rientrare nel ventre materno da cui è uscito. Gli esseri umani dimenticano di essere stati nel ventre materno perché è terribile pensare di essere stati cacciati dal paradiso, ma altrettanto terribile è l’idea di essere stati al buoi di una tomba; dimentichiamo come siamo venuti al mondo, perché la paura di soffocare provata in quell’occasione è stata insopportabile. Vediamo quindi come sia intrecciato il rapporto che lega la madre al proprio bambino. Un rapporto che può spingersi oltre qualsiasi confine, fino ad un atto estremo di ricongiungimento che nelle maglie del delirio riporta coercitivamente le due anime insieme, in quell’abbraccio ideale della fantasia, dove vita e morte sono un tutt’uno. Ci si domanda, da più parti, che peso abbia la malattia mentale nel comportamento materno che spinge oltre la vita del proprio figlio cagionandone la morte. So è attribuita molta importanza al fenomeno depressivo post-partum quale cofattore di un processo delittuoso che inevitabilmente con il bambino al quale ha tolto la vita muore anche la mamma, in una parte del suo corpo e della sua anima che in quel bambino aveva scelto di dimorare. Una mamma. Già la mamma, quella mamma che, nonostante tutto quanto nei meandri della sua psiche si possa trovare, rappresenta l’unico mezzo con il quale il bambino, il suo bambino, scopre se stesso, il suo corpo, il mondo, l’immensità del mondo. Quando viene al mondo, non dobbiamo dimenticarlo, il piccolo essere ha già una storia-la storia dei nove mesi intercorsi tra il concepimento e la nascita – e, com’è ovvio, reca un’importanza genetica, ereditata dai genitori e dalle loro famiglie. Entrambi i fattori influiscono sul suo temperamento, sulle sue inclinazioni, le sue doti e predisposizioni. Ma la formazione del carattere dipende da altro: risulta decisivo se all’inizio della vita, ancora nel grembo materno, il bambino ha conosciuto amore, protezione, tenerezza e comprensione oppure ha subito rifiuto, freddezza, incomprensione, indifferenza quando non, addirittura crudeltà. I bambini che oggi commettono omicidi sono spesso nati da madri adolescenti tossicodipendenti. Assenza, abbandono e traumi sono in questi casi all’ordine del giorno (Karr-Morse, Wiley, 1997). I neurobiologi hanno scoperto in anni recenti che i bambini traumatizzati e gravemente trascurati rilevano lesioni evidenti nelle aree del cervello correlate alle emozioni e, addirittura, che un terzo del cervello può risultare danneggiato. Secondo gli scienziati, ciò è dovuto al fatto che i traumi gravi comportano nel neonato una produzione continua di ormoni dello stress, capaci di distruggere i neuroni già presenti o appena formati e le loro connessioni. L’esperienza della crudeltà subìta da piccoli rende gli individui totalmente succubi, incapaci di provare sentimenti di empatia per la sofferenza dei loro simili. Quell’esperienza ha il potere di trasformarli in esseri umani in cui è innescata una bomba a orologeria: senza esserne consapevoli, aspettano l’occasione più opportuna per scaricare su altri (e prima fra tutti sui figli loro stessi) la rabbia accumulata, che essi non hanno mai potuto esprimere. Fin dai primissimi giorni di vita (fin dall’ottavo giorno), il neonato si mette in comunicazione con la madre per mezzo di informazioni propriocettive. Infatti egli si accorge subito se viene tenuto in braccio da una persona occasionale; il modo insolito con cui viene tirato su dalla culla, con cui viene trattato in grembo e con cui viene stretto fra le braccia e, finanche, il modo con cui viene cullato lo fa subito strillare, in preda ad evidente disagio. Il pianto comunica a chi lo tiene in braccio questo disagio, tanto che questi, in gran fretta e non senza un certo impaccio, lo ripassa, se può, alla madre. A questo punto, il neonato si calma: il suo volto esprime soddisfazione beata (delizia) e il suo corpo si rilassa. Anche questi sono segnali per la madre, che proprio in tal modo può modulare la sua stretta che finisce per diventare tenero abbraccio. L’ideale abbraccio della madre è quello che avvolge il figlioletto, mettendolo a contatto con il proprio corpo il massimo possibile, senza ostacolarne la respirazione: il petto,le braccia e le mani materne devono fare del loro meglio per ricreare viepiù l’avvolgimento totale già sperimentato nel grembo perduto. E se l’abbraccio materno non basta, vi sono altri elementi analoghi a quelli sperimentati nell’utero; in casi come questi , la madre passa a dondolare dolcemente il suo piccolo in senso orizzontale. Ma se questo non bastasse, ella è pronta ad alzarsi e camminare avanti ed indietro per la stanza, continuando a cullare il piccolo. Tutte queste intimità hanno uno specifico effetto rilassante, perché riproducono certi ritmi già sperimentati nella vita prenatale. La madre, sbirciando il figlioletto, arriva a sintonizzare il dondolio della culla, dosando con estrema finezza il numero delle scosse da imprimervi al minuto. È stato sperimentalmente dimostrato che, a ritmi molto lenti oppure molto rapidi, il dondolio della culla perde il suo effetto calmante, che si ottiene solo quando la culla raggiunge le 60-70 oscillazioni al minuto, cioè il ritmo del battito cardiaco di un adulto. Il pianto umano è simile a quello delle piccole scimmie che emettono una serie di suoni striduli e ritmici, ma è senza lacrime e, nelle prime settimane di vita, anche il bambino piange allo stesso modo. Dopo questo breve periodo, al segnale vocale si aggiungono le lacrime. Più tardi, nella vita adulta, le lacrime potranno presentarsi anche da sole, come segnale silenzioso. Per qualche ragione , dice Morris, è stato trascurato il fatto che, solo tra tutti i primati, l’uomo piange con le lacrime, ma è ovvio che ciò deve avere un significato peculiare per la nostra specie. Secondo lui, in primo luogo, questo segnale visivo è reso efficace perché le nostre guance sono prive di peli e le lacrime vi scivolano copiosamente, ma la chiave è data dalla risposta materna: quando il bambino piange, la madre gli asciuga gli occhi. Ciò significa detergere dolcemente la pelle del viso, cioè stabilire un intimo contatto che esercita sul piccolo un’azione calmante; forse è questa la funzione fondamentale della copiosa lacrimazione che così spesso bagna il viso del giovane animale umano: la lacrimazione copiosa si è evoluta come “sostituto dell’urina”, capace di stimolare una risposta di contatto intimo nei momenti di difficoltà interpersonali. Infatti la madre, nella specie umana come in molte altre specie, prova un fortissimo impulso a pulire il corpo della sua prole, quando si sia bagnato d’urina ad esempio. Secondo D. Morris, dunque, il pianto dell’adulto ha lo stesso significato comunicativo dell’enuresi notturna di un bambino che deve fronteggiare la nascita della sorellina. Il comportamento materno non è qualcosa che deriva alla donna geneticamente, almeno non soltanto. Esso è la risultante di fattori innati e fattori appresi. Gli esperimenti di Noble e Curtis sui pesci, quelli sulle tacchine ottenuti da Lorenz e la sua équipe, i dati etologici di Schaller sulle scimmie antropomorfe, tutti stanno a dimostrare che esso si realizza compiutamente solo sulla base di informazioni trasmesse per via esosomatica, ossia culturale. I comportamenti riservati alla prole potrebbero in tal modo venire ridimensionati a “comportamenti di osservazione”. Una mamma impara a fare la mamma solo se ha avuto una mamma che glielo ha saputo insegnare. È così. Inutile negare. Non glielo dice il DNA come deve fare. Non è previsto in natura per nessuno tra gli esseri viventi. Noble e Curtis sostituirono le uova di una coppia inesperta , ossia che si riproduceva per la prima volta, con uova appartenenti a un’altra specie. Quando le uova si schiusero, i due pesci accettarono i nuovi nati come se fossero loro figli e li allevarono; e ogni volta che si imbattevano in piccoli della loro specie, non esitavano a mangiarli. Questa tendenza si rilevò definitiva quando la coppia potè allevare figli propri: appena schiuse le uova, i nuovi nati venivano divorati dai loro genitori, che avevano imparato a considerare propri tutto un altro tipo di figli. Esiste dunque, fin dalla specie filogeneticamente più antiche, un particolare tipo di apprendimento che rende capaci gli individui di distinguere fra prole propria e prole di altra specie. “L’istinto” dei nostri due pesciolini era stato deviato per sempre da una informazione aberrante. Dal canto suo, l’èquipe di Lorenz, nel proseguire sue proprie finalità sperimentali, si trovò nella necessità di rendere sorde varie tacchine che, per altro, poterono incubare normalmente le loro uova. Ma quando esse si dischiusero, le tacchine cominciarono a beccare a sangue i loro piccoli che teneramente pigolavano intorno: si comportavano come son solite fare con qualsiasi intruso che si avvicini troppo al loro nido, paventando intenzioni ostili nei riguardi della loro prole inetta. Evidentemente nemmeno le tacchine possiedono adeguate informazioni genetiche circa l’aspetto esteriore dei loro piccoli, ma si servono di particolari segnali acustici per distinguerli dai loro predatori e dalle loro prede. Infatti la tacchina becca qualunque cosa si muova nelle vicinanze della sua area di difesa (territorio) e che non sia tanto grande da scatenare una reazione di fuga che trascenda la sua aggressività. Quindi solo l’espressione sonora del pulcino che pigola è in grado di facilitare le reazioni materne e mettere sotto inibizione l’aggressività. La specie umana, come tutte le specie a prole inetta, possiede un tipo di apprendimento in fase precoce che permette al neonato di riconoscere la mamma ed alla mamma di riconoscere il neonato. Tale apprendimento va sotto il nome di IMPRINTING e si realizza in un periodo sensibile, critico, che di norma è precoce e breve, è irreversibile, ossia una volta attuato non regredisce più, ed inoltre non necessita di una ricompensa, anzi le punizioni possono rinforzarlo. In una pagina indimenticabile l’imprinting è stato descritto dal suo scopritore, Konrad Lorenz. Egli fece covare a una grossa tacchina 10 uova selvatiche per 27 giorni. Poi queste vennero tenute 24 ore in una incubatrice, dove passarono le ultime fasi della maturazione. Da una delle dieci uova appena schiuse, poste sotto il termoforo che sostituiva il tiepido ventre materno, venne fuori una testa inclinata che guardò Lorenz con i suoi occhio scuri. Lo fisso molto a lungo e quando egli fece un movimento e pronunciò una parola, quel minuscolo essere lo salutò; con il collo ben teso e la nuca appiattita pronunciò rapidamente un tenero, fervido pigolio. Per tutta risposta Lorenz la portò in giardino dove una grassa bianca oca domestica avrebbe dovuto farle da madre, secondo le modalità sperimentali prefissate. Lorenz infilò la mano sotto il ventre della vecchia oca e vi sistemò la piccina. Mentre meditava soddisfatto davanti al nido, un flebile pigolio interrogativo risuonò da sotto l’oca: “vivivivivivi?” In tono pratico e rassicurante, la vecchia oca rispose con lo stesso verso, espresso secondo una modalità diversa: “gangganggang.” Ma, invece di tranquillizzarsi, come avrebbe fatto ogni ochetta, questa rapidamente sbucò da sotto le tiepide piume, guardò su con un solo occhio verso il viso di Lorenz e poi si allontanò dall’oca emettendo il tipico verso delle ochette abbandonate: “fip….fip….fip….”. la povera ochetta se ne stava li tutta tesa, continuando a lamentarsi, a metà strada fra l’oca e Lorenz, quando questi fece un lieve movimento; subito il pianto cessò e la piccola gli andò incontro con il collo proteso, nuovamente salutandolo con un fervido “vivivivi”. Lorenz senza capire ciò che stava succedendo, prese la piccola con fare scientifico, la rimise sotto il ventre dell’oca bianca e grassa e fece per andarsene, dopo qualche passo, risuonò alle sue spalle un noto “fip….fip….fip….”: l’ochetta gli correva dietro disperatamente. A questo punto, l’andatura rapida e impetuosa della corsa non poteva essere più equivocata; l’ochetta preferiva alla bianca e grassa coca domestica in canuto scienziato: questi era sua madre. L’ochetta venne portata in casa e solennemente battezzata con il nome di Martina. Ben presto Martina riuscì a convincere la sua madre elettiva che, almeno per il momento, era assolutamente da escludersi che si potesse allontanare da lei e abbandonarla per un solo minuto. Essa cadeva in un tale stato di disperazione e di insicurezza ed il suo pianto era talmente straziante che, dopo qualche tentativo, Lorenz si diede per vinto e approntò un cestino per potersela portare sempre dietro in spalla. Per la notte poi preparò una culla elettricamente riscaldata che sistemò in un angolo della sua camera da letto. E, quando Lorenz stava per addormentarsi, Martina emise il solito richiamo “vivivivivi?” che, tradotto nel nostro linguaggio, sembrerebbe così. “io sono qui, tu dove sei?” Di fronte all’assonnato silenzio del suo partner, il richiamo si fece dapprima più incalzante finchè non vi fu uno scoppio di striduli insistenti “fip…fip…fip…”, che costrinsero Lorenz ad uscire da suo letto e affacciarsi alla culla. Martina lo accolse beata con un “vivivivivi” di sollievo. Poi si addormentò. Non era passata neppure un’ora, quando risuonò, nel buio della stanza, il solito “vivivivivi” interrogativo, che ripropose, senza scampo, la sequenza di prima. E poi di nuovo alle dodici meno un quarto e poi all’una. Alle tre meno un quarto, Lorenz prese la culla e la pose a portata di mano, presso la testata del letto. Quando, secondo le previsioni, alle tre e trenta, si fece sentire il solito richiamo interrogativo, Lorenz rispose, nel suo stentato modo di comunicare, con un “ganggangganggang” e diede qualche colpetto alla coperta termostatica che ricopriva Martina. “Vrrrrr”, rispose Martina: io sto già dormendo, buonanotte! Nel complesso – dice Lorenz – Martina era una bambina molto buona. Non dipendeva da una sua ostinazione il fatto che non riuscisse a star sola neppure un minuto: bisogna pensare che per un giovane uccello della sua specie, che vive normalmente allo stato selvaggio, il perdere la madre e i fratelli significa una morte sicura. E dal punto di vista biologico è assai significativo che quelle pecorelle smarrite non pensano più né a mangiare, né a bere, è a dormire e, fino all’esaurimento totale, investono ogni scintilla di energia in quei gridi di aiuto, grazie ai quali sperano di ritrovare la madre. Con questo tipo di apprendimento precocissimo e irreversibile, infatti, la natura riesce a superare uno degli svantaggi inevitabilmente insito nella modalità di trasmissione delle informazioni genetiche. Il messaggio generico è, per sua stessa natura, generico ed incapace di prevedere le fattezze individuali dell’oca madre. Se un’ochetta dovesse essere “istruita” geneticamente riguardo alla madre, potrebbe avere ragguagli solo intorno ad una madre e non intorno alla propria madre in particolare – dice Mainardi. Spetta alle informazioni esosomatiche questo compito e solo esse permettono il rapporto interindividuale: solo a mezzo di questo tipo di comunicazione, gli esseri viventi finiscono per riconoscersi come individui. Secondo le più recenti acquisizioni della biologia, la fine del periodo critico dell’imprinting sembra dovuta alla comparsa di uno stato emozionale detto, dai biologi, paura. Essi, con particolari accorgimenti sperimentali, hanno potuto concludere che la paura non dipende in assoluto dall’età, ma dal contrasto tra la percezione di un oggetto familiare e uno non familiare, dalla differenza tra una situazione sperimentata e una nuova. Riconoscere che una cosa è nuova richiede una precedente esperienza. Se questa manca non può avvenire una tale discriminazione e di conseguenza neppure l’insorgere della paura. Per tutte queste considerazioni si può dire che, nella specie umana, il periodo critico in cui è possibile l’imprinting termina all’ottavo mese. Sulla base delle ricerche cliniche di Spitz si può ritenere che l’infante di homo sapiens, il quale sperimenta l’ansia, se non già nel grembo materno, alla nascita, fa la sua conoscenza con la paura a circa otto mesi di età. Spitz ha denominato erroneamente questa situazione infantile “angoscia dell’ottavo mese”: qui il bambino resta vittima di un inedito stato emotivo perché, per la prima volta in vita sua, è in grado di stabilire che si trova in presenza di un volto sconosciuto. Fino ad allora aveva sorriso indifferentemente a qualsiasi volto umano che gli si presentasse davanti perché non sapeva distinguere fra volto della madre e volto sconosciuto. Solo quando la maturazione è avanzata una tale discriminazione diventa possibile. Si fa così la conoscenza con una nuova emozione: la “paura”. Allo scadere del periodo neonatale, a circa trenta giorni di età, l’infante comincia a sorridere al volto umano, sia esso quello della madre o di un qualsiasi altro osservatore. Come ha potuto precisare Spitz, cui dobbiamo questi risultati, l’infante sorride solo se il volto umano si presenta dirimpetto. Non sorride se il volto umano gli viene presentato di profilo. L’infante, a differenza del neonato, è dunque in grado di ricevere, oltre le informazioni propriocettive (provenienti dalle sensibilità profonde e inerenti l’equilibrio corporeo) e quelle sonore, informazioni visive. Tra i due e i sei mesi l’infante può distinguere la figura dallo sfondo e i visi benevoli da quelli ostili o corrucciati. Riesce quindi a riconoscere e quindi a distinguere il “segnale di approvazione” ed il “segnale di disapprovazione”. Egli comincia ben presto ad attribuirvi il giusto significato e così il segnale viene trasformato in messaggio. Esso fornisce all’infante questo tipo di informazione: bravo, ti stai comportando come desidero io! Ti voglio bene e ti starò sempre vicino. Nell’altro caso, il messaggio trasformato nel nostro linguaggio articolatosimbolico potrebbe suonare pressappoco così: Pericolo! Non ti stai comportando come piace a me: resterai a vedertela da solo. In questo modo, la madre sceglie inconsapevolmente dal repertorio del suo infante i comportamenti che giudica opportuni e conformi alle sue esigenze culturali, mentre elimina quelli che non riesce ad apprezzare. Infatti la disapprovazione materna (oppure quella di ogni persona importante) induce nell’infante uno stato di disagio intollerabile per evitare il ripetersi del quale questi comincia a comportarsi in modo conforme ai desideri materni. Freud ha insistito efficacemente su questa primordiale esperienza di disagio cui soggiace l’infante passato dalla disapprovazione materna. Egli etichettò questa situazione con il termine “Hilflosigkeit” (l’esser senza aiuto). Qui il lattante, che dipende interamente dagli altri per il soddisfacimento delle sue tensioni (o, che è lo stesso), per la soddisfazione dei suoi bisogni: sete, fame, pulizia, calore, ecc….), vive un’esperienza drammatica: si coglie come un essere impotente a procacciarsi l’azione-oggetto specifica, capace di metter fine alla tensione interna. È dopo aver sperimentato tale situazione di pericolo (perdita o separazione dalla madre) che comincia a viverla come una persona onnipotente. In quanto esperienza universale, attraverso la quale debbono passare tutti i lattanti, la Hilflosigkeit crea il “bisogno di essere amati”. Questo bisogno non abbandonerà mai più l’uomo per tutto il corso della sua esistenza. Quante innumerevoli cose legano la madre al proprio bambino. Essa è l’origine di tutto il suo universo di corpo e psiche, e, paradossalmente, la sua fine. Prima allora di cercare di comprendere se e quanto possa influire, in modalità ancora da definire, una condizione psicopatologica franca in un comportamento materno aberrante, io vorrei porre l’attenzione del lettore sul fatto che una madre può trovarsi nella condizione di essere inadeguata, prima ancora che assassinata, e questo naturalmente rappresenta una fonte di pericolo continuo per il suo bambino. E probabilmente la responsabilità andrebbe addebitata all’allevamento operato su quella mamma quando era infante. Ci sono, come possiamo vedere, moltissimi punti di osservazione dai quali possiamo formulare ipotesi critiche, moltissime stazioni che cadenzano tutto l’arco di vita di quella donna-mamma, ciascuna delle quali direi “fondamentale”. Un bambino possiamo educarlo in modo da farlo diventare come piace a noi. Dal bambino si può ottenere rispetto, aspettarsi che condivida pienamente i nostri sentimenti, nell’amore e nell’ammirazione del bambino ci si può rispecchiare, di fronte a lui ci si può sentire forti, quando se ne è stanchi lo si può affidare ad altri; grazie a lui è possibile, infine, sentirsi al centro dell’attenzione: gli occhi del bambino seguono ogni movimento della madre. Una donna che abbia dovuto a suo tempo reprimere e rimuovere tutti questi bisogni con la propria madre, per quanto possa essere una persona colta, dinanzi alla propria creatura li sentirà ridestarsi dal profondo del proprio inconscio e tendere al soddisfacimento. Il bambino lo avverte chiaramente, e rinuncia presto ad esprimere le proprie esigenze, quando però, in seguito, nell’adulto emergono, durante la terapia, i sentimenti infantili di abbandono, ciò avviene con una sofferenza ed una disperazione di tale intensità che ci risulta evidente che quel bambino non sarebbe sopravissuto al proprio dolore. Per sopravvivere avrebbe dovuto poter contare proprio su quell’ambiente empatico, assecondante che gli era mancato. Dunque i sentimenti erano stati respinti nell’inconscio. Mettere in dubbio questa dinamica vorrebbe dire smentire i numerosissimi dati che provengono dal lavoro terapeutico. Nella difesa, per esempio, dal sentimento di abbandono provato durante la prima infanzia si possono riconoscere vari meccanismi. Accanto alla semplice negazione troviamo perlopiù la lotta spossante e senza tregua per raggiungere – con l’aiuto di simboli (droga e sostanze da cui si diventa dipendenti, gruppi, culti di ogni tipo, perversioni) – il soddisfacimento dei bisogni rimossi e nel frattempo divenuti perversi. L’adattamento ai bisogni dei genitori conduce allo sviluppo della “personalità come sé”, ovvero a ciò che si definisce un falso sé. L’individuo sviluppa un atteggiamento in cui si limita ad apparire come ci si aspetta che debba essere, e si identifica totalmente con i sentimenti che mostra. Il suo vero sé non può formarsi né svilupparsi, perché non può essere vissuto. Ogni essere umano ha dentro di sé un cantuccio, a lui stesso più o meno celato, in cui si trova l’apparato scenico del dramma della sua infanzia. Gli unici che con certezza avranno accesso a questo deposito saranno i nostri figli. Per mezzo loro, l’apparato scenico sarà vitalizzato: il dramma va avanti. Che cosa capita quando la madre non è in grado di aiutare il proprio figlio? Che cosa capita quando non solo non riesce ad indovinare e ad esaudire i bisogni del figlio, ma presenta anche lei carenze affettive, cosa che si verifica molto sovente? In tal caso cercherà di soddisfare i propri bisogni personali servendosi del bambino, anche se questo non esclude un forte legame affettivo. A questa relazione di sfruttamento mancano però componenti che sono di importanza vitale per il bambino, come l’affidabilità, la continuità e la costanza; soprattutto manca lo spazio in cui i l bambino potrebbe vivere i suoi sentimenti e le sue sensazioni. Il bambino sviluppa allora quegli atteggiamenti di cui la madre ha bisogno, atteggiamenti che al momento gli salvano la vita (ossia gli assicurano “l’amore” della madre o del padre), ma che alla lunga gli impediranno di essere se stesso. In tal caso i bisogni naturali tipici dell’età del bambino non vengono integrati nella personalità, ma vengono scissi o rimossi. Pur senza esserne consapevole, questo individuo continuerà in seguito a vivere immerso nel proprio passato. Il rischio più grande, a questo punto, è che la sua struttura di personalità ne resti più o meno gravemente condizionata, fino a cristallizzarsi in quello che oggi probabilmente è il disturbo di personalità più frequente (stime attendibili riportano un coinvolgimento del 5% della popolazione mondiale) e più difficile da gestire, sia farmacologicamente che psicoterapeuticamente, ossia il “disturbo borderline di personalità”. Gli individui con tale disturbo compiono sforzi disperati per evitare abbandoni reali o immaginati. La percezione della separazione o del rifiuto imminenti, o la perdita di qualche strutturazione esterna, possono portare ad alterazioni profonde dell’immagine di sé, dell’umore, della cognitività e del comportamento. Tali individui provano intensi timori di abbandono e rabbia inappropriata anche quando si trovano ad affrontare separazioni reali limitate nel tempo. Sono intolleranti allo stare soli, così come sono più che mai bisognosi, fino a livelli di esasperazione, perché altre persone siano con loro. I loro sforzi disperati per evitare l’abbandono possono includere “azioni impulsive”, come ad es. comportamenti auto mutilanti o suicidari. Hanno una modalità di relazione instabile ed intensa. Possono idealizzare protettori od amanti potenziali al primo o secondo incontro, chiedere di trascorrere molto tempo insieme, e condividere i dettagli più intimi all’inizio di una relazione. Comunque possono passare rapidamente dall’idealizzare allo svalutare le altre persone, sino a distruggerle fisicamente e psicologicamente. Questi individui empatizzano con gli altri e li coccolano, ma solo con l’aspettativa che gli altri saranno presenti a loro volta per soddisfare le loro necessità. Sono inclini a cambiamenti improvvisi e drammatici della loro visione degli altri, che possono essere visti alternativamente come supporti benefici o come crudelmente punitivi. Possono manifestare un disturbo dell’identità caratterizzato da un’immagine di sé o da una percezione di sé marcatamente e persistentemente instabile. Sono individui che possono essere improvvisamente passare dal ruolo di supplice, bisognoso di aiuto, a quello di giusto vendicatore di un maltrattamento precedente, e se pensiamo ai maltrattamenti subiti durante la sua infanzia dalla bambina che poi diventerà borderline, possiamo comprendere quali prevedibili disastri rischiano di essere cagionati nel figlio che alla porterà. Gli individui con Disturbo Borderline frequentemente esprimono rabbia inappropriata ed intensa, o hanno difficoltà a controllare la propria rabbia. Durante i periodi di stress estremo, quale può essere una gravidanza, possono presentare sintomi preoccupanti come ideazione paranoie ( ad es. sentirsi perseguitati) o sintomi dissociativi, con parti di sé che prendono in mano la loro vita senza che essi se ne rendano conto, con le conseguenze che possiamo immaginare, anche se, fortunatamente, l’intensità di tali sintomi è alquanto lieve nella maggioranza dei casi. Una strutturazione di personalità così gravemente compromessa riconosce una storia, un termine che si ripete e si ripeterà più volte nel corso di questa trattazione, in cui era comune abuso fisico e/o sessuale, incuria, conflitto ostile e perdita precoce o separazione dei genitori. Ritorna in gioco più che mai il “bisogno dell’altro”, ed una “storia da condividere insieme all’altro”. E il primo altro che ogni bambino incontra nel suo “scontro con la vita” è, inevitabilmente, la mamma. Il bisogno di un essere umano, e quindi di un bambino, nasce dalla carne (dai muscoli lisci e/o striati; dalle ghiandole endocrine e/o esocrine…) e si intrinseca nella carne (nei muscoli lisci e/o striati, nelle ghiandole endocrine e/o esocrine) e non trova adeguato altro sistema espressivo che questo. Chi è chiamato a rispondere a tale bisogno è la mamma. In base a come ella risponderà, il bambino si formerà un suo modo, una volta diventato adulto, di rispondere. La mamma impara a fare la mamma. Viceversa non lo saprebbe fare, come non lo saprebbe fare nessun mammifero. Schaller, nei suoi resoconti, circa la riproduzione dei gorilla in cattività, riferisce qualcosa che apparentemente avrebbe dell’incredibile: “il parto più recente di gorilla è avvenuto allo zoo di Washinton, D.C., alle sei antimeridiane del 9 settembre 1961, dopo circa 266 giorni di gravidanza….. Nessuno assistè alla nascita. La femmina depose il piccolo a terra senza interessarsi a lui, né reagire in alcun modo quando il piccolo venne tolto dalla gabbia. Ma al centro IRSAC, vicino a Bakavu, dove vivendo due gorilla adulti, una femmina riservò al suo piccolo un trattamento ben più triste. Il 26 ottobre 1959, la femmina interruppe il suo pasto, si distese, ed alzò la gamba destra. Si vide spuntare la testa del piccolo. Dopo cinque minuti, secondo gli indigeni che assistettero al parto, si ruppe il sacco amniotico. Poi, metà seduta e metà distesa, la femmina afferrò con le due mani la testa del piccolo e tirò. Spezzo il cordone ombelicale, portò il piccolo alla bocca, gli strappò con un morso una mano ed un piede e gli trafisse il cranio con un canino”. Agli albori di quel processo di separazione che è detto “ominazione”, scene del genere non dovettero essere molto rare. E non perché i genitori fossero gelosi del figlio nel raffigurarselo come futuro rivale. Molto più probabilmente non sapevano che farsene, non sapevano come allevarlo. Essi potevano benissimo cadere in preda al panico di fronte al compito nuovo. Schaller, da profondo conoscitore delle scimmie antropomorfe, ha tentato di riabilitare il suo gorilla precisando che gli animali in cattività, quando vedono un neonato per la prima volta, non capiscono di cosa si tratti e ne hanno paura: Probabilmente – conclude l’etologo – i gorilla e gli altri mammiferi che vivono in gruppo (come l’uomo) imparano ad allevare la loro prole osservando le altre madri. Che cosa allora si nasconda, sotto quel velo chiamato “depressione”, ci appare forse un po’ più chiaro alla luce di quanto abbiamo visto. La gravidanza per ogni essere vivente è il momento in cui la sua origine divina si veste di realtà e si manifesta in tutta la sua potenza. Per l’uomo rappresenta il contatto con l’Infinito, con la dimensione soprannaturale della creazione, con un’anima che si costituisce vita ed abita un corpo, nutrendosi di quel corpo, in un continuum di eternità. La madre ed il materno sono gli anelli di passaggio della catena trans generazionale. Quando il bambino nasce eredita attraverso il canale bioumorale tutta una serie di informazioni emotive che si trasmettono attraverso la fisicità (i recettori vengono eccitati sull’area adrenergica). Ma oltre alle informazioni emotive egli riceve anche e soprattutto proiezioni (p.es. la scelta del nome). La madre, quando nasce il figlio, viene chiamata a sviluppare l’empatia, che si intrinseca attraverso un processo di regressione della mamma a quando lei era feto; ella va nella sua preistoria che è fatta sostanzialmente di mostri ( con la conseguente paura di partorire un mostro) che consente alla donna stessa di costruirsi l’immagine del figlio, e così lei si costruisce un bambino interno cicciottello e ricciolino che smussi in qualche modo il mostro di paura. Ma se la donna ha avuto un difficile rapporto con la madre, questa donna va a percorrere “l’area dell’archetipo materno negativo”. E allora la sua maternità sarà vissuta in maniera catastrofica, con conseguenze inimmaginabili. Per interrompere allora questa catena c’è bisogno di una terza persona che si faccia carico delle angosce arcaiche e gliele restituisca trasformate, e questa terza figura viene ad essere rappresentata dalla figura maschile, dal partner il quale, attraverso il suo lato femminile faccia questo lavoro di assorbimento e restituzione. Se vogliamo, possiamo identificare taluni fattori di rischio per quelli che potrebbero essere i comportamenti aberranti della madre nei confronti del proprio bambino o, da un’altra prospettiva, per quella che potrebbe essere la predisposizione all’insorgenza di una evidenza fenomenologica di sintomatologia “depressiva” nel puerperio. Una gravidanza ad esempio in cui la donna esperisce fantasie di danno genetico patologiche, che occupano in modo eccessivo la sua mente per cui essa non si costruisce l’immagine bella del figlio interno, come anche una donna che in gravidanza esperisce angosce di morte che la spingono ad assicurarsi che la gravidanza vada bene per cui non le permettono di costruirsi l’immagine bella del figlio materno, o ancora una donna che esperisca fantasie di essere danneggiate durante il parto per cui essa costruisce l’immagine di un figlio persecutore. Tutto questo naturalmente si complica terribilmente in presenza di una sintomatologia ansiosa o di un habitus depressivo della donna, e naturalmente raggiunge il suo culmine di gravità in termini potenziali se la donna in gravidanza viene lasciata in solitudine, esperendo le fantasie persecutorie o, peggio ancora, la assenza di fantasie, senza alcun punto di riferimento al quale aggrapparsi nei momenti di angoscia e sconforto. È quindi assolutamente fondamentale la “reverie” paterna, di una figura intimamente legata alla gravida, che sappia assorbire le angosce di regressione materna, liberando la donna dal compito di sopportare una ulteriore gravidanza oltre quella che la sua “biologia” le sta imponendo. Il bambino, che alla nascita non corrisponde al bambino immaginario dei suoi genitori o è addirittura assente nella mente dei genitori, vivrà la sua vita sin dai suoi inizi nel ruolo di capro espiatorio, in condizioni di abuso, deprivato di cure, o seviziato, maltrattato fisicamente o costretto ad essere come i genitori lo vogliono o ad essere il ricettacolo delle parti negative della famiglia. Vivrà in una condizione in cui il parametro della normalità è ciò che lui riceve e non risponderà reagendo e arrabbiandosi con il mondo e con gli uomini ma generando un profondo senso di colpa che, poiché si struttura in una fase iniziale dello sviluppo, è un senso di colpa arcaico dovuto ad una colpa senza nome commessa dal bambino, che Neumann ha chiamato “senso di colpa primario” (E. Neumann, 1980), che ha una connotazione archetipica. Per tutto il suo sviluppo il senso di colpa primario determina nel bambino la convinzione che non è amato perché è un anormale, immondo, secondo la logica che “essere amati significa che si è stati buoni; mentre se non si è stati amati significa che si è cattivi” (E. Neumann, 1980). Il senso di colpa permane lasciando il bambino nella solitudine e nello smarrimento in un mondo che è caos e annullamento, ed espulso dall’ordine naturale, dubita poi del proprio diritto all’esistenza. Oltre al “senso di colpa primario”, con il suo potere devastante e psicotizzante, il bambino è sollecitato da altri sentimenti, soprattutto quando il suo Io, seppur fragile, ha la possibilità di un qualche funzionamento: l’angoscia per gli abusi subiti e per l’attesa e la minaccia del loro imminente ripetersi, la depressione derivante dalle carenti cure affettive e del pericolo di perdere garanzie affettive, il senso di colpa secondario, derivante dal provare sentimenti di ira, rabbia, ostilità, che sono reazioni normali in altre condizioni di vita, non sono permessi né accettabili in un contesto ambientale abusante in cui al bambino non è dato viverli, esprimerli, descriverli, ma ci si deve difendere per impedire che le sue verità siano evidenti soprattutto a se stesso. Ora, quel bambino diventerà adulto. E se è una bambina, diventerà donna. E probabilmente mamma. E allora? Le conseguenze sono abbastanza prevedibili, se mettiamo insieme i tanti elementi raccolti sino a questo momento. Entriamo dunque nel merito specifico del fenomeno depressivo, le cui ripercussioni, nel periodo postpartum, come abbiamo visto, possono essere assai devastanti. La depressione postpartum, secondo le ultime ricerche, colpisce il 10-15% delle donne nei primi mesi dopo il parto. Oltre a causare la sofferenza e l’angoscia della madre in quel periodo temporale in cui, invece, non ci dovrebbe essere spazio se non per momenti di gioia, la depressione post-partum deteriora le relazioni matrimoniali ed influenza negativamente lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino. Nonostante le potenziali conseguenze deleterie della depressione post-partum e l’opportunità di ripetuti contatti clinici nel periodo del post-partum, la ricerca dimostra, purtroppo, come fino al 90% delle depressioni post-partum non siano adeguatamente diagnosticate e trattate. Generalmente, ci si dimentica che fino ad un terzo di tutte le depressioni post-partum ha origine nel corso della gravidanza e quindi il termine depressione post-partum è, strettamente parlando, una denominazione errata, che potenzialmente devia l’attenzione medica dal pericolo precedente al parto. Se non teniamo presente che una “depressione post-partum” è effettivamente una “depressione perinatale”, e che una parte significativa della cosiddetta depressione post-partum ha effettivamente inizio nella gravidanza, le opportunità di individuare la depressione resteranno dimenticate. Per questa ragione antecedente al parto forse è meglio riferirsi alla depressione che si verifica nel periodo post-partum con la denominazione di “depressione perinatale”. Nel 50% delle donne in fase post-partum è osservato un “profondo sentimento di tristezza”, che esordisce acutamente, sin dai primi giorni dopo il parto. L’umore si presenta ansioso o timoroso; occasionalmente può essere associata un’euforia instabile e assai fragile. La caratteristica più rimarchevole della tristezza post-partum è la labilità affettiva e dell’umore: crisi di pianto incontrollabile possono presentarsi all’improvviso o senza nessuna ragione, e possono passare altrettanto improvvisamente; alcune donne, pur non essendo in grado di trattenere le lacrime, possono insistere nel dire che sono felici. Possono osservarsi anche affaticamento, difficoltà di concentrazione ed insonnia. In genere questa sintomatologia scompare, se non vi sono componenti di carattere depressivo o borderline, spontaneamente e completamente entro due settimane. Tale sintomatologia la possiamo distinguere chiaramente dalla depressione post-partum perché quest’ultima è ad esordio più tardivo, in genere oltre le tre settimane nel post-partum, cos’ come dalla psicosi post-partum, la quale può avere un esordio entro i primi tre giorni del puerperio, e si può presentare con una evidente labilità, tuttavia la comparsa successiva di sintomi psicotici la differenzia francamente dalla tristezza post-partum. Una possibile causa di questa condizione, che possiamo definire come “depressione da maternità”, è legata con ogni probabilità al trauma psichico della separazione interna dal bambino, ai cambiamenti delle abitudini di vita connessi all’allattamento, alle ansie o ai dispiaceri per la salute del bambino, alla mancanza di sonno ed agli effetti dell’ospedalizzazione. Una franca sindrome depressiva, invece, riconosce un quadro clinico sovrapponibile a quello del disturbo depressivo non correlato al parto, caratterizzato da irritabilità, insistenti richieste di consulti sulla crescita e la salute del proprio bambino, abitualmente sano, diminuzione della fiducia in sé stessa da parte della donna e sentimenti di colpa per l’incapacità di fare sufficientemente, e bene, quello che pensano sia necessario. Viene riconosciuta, dalla statistica psichiatrica, la presenza di una serie di fattori che potrebbero favorirne l’insorgenza, come un’età superiore ai trent’anni, disturbi fisici o dubbi manifestati sull’opportunità di portare avanti la gravidanza, e fattori psicologici e sociali, quali appartenenza a classi sociali inferiori, disagiate condizioni economiche e abitative, contrasti coniugali, rapporti difficili con i propri genitori o con i suoceri. Mi sembra che l’analisi psicologica sin qui effettuata abbia già contribuito a chiarire abbastanza in termini di dinamiche psichiche tutto quanto diviene poi osservabile come dato statistico. Un’ultima situazione strettamente connessa con il post-partum è la psicosi puerperale. Tale condizione clinica presenta peculiari caratteristiche cliniche ed evolutive. L’esordio è improvviso e si verifica in genere tra il 5° ed il 25° giorno dopo il parto; raramente, comunque, prima della terza giornata. Sintomi prodromici di non frequente osservazione possono essere: insonnia con incubi ed agitazione notturna, inquietudine, spossatezza, irritabilità, cefalea e variazioni dell’umore. Il quadro clinico è quello di una sindrome confusionale e delirante, con diffidenza , incoerenza, irrazionalità e reazioni inconsulte verso il bambino, oppure può assumere l’aspetto di una psicosi affettiva, di tipo maniacale o depressivo, di una schizofrenia o di una forma schizoaffettiva. La donna può apparire perplessa, a tratti sconvolta, con fenomeni di illusioni percettive e falsi riconoscimenti. Il contenuto del delirio può essere rappresentato da tematiche di negazione del matrimonio e della maternità o di paura o certezza che il bambino le sia stato sottratto o sostituito. L’evoluzione è caratterizzata da miglioramenti e da brevi e frequenti riaccensioni della sintomatologia, in genere per un periodo di 3 – 5 mesi. Si tratta comunque di situazioni che vengono facilmente osservate, per cui l’intervento si impone abbastanza precocemente, a differenza di quanto avviene in caso di una sindrome depressiva o di un disturbo borderline di personalità. Cohen, nel suo “Theory and Practice of Psychiatry”, spiega come l’evidenza biologica suggerisca che i disturbi dell’umore, e tra essi il disturbo depressivo, siano da considerare vere e proprie malattie. È pur vero però, dice lo stesso autore, che sono malattie né intimamente connesse con la storia di vita individuale di ciascun, singolo, soggetto, così come la sua peculiare struttura di personalità. Infine, conclude, fino all’85% dei soggetti depressi fa esperienza, nella sua vita, di episodi multipli di malattia, per cui diviene progressivamente sempre più difficile distinguere la malattia dalla persona. Quindi comprendiamo bene come persona e malattia siano viepiù intrecciate nel caso della depressione. Risulta difficile, allora, parlare di malattia, addebitando la responsabilità di ciò che ci ripugna, di ciò che ci offende nel profondo, ad una patologia che basterebbe solo “curare” perché l’essere umano possa tornare ad essere la “meravigliosa creatura” che è. In realtà l’eterno dilemma dell’esistere e del morire, del bene e del male, del giorno e della notte, vive dentro ogni uomo e continuerà a farlo per sempre. Non riconoscere la parte cattiva di ogni essere umano significa perdere di vista il significato intrinseco della storia dell’uomo, prima che dell’uomo stesso. Ma l’uomo esiste in relazione ad una storia. È la sua collocazione all’interno di una storia che gli conferisce una dimensione di vita, una dignità. Non possiamo prescindere da ciò se vogliamo conoscere la verità delle cose. Ed è per rispetto a questa verità che a questo punto si impone la necessità di chiamare in causa il dato scientifico, quello che da più parti viene riconosciuto come l’unico in grado di essere obbiettiva bile e pertanto meritevole di attenzione. Naturalmente tutto ciò non è vero, ma la spiegazione rimanda ad un discorso molto ampio che esula dal nostro specifico campo di interesse, motivo per cui lasceremo all’elemento biologico lo spazio che merita, ricordando che non può in alcun modo essere scisso dal tessuto psicologico del quale fornisce unicamente il substrato biochimico ed al quale attribuisce un dinamismo vitale che si chiama “anima”. Le neuroscienze sono ad un passo dallo scoprire finalmente l’inconscio. Sarà questa la svolta. Per chi come me lo ha sempre pensato non è che una conferma. Per molti altri sarà un mea culpa dal sapore amaro. Ciò che lo psicanalista Silvano Arieti, 50 anni fa, aveva ipotizzato sulla depressione e sulla schizofrenia, oggi, con l’ausilio di esami strumentali più che mai sofisticati, è stato perfettamente dimostrato, come ad esempio la deafferentazione frontale in corso di schizofrenia. Lo straordinario prodigio cui stiamo assistendo è quello di vedere confermato proprio dalle neuroscienze quanto postulato dalla psicoanalisi quanto tale supporto non era neppure ipotizzabile. Questo conferisce, al dialogo psicoanalitico, un valore ancora più grande. Viene oggi con convinzione ristabilita la centralità dell’emozione in quanto in grado di permettere alla coscienza di esistere. “Emozione e coscienza” sono intimamente congiunte, ed è dal loro interscambio reciproco che l’individuo si costituisce realtà reagente all’ambiente in cui è collocato. Secondo la teoria del dual aspect monism, mente e cervello sono in sostanza la medesima cosa, pur utilizzando due linguaggi differenti. L’uomo è l’insieme delle connessioni che si sono stabilite nel corso della storia dell’individuo. Ritorna, come vediamo, la storia a decidere chi siamo. L’indagine analitica altro non è se non una lettura critica della storia. L’uomo si distingue dagli altri animali non solo per il possesso e la trasmissione di generazione in generazione di quell’apparato sovra biologico che è la civiltà, ma anche , se la storia e i cambiamenti nel tempo sono caratteristiche essenziali della civiltà umana e quindi dell’uomo, per il desiderio di cambiare la propria civiltà, e quindi di “cambiare se stesso”. Nel creare la storia l’uomo “crea se stesso”. Il processo storico poggia dunque sul desiderio dell’uomo di diventare altro da ciò che è. E tale desiderio è sostanzialmente un desiderio inconscio. Ancora oggi l’umanità crea la storia senza essere assolutamente consapevole di ciò che vuole veramente o di quali condizioni sarebbero necessarie per porre fine alla sua infelicità; di fatto ciò che sta facendo sembra renderla sempre più infelice. Tale infelicità si chiama progresso, ma si veste di depressione. E cosi, dal desiderio, dalla rimozione, dalla sofferenza dell’anima, si giunge al compromesso con il corpo, con la sua carne. In una realtà olistica, quella della malattia. In questa sede sarà chiaro come l’elemento biologico non faccia altro che sposare quanto l’arte psicoanalitica sta cercando da sempre di affermare, ossia che l’uomo vive nell’equilibrio delle istanze psicologiche dell’Es (inconscio), che vive in ossequio al principio di piacere, dell’Io che vive in ossequio al principio di realtà e del Super - io che si pone quale giudice, quale arbitro dell’incontro-scontro tra “Inconscio” ed “Io”. I neurotrasmettitori celebrali altro non sono se non le parole attraverso le quali si inviano i “messaggi d’amore e di odio” lungo le miliardi di sinapsi che collegano tra loro tutti i miliardi di neuroni in dotazione ad ogni essere umano. Ebbene, la risposta al perché della fenomenologia della depressione e forse della gran parte dei disturbi psichiatrici la neuro psicobiologia ce la fornisce. Essa va sotto il nome di Serotonina. Verosimilmente rappresenta il messaggero universale del viaggio dell’uomo verso l’Infinito. Gli altri neurotrasmettitori risentono in diverso modo della veicolazione della serotonina nei circuiti celebrali, ecco perché ritengo che il ruolo chiave sia senza ombra di dubbio giocato proprio dalla serotonina lungo il percorso storico dell’uomo. Ed a riprova di ciò è stato dimostrato come il sottotipo recettoriali 5-HT4 a livello del SNC sembri modulare il rilascio di vari neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina, serotonina stessa, gaba, potenziando la trasmissione sinaptica e la memoria. I corpi dei neuroni serotoninergici sono localizzati sulla linea mediana del tronco celebrale a livello del bulbo, ponte e mesencefalo, concentrati nei nuclei del rafe. I nuclei del rafe danno origine ad un gruppo omogeneo di neuroni che proiettano i propri assoni verso tutte le principali aree del Sistema Nervoso Centrale (SNC): corteccia,talamo,amigdala, ippocampo,nuclei della base, nucleo accumbens, cervelletto, midollo spinale. Le fibre serotoninergiche che proiettano verso le lamine I e II verso il nucleo spinale del trigemino, indicano un coinvolgimento del sistema serotoninergici nel controllo del dolore. La serotonina, attraverso le sue proiezioni verso le diverse aree cerebrali, partecipa al controllo di numerose funzioni come il sonno, il tono dell’umore, l’ansia e la paura, l’aggressività, la motivazione e la ricompensa, l’apprendimento e la memoria, il controllo della fame, le funzioni sessuali, la regolazione dei ritmi circadiani, la regolazione del neuroendocrino, la risposta allo stress e la sensibilità al dolore. Non posso non soffermarmi un attimo sull’importanza di tutto ciò. Lo stesso mediatore responsabile del disturbo psichiatrico che terrorizza solo a pensarlo è poi colui ci permette di vivere in un certo senso la nostra umanità, di esperire stati d’animo, sensazioni, di sognare, di conoscere, in una parola, di vivere. E allora qual è il senso di tutto ciò? Lascio al lettore la sua personale risposta. Sembra ormai dimostrato come la via serotoninergica che inizia nel Nucleo Mediano del Rafe e innerva l’ippocampo dorsale aumenti la resistenza e la tolleranza allo stress, per cui la modulazione del sistema serotoninergico influenzerebbe le aree principali coinvolte nel Disturbo di Panico, ad esempio, attraverso una riduzione dell’attività noradrenergica, una riduzione del rilascio di CRF ed una modificazione dei comportamenti di difesa/fuga. In corso di depressione, cosi come in molte altre malattie psichiatriche, il livello di serotonina cerebrale è ridotto. È stata riscontrata, nei soggetti con condotte suicidarie, una riduzione del binding del trasportatore della serotonina a livello della corteccia prefrontale dorso laterale, orbito frontale ed a livello del talamo. La presenza di una riduzione del trasportatore i soggetti con condotte suicidarie concorda con il riscontro di una relazione tra riduzione della funzione serotoninergici e discontrollo degli impulsi. Qui si impone un’altra riflessione. Nelle patologie in cui il soggetto non è in grado di controllare i propri impulsi (Piromania Gioco d’azzardo patologico, Cleptomania, Disturbo esplosivo intermittente, Tricotilomania), il livello di serotonina è viepiù basso, cos’ come accade nella depressione ed in molte altre malattie psichiatriche, tant’è vero che la terapia per tali disturbi è condotta con SSRI per aumentare il livello proprio di serotonina. E allora appare più che mai chiaro come un soggetto depresso non possa riuscire a controllare i propri impulsi perché colui il quale determina il padroneggiamento, il controllo appunto degli impulsi proprio a livello biologico, è da egli prodotto in scarsa, scarsissima quantità. Di conseguenza egli è fortemente a rischio di compiere qualcosa che si impone senza che riesca a frenarla in alcun modo. Lo stesso discorso vale per il disturbo ossessivo-compulsivo, ossia per quella particolare situazione in relazione alla quale il soggetto non riesce a controllare i suoi pensieri, che gli si impongono al di là di ogni suo sforzo di cacciarli via. Ed assumono un carattere coercitivo obbligandolo a dei comportamenti che egli non vorrebbe ma che divengono indispensabili, inarrestabili nel loro attuarsi. Anche qui il livello di serotonina è più che mai ridotto ed il soggetto può potenzialmente commettere qualsiasi gesto, associandolo a qualsiasi pensiero. Ma non è ancora finita. Sembra che le aree maggiormente coinvolte nell’Ansia Sociale siano rappresentate dall’amigdala, dai gangli basali ed ai circuiti frontali; dato che il sistema serotoninergici si estende sia a livello dell’amigdala che a livello dei circuiti corticostraiatali, è possibile ipotizzare che la serotonina rivesta un ruolo anche nella genesi dell’Ansia Sociale. Modelli animali hanno dimostrato che una riduzione della funzione serotoninergici porta all’evitamento di comportamenti sociali di tipo affiliativi, mentre l’incremento della funzione serotoninergici porta ad un’incremento della socializzazione. Questo quindi ci dice come un soggetto con depressione tenda a distaccarsi emozionalmente e fisicamente dagli altri. E allora una mamma può anche arrivare a non percepire più il proprio figlio con quel trasporto emozionale che ci aspetteremmo. L’ansia è definibile come uno stato di inquietudine, un’attesa timorosa di eventi negativi, infausti, ma , mentre la paura è un’emozione che origina da una minaccia reale, l’ansia è priva di un oggetto o di un evento scatenante definito, configurandosi come una risposta ad un pericolo indefinito, vago, verso il quale l’individuo percepisce un sentimento di inadeguatezza. È quindi una risposta emotiva fisiologica, in quanto determina un aumento della vigilanza e dell’attenzione al fine di affrontare al meglio situazioni di stress; se però si manifesta in assenza di fattori scatenanti o si protrae nel tempo o si rivela controproducente ed interferisce con il funzionamento globale dell’individuo, diviene patologica. Recentemente, l’ipotesi neuroanatomica del Disturbo di Panico, è stata rivista alla luce delle nuove acquisizioni ottenute dalla ricerca preclinica nel settore della neurobiologia dei meccanismi di ansia, paura ed evitamento e dalle evidenze cliniche dell’efficacia terapeutica degli SSRI. Risulta chiaro che l’attacco di panico rappresenta una risposta comune a varie cause ed è abbastanza simile alle conseguenze fisiologiche e comportamentali che si osservano negli animali da esperimento in seguito a stimoli condizionati dalla paura. Queste risposte sono verosimilmente mediate da specifici circuiti cerebrali che coinvolgono primariamente l’amigdala e le sue proiezioni all’ippocampo, alla corteccia prefrontale, all’ipotalamo ed al tronco encefalico. Al centro del vissuto di ansia sono entrate di prepotenza l’amigdala e le strutture limbiche, che sappiamo essere il crocevia delle emozioni. E qui ritorna la serotonina. Il trasmettitore per eccellenza. Quindi una alterazione nel suo fluire diviene importante nel gestire le emozioni e nell’esperire in un certo modo una sensazione di ansia e di paura. Ma questo è intimamente legato poi a tutto l’apparato simbolico di cui la nostra mente si nutre, a tutto l’universo fantastico in cui è orbitante. E così la serotonina, ancora una volta, entra di diritto nella nostra psiche e ci resta. In ultima analisi vorrei citare la relazione che lega serotonina e psicosi, cioè alla patologia psichiatrica per eccellenza quella che porta il termine di Schizofrenia. La Psicosi viene definita come una sindrome in cui si ha una compromissione del giudizio di realtà caratterizzata in primis da deliri ed allucinazioni. Con particolare riferimento alla schizofrenia queste manifestazioni vengono definite come sintomi positivi (“o più recentemente come dimensione psicopatologica della distorsione di realtà”), mentre in senso lato vengono considerati come psicotici anche sintomi come ritiro sociale, appiattimento affettivo, abulia, definiti come sintomi negativi o, meglio, dimensione “impoverimento”. Nel corso degli anni è stata raccolta una grande mole di dati riguardo al coinvolgimento della 5-HT nella genesi dei sintomi delle dimensioni psicopatologiche considerate cruciali nelle Psicosi. Principalmente gli studi hanno seguito tre linee di evidenza: 1) azione psicotomimetica di molecole con meccanismo d’azione serotoninergico; 2) alterazione del metabolismo serotoninergico in pazienti psicotici (studi sul liquor, sulle piastrine e post-mortem; 3) azione di farmaci con meccanismo serotoninergico nel ridurre sintomi psicotici spontanei o indotti. Una ultima considerazione in merito a questo è rilevata al fatto che il disturbo di borderline di personalità con le sue condotte molto spesso imprevedibili e disastrose sia per l’individuo in questione che per chi gli vive accanto, riconosce un intervento di carattere farmacologico basato sugli SSRI ad altissimi dosaggi, a riprova di quanto la serotonina sia invischiata in problematiche di personalità che possono anche passare non diagnosticate in quanto apparentemente compatibili con una modalità di vita normale, ma che in realtà possono essere causa di situazioni terribili, come stiamo avendo modo di comprendere con sempre maggiore amarezza, negli ultimi tempi. Siamo allora arrivati al dunque. Una riduzione di serotonina può anche essere responsabile di taluni, a volte anche molto gravi, sintomi psicotici. Credo che a questo punto il quadro si sia definitivamente chiarito. Nel momento in cui il soggetto è in preda ad un episodio depressivo, in relazione al suo ridotto livello di serotonina circolante, egli è in balia di ansia, angoscia, panico, ossessioni, compulsioni, deliri ed allucinazioni. Non è più padrone di sé. Potrebbe attuare qualsiasi comportamento, anche quello più insensato. Quando una donna viene in un certo senso obbligata a strutturare un assetto di personalità di tipo depressivo, si convincerà irrimediabilmente di essere fondamentalmente cattiva. Si lamenta della propria avidità, egoismo, competitività, vanità, orgoglio, rabbia, invidia, lussuria. Ritiene perversi e pericolosi tutti questi normali aspetti dell’esperienza. Teme di essere intrinsecamente distruttiva. Queste angosce possono assumere un tono più o meno orale (“ho paura che la mia fame possa distruggere gli altri”), o di livello anale (“la mia opposizione e il mio sadismo sono pericolosi”) o una dimensione più edipica (“i miei desideri di competizione e di conquistarmi l’amore sono malvagi”). Le personalità depressive hanno tratto dalle loro esperienze di perdita non elaborate la convinzione che sia stato qualcosa in loro ad allontanare l’oggetto. Hanno trasformato il sentimento di essere rifiutate nella condizione inconscia di meritare quel rifiuto, di averlo provocato con le proprie mancanze, e che in futuro saranno inevitabili altri rifiuti se qualcuno arriverà a conoscerle intimamente. Tentano con tutte le forze di essere persone “buone” ma temono di essere scoperte nelle loro pecche e allontanate come persone indegne. E la reazione ad un senso di colpa che appare, in certi casi, incommensurabile, può rivelarsi, purtroppo, assolutamente imprevedibile. Inoltre, in corso di un episodio prolungato o meno di melanconia, si assiste ad una regressione della libido oggettuale, cioè dell’investimento libidico sul mondo esterno, a livelli pregenitali di tipo orale cannibalico e sadico-anale, mentre l’Io opera una intensa regressione narcisistica; entrambi i movimenti contribuiscono a costituire, nella vera posizione melanconica, l’autenticità dell’organizzazione psicotica. In questa situazione tutto corre il rischio di complicarsi viepiù sia per il soggetto presentante la fenomenologia depressiva, sia per chi gli vive accanto. Il problema però non è tanto questo. Qui non si tratta di criminalizzare un certo tipo di persona. Qui si tratta di guardare le cose a 360 gradi, nel bene e nel male. E allora la domanda cruciale che ci si pone non può che essere la seguente: è l’abbassamento del livello di serotonina il responsabile della depressione nel post-partum oppure è il post-partum un evento scatenante che produce l’abbassamento del livello di serotonina e quindi la depressione nel post-partum? La risposta probabilmente può fornircela una breve analisi su due paradigmi di depressione che ci vengono forniti uno da esperienze di laboratorio, l’altro dalla storia personale di ciascun individuo. Mi riferisco alla “depressione da separazione” ed al “lutto”. Per la depressione da separazione dobbiamo chiamare in causa per prima cosa gli esperimenti effettuati da Spitz. Questi è arrivato alla conclusione che durante il primo semestre di vita, la sicurezza dell’infante ha le sue radici nel comportamento intimo che la madre ed il figlio hanno potuto realizzare. La sicurezza acquisita in quest’epoca assicura un rapido sviluppo ponderale e psicomotorio nel secondo semestre. Ma questo non è tutto; a seconda del tipo di esperienze intime occorse nel primo e nel secondo semestre di vita, le strutture affettive di quella che sarà la personalità dell’infante nell’età adulta saranno plasmate in un modo o nell’altro. E sono le strutture affettive quelle che condizionano i nostri più radicati automatismi relazionali (Durand e Cherpllod, 1963). In altri termini il normale sviluppo affettivo e ponderale dipende dai segnali che l’infante ha ricevuto dalla madre, dalla loro costanza, dalla loro qualità e dalla loro certezza e stabilità. Essi sono dotati di enormi potenzialità maturative e securizzanti. Questi segnali della madre sono determinati dal suo atteggiamento affettivo inconscio, cioè il comportamento della madre si manifesta in forme comunicative di cui essa stessa non si rende necessariamente conto. Però il comportamento materno può presentare deviazioni qualitative e quantitative assai varie. Quali saranno le conseguenze di tali deviazioni sull’infante? Quale sarà, ad esempio, il condizionamento culturale di un infante, la cui madre lo rifiuti attivamente o passivamente? Spitz è riuscito ad identificare in alcune madri un atteggiamento di base consistente nel rifiuto globale della maternità, vale a dire della gravidanza, del bambino e finanche dell’atto sessuale che lo aveva generato. In tali casi, il neonato può non mostrare alcuna difficoltà a poppare il latte dal poppatoio, mentre rifiuta il seno materno. Infatti, quando vi viene attaccato, la madre lo tratta come un estraneo, come una cosa e non come un essere vivente; ella assume atteggiamenti di rifiuto, è rigida e tesa nel corpo, nelle mani e nel viso. È evidente che l’infante è rimasto contagiato emotivamente: la conseguenza del rifiuto materno è il rifiuto del seno materno. Ostilità genera ostilità, amore genera amore. In altre madri, Spitz riuscì ad identificare un atteggiamento basale condizionato essenzialmente dalla preoccupazione eccessiva di non essere all’altezza del loro compito, cioè di non essere capaci di soddisfare tutte le richieste e le esigenze del loro bambino. In conseguenza di un tale stato di tensione emotiva, queste madri non erano in grado di distinguere se il loro bambino aveva fame o piangeva per altra ragione. A seguito di queste comunicazioni distorte si verificano stati di tensione muscolare generalizzata sia nel lattante che nella madre. Il terzo tipo di madre deviante, secondo Spitz, è quella che nutre sentimenti di ostilità diffusa e fluttuante. Tale situazione di base induce atteggiamenti ansiosi di facciata nei confronti di tutto ciò che concerne il proprio bambino. Questo tipo di madre potè venire rintracciato in un istituto di pena dove venivano rinchiuse giovani gestanti condannate per reati diversi (delitti sessuali, omicidio, furto). Queste ragazze partorivano nell’istituto e qui allevavano i loro bambini, durante il loro primo anno di vita. All’osservazione clinica tutte si mostravano assai reticenti nel toccare i loro figlioletti e pertanto riuscivano sempre a persuadere l’una o l’altra delle loro amiche a sostituirle nel cambio dei panni se il bambino si sporcava, nel fargli il bagno, nel somministrare il latte dal poppatoio. Contemporaneamente si divulgano, nei loro discorsi in camerata, sulla fragilità e sulla vulnerabilità dei lattanti; una di loro – dice Spitz – voleva ripetere: un movimento falso potrebbe ferirlo! Non vi è chi non possa vedere che tali comportamenti sono sintomatici di ostilità repressa, confermata da numerose paraprassie in cui i bambini venivano messi in serio pericolo. Una delle 20 madri osservate da Spitz somministrò con la pappa una spilla da balia aperta; a un’altra sfuggiva di mano il suo bambino e si scusava con le astanti dicendosi “maldestra”; l’ultima, infine, stringeva talmente il bavero intorno al collo del suo bambino da renderlo cianotico. I bambini di tali madri, la cui cura fondamentalmente era quella di evitare al massimo i contatti fisici con il proprio figlio, erano tendenzialmente esposti a disordini cutanei, di tipo dermico. Nel tentativo di interpretare in chiave psicodinamica tale sintomatologia morbosa, Spitz vi attribuisce un significato comunicativo (linguaggio del corpo). Secondo lui, tali eruzioni cutanee potevano essere spiegate come un vero e proprio comportamento provocatorio nei confronti della madre che cosi era costretta a toccare più di frequente il suo bambino; oppure come un estremo rimedio di carattere autoerotico: egli in tal modo riesce a provocarsi da solo gli stimoli tattili che la madre gli rifiuta. Possiamo ora passare al quarto gruppo di madri devianti osservate da Spitz. Qui vennero collocate quelle madri instabili, che presentavano impreviste e tumultuose oscillazioni del comportamento, che andavano cioè dalla tenerezza all’ostilità manifesta: erano le madri che,con estrema disinvoltura, passavano dai baci alle botte. I loro bambini presentavano caratteristici comportamenti autoerotici: l’attività di veglia principale in questi infanti era rappresentata da un ritmico,stereotipato dondolarsi su se stessi. Seguono le madri con oscillazioni cicliche del tono dell’umore, cioè pazienti affette da psicosi maniaco-depressiva. Tali madri hanno, nei riguardi dei loro bambini, un atteggiamento costante per diversi mesi che poi, improvvisamente, vira nel suo opposto e tale permane per un periodo di tempo altrettanto lungo. I loro figli tendono a scegliere come oggetto dei loro giochi le loro stesse feci e possono finanche ingoiarsele (coprofagia). L’ultimo gruppo di madri devianti era costituito da coloro che erano riuscite a compensare i sentimenti di ostilità nei riguardi della loro prole. Per queste madri, il figlio non è oggetto di amore ma serve loro come soddisfazione esibizionistica. Poiché si rendono conto che l’atteggiamento nei riguardi del loro bambino è improprio, vengono prese da sentimenti di colpa e si difendono con comportamenti correttivi di marca conformistica: dolcezza di parata, untuosa e acida nello stesso tempo. Spitz potè stabilire che tale tipo di madre è frequente soprattutto negli ambienti intellettuali; i loro bambini erano decisamente aggressivi, preferivano evitare i rapporti interpersonali e mostravano interesse per gli oggetti inanimati, di cui erano abili manipolatori. Chi tentava di stabilire con essi un approccio, veniva respinto da atteggiamenti di difesa dettati da evidente ostilità. Secondo Spitz una relazione madre/figlio può essere definita normale quando essa soddisfa contemporaneamente sia la madre che il figlio. Nei loro rapporti quotidiani, madre e figlio vivono continuamente tensioni che suscitano continui specifici bisogni. Questi, a loro volta, debbono venire soddisfatti ricorrendo a specifiche azioni-oggetto. Il soddisfacimento contemporaneo e reciproco di tali tensioni-bisogno, che insorgono e si amplificano sommandosi nell’uno e nell’altro polo del sistema diadico madre-bambino, sta alla base di un valido, economico rapporto interpersonale. Solo un rapporto interpersonale di tal fatta è capace di fornire le cariche securizzanti e le conseguenti spinte maturative necessarie ad un armonico e progressivo sviluppo ponderale, psicomotorio ed affettivo dell’infante. Con questo criterio si possono facilmente distinguere relazioni madre/figlio dannose, sistematizzate da Spitz in due grandi categorie: a) relazioni madre/figlio inadeguate; b) relazioni madre/figlio insufficienti. Finora abbiamo sommariamente descritto i sei tipi di relazione madre/figlio inadeguate, che stanno alla base delle turbe psico-tossiche dell’infanzia. Nei quadri clinici, in precedenza descritti, la madre, infatti, finisce per agire, nei riguardi del proprio figlio, al pari di una tossina. Il secondo tipo di relazioni dannose madre/figlio è caratterizzato, più che da derivazioni qualitative, da veri e propri momenti deficitari, cioè da fattori di ordine puramente quantitativo. Qui rientrano i bambini che sono stati privati della presenza fisica della madre. Benché il bambino abbia a sua disposizione la quantità necessaria di nutrimento, igiene e calore, il tutto fornito da personale specializzato secondo orari e metodiche scientificamente valiate, egli può tuttavia andare incontro a disturbi dell’accrescimento ponderale e dello sviluppo psicomotorio fino a presentare un quadro clinico caratteristico: la depressione anaclitica fino all’ospitalismo. È come se lo si fosse privato di un elemento indispensabile alla vita. A questo bambino mancano infatti le dosi sufficienti di intimità. Spitz ha denominato questa seconda categoria di relazioni dannose madre/figlio turbe da carenza affettiva, in quanto il quadro clinico ricalca quello osservabile in casi di avitaminosi. Tali turbe vennero distinte in due tipi: a) turbe da carenza affettiva parziale; b) turbe da carenza affettiva totale. Nel corso delle sue sistematiche osservazioni cliniche, Spitz potè isolare un vasto gruppo di bambini che vennero seguiti fino al 18° mese di età; essi, dopo aver sperimentato un soddisfacente rapporto con la loro madre per almeno sei mesi, ne erano stati privati, a causa di motivi contingenti, per un periodo più o meno lungo. Dapprima il bambino si faceva piagnucoloso e tiranneggiava il sostituto materno; poi il pianto si trasformava in grida. Si manifestava calo del peso corporeo e lo sviluppo psicomotorio si arrestava. Se il periodo di separazione dalla madre si prolungava, il bambino finiva per assumere posizioni caratteristiche: preferiva la posizione prona a quella supina. Infine l’espressione del viso perdeva in vivacità fino a diventare immutabile; cessava ogni pianto e il silenzio veniva rotto da rare grida. Alla fine interveniva un vero e proprio letargo. Questo è il decorso della “depressione anaclitica”, che ha la sua causa nelle carenze affettive parziali. Essa può regredire se il bambino viene tempestivamente restituito alla madre. Qualora la carenza affettiva si prolunghi e diventi totale, si trapassa gradatamente nella sindrome clinica detta ospitalismo. Gli effetti della carenza affettiva totale vennero studiati da Spitz in un gruppo di lattanti posti in brefotrofio dopo il terzo mese di vita, previo svezzamento. Essi dunque erano stati allevati al seno delle loro madri e fino ad allora avevano presentato uno sviluppo regolare. Dopo di che vennero affidati al personale specializzato dell’istituzione che, com’è facilmente prevedibile, deve rispettare turni regolari di servizio. Cosicché, durante la giornata, essi dovevano sperimentare almeno tre figure materne, dal punto di vista dietetico, igienico ed assistenziale venivano prestate cure ineccepibili, ma poiché ogni infermiera in servizio era tenuta ad occuparsi simultaneamente di 10 bambini, essi finivano per ricevere, essi finivano per ricevere, ad ogni turno di servizio, solo la decima parte di intimità disponibile. In queste circostanze, i suddetti bambini attraversavano rapidamente tutti gli stadi clinici della depressione anaclitica, poi il ritardo psicomotorio si faceva sempre più evidente. Completamente inattivi, i bambini passavano le ore di veglia nel loro lettino indifferenti a ogni sollecitazione ambientale. A quattro anni di età, alcuni non riuscivano ancora a camminare, mentre altri non sapevano nemmeno raggiungere la stazione eretta, né controllavano gli sfinteri. Alcuni altri non parlavano, né sapevano mangiare o vestirsi da soli. L’intimità dunque è un fattore indispensabile alla crescita ed allo sviluppo armonico della persona. Abbiamo anche citato, in tema di depressione da separazione, le esperienze di laboratorio di Harlow e della sua èquipe. Questi ultimi con le loro ricerche hanno voluto studiare le scelte comportamentali cui arriva una scimmia Macaca mulatta, appena nata, nel tentativo di soddisfare le sue tensioni-bisogno quando venga posta in condizioni di carenza affettiva. Dapprima alcune scimmiette vengono separate dalla madre naturale e poste a contatto con madri artificiali dotate di certe caratteristiche somatiche essenziali (occhi, bocca, tronco, seno, ecc…). Seguono poi le esperienze con madri-modello estremamente semplificate (rulli di gomma rivestiti di tessuto spugnoso, riscaldati o raffreddati a seconda delle esigenze sperimentali). Seguono infine le esperienze di isolamento totale in cui le scimmiette restavano sole nella gabbia per sei mesi senza avere alcun contatto con esseri viventi di qualsiasi specie (deprivazione sociale). Nel primo, e forse più classico, esperimento si potè chiaramente dimostrare che la scimmietta, in assenza della madre naturale, sceglie come azione-oggetto specifica,atta al soddisfacimento delle sue tensionibisogno, un modello di madre-carezzevole. Ciò appare evidente quando si destano specifiche tensioni-bisogno,quali fame, paura,esplorazione. Infatti, se una scimmietta appena nata viene stivata in una gabbia in cui siano state preventivamente alloggiate due madri-modello, l’una fatta di filo di ferro e l’altra rivestita di tessuto morbido e spugnoso, essa si mostra subito interessata alla seconda anche se la prima ha nel suo grembo il poppatoio ripieno di latte. Le circostanze sperimentali poterono infatti dimostrare che la scimmietta, durante le sue ore di veglia, trascorreva 60 minuti attaccata alla madre di filo di ferro, mentre preferiva restare abbracciata all’altra per 15 ore al giorno, evidentemente gratificata dal contatto soffice e morbido del panno che la ricopriva. E se nella gabbia faceva la sua comparsa improvvisa un oggetto spaventevole, la scimmietta correva a chiedere conforto e sicurezza alla madre carezzevole, trascurando sistematicamente l’altra da cui pure riceveva il nutrimento necessario alla sua crescita. Inoltre solo la madre carezzevole sembrava in grado di rifornire la scimmietta delle necessarie cariche securizzanti per iniziare un comportamento esplorativo ma l’esplorazione della gabbia, come la manipolazione incuriosita degli oggetti sconosciuti e finanche la suzione del latte offerto dal surrogato di ferro erano tutti comportamenti che venivano attuati senza mai perdere il contatto fisico con il surrogato in panno; almeno una delle zampe posteriori restava attaccata al corpo della madre seconda. Il contatto fisico, quindi, è, secondo Harlow, una variabile estremamente importante nel determinismo di risposte comportamentali affettive, mentre l’allattamento in se stesso ha un’importanza del tutto trascurabile: “il valore dell’allattamento al seno tra i neonati umani sta più nel contatto fisico con il corpo della madre che nel latte in sé stesso”. In altri successivi esperimenti vennero costruiti modelli di mamme “calde” e modelli di mamme “frigide”. Le scimmie in esperimento vennero allevate per 4 settimane a contatto di un surrogato materno riscaldato: esse mostrano molto attaccamento per tale “oggetto” che pure era stato estremamente stilizzato nelle sue sembianze; in tutto il tempo di esperimento, il contatto e l’uso di esso come base per l’esplorazione della gabbia si mostrano in costante ascesa. Quando nella gabbia il surrogato riscaldato venne sostituito da uno simile ma freddo, la scimmietta si andò a raggomitolare in un angolo,ignorando manifestamente tale versione di madre-modello sia nel suo comportamento di suzione, che nel suo comportamento esplorativo che in quello di sonno. Per altre scimmiette il trattamento venne invertito: furono poste subito dopo la nascita, in una gabbia fornita di mamma fredda, cui non mostravano alcun attaccamento: tale tipo di oggetto veniva sistematicamente evitato e ignorato né la successiva esposizione a un surrogato caldo potè realizzare un’inversione di tendenza: non si verificò, nemmeno in tali circostanze, nessuna risposta affettiva. Al centro di ricerche del Wisconsin si conclude testualmente che il fatto di essere stata allevata insieme a una mamma frigida sembra abbia raffreddato in questa scimmietta ogni spinta motivazionale verso la madre in generale, anche verso di quelle capaci di offrire tepore e contatto soffice si potè quindi procedere ad un’ulteriore sofisticazione dell’esperimento: si esposero ambedue le scimmiette ad una situazione-stimolo spaventevole, presenza di surrogati materni tenuti, questa volta, a temperatura ambiente. La prima delle 2, cioè l’esemplare che potè avere i primissimi contatti post-natali con la madre calda, ripose correndo verso il surrogato e l’abbracciò in cerca di sicurezza; l’altra, che era stata allevata in presenza della madre “ frigida”, scappò via in un cantuccio della gabbia e li si rannicchiò tremebonda. L’ultimo esperimento dell’èquipe del Wisconsin’s Regional Primate Research Center consistette nel separare, subito dopo la nascita, delle scimmiette Rhesus dalla loro madre e nel tenerle in camera di isolamento per sei mesi. Qui le scimmiette venivano deprivate di ogni contatto fisico e visivo con altri esseri viventi. In questo assoluto isolamento esse svilupparono gravi deficit nel comportamento locomotorio, esplorativo e sociale. La maggior parte del loro tempo in gabbia veniva speso in comportamenti autoerotici: le scimmiette stavano per tutto il tempo della vegli, in un angolo della gabbia rannicchiate in sé stesse oppure si dondolavano aritmicamente e con fare vuoto e stereotipato. Trascorsi i sei mesi di isolamento, le scimmiette venivano inserite in un contesto interpersonale dove mostravano comportamenti sociopatici: attaccavano i neonati o i maschi dominanti, dimostrando chiaramente di direzionare la loro aggressività verso bersagli inappropriati. Del pari le femmine, sottoposte ad isolamento assoluto, si mostravano immature sessualmente: dopo essere state fecondate artificialmente, al momento del parto si mostravano indifferenti o brutali nei riguardi dei loro figlioletti. Tutti i tentativi per modificare gli effetti devastanti di un isolamento assoluto e precocissimo si sono mostrati infruttuosi, salvo uno. Condizionamenti avversativi produssero infatti lievissime modificazioni comportamentali. Del pari fallirono i tentativi di esposizione dei soggetti devianti a coetanei socialmente maturi; le scimmie normali si comportavano aggressivamente nei riguardi delle devianti e cosi facendo rinforzavano il loro repertorio di condotte sociopatiche un tenue filo di speranza si ebbe quando le scimmie isolate vennero messe a contatto con madrimodello (surrogati ricoperti di panno e riscaldati a temperature maggiorate rispetto alla temperatura ambiente): dopo qualche giorno, le scimmie sottoposte a totale e precocissimo isolamento entravano in contatto con questi surrogati materni e quando questi si facevano abbastanza frequenti comparivano comportamenti di locomozione, di esplorazione, ecc… se nella gabbia equipaggiata di madre calda e carezzevole si alloggiavano due scimmiette isolate, invece di una allora si verificavano addirittura comportamenti sociali a tipo di gioco, anche se persistevano però i disordini del comportamento. A questo punto le scimmiette isolate per sei mesi vennero messe in contatto con scimmiette normali di tre mesi si età, cioè con scimmiette più giovani di loro. Troppo immature per essere aggressive, queste scimmiette di tre mesi si comportavano proprio come delle terapiste: esse prima si avvicinavano e poi si attaccavano ai loro pazienti devianti e riuscivano a stabilire con loro rapporti lucidi anche se ad un livello rudimentale. La coppia terapista/paziente si incontrava per due ore al giorno, tre volte la settimana. Dapprima la scimmietta sottoposta ad isolamento totale per sei mesi (cioè la scimmietta-paziente) si andava a raggomitolare tremebonda e spaurita in un angolo della gabbia, ma in capo ad una settimana essa rispondeva ai contatti fisici della scimmietta-terapista; gradualmente esse integravano comportamenti comunicativi di gioco; così i disordini comportamentali delle scimmiette isolate cadevano a livelli insignificanti. Dopo sei mesi di un totale trattamento psicoterapico, cioè al momento in cui le scimmiette isolate compivano il loro primo anno di vita, esse avevano sviluppato la locomozione, il comportamento esplorativo e ludico quanto le loro terapiste. Il tipo di gioco era specifico del sesso di appartenenza: i maschi isolati preferivano azzuffarsi nella mischia mentre le femmine preferivano giochi senza contatti fisici. A questo punto, pazienti e terapiste vennero trasportate via dalle loro gabbie individuali e inserite in un branco dove vennero lasciate vivere in comunità per un anno. Le scimmiette isolate apparivano completamente guarite. All’attività ludica, esse cominciarono a preferire attività sociali più mature: la pulizia reciproca del pelo o rapporti eterosessuali. Questa si può dire sia la prova definitiva della loro totale riabilitazione affettiva: esse, in altri termini, erano capaci di adottare comportamenti genitalizzati. Dalla donna-madre dipende dunque normalità e felicità dell’umanità intera? A questa conclusione portano i dati etologici, clinici e sperimentali sull’intimità. L’altro modello di depressione che abbiamo citato all’inizio è quello legato al lutto. Un essere umano che prima di allora viveva la sua vita normalmente si trova dapprima ad esperire “angoscia e disperazione” per la constatazione della separazione, e successivamente mette in atto una “introiezione” dell’oggetto amato nell’ultimo disperato tentativo di ridargli la vita, di renderlo immortale, ma unitamente a ciò, in questo estrinsecarsi fenomenologico depressivo,egli mette in atto una violenta scarica aggressiva verso l’oggetto che lo ha abbandonato. E poiché tale oggetto è dentro di lui, nelle sue fantasie, egli rivolge tale tremenda scarica aggressiva verso se stesso, nel tentativo suicidario. Ecco allora un aspetto importante connesso alla depressione: il delirio di colpa tipico del paziente depresso, è proprio legato alla consapevolezza di questa enorme cattiveria, gratuita, che egli sente di liberare, e che nelle sue fantasie è rivolta a tutti gli oggetti che lo hanno abbandonato e poi, in ultima analisi a se stesso, nel tentativo ideale di ricongiungersi ad essi, già uccisi precedentemente nel suo mondo simbolico. Quindi la serotonina non potrà mai abbassarsi “ di sua spontanea volontà”. Si abbasserà nel momento in cui i circuiti mentali che veicolano i pensieri aumenteranno le scariche inibitorie sui centri cellulari produttori del mediatore sinaptica, e questo accade man mano che pensieri “ a contenuto negativo” si insinuano, lentamente ed inesorabilmente, nel tessuto mentale dell’individuo. Questa è sostanzialmente la predisposizione di cui si parla. Essa deriva da una esperienza primordiale alla quale il bambino è stato sottoposto, ossia quella del “rifiuto”. Poiché tutte le volte che, nel corso dei suoi primi trenta mesi ha chiesto e non solo non ha avuto risposte ma addirittura gli è persino stato impedito, vietato di chiedere, ad esempio impedendogli di piangere, egli ha imparato che è meglio non chiedere. Ma se non deve chiedere non ha neanche bisogno di riconoscere l’altro. E allora l’altro comincia a non esistere nel suo mondo fantastico. Comincia a morire. Ecco perché la gravidanza ed il parto possono essere momenti a rischio; perché posso slatentizzare quei germi piantati in epoche molto precoci. E questo perché nella esperienza della maternità c’è un richiamo a questa esperienza primordiale della madre, con il riaffiorare di tutte le spinte aggressive e violente. All’inizio di questo lavoro abbiamo visto come l’inconscio umano sia ricco di elementi bizzarri, stravaganti, assolutamente difficile da interpretare. Ma l’inconscio è soprattutto carico quasi straripante, di rabbia e disperazione. E la rabbia è un sentimento molto pericoloso, le cui conseguenze possono essere molto gravi. Il biologico si inserisce solo e soltanto in un secondo momento. Che lo vogliamo o no è questo ciò che accade, le ragioni di questa rabbia vanno ricercate lontano nel tempo, e vanno al di là persino della storia singola di ciascuno di noi. Investono i nostri antenati e giù ancora, fino all’inizio del tempo, fino al momento in cui l’uomo dagli alberi ha scelto di abitare la terra, smettendo di cibarsi di frutta per cacciare e cibarsi di carne. Ma una volta sceso sulla terra (probabilmente è questo ciò che la storia ci presenta come il “ peccato originale”) egli ha dovuto difendersi dai predatori, oltre che diventare predatore stesso. Ha dovuto imparare a predare per sopravvivere. Ed è allora che ha smesso in atto, unico tra tutti i mammiferi, una modalità di accadimento della prole che vede nell’allungamento dell’infanzia e nella “ malversazione”, ciò del maltrattamento il suo filo portante. Ciò gli ha permesso di formare gruppi saldamente aggregati e fortemente rabbiosi, in grado di conquistare il territorio, guerreggiando, ed appropriarsi delle risorse. A fronte di una azione di malversazione parentale, un bambino, in luogo di prendere congedo dal genitore, o di ammonirlo affinché receda dal malcostume relazionale, vi si “stringe con maggior forza”. E addirittura ciò che costituisce l’aspetto davvero singolare, riduce o distorce la rappresentazione mentale dell’abuso a favore dell’abusante. Accade allora che quanto più un bambino venga maltrattato tanto meno veda i maltrattamenti subiti e tanto più sia spinto ad attribuire a una causa di fantasia l’origine della sofferenza. La portata di questo fenomeno apparentemente secondario, potrebbe essere superiore di quanto non sembri a prima vista. La personalità si forma in un tempo del quale all’individuo, come abbiamo visto, non resta memoria. Lo sviluppo del cervello, avviene mediante “ sinaptogenesi”, o formazione dei circuiti nervosi. Essi, verosimilmente, rappresentano la base fisiologica delle funzioni neurologiche. Il Sistema Limbico-composto da Amigdala, Giro del Cingolo, Ipotalamo, Ippocampo, più altre strutture meno direttamente implicate- può essere considerato, ancorché in modo schematico, la sede delle principali funzioni emotive e relazionali, in quanto è funzionalmente attivo ogni volta che nell’individuo si svolge un atto emotivo o relazionale. La sinaptogenesi del sistema limbico avviene in circa trenta mesi. Quindi dopo in trenta mesi il cervello che presiede coordinazione della relazionalità, avendo concluso la sinaptogenesi, perde parallelamente la sua duttilità e rende la formazione relazionale dell’individuo completa e irreversibile. In modo adulto di pensare e conoscere, inizia il suo sviluppo intorno ai sei anni. È a quest’età che entra in funzione lo strato evolutivamente più recente del cervello, il quale, per funzionare, deve parallelamente alimentare se stesso e togliere iniziativa fisiologica agli strati che l’hanno preceduto. La sua attivazione è possibile solo mediante la contemporanea inibizione dell’attività degli strati precedenti. È per definizione impossibile che un individuo riconosca in modo diretto la sua formazione relazionale. Essa si rivolge in un tempo nel quale la percezione degli eventi è affidata ad uno strato del cervello diverso da quello in uso dai sei anni in poi. Chiunque abbia più di sei anni,non ha accesso al ricordo dei suoi primi sei anni di vita, dato che una parte del suo stesso cervello inibisce la memoria di quel tempo e un’altra la distorce sottovalutando i maltrattamenti e sopravvalutando i maltrattatori, in un processo che prende il nome di “minimizzazione dell’azione antisociale parentale”. Ogni bambino porta innato un comportamento di attaccamento che lo porta a promuovere il contatto col genitore. Possiamo, seguendo il criterio della interpretazione evolutiva, scomporre tale comportamento in un certo numero di atti e valutare la natura di ciascuno di essi. Tra le azioni riflesse del neonato, per esempio, annotiamo quattro atti: a) il riflesso di ricerca del capezzolo; b) il riflesso di suzione; c) il riflesso di afferramento; d) il riflesso di Moro, che consiste nella reazione che si attiva quando la testa del bambino cade all’indietro: egli protende in avanti le braccia congiungendole sul petto in un gesto di afferramento,. Questi 4 riflessi possono lavorare assieme solo se presenti in serie e indicano la progressione nel compito di ricerca di un genitore dal quale trarre nutrimento. Il riflesso di Moro e quello di afferramento - che consiste nello stringere la mano quando vengono stimolati il palmo e le dita del neonato – servono per aggrapparsi al corpo materno. Gli altri due, per andare alla ricerca del capezzolo e succhiarne il latte. La spiegazione funzionale rimanda al compito che il figlio deve svolgere se vuole essere unito alla madre e da lei nutrito. La spiegazione funzionale del riflesso di stringere la mano rimanda al retaggio del tempo in cui avevamo ancora la pelliccia, come le altre 192 specie di scimmie con cui condividiamo l’Ordine dei Primati. Tra le cinquemila specie di mammiferi, l’uomo è l’unico a sopportare la presenza massiccia di aggressione e distacco nelle sue relazioni interpersonali di stretto contatto. I mammiferi non trascurano i figli, non li lasciano deliberatamente reclamare il ripristino del pieno rapporto, non delegano a terzi l’accudimento precoce, non consentono ad alcuno di interporsi, neanche fisicamente, tra essi e la prole. Egualmente, nei rapporti della coppia coniugale, ove questa sussista (essendo le cure parentali dei mammiferi affidate prevalentemente alla sola madre, contrariamente a ciò che accade tra gli uccelli), i genitori non litigano, non divergono sull’interesse comune di accudire efficientemente la prole, non si separano, non formano seconde e terze coppie, parallele o sostitutive. Quando un figlio malversato da un genitore risponde l’asservimento e la minimizzazione, certamente non sta favorendo se stesso. Il soggetto beneficiato è la sequenza genica, ossia egli stesso come corpo, con alte probabilità di divenire progenitore. Ciò che ci interessa comprendere, infine, è che chi assimila nel periodo critico antisocialità parentale, si tramuta a sua volta in un genitore meno efficiente. Dal punto di vista squisitamente psicoanalitico, un excursus rapidissimo sull’uomo come essere sociale, ci conduce ad attribuire, in concomitanza con il passaggio evoluzionistico da scimmia ad uomo, al prolungato permanere dei figli in una condizione di dipendenza dai genitori, un peso determinante, in quella che potremmo definire nevrosi collettiva, ossia nevrosi dell’intera società, nelle maglie della quale verosimilmente si annida lo spettro di una crisi di identità dai risvolti assai indecifrabili. Tale prolungata dipendenza infantile e tale prolungata tutela da parte dei genitori comportano pesanti effetti sulla vita sessuale sia dei genitori sia dei figli. Per quel che riguarda i genitori, è chiaro che la sessualità degli adulti, mentre serve allo scopo socialmente utile della procreazione, in certo senso costituisce per l’individuo un fine a sé stante, in quanto fonte di un piacere che, secondo Freud, è il piacere più alto. La sessualità degli adulti, nella misura in cui è limitata da regole miranti a conservare l’istinto familiare e nella misura in cui il desiderio di soddisfazione sessuale è deviato e sfruttato al fine di conservare un’istituzione socialmente utile, è un chiaro esempio di subordinazione del principio di piacere al principio di realtà che è la rimozione; come tale è respinta dall’assenza inconscia dell’uomo e perciò conduce alla nevrosi. Il prolungamento dell’infanzia ha conseguenze ancor più lontane. Da un lato, le cure dei genitori proteggono l’infanzia dalla dura realtà; essa rappresenta quindi un periodo di privilegiata irresponsabilità e di libertà dal dominio del principio di realtà. Questo stato di cose permette ed incoraggia una precoce fioritura dei desideri fondamentali dell’essere umano, senza rimozione e sotto il segno del principio di piacere. D’altro lato, l’oggettiva dipendenza dalle cure dei genitori, soprattutto della madre, favorisce nel bambino un atteggiamento di dipendenza nei confronti della realtà ed inculca un bisogno passivo di essere amato (stato di dipendenza), bisogno che dà il tono a tutte le successive relazioni interpersonali. Questa vulnerabilità psicologica è successivamente sfruttata per ottenere la sottomissione alle autorità sociali ed al principio di realtà in genere. In tal modo il prolungamento dell’infanzia avvia in due direzioni contraddittorie i desideri dell’uomo: dal lato soggettivo, verso una totale indulgenza al piacere libero dai limiti della realtà; dal lato oggettivo, verso un’impotente dipendenza dagli altri. Le due tendenze entrano in conflitto perché le prime esperienze di libertà e di abbandono al piacere devono soccombere di fronte al principio di realtà, con una capitolazione imposta dall’autorità dei genitori sotto la minaccia di sottrarre al figlio il loro amore. E poiché il principio di piacere è costretto a cedere contro voglia e per ragioni che il bambino non capisce, in circostanze che riproducono le sue prime esperienze di dipendenza impotente (angoscia), la capitolazione può avvenire soltanto in virtù della rimozione. Per questo costituisce un trauma dal quale l’individuo non si rimetterà mai psicologicamente. Ma nell’inconscio permangono i sogni rimossi di completa indulgenza al piacere, e formano il nucleo della nevrosi universale dell’umanità e della sua inquietudine e scontentezza, il “cor irrequietum” di Sant’Agostino. Il conflitto infantile tra l’effettiva impotenza e i sogni di onnipotenza costituisce anche il tema fondamentale nella storia dell’umanità. E in entrambi i conflitti, nella storia dell’individuo come nella storia della specie, la posta in gioco è il “significato dell’amore”. E la scienza ci viene in aiuto dimostrandoci che l’ossitocina, il principale trasmettitore del Giro del Cingolo, è responsabile, se somministrata per via nasale, di un aumento delle capacità, da parte dell’essere umano come di ogni essere vivente, di socializzare. L’ossitocina quindi come la sostanza chimica della socializzazione, come quel trasmettitore legato ai meccanismi della relazione sociale. Ma essa è prodotta dalla neuroipofisi, l’unica parte della ipofisi di diretta discendenza dal sistema nervoso, durante il parto, per facilitare le contrazioni uterine. Vediamo allora come la natura ha previsto, in concomitanza con il parto, la liberazione di una parola d’ordine, di una password in grado di consolidare la socializzazione madre-bambino, la loro relazione. E se pensiamo al fatto che è parte del Sistema Nervoso, quindi molto del nostro inconscio, se non tutto, a determinare la produzione e la liberazione, possiamo ben comprendere come il “MATERNAL LOVE” ED IL “ROMANTIC LOVE”, che hanno il loro determinante biologico nella ossitocina, siano direttamente vincolati a tutto quanto abbiamo enucleato in precedenza, ossia al gioco di forze psichiche cui le nostre istanze di personalità sono poste, sin dall’inizio della loro storia. Ancora una volta biologico e psicologico si mescolano, inesorabilmente, in un’unica, indissolubile, realtà. Lascio al lettore, alla sua capacità di leggere criticamente questo excursus che ci ha visti immergerci nel’anima dell’uomo, fino agli abissi del cuore, le considerazioni finali. Forse sarebbe opportuno domandarci un po’ di più qual è il senso di quanto accade attorno a noi provando a leggere ciò che accade dentro di noi. La risposta è con ogni probabilità nel nostro DNA. Sarebbe bello imparare a leggerlo non solo in termini di basi azotate , zuccheri, aminoacidi e proteine. Contiene l’Es, non lo dobbiamo dimenticare. E nei gameti c’è un frammento dell’Es dei nostri genitori e dei loro e così via fino all’origine della storia. Jung parlava di “inconscio collettivo”. Aveva ragione. Siamo legati all’infinito. Dal suo caldo abbraccio non ce ne possiamo liberare. Lasciamocene allora cullare. Come avveniva quando eravamo nel ventre della mamma. Nel nostro paradiso. Quello dal quale il nostro inconscio non si è mai allontanato. Quello al quale, alla fine del tempo, ritornerà. BIBLIOGRAFIA Jean Bergeret: (“La personalità normale e patologica”, ed. Raffaello Cortina, 2002). Eric Berne: (“A che gioco giochiamo” ed. Bompiani, 2002). Norman O. Brown: (“La vita contro la morte – il significato psicoanalitico della storia” - ed. Adelphi, 2002). Bruce J. Cohen: (“Theory and Practice of Psychiatry” ed. Oxford University Press, 2003). G.B. 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