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Jimmy Giuffre: Western Suite di Andrea Moretti

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Jimmy Giuffre: Western Suite di Andrea Moretti
IL NUOVO CHE AVANZA
Jimmy Giuffre: Western Suite
di Andrea Moretti
presentazione di Rodolfo Dini
1
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Tesina per il corso di
Storia del Jazz
Jimmy Giuffre - Western Suite
di Andrea Moretti
Conservatorio “G.B. Pergolesi”
prof. Filiberto Palermini
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Sommario
Presentazione
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Introduzione 11
PERIODO STORICO
Cool Jazz Le orchestre
Tre pianisti West Coast 15
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JIMMY GIUFFRE
La vita
I dischi firmati Giuffre
Gli anni Atlantic
Lontano dalle scene
Periodo elettrico
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41
I suoi musicisti
Bob Brookmeyer
Jim Hall
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SUITE
Le origini ’500
La Suite ’600
La Suite ’700
La Suite ’900 e le forme estese nel jazz
53
56
59
62
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WESTERN SUITE
Western Suite
Pony Express
Tema Assoli
Canone
Tema finale
Apaches
Tema Canone Special
Saturday Night Dance Tema Assoli Canone Big Pow Wow Tema
Assoli Topsy e Blue Monk
69
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78
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CONCLUSIONI 109
6
Presentazione
di
Rodolfo Dini
Con questo ciclo abbiamo pensato di introdurre, nel nostro piccolo, una novità che spero prosegua anche se non sarà promossa
dall’Audioteca: valorizzare, nelle forme più diverse le competenze
che maturano nel Conservatorio a partire, appunto, dalla presentazione della tesi, della sintesi di un percorso di studi, discutendone
i contenuti, sia pure in una dimensione molto sintetica e raccolta.
In questi giorni ho iniziato a leggere un’ormai celebre intervista
a Luciano Gallino sull'impresa responsabile di Adriano Olivetta.
Quando gli domandano come aveva fatto l'ingegnere a costruire
un’azienda tra le più avanzate del mondo e che produceva benessere,
sicurezza e bellezza per chi vi lavorava, Gallino risponde: “Vi era
riuscito applicando a vasto raggio il suo solito metodo di ricerca e
sollecitazione dei talenti. Selezionando giovani promettenti, mobilitandone le doti cretive con l'offerta della più completa libertà
di ricerca e possibilità illimitate di crescita professionale”.
Anche per questa ragione ho pensato di lavorare alla pubblicazione di questi lavori a partire dall’eBook così da far circolare sul
web questi interessanti testi. Nel caso specifico, l’idea ha preso
corpo innanzitutto perché i laureati, nella loro ricerca, hanno trovato
materiali vari e informazioni utili nell'antro qui accanto, dove ho
messo a disposizione il mio patrimonio documentario.
L'occasione si è dimostrata particolarmente stimolante per il
fascino dei temi e dei personaggi affrontati: tre grandi della storia
7
Jimmy Giuffre - The Western Suite
del jazz, tre figure che nonostante la loro originale creatività, anzi
proprio per la loro singolarità vivono ancora in una sorte di cono
d'ombra, troppo appartato, troppo lontano dalle mode. E proprio
per questo meritano di essere valorizzati, conosciuti, apprezzati.
Andrea Moretti – uno dei protagonisti del nuovo che avanza – si
è cimentato con la Western Suite di Jimmy Giuffre forse, o senza
forse, il suo massimo capolavoro.
Un famoso critico francese, Philippe Carles, ha fatto (molti
anni fa) uno spiritoso gioco di parole sul nome del nostro polistrumentista, definendolo Jimmy Jone Free, collocandolo in un
certo qual modo nella post-modernità del jazz. Eppure Jimmy ha
suonato e collaborato più volte, all’inizio della sua carriera come
negli anni della maturità con protagonisti di altre epoche storiche,
di precedenti generazioni, come ad esempio il clarinettista Pee Wee
Russull. In realtà per quarant’anni, alternando periodi di intensa
creatività e lunghi isolamenti, il geniale solista, polistrumentista,
compositore ha realizzato una colta e raffinata sintesi fra tutte le
influenze che ruotano intorno al jazz. Insomma, Giuffre va oltre
le categorie, dimostrando da un lato un’ansia insopprimibile di
rinnovamento cambiando spesso direzione, collaborazioni, formazioni, prendendo come riferimento anche la musica classica o
le tradizioni folkloriche, e al tempo stesso un legame forte, una
continuità con il passato. Ed anche nella Western Suite, Giuffre
mescola di tutto e di più.
Quello che vi colpirà, è l’opera impegnativa che Andrea Moretti
ha svolto, a partire dalla ttrascrizione dei passaggi più significativi
dell’opera che, tra l’altro, sono serviti per gli arrangiamenti dei
brani che il trio (Michele Chirichella, Claudio Marcantoni e Andrea
Moretti) ha eseguito nel concerto conclusivo. E poi, dall’analisi di
vari aspetti formali e lessicali a partire proprio dal termine Suite,
che ci riporta al Cinquecento e che nel jazz acquista significati
diversi tipo concept album, opera a tema, etc. Buona lettura.
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WESTERN SUITE
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Introduzioone
Argomento della tesi e l’analisi del disco Western Suite ad opera di
Jimmy Giuffre, Bob Brookmeyer e Jim Hall del 1958 per la casa
discografica Atlantic.
L'interesse per questo disco risiede nella particolarità della sua
forma, nel delicato intreccio che l'autore ha cercato di instaurare
tra la scrittura e improvvisazione e nella composizione della band,
formata da due fiati e una chitarra; una formazione molto particolare per quegli anni, dove vediamo la totale assenza di sezione
ritmica.
Obiettivo della tesi sara_ quello di focalizzare storicamente il
disco e di andare ad analizzare il risultato compositivo di Jimmy
Giuffre.
Nel primo capitolo ho cercato di mettere a fuoco il periodo
storico, cercando di descrivere la situazione in quell'arco di tempo, chiamato successivamente cool jazz, che si concretizza tra
la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta. Sicuramente
limitante cercare di racchiudere tra due date un periodo storico che
sicuramente ha avuto un seguito, ma se è stato fatto, il perché è da
ricercare solamente per una questione pratica ed evitare lungaggini
superflue. Sempre nel primo capitolo sono andato a ritroso negli
anni cercando di andare a trovare più o meno le origini, o meglio
i precursori di questo movimento, per poi terminare la ricerca sto11
Jimmy Giuffre - The Western Suite
rica nel paragrafo dedicato alla costa ovest, luogo da dove nasce
la carriera musicale di Jimmy Giuffre e i suoi musicisti.
Nel secondo capitolo ho descritto la vita di Jimmy Giuffre attraverso le fasi importanti della vita di un musicista, passando dal
momento in cui comincia ad incidere i dischi, importante momento
per un musicista e leader, per poi restringere il campo all'etichetta
Atlantic, casa discografica che gli produrrà il disco in esame, per
finire con la descrizione dell'ultimo periodo dove lo si vede lontano
dalle scene per poi riprendere la breve fase elettrica, negli anni
ottanta, che sfocerà nel definitivo allontanamento dalle scene.
Nel terzo capitolo una breve descrizione della vita dei collaboratori di Jimmy Giuffre. La vita di Bob Brookmeyer e quella
di Jim Hall.
Nel quarto capitolo ho affrontato la ricerca storica della suite,
in quanto forma dominante del disco. Partendo dalle origini nel
'500, attraverso il '600 e '700, per concludere la ricerca con la suite
nel '900 e le forme estese nel jazz.
Nel quinto ed ultimo capitolo ho analizzato il disco, ed uno ad
uno i quattro movimenti. Per ognuno, il lavoro iniziale è stato quello
del riconoscimento delle parti scritte e di quelle improvvisate. Poi
ho cercato di trascrivere (cercato, per il semplice motivo che non
essendoci a volte un esplicito tactus, ed il continuo rallentando e
accelerando, mi hanno messo in difficoltà nel riconoscimento della
battuta) le varie sezioni che compongono il movimento.
Ho trascritto per ogni brano le parti di sax (o clarinetto), trombone e chitarra che secondo me risultavano importanti per la comprensione del brano. Ed infine ho analizzato l'aspetto armonico,
melodico e l'arrangiamento.
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PERIODO STORICO
Cool Jazz
Gli atteggiamenti - non solo musicali - e le dichiarazioni dei bopper, crearono una frattura generazionale con molti dei musicisti
che li avevano preceduti (uno dei più noti critici dei bopper fu
Louis Armstrong). Molte orchestre, anche le più famose dovettero
sciogliersi a causa dei mutamenti che il mercato stava subendo.
La frattura si estese al grande pubblico che proprio in questo periodo abbandonò il jazz per rivolgersi ad altri generi: il jazz, dopo
aver dominato le classifiche per decenni, divenne quasi di colpo
una musica d'arte, che cercava il suo pubblico tra gli artisti e gli
intellettuali. Il nuovo stile fu, come sempre nella storia del jazz,
una rottura con l'esperienza musicale precedente ma anche un suo
proseguimento. All’impeto sovversivo del bebop seguì così una
ricerca di razionalità, compostezza, di equilibrio.
Il cool jazz, la risposta “bianca” all’arduo stile bebop, generalmente tradotto come jazz fresco calmo rilassato, in senso riduttivo
freddo, anche se raramente si tiene conto del fatto che il termine
cool può tradursi come figo, giusto, è una corrente del jazz, a cavallo tra il 1948 e il 1955, nata dopo la seconda guerra mondiale a
New York City, che non maturò dopo il bebop ma ne fu piuttosto
una variante espressiva dallo sviluppo parallelo.
Una delle caratteristiche peculiari di questo nuovo stile era
l'utilizzo di stilemi ed elementi tratti dalla musica europea “colta”
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Perido storico
(complessi intrecci polifonici, armonia ricercata, sonorità raffinate,
strutturazione delle composizioni elaborata) trasposti in concetti
jazzistici.
I primissimi esempi di cool jazz, li possiamo trovare nell'orchestra
di Claude Thornhill, pianista, arrangiatore e direttore d'orchestra
che si avvaleva spesso degli arrangiamenti di Gil Evans. L'orchestra aveva un suono nuovo per un gruppo jazz, comprendendo
in organico anche strumenti poco usuali, come il flauto, il corno
francese, la tuba.
E non a caso, la data di nascita convenzionale del movimento
viene di solito fissata nel 1949, con la registrazione dell'album “Birth
of the Cool” ad opera di un nonetto capeggiato dal trombettista
Miles Davis e condotto dal sopra citato, arrangiatore Gil Evans.
Il complesso si era formato spontaneamente, per libera scelta dei
suoi componenti: coloro che ne facevano parte erano legati da reciproca stima, e da gusti affini. Quest'ultimi si ritrovavano molto
spesso a discutere di musica e a ascoltare dischi nell'abitazione
di Gil Evans, sulla 55a Strada di New York, dove constatarono
di condividere le opinioni dell'arrangiatore canadese, che voleva
fare qualcosa di nuovo a livello musicale, riallacciandosi alla esperienza che fece con l'orchestra di Claude Thornhill, per il quale
aveva scritto partiture per vari anni e che aveva lasciato da poco,
dove poté constatare l'interessante impasto sonoro, caratterizzato
dall'uso dei corni francesi (a cui fu aggiunto successivamente un
basso tuba) che condizionavano, per la loro limitata estensione,
il modo d'impiego degli altri strumenti. Ora a quelle sonorità,
ferme, smorzate, ipnotiche, mancavano soltanto di un movimento
melodico armonico e ritmico, cosa che musicisti di jazz potevano
dare (Arrigo Polillo, Jazz, 1975, 219).
Le sedute di registrazione, avvennero, tra la primavera del
1949 e l'inizio del 1950, negli studi della Capitol, furono eseguiti
da tre formazioni leggermente differenti, ad opera di un gruppo di
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Cool Jazz
musicisti tra i quali spiccavano anche i trombonisti Jay Jay Johnson
e Kai Winding, i sassofonisti che avevano fatto parte dell'orchestra
di Claude Thornhill, Lee Konitz (alto) e Gerry Mulligan (baritono),
il quale scrisse anche qualche arrangiamento, i solisti di corno francese Junior Collins e Gunther Schuller (compositore, protagonista
della scena classica e jazz, e autorevole scrittore di volumi sulla
storia del jazz), il solista di tuba John Barber, i pianisti Al Haig e
John Lewis (il futuro leader dei Modern Jazz Quartet), e i batteristi
Kenny Clarke e Max Roach, il cui apporto al cool si limitò solo
a questa occasione. Da questa prima sessione vennero pubblicati
subito otto brani su di un 78 giri, mentre gli altri apparvero in una
ristampa dell'album, avvenuta nel 1954. Ma solo nel 1957 tutti i
brani vennero raccolti in un LP al quale diedero il nome di Birth
Of The Cool (Stefano Zenni, Storia del Jazz, 2012, 319).
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Le Orchestre
Ma non è raro trovare qualche altro esempio precedente al 1949,
grazie anche all'orchestra di Woody Herman. L'orchestra di Herman passò dal suonare i blues e il dixieland all'avvicinarsi poi,
negli anni Quaranta, a linguaggi vicini a quello di Duke Ellington. E qui grazie anche all'arrangiatore Joe Bishop, suonatore di
flicorno, usufruivano di sonorità inconsuete per l'epoca. Sonorità
più morbide, che lo portarono grazie anche all'apporto di solisti di
spessore al successo. Così, Igor Stravinskij, scrisse per Herman il
suo Ebony Concerto, che fu poi inciso ed eseguito in pubblico alla
Carnegie Hall, dove era stata presentata una formazione che, oltre
ai tradizionali strumenti jazzistici, usufruiva anche dell'apporto e
delle sonorità di corni francesi e arpa, ottenendo così impasti sonori
tali da creare particolari dolcezze esecutive sia dell'orchestra sia
da i solisti. La musica doveva contrapporsi alla rabbia dei bopper
presentandosi accattivante con degli show, cosa che il pubblico
pagante di quel periodo cercava. E proprio la registrazione Four
Brothers, brano scritto da Jimmy Giuffre ed eseguito da Woody
Herman, effettuata nel gennaio del 1948, comparve per la prima
volta nelle classifiche. La California, Hollywood, Long Beach,
Santa Monica, erano i luoghi dove vi era un particolare momento
di privilegio, dove circolavano ingenti masse di denaro. Qui i locali
come il Down Beat, il Tiffany, offrivano ospitalità a musicisti jazz,
i quali però avevano l'obbligo di offrire al ricco pubblico pagante
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Le Orchestre
non certo musica aggressiva,. Si aspettavano esecuzioni piacevoli,
gradevoli, orchestrazioni morbide, aeree.
Un insostituibile contributo lo fornirono quattro sassofonisti,
tre tenori ed un baritono, militanti nelle formazioni di Herman,
creatori di un sound molto particolare che li aveva fatti battezzare
Four Brothers. I quattro componenti erano Stan Getz, Zoot Sims,
Herbie Steward e Serge Charloff (che sostituì Jimmy Giuffre), elaborarono un linguaggio musicale di chiara collocazione jazzistica,
basato però su stilemi estremamente raffinati, tanto da far definire
la loro musica non “hot” ma “cool” calma, rilassata, praticamente
quasi del tutto scritta, e rifinita nei minimi particolari, facendo
molta attenzione all'aspetto tecnico ed estetico.
Non solo Herman, e i musicisti militanti nelle sue formazioni,
diedero voce al nuovo jazz, ma ci furono anche altre orchestre
che in breve tempo ottennero un certo successo di pubblico e di
critica. Un altro esempio di grande spicco, è indubbiamente quello
del pianista Stan Kenton, nato e vissuto in California. Egli andò
sempre alla ricerca, con le tante orchestre da lui guidate sin dal
1941, più della perfezione formale dell'esecuzione che non del
contenuto. Nelle orchestre Kentonianane, infatti ebbero sempre
un importanza determinante le “sezioni” più che i singoli (anche
se Kenton si avvalse di musicisti come il bassista Eddie Safranky,
che nel 1950 fece parte dell'orchestra sinfonica diretta da Arturo
Toscanini).
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I tre pianisti
Chi contò davvero in quegli anni, furono anche tre pianisti, non
solo per la loro indubbia qualità solistica, ma anche e sopratutto
concezione musicale. Il primo, fu uno dei grossi cervelli del jazz,
Joseph Leonard Tristano, secondo dei quattro figli di immigrati di
origine italiana stabilitisi a Chicago, dove Lennie nacque il 19 marzo
1919; poiché sin dall'infanzia affetto da problemi alla vista, che col
tempo andarono sempre più aggravandosi sino a portarlo alla cecità,
fu affidato ad un istituto specializzato, il quale lo inviò, scoperta la
sua propensione alla musica, all' American Conservatory of Music,
dove in tre anni ottenne il diploma. Quando Tristano cominciò a
far parlare di sé faceva una musica strettamente imparentata con il
bebop, ma più cerebrale. Nel suo jazz si sentivano le forti influenze
di Bach, i movimenti fugati, il calligrafico contrappunto, il rigore
compositivo, le sonorità lievi degli strumenti a fiato, che più avanti
furono inseriti nel suo complesso, e che in omaggio alla nuova
estetica non facevano uso del vibrato, tutto ciò conferiva alla sua
musica un'eleganza settecentesca.
Il suo vero manifesto, furono quattro brani registrati, nel 1949
per la Capitol Record, con i due sassofonisti Lee Konitz (alto) e
Warne Marsh (tenore), il chitarrista Billy Bauer e il bassista Arnold
Fiskin. I quattro brani si intitolano Subconscious Lee, Marionette,
Sax of a Kind, Intuition, e furono realizzati su linee atonali, che
non scordavano il contrappunto, e l'improvvisazione solistica, ri20
I tre pianisti
scoprendo la polifonia spontanea. E Intuition, pose anche le basi
per quei concetti musicali, che qualche anno più tardi, sfociarono
nel free.
Analoghi a quelli di Tristano furono gli esperimenti che, nello
stesso periodo, venivano condotti da Dave Warren Brubeck. Di
condizioni sociali più borghesi rispetto a quelle di Tristano, nato in
California, aveva goduto degli insegnamenti della madre, pianista
classica, che lo mise al pianoforte a soli quattro anni, facendolo
poi passare a nove allo studio del violoncello; a tredici anni Dave,
già suonava in complessini di Dixieland o swing, a venti era già
leader di una band di dodici elementi nel College of Pacific. Ma la
sua formazione, quella che poi delineò il suo modo di fare musica,
avvenne tramite gli insegnamenti di Darius Milhaud al conservatorio di Oakland, e successivamente grazie le preziose indicazioni
di Arnold Schoenberg.
Il primo complesso costituito da Brubeck, nel 1946, fu un ottetto,
che ebbe poco successo a causa delle complicate partiture con cui si
cimentava, basate su fughe, contrappunti, e sconfinamenti nei territori della politonalità e dei poliritmi, allora praticamente inesplorati.
Così Dave sostituì la formazione con un trio, che invece si fece
apprezzare per gli elaborati arrangiamenti. Fra quelle registrazioni
spicca sicuramente la politonale Fugue on Bop Theme.
Di notevolissimo successo, fu anche, e sicuramente John Aaron
Lewis.
Nato in una famiglia borghese, iniziò a studiare musica classica
e pianoforte all'età di sette anni. Anche se cresciuto con la musica
classica poté avvicinarsi alla musica jazz, grazie alla zia che amava
ballare questa musica.
Laureatosi in Antropologia all'università del Nuovo Messico,
studiando contemporaneamente musica fino alla chiamata alle
armi Conobbe Dizzy Gillespie, che gli propose di scrivere degli
arrangiamenti (da cui nacque l'emblematica Two bass hit) fino
21
Periodo storico
a prendere il posto di Thelonious Monk come pianista nella sua
orchestra.
Assieme a Kenny Clarke e Gillespie girò tutti gli Stati Uniti
d'America e mezza Europa, approfondendo contemporaneamente
lo studio del pianoforte classico, con i grandi compositori quali
Chopin, Bach, Beethoven, l'esperienza di arrangiatore e quella di
compositore. Fondatore, insieme al vibrafonista Milt Jackson, il
contrabbassista Percy Health e il contrabbassista Connie Kay, dei
Modern jazz Quartet, gruppo che seppe ottenere grande rispetto
da parte del pubblico grazie ad un comportamento da “concerti
classici”.
La scrittura della fuga, i richiami alla musica classica, lo smorzato rigore stilistico, la delicatezza del tocco di Milt Jackson,
un appropriato contrappunto del contrabbasso, e infine i delicati
accompagnamenti ritmici del batterista, consentirono ai quattro di
proporre, così come fece Ellington al Cotton Club con il suo Jungle
Style, a impresari e pubblico pagante, ciò che volevano.
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West Coast
Un ulteriore contributo allo sviluppo del cool jazz, lo diede quella
che venne chiamata la scuola West Coast.
In poche parole, il capitolo California è diventato sinonimo di
"West Coast Jazz," intendendo con questo termine il jazz moderno
suonato nella regione dai gruppi bianchi degli anni cinquanta: i
suoi caratteri peculiari privilegiavano la dimensione melodica, la
compostezza espressiva, gli impasti timbrici levigati (con abbondare
di flauti, oboe, violoncelli, eccetera) e le raffinatezze armoniche. È
indispensabile ricordare che la comunità afro-americana in California non era così esigua e dispersa sul territorio come spesso si
crede. Dal 1900 la sua crescita demografica si era raddoppiata ogni
vent'anni e negli anni quaranta la scena musicale che si svolgeva nei
locali della Central Avenue di Los Angeles raggiunse il massimo
fulgore. Quell'arteria rappresentava il cuore dello spettacolo afroamericano: dal 1920 oltre il quaranta per cento della popolazione
nera viveva nei palazzi circostanti, nel tragitto tra l'undicesima e la
quarantaduesima strada. La via era un concentrato di locali notturni,
ristoranti, cinema, sale da ballo e teatri. Il jazz coesisteva accanto
al blues, al vaudeville e ad altre forme di spettacolo.
Alcuni maestri di New Orleans avevano raggiunto Los Angeles
e S. Francisco già nel 1908 e molti altri si aggiunsero dopo la chiusura dei locali di Storyville: Freddie Keppard e Bunk Johnson vi
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Periodo storico
avevano fatto tappa mentre Jelly Roll Morton e Kid Ory vi avevano
soggiornato per qualche anno. Quest'ultimo incise a Los Angeles
nel giugno 1921 uno dei primi dischi realizzati da un jazzista nero
di New Orleans (sotto il nome di Spike's Seven Pods of Pepper)
e nello stesso anno la Creole Jazz Band di King Oliver compì un
lungo tour.
Tuttavia, la California non fu solo un posto di passaggio per il
jazz delle origini e vanno ricordate le band di artisti ormai residenti
come Papa Mutt Carey, Sonny Clay, Curtis Mosby, Les Hite e Paul
Howard. I Quality Serenaders guidati da quest'ultimo erano i più
famosi e annoveravano i giovani Lawrence Brown, che poco dopo
suonò con Ellington, e Lionel Hampton.
L'avvento del cinema sonoro nel 1927 e il fiorire di Hollywood,
l'esplosione della Swing Craze nel 1935 (che ricordiamo iniziò
proprio a Los Angeles. col concerto di Benny Goodman al Palomar
Ballroom) ma soprattutto l'attacco giapponese a Pearl Harbour,
che nel dicembre 1941 fece della California il retrovia della guerra
in Pacifico, accrebbero la generale richiesta di musica, portando
prosperità ai locali della Costa Occidentale.
Il nucleo dei musicisti afro-americani era intanto cresciuto in
termini qualitativi e quantitativi. Nei locali della Central Avenue si
esibivano i massimi protagonisti del jazz e nei primi anni quaranta
vi si potevano ascoltare abitualmente Art Tatum, Billie Holiday,
Benny Carter, Sy Oliver, Don Redman, Duke Ellington, Lester
Young, il giovane Nat Cole e altri protagonisti.
È ancora importante ricordare che negli anni quaranta Los Angeles era già un florido centro per il blues e il gospel e continuerà
ad esserlo nei decenni successivi. Con l'espandersi del mercato
discografico e la nascita delle etichette indipendenti la musica profana e quella religiosa trovarono a Los Angeles. un florido terreno
commerciale. Furono due musicisti afroamericani, i fratelli Renè,
i primi a fondare una casa discografica indipendente, l'Exclusive
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West Cost
Records. A questa se ne aggiunsero altre gestite da ebrei come la
Specialty o l'Aladdin (All About Jazz, Black California)
In California, si riunivano al Lighthouse il locale di Hermosa
Beach, gestito da un ex musicista di Stan Kenton, il bassista Howard
Rumsey, che poi venne riutilizzato da un impresario locale, Gene
Norman, il più attivo, nel campo jazzistico, nell'area di Los Angeles,
per una serie di sedute di incisioni basate fondamentalmente su
ex kentoniani, come il trombettista Shorty Rogers, il clarinettista
Jimmy Giuffre, il sassofonista Art Pepper.
La Capitol prima e la Victor poi, prima che una nuova casa
discografica, la Pacific, sorgesse per fissare su vinile il jazz, che
la costa ovest sfornava, aprirono le loro sale di registrazione ai
musicisti, i quali, pur dimostrando non poco interesse per il cool e
per le sue raffinate atmosfere, dimostrarono di non voler distaccarsi
da quello che era il passato, e nel caso specifico si rifecero molto
al jazz swingante delle orchestre bianche.
L'ondata californiana prima di diffondersi in tutti gli Stati
Uniti e per il mondo, operò un fortissimo richiamo sui musicisti
americani: da New York arrivò ben presto Gerry Mulligan che
con il suo non convenzionale sax baritono, trovò un particolare
affiatamento con il trombettista Chet Baker, tanto da dar vita ad
uno stile che aveva in sé, come tratti distintivi, una forte musicalità, nitide linee melodiche, un puntualissimo gioco di assieme, un
delizioso contrappunto, che ancora oggi può essere preso in esame
per valutare le caratteristiche del West Coast Jazz. Un jazz che
conteneva in sé la forte componente ritmica swingante. A fianco
della raffinatezza, questa musica riusciva anche ad essere godibile,
e per questo piacque subito al pubblico, e ai musicisti attivi a Los
Angeles, che cercarono sin da subito di sfruttare su larga scala, le
trovate del sassofonista. Così grazie a Mulligan, ritornò in molti la
fiducia del linguaggio jazzistico, che poteva essere utilizzato per
dar vita ad una musica “consumabile” e “rispettabile”. In quegli
25
Periodo storico
ani spicca anche la figura di un ambizioso Jimmy Giuffre. Egli
scriveva impegnative partiture per chiunque le richiedesse e tentava nuove strade anche come strumentista, dedicandosi, in quanto
polistrumentista, soprattutto al clarinetto. Giuffre diede una prima
dimostrazione di certe rivoluzionarie teorie che andava maturando,
quando poté incidere per la Capitol, il disco Tangents in Jazz, dove
volle dimostrare che il jazz non aveva bisogno di una pulsazione
esplicita, ritenendo al contrario che la pulsazione ritmica scandita
da basso e batteria costituisse un maggiore impedimento per la
libera improvvisazione e per l'apprezzamento della voce solista.
Tanto che qualche mese dopo nell' Lp registrato per la Atlantic,
The Jimmy Giuffre Clarinet, il messaggio apparve più chiaro e
provocatorio, dove nel brano So Low, Giuffre suona il suo clarinetto
tutto solo accompagnandosi soltanto col battito del piede. Prima di
lui lo avevano fatto solamente i pianisti e Coleman Hawkins, con
l'incisione nel 1939 del suo famoso sax solo, Body and Soul.
26
JIMMY GIUFFRE
La vita
Nato a Dallas il 26 aprile del 1921 da una famiglia originaria di
Termini Imerese, nel palermitano, James Peter Giuffre, inizia lo
studio del clarinetto (destinato a rimanere il suo strumento base)
a nove anni, affiancandovi a partire dai quattordici anni anche lo
studio del sassofono tenore. Più del jazz, cui si è avvicinato gradualmente, grazie ad esperienze di ascolto adolescenziali, fu la
musica colta ad attrarlo inizialmente.
Diplomatosi a ventuno anni presso il North Texas State College,
prosegue gli studi accademici ancora per una decina d'anni sotto la
guida di Wesley La Violette (importante figura, di area classica, del
west coast jazz negli anni cinquanta, nonché educatore e mentore
anche di personaggi quali Shorty Rogers e Bob Carter).
Una volta arruolatosi in aviazione, milita fra il 1944 e il 1945
nell'orchestra delle Forze Armate, passando dopo il congedo nella
Dallas Symphony.
L'interesse per il jazz, in ogni caso, era tutt'altro che sopito. Nel
1946 Giuffre è per qualche tempo al fianco del bandleader Boyd
Raeburn, un bianco che, al pari di Claude Thornhill, Stan Kenton
e Woody Herman, sia pure su piani diversi, tentava di coniugare la
vecchia tradizione orchestrale di matrice swing, da un lato con il
linguaggio bebop, dall'altro con la musica eurocolta. Una centralità in precedenza sconosciuta assunse in questi contesti la figura
29
Jimmy Giuffre
dell'arrangiatore, che per Giuffre ebbe un particolare significato
nella sua attività futura. Così dopo sei mesi passati al fianco di Jimmy Dorsey ottenne nel 1947 il suo primo grande riconoscimento.
Entra nell'ottetto del trombettista Tommy De Carlo attivo al club di
Pete Pontrelli, nel quartiere spagnolo di Los Angeles. Qui Giuffre
è l'autore della maggior parte degli arrangiamenti insieme a Gene
Roland, un altro polistrumentista e compositore che fin dall'anno
precedente realizzava innovativi esperimenti con quattro sassofoni
tenori. Con De Carlo questi strumenti sono suonati da Stan Getz,
Zoot Sims, Herbie Steward, e appunto Jimmy Giuffre. E' al Pontrelli
dunque che nasce ufficialmente il futuro Four Brothers Sound. Il
caso vuole che durante la scrittura al Pontrelli capiti Ralph Burns,
ambizioso pianista di Woody Herman. Burns fiutò subito l'occasione, e visto che Herman stava reclutando gli uomini destinati
a confluire nel suo “secondo gregge”, gli consigliò l'ingaggio in
blocco dei “quattro fratelli”.
L'operazione, in realtà, riuscì, per tre quarti: proprio Giuffre
preferì, almeno inizialmente, una semplice collaborazione in
qualità di arrangiatore (in sezione venne sostituito da sax baritono
di Serge Charloff). Per la rinnovata band Hermaniana comunque
Jimmy compose attorno al maggio del 1947 quella che resta a
tutt'oggi il suo brano più noto e celebrato, Four Brothers, la cui
prima versione ufficiale viene fissata su disco il 27 dicembre del
1947, dopo qualcosa come 18 provini. Come era stato per Caldonia,
brano del “primo gregge”, il brano diviene il simbolo della nuova
formazione. L'inizio del 1948 trova Giuffre sempre più attivo sul
versante dell'arrangiamento; milita nella big band di Buddy Riche
fa sporadiche apparizioni in altri contesti.
All'inizio dell'anno risale anche la sua prima versione su disco
di Four Brothers, nel caso specifico orchestrato per un solo sax
tenore, sax contralto, tromba e trombone, nell'interpretazione del
sestetto del contrabbassista Harry Babasin. Al tenore è ovviamente
30
La vita
Jimmy Giuffre stesso, che all'epoca, e ancora per un quinquennio,
sembra voler separare nettamente i suoi interessi accademici sul
clarinetto da quelli jazzistici, per i quali sceglie il sassofono. Il suo
intervento nel brano evidenzia un sonorità opacizzata, diafana,
unita ad un fraseggio sciolto e lineare che richiama chiaramente
le lezioni di Young e Parker.
Nel gennaio del 1949 Giuffre sostituisce nella band hermaniana
Zoot Sims che a sua volta prende il posto al fianco di Buddy Rich.
L'esperienza non va oltre il novembre successivo quando Herman
è costretto a sciogliere nuovamente l'organico. L'orchestra dei
Four Brothers si ritaglia comunque un posto tra i protagonisti del
particolare clima espressivo, allora dominante. I gruppi di Lennie
Tristano, Miles Davis e Gil Evans completano con il “gregge”
hermaniano un ideale trittico di proposte nelle quali la composizione assume un nuovo valore e l'improvvisazione si incastona in
un tutt'uno perfettamente equilibrato. Il solista è ora sostenuto da
contrappunti e commenti dei compagni, non impone più bruschi
sbalzi climatici al clima generale ma quasi ci si adagia sopra. I tempi
lenti sembrano come sospendersi mentre quelli mossi diventano
più ariosi. Gli uni e gli altri perdono la nervosa frammentarietà
e il lirismo scomposto tipici del bebop. Le responsabilità di tale
mutamento di visioni possono essere attribuite, in maniera preponderante, allo stesso Giuffre.
31
I dischi firmati Giuffre
Le esperienze maturate sul finire degli anni quaranta trovarono
naturale sbocco nella prima metà del decennio seguente. I due
compagni di studio Shorty Rogers e Shelly Manne sono in questi
anni gli artisti più vicini a Giuffre che si preparava a spiccare il volo
solitario (risalgono al giugno del 1952 le prime due matrici realizzate
come leader). E' ancora Los Angeles (dove Jimmy rientra una volta
conclusa la parentesi con Herman) il crocevia dei nuovi fermenti.
Qui nasce e si afferma il già più volte citato stile “West Coast”
destinato, nelle sue forme più commerciabili, a far riguadagnare al
jazz nuovi consensi popolari. Il centro delle operazioni era il Lighthouse, un locale sorto ad Hermosa Beach, a sud di Los Angeles,
dove nel biennio 1951-52 si riunisce un gruppetto di musicisti che
fa capo al contrabbassista Howard Rumsey, un ex kentoniano, che
raccoglieva tutta la nuova generazione californiana. Ai tre allievi
di La Violette si uniscono fra gli altri il flautista-sassofonista Bud
Shank, il cornista John Graas, ed in seguito l'alto sassofonista Art
Pepper ed il pianista (nero) Hampton Hawes.
Il nuovo ensemble, che riprendeva in qualche misura le architetture della band di Davis e Evans, restò unito fino al 1955 effettuando
numerose incisioni che, seppur di livello altalenante, ci tramandano
l'immagine di un gruppo aperto e innovativo, composto da artisti
destinati a carriere anche molto luminose.
32
I dischi firmati Juffre
Fra le singole elaborazioni e abbozzi di percorso fu proprio
quella di Giuffre a risultare come la più solida e originale. Tra il
febbraio del 1954 e il maggio del 1955 la Capitol gli offre finalmente la chance di incidere materiale per due album a suo nome.
Per le prime tre matrici, fissate a Los Angeles il 19 febbraio del
1954, Giuffre raduna attorno a sé Jack Sheldon alla tromba, Russ
Freeman al pianoforte e Shelly Manne alla batteria. Altri quattro
temi, fra i quali una nuova versione di Four Brothers, vennero incisi
il 15 aprile in sestetto con Sheldon, Manne, Shorty Rogers, e Bud
Shank, mentre il materiale per il primo dei due dischi registrati per
la Capitol, “Jimmy Giuffre” venne poi completato il 31 gennaio del
1955 da altri tre brani in quartetto ancora con Sheldon, Ralph Pena
al contrabbasso e Artie Anton (in realtà Shelly Manne camuffatosi
perché sotto contratto con un altra casa discografica) alla batteria.
Proprio a nome di Manne, il 10 settembre 1954, Giuffre aveva
frattanto realizzato la più significativa registrazione di questo periodo, vale a dire i sei brani riuniti sulla prima facciata dell'album
“The Three & The Two”, fra i quali vanno menzionati Pas de Trois,
l'unico tema di Jimmy (che già nel 1953, per una delle numerose
sedute dirette dal batterista con la sua partecipazione, aveva composto Fugue, brano caratterizzato da un deciso affrancamento dei
canoni ritmici tradizionali) e, soprattutto, Abstract n°1. Nel maggio
del 1955 Giuffre torna in sala d'incisione, col quartetto già guidato
in gennaio, per la realizzazione del secondo album firmato Capitol
“Tangents in Jazz”, finalmente del tutto rappresentativo dei suoi
personalissimi orientamenti. Formalmente il gruppo si presentava
come un comune quartetto ma senza pianoforte (si pensi a Mulligan
e Baker), ma in realtà la formula era apertissima e gli strumenti
interagiscono senza ruoli prestabiliti. L'amalgama non sembra più
fondarsi su basi ritmico-armoniche ma su una convergenza melodica di sapore pastorale; l'intersecarsi delle singole voci risalta una
chiara matrice di natura folkloristica più che afroamericana, e la
33
Jimmy Giuffre
frequente adozione di soluzioni contrappuntistiche, ed il presente
lavoro sotto l'aspetto compositivo, facevano pensare più ad un
quartetto da camera che ad uno jazz. Questi lavori sembravano
raccogliere l'eredità dai lavori già affrontanti nel 1949 da Lennie
Tristano nei suoi due brani Intuition e Digression, anche se la loro
vicinanza a quello che verrà chiamato “free jazz”, ne fanno due
brani molto diversi.
Con Tangents in Jazz, Giuffre, illustra per la prima volta in
modo esauriente la propria singolare concezione ritmica (già
affrontanta in Fugue e Pas De Trois), in cui non vi è più un beat
esplicito (quello di basso e batteria), ma vuole, secondo una sua
citazione “Attraversare ogni figura e frase musicale in continua
progressione dinamica”.
Con più precisione tali intendimenti emergeranno dal suo primo
album per la Atlantic, “The Jimmy Giuffre Clarinet” datato marzo
del 1956. Qui troviamo otto brani dove l'elemento unificatore è il
clarinetto mentre il “contorno” muta di volta in volta. In “So Low”
il continuo, non regolare, battito del piede supporta il fraseggio
del clarinetto, che ruota attorno ad una scala blues. L'atmosfera è
opaca e statica. In “Deep Purple” è la celesta di Jimmy Rowles a
tentare di smuovere il ritmo, ma sarà solo nei tre brani seguenti,
affidati ad organici del tutto atipici a precisare certi intendimenti.
“The Sheepherder”, per clarinetto, clarinetto contralto, affidato
a Buddy Collette, e clarinetto basso, Harry Klee, nel brano “The
Side Piper” per clarinetto, flauto, affidato a Collette, flauto basso
a Klee, al flauto in sol Bud Shank, e alla batteria Shelly Manne,
e “My Funny Valentine” per clarinetto, oboe Bob Cooper, corno
inglese Dave Pell, fagotto Maury Berman e contrabbasso Ralph
Pena. Nei primi due brani è ancora preponderante la staticità.
Mentre lo standard My Funny Valentine, viene invece rivisto su
basi polifoniche.
“Clarinet” rimane in ogni caso un'opera fondamentale per molte
34
I dischi firmati Juffre
altre ragioni. Il texano ribadisce gli intenti popolari, già affrontati in
“Tangents in Jazz”, e la predilezione per una linea espositiva asciutta
ma ricca di pathos. Affiora anche una certa vena impressionista
derivante da una chiara assimilazione per autori quali Debussy,
Ravel, Satie. Una solida base culturale “colta” emerge dall'album.
Alcune scelte appaiono vicine anche ad autori più contemporanei,
come Stravinskij o Varese.
Giuffre sembra riuscire finalmente a convogliare sullo stesso
binario la pluralità delle proprie esperienze espressive. Sintomatica,
in tal senso, l'adozione del clarinetto, strumento che adoperava per
elaborazioni strettamente accademiche. Se già nei primi due album
per la Capitol lo affiancava a strumenti come sax tenore e baritono,
è solo con “Clarinet” che Giuffre nel esalta l'utilizzo accostandolo
al mondo del jazz.
35
Gli anni Atlantic
Una volta inseritosi nella scuderia della “Atlantic”, sul finire del
1956 Giuffre capì che era giunto il momento di varare un suo
gruppo a carattere stabile.
Con Ralph Pena al contrabbasso e Jim Hall, alla chitarra nasce
il primo dei suoi trii che incise il primo album, “The Jimmy Giuffre 3”, dove fissa le coordinate dei sui futuri sviluppi. Qui l'artista
tende a minimizzare la portata innovativa del trio senza batteria
né pianoforte. Il senso dell'operazione è da ricercare nell'intesa,
musicale e umana, che lo lega a Pena e Hall e non necessariamente
nella scelta degli strumenti che essi suonano.
L'album in questione testimonia come il texano si allontana,
in qualche modo, dalle esasperazioni concettuali, che aveva sperimentato in “Clarinet”. Qui c'è una pulsazione vivissima, per di
più sui tempi mossi, con spunti solistici dei singoli strumenti. La
maggiore disponibilità sul piano solistico, ribadita dalla pressoché
contemporanea apparizione in veste di solista ospite nell'album
“The Modern Jazz Quartet At Music Inn With Jimmy Giuffre”,
trova una spiegazione nel fatto che, all'epoca, Giuffre ha finalmente
modo di mettere a punto con una regolarità, partiture estremamente
ambiziose per i musicisti del suo entourage riuscendo così a districarsi più agevolmente all'interno di questa sorta di dualismo.
Per quanto riguarda le opere a suo nome, gli ultimi due casi, dove
36
Gli anni Atlantic
prevale come autore più che come esecutore, sono rappresentati
da “The Music Man”, del gennaio 1958, che si trattava di una
elaborazione strumentale di una commedia musicale di Meredith
Wilson per un ensemble di nove elementi, e di “Piece For Clarinet
And String Orchestra/Mobile”, del marzo 1960, sette bozzetti di
carattere contemporaneo, da lui stesso interpretati, col supporto
degli archi della Sudwestfunk Orchestra.
A queste esperienze si contrapponeva il lavoro del trio. Il
passaggio fra il primo e il secondo è in qualche modo segnato da
Traditionalism Revisited, un album inciso a Los Angeles, nell'estate
del 1957, e volto alla rilettura di alcuni noti temi di Armstrong,
Beiderbecke. Questo album venne realizzato in quintetto, che
inglobava per intero sia il primo trio, con Pena e Joe Benjamin,
alternativamente al contrabbasso. Al di là del batterista Dave Baley, completava infatti l'organico Bob Brookmeyer, che figurava
come leader della seduta, il cui trombone a pistoni era destinato a
subentrare di lì a poco al contrabbasso di Pena.
Mai come con il nuovo trio un organico si era spinto tanto in là.
Senza né basso né batteria Giuffre riaffermava ancora una volta la
sua volontà di una pulsazione implicita. Con questo, che resta a
tutt'oggi il suo gruppo più emblematico, registrerà tre album per la
Atlantic. All'iniziale “Trav'lin Light” gennaio 1958, ottimo biglietto da visita, seguirono due opere a tema: nell'estate incideranno
“Four Brothers Sound”, mentre nel dicembre “Western Suite”,
definito il capolavoro del secondo trio. Al di là dell'inarrivabile
coesione che l'opera evidenzia assistiamo alla massima esaltazione
di un elemento caro a Giuffre: il folklore. La matrice è in questo
caso eloquentemente westamericana ma sappiamo della grande
attenzione sempre rivolta da Giuffre verso la musica popolare,
sia essa di matrice bianca, nera ed orientale. Tende a rivalorizzare
l'elemento folkloristico scrostandolo di quella patina populistica
cercando di portarlo ad un livello “superiore”. Subito dopo l'inci37
Jimmy Giuffre
sione del terzo volume per la Atlantic, lo stress accumulato, specie
per i continui spostamenti, determina lo scioglimento del secondo
trio. Nel corso di un tour in Europa, Giuffre, che comunque aveva
diradato la sua attività pubblica per dedicarsi al suo corso di jazz
a Lenox, nel Massachusetts, e, come già visto alla composizione,
inizia a collaborare con l'etichetta Verve.
Dal gennaio 1959 all'agosto 1960 incide per la Verve due album
in trio e due in quartetto che nell'agosto del 1960 incide al Five
Spot l'album “In Person”, che percorreva strane non molto lontane
da quelle che batteva il grande John Coltrane. Nell'organico fanno
parte Jim Hall, Billy Osburne batteria, Buell Neidlinger, contrabbassista di Cecil Taylor. Nei tre brani in cui jimmy imbraccia il
sax tenore l'atmosfera si fa densa, graffiante, in antitesi sempre più
netta con i limpidi, astratti, interventi clarinettistici. Le apparizioni
al Five Spot, locale newyorkese, sono emblematiche anche perchè
il gruppo di Giuffre si alternava a quello di Ornette Coleman. Al
contatto artistico e personale con il padre del free Jimmy non è
certo indifferente. Di Coleman dirà che gli insegnò a suonare con
l'anima piuttosto che con le dita.
Al Five Spot, incontra poi un giovane pianista canadese già
collaboratore di Coleman: Paul Bley. Con lui e con Steve Swallow
al contrabbasso allestì un nuovo trio che nel 1961, incise ancora
per la Verve il disco“Fusion” tra il gennaio e marzo del 1961 e
“Thesis” agosto, sempre dello stesso anno. In un successivo tour
europeo, il gruppo evidenziò ulteriori passi in avanti per poi spingersi ancora oltre, con lo stupendo Free Fall, cinque episodi per
clarinetto solo, due duetti Giuffre-Swallow, e tre trii incisi fra il
luglio e il novembre 1962 negli studi della Columbia, non essendo
stato rinnovato il contratto con la Verve.
38
Lontano dalle scene
Dopo lo scioglimento del trio con Bley e Swallow, Giuffre prese
parte a varie iniziative promosse dagli uomini del free jazz, a
cominciare da quello dello storico ottobre 1964 durante il quale, nell'ambito di una provocatoria “quattro giorni” allestita dal
trombettista Bill Dixon, si trovò a fianco di Steve Lacy, Archie
Shepp, e Cecyl Taylor. Fu questa una delle rarissime apparizioni
in pubblico in un periodo particolarmente travagliato. Praticamente
bandito dalle sale di incisione, dove come leader rimetterà piede
solo nel 1972, Giuffre attraversa una fase della sua vita scarsamente
documentata. Esaurito il sodalizio con Bley e Swallow, nel 1963
ritenta la formula in compagnia di Don Friedman e Gary Peacok,
che fu poi sostituito da Barre Philips, con cui viene in Europa nel
1965. Poi suona con Richard Davis al contrabbasso e Joe Chamber
alla batteria per poi formare nel 1967, un quintetto con Friedman,
Brookmeyer; Chuck Israel al basso e Steve Schaeffer alla batteria.
Ma le esperienze più emblematiche di questi anni, Giuffre le fece
in solitudine, come in fondo lo fecero anche Rollins, Lacy, e Coleman. Così Jimmy si rituffa nell'insegnamento e nella composizione.
Con Karl Oppermann studia la fabbricazione delle ance, che poi
comincerà a costruirsi da solo, adotta il sax soprano e con Jimmy
Politis il flauto e il flauto basso. Uno spiraglio di luce arriva nel
1971 quando incontra il bassista giapponese Kiyoshi Tokunaga e
soprattutto Randy Kaye (un batterista che vuole veramente ascol39
Jimmy Giuffre
tare la musica, lo definirà Jimmy), ex partner di Jimi Hendrix, con
i quali formerà un nuovo trio che nel dicembre del 1972 incise
due Lp “Music For People, Birds, Butterflies, & Mosquitoes” e
nell'aprile del 1975 “River Chants”.
Il merito dei due partner pare quello di aderire senza frizioni
al nuovo orientamento stilistico di Giuffre. I rimandi etnici, ora
richiamano il folklore asiatico e a volte quello del bacino del
mediterraneo orientale, mentre l'uso del flauto e del flauto basso,
strumento in cui riemergono le sue predilezioni per i registri gravi,
arricchiscono ulteriormente la gamma di “colori” che Jimmy riesce
a dare al disco.
Proprio mentre la neo-avanguardia si dedica a formule da lui
sperimentate fin dagli anni cinquanta, Giuffre si guarda indietro e
recupera formule del passato che in lui sono ancora vive. Ritrova
così Paul Bley, che nel frattempo è il responsabile dell'etichetta
discografica Improvising Artist Inc., e in sua compagnia sforna un
nuovo capolavoro “Quiet Song”, datato 1975, che oltre ai due artisti
vede al loro fianco la chitarra spagnoleggiante di Bill Connors.
Momenti in solo, duetti e trii di estremo equilibrio. Giuffre è in
una forma superba mettendo in mostra la sua, raggiunta, grande
varietà espressiva. Nel 1976 il trio, comincia a collaborare con
Lee Konitz e Ran Blake, rendendosi tra l'altro protagonista di due
memorabili esibizioni a Como. Due anni dopo la Improvising Artists organizza e fissa su disco il concerto “IAI Festival”, che ne
risulterà una delle massime consacrazioni di Giuffre.
40
Il periodo elettrico
Dopo una nuova pausa senza incisioni né tournées, Giuffre tornò a
far parlare di sé nell'estate del 1982 presentandosi come leader di
un quartetto sorprendente destinato a spiazzare letteralmente i suoi
fans. Lui che in tempi di fusionmania aveva dichiarato: “Non mi
piacciono gli strumenti elettronici; ho l'impressione che affascinino
e attraggano senza che però li si possa dominare: sono loro che ti
dominano” e ancora: “ I gruppi con basso e piano elettrici hanno
tutti lo stesso suono”, si era incredibilmente convertito alla causa
elettrica. Le tastiere di Mike Rossi e il basso di Bob Nieske, suoi
allievi al Conservatorio di Boston, affiancavano la batteria di Randy
Kaye. Le dichiarazioni rilasciate da Giuffre alla stampa specializzata
erano frattanto di questo tono: “Ciò che più mi ha colpito in questi
ultimi anni è il Weather Report. Quelli hanno trovato il modo di
fare della buona musica arrivando ad un vasto pubblico. C'è una
tale varietà, una tale potenza. Zawinul, Shorter e Pastorius, sono
musicisti estremamente sensibili. Le loro composizioni sono piene
di invenzioni. In effetti sono veramente sorpreso che abbiano un
tale successo con una musica tanto sottile. Non credo di essere
direttamente influenzato da loro, ma quell'approccio, quel suono
espansivo e panoramico, oggi mi interessano molto”.
Dopo queste dichiarazioni, furono in molti a sperare in una
passeggera infatuazione, ma i fatti li avrebbero clamorosamente
smentiti. Infatti Giuffre ingaggiò Pete Levin al posto di Rossi e
41
Jimmy Giuffre
con il nuovo quartetto incise nel gennaio del 1983, per l'etichetta
milanese Soul Note, l'incolore “Dragonfly”, poi nel 1985, con esiti
un po' più confortanti “Quasar” e nel 1989 “Liquid Dance”, opere
nelle quali va sottolineato il ruolo della moglie di Giuffre, Juanita
Odjenar, autrice sia delle illustrazioni di copertina sia di alcuni temi
eseguiti. All'uscita del secondo dei tre album elettrici, sembrava
quindi che fosse quest'ultima svolta da considerarsi irreversibile. Ma invece ci fu un ulteriore sterzata; nel novembre del 1987
Jimmy partecipò al Festival di Parigi in duo col polistrumentista
marsigliese André Jaume. Con l'uscita del disco “Eiffel” registrazione di quella delicata e rigorosamente acustica performance si
capì che non si era trattato di un singolo episodio. Sempre in duo
con André, Jimmy, partecipò, nel 1989, alla colonna sonora di un
lungometraggio di Jean Louis Comolli su Marsiglia, nonché ad
un tour in Francia nel maggio del 1990. All'epoca Jimmy aveva
in corso un'altra importante collaborazione e cioè il recupero del
sodalizio con Paul Bley e Steve Swallow, con i quali si era riunito
in uno studio di registrazione newyorkese nel dicembre del 1989
per la registrazione di materiale che poi servì per la creazione di un
doppio Cd, sotto l'etichetta francese OWL con il titolo “The Life
Of A Trio”. Grazie al ritrovato sodalizio, e al successo ottenuto da
disco, fecero un tour europeo nel marzo del 1991.
Gli ultimi anni Giuffre soffre di morbo di parckinson, che lo
costringerà a stare lontano dalle scene, non potendo sostenere
performance. Morirà di polmonite a Pittsfield, Massachusetts, il
24 aprile 2008, due giorni prima del suo 87esimo compleanno.
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I SUOI MUSICISTI
Bob Brookmeyr e Jim Hall
Bob Brookmeyer
Robert Edward Brookmeyer è nato il 19 dicembre 1929, a Kansas
City, Missouri. Suo padre amante della musica, decide di comprandogli, all'età di otto anni, un vecchio clarinetto. Nel 1941 assiste
al concerto della Big Band di Count Basie, al Tower Theatre di
Kansas City, e ne rimase talmente affascinato che decise di dover
fare qualcosa di simile. A causa di un disagio dentale decise di
cambiare strumento, così nell'estate 1943 va a lavorare per potersi
acquistare una batteria (la tromba era la sua seconda scelta). Suo
padre però, che era il direttore della banda dove Bob comincia a
muovere i suoi primi passi, aveva bisogno di un trombone. Allora
vista la sua seconda scelta era la tromba, decise comunque di intraprendere lo studio del trombone, ma non quello classico con la
coulisse, ma quello a pistoni dato la sua somiglianza alla tromba.
Così Bob comincia gli studi con un trombonista, compositore di
origine tedesca, attivo nella scrittura, soprattutto per le marce.
Qui oltre allo studio dello strumento, inizia ad avvicinarsi alla
scrittura.
A 14 anni è già, se così possiamo definirlo, un arrangiatore
copista professionista, scrivendo per orchestre da ballo e bande
locali, mentre all'età di 15 anni, sentendo la musica di Debussy e
Stravinsky, decide chiaramente che doveva intraprendere anche la
strada della composizione.
45
I suoi musicisti
A 16 anni la famiglia gli compra un pianoforte. Bob comincia
lo studio anche di questo secondo strumento capendo l'importanza, e la libertà che può dargli, nei confronti della scrittura, quello
strumento. Fu talmente precoce che nel giro di pochi anni riuscì
a tenere i suoi primi concerti in pubblico, anche come pianista. Si
inscrisse al Kansas City Conservatory, dove frequenta per tre anni,
vincendo un premio per una composizione corale, ma lascia prima
della laurea a causa dei primi ingaggi. Infatti nel 1946 comincia
a suonare con la band di Orrin Tucker, rimanendo per tre mesi a
Chicago e tre a San Francisco. Durante questo periodo gli viene
offerto di suonare il pianoforte per Wingy Manone e Vido Musso,
ma viene chiamato per il servizio militare dovendo rifiutare le
proposte lavorative.
Dopo un breve periodo nell'esercito entra a far parte della band di
Tex Beneke come pianista. La sua prima jazz band ufficiale fu quella
di Howard McGhee, con Charlie Rouse e Elmo Hope, un sestetto
che fece solamente un paio di concerti ma la sua vera occasione
venne con Charles Mingus e Al Levitt. Bob in quest'ultimo gruppo
ricopre il ruolo di pianista. Dopo questa esperienza ha occasione
di entrare nell'autunno del 1952 nell'orchestra di Claude Thornhill,
in veste prima di trombonista poi di pianista. Allo stesso periodo
risale la sua esibizione con Charlie Parker (Bird and Strings) e
anche quella al Birdland di Manhattan dove suona il pianoforte con
il suo eroe, il trombonista Bill Harris. Lasciato Thornhill si unisce
Stan Getz prima poi con Woody Herman. Registra il suo primo
disco con Getz a New York poi abbandona le incertezze della vita
jazzistica per la sicurezza finanziaria di un lavoro a tempo pieno in
studio dopo essersi trasferito a Los Angeles. Qui in California ha
l'occasione di incontrare Mulligan, dove nel gennaio 1954 formeranno un quartetto. Con questa formazione viaggeranno per circa sei
mesi in giro per il mondo, e a Parigi avranno perfino l'opportunità
di suonare con Monk. Lasciato il gruppo con Mulligan nel 1958
46
Bob Brookmeyer
aderisce al Jimmy Giuffre 3, con Jim Hall con il quale faranno
una grande quantità di improvvisazioni libere che non verranno
mai immortalate su disco, ma anche tre dischi che lasceranno un
segno nella storia. Abbandonata la band con Giuffre, torna e a New
York per ricoprire di nuovo il lavoro in studio. Ha suonato in un
set alla Town Hall con Coltrane, Pepper Adams, George Duvivier,
Art Taylor e il suo idolo Basie.
Ha avuto un rapporto di lunga data con Duke Ellington, che
gli ha chiesto di entrare nella band nel 1962, ma a questo punto
Brookmeyer stava attraversando un divorzio costoso e non poteva
permettersi di rinunciare al suo lavoro in studio. Nel gennaio 1960
fece parte del Concert Jazz Band di Mulligan dove Brookmeyer
venne descritto come compositore e solista, e con il quale durò
fino al dicembre del 1964. Negli anni '60 collabora con la big
band di Mel Lewis e Thad Jones, e con diverse altre formazioni,
suona in duo con il chitarrista Jim Hall, realizza (al piano) insieme
a Bill Evans “The Ivory Hunters” e si occupa prevalentemente di
arrangiamenti e composizione.
Dal 1981 inizia a lavorare intensamente come compositore e
direttore d'orchestra in Europa creando molte opere per le città di
Colonia e Stoccolma. Dal 1991 si reca in Olanda, dove inaugura
una nuova scuola per l'improvvisazione e la composizione. Tornato negli Stati Uniti, riceve la cattedra di Composizione Jazz nel
Conservatorio del New England. Successivamente compone e si
esibisce con la sua New Art Orchestra. È morto il 16 dicembre
2011 (www.bobbrookmeyer.com).
47
Jim Hall
Jim Hall è nato a Buffalo, New York, il 4 dicembre del 1930, prima
di trasferirsi in Ohio. Durante l'infanzia, trascorsa tra New York e
Cleveland (Ohio), Jim comincia a respirare l'atmosfera musicale
grazie alla madre pianista e al nonno violinista. All'età di dieci
anni riceve come regalo di natale una chitarra e da allora decide
di dedicarsi con impegno allo studio dello strumento. A soli tredici anni entra nel primo gruppo strumentale: i suoi modelli sono
Charlie Christian e Django Reinhardt. Continuando a suonare in
piccole formazioni locali, alla fine delle scuole superiori si iscrive
al "Cleveland Institute of Music" e si diploma in teoria musicale.
Convinto dapprima che nel suo futuro vi fosse spazio solo per
l'insegnamento e la musica classica, nel 1955 decide di dare una
svolta alla sua vita e si trasferisce a Los Angeles dove entra nella
band di Chico Hamilton con Buddy Collette all'organo, Freddie
Katz al violoncello e Carson Smith al contrabbasso. Con questa
formazione Jim Hall comincia ad attirare l'attenzione nazionale e
internazionale. Nel 1956 il clarinettista Jimmy Giuffre gli chiede
di formare un trio con il contrabbassista Ralph Pena. Nel 1960 si
sposta nuovamente a New York dove si susseguono le collaborazioni
con le eminenze grigie del tempo: Ella Fitzgerald, Lee Konitz e
dal 1961-62 Sonny Rollins.
Nel corso di un tour in America latina con la Fitzgerald Jim
rimane "folgorato" dalla musica locale e decide di fermarsi a Rio
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Jim Hall
De Janeiro per altre sei settimane dopo il termine del giro proprio
nel periodo in cui si stava affermando la bossa nova. Le influenze
brasiliane si faranno sentire negli album incisi successivamente
con Sonny Rollins “What's New?” del 1962 e con Paul Desmond
“Take Ten” e “Bossa Antigua” del 1963. Anche la collaborazione
con Rollins lascerà una traccia nello stile di Jim Hall, in cui spesso
gli assoli sono ispirati al fraseggio dei fiati. In un'intervista Hall
ha dichiarato: "Sebbene non abbia mai avuto occasione di suonare con Lester Young quello è il suono a cui aspiro". Non è facile
individuare nei dischi di Hall un riff ricorrente ma è significativa
l'interazione tra elementi melodici, armonici e ritmici che hanno
fatto definire il suo come uno stile "compositivo". I critici usano
spesso gli aggettivi "caldo", "pieno", "generoso" per definire il
suo suono.
Ormai rodato, dal 1962 al 1964 guida da leader un quartetto
con il trombettista Art Farmer. Nello stesso periodo incide alcuni
significativi dischi in duo con il pianista Bill Evans “Undercurrent” e “Intermodulation”. Nel 1965 sposa Jane, psicoanalista e
valente autrice di brani musicali. Tuttora abitano nel Greenwich
Village. Comincia a registrare album da leader formando un trio,
senza smettere di dedicarsi a sperimentazioni, come quella con il
bassista Ron Carter “Alone Together”, utilizzando talvolta combinazioni inconsuete, come ad esempio quella tra chitarra e trombone,
nuovamente con Bob Brookmeyer, con cui aveva collaborato con
Jimmy Giuffre. Nel 1981 suona con Itzhak Perlman e André Previn
in “It's a Breeze”.
Il chitarrista statunitense è stato più volte chiamato a condurre
seminari in tutto il mondo grazie alle sue doti comunicative e al
suo desiderio di condividere con altri le sue esperienze artistiche.
Per questa sua caratteristica, oltre al lavoro svolto con il suo trio,
Jim ha sempre cercato di ospitare, nei dischi e nei concerti dal vivo,
musicisti di ogni estrazione: da Joe Lovano a Kenny Barron, da
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I suoi musicisti
The New York Voices a Zoot Sims, da Michel Petrucciani a Wayne
Shorter. Talvolta si è trattato di incontri occasionali, durati lo spazio
di una session. Spesso, però, queste collaborazioni sono state documentate su disco e talvolta sono sfociate in veri e propri progetti
discografici comuni, come ad esempio i Duets con Pat Metheny.
Non solo Jim Hall è uno dei più seguiti e apprezzati strumentisti
jazz, ma nel 1997 riceve il "New York Jazz Critics Circle Award",
riconoscimento come miglior compositore e arrangiatore.
Scrive pezzi per archi, ottoni, e complessi vocali. La sua composizione originale, Quartetto Plus Four, un pezzo per quartetto
jazz con il quartetto d'archi Zapolski, ha debuttato in Danimarca,
dove gli è stato assegnato l'ambito Premio JazzPar.
La sua composizione orchestrale più recente è un concerto per
chitarra e orchestra, commissionato da Towson University nel
Maryland per il primo Guitar World Congress, che ha debuttato nel
giugno 2004 con la Baltimore Symphony. Ha ricevuto un premio
NEA Jazz Master Fellowship nel gennaio 2004. Hall è stato uno dei
primi artisti ad aderire all'etichetta etichetta ArtistShare. Nel novembre 2008 infatti viene rilasciato un doppio album, con il chitarrista
e compagno Bill Frisel, con Scott Colley al contrabbasso e Joey
Baron alla batteria. Nel 2010, Hall e Joey Baron hanno registrato
un album in duo. Nel 2012, all'età di 81 anni, Hall tiene concerti al
Blue Note di New York City e ad un certo numero di festival jazz
negli Stati così come in Europa (Wikipedia, Jim Hall)
50
SUITE
Le origini
Il termine indica una forma di composizione strumentale costituita
da un seguito di più movimenti: dapprima semplici danze, successivamente, intorno al sec. XVII e XVIII, movimenti di danza stilizzati,
e dalla metà dell'Ottocento in poi anche brani di libera invenzione.
La prima testimonianza di una pratica strumentale connessa con la
musica da danza (originariamente affidata al coro) è una raccolta
inglese del XIII o del XIV secolo. Dalle danze che essa contiene,
tutte aventi un titolo, Belicha, Isabella, e una ripartizione interna di
cinque sezioni, una di esse già prevede esplicitamente un accompagnamento strumentale ad opera di una ghaetta, che probabilmente
si trattava di una cornamusa. Nelle quindici danze raccolte nel 1476
da Domenico da Piacenza i casi di canto a suonare, sono assai più
numerosi. Come già nella precedente raccolta inglese ciascun ballo
è intitolato anch'esso con nomi tipo Jupiter, Belfiore, e suddiviso
in sezioni, questa volta sette, e già alternate secondo un criterio
razionale: la prima e l'ultima sono basses-dances, la seconda e la
sesta, quaternarie in minore, la quarta, che forse era destinata ad
una cornamusa, è invece una piva.
Nelle suite liutistiche del primo Cinquecento, invece, i movimenti
di danza appaiono tramite delle regole espressamente dettate dai
compositori, ed è già possibile, in alcuni casi, individuare le peculiarità compositive e formali della Suite classica. Nella raccolta di
Joan Ambrosio Dalza (compositore milanese di cui si conosce solo
53
Suite
la Intabolatura De Lauto, Libro Quarto, pubblicata a Venezia nel
1508 dall'editore Ottaviano Petrucci), le danze, in quanto variazioni
su uno stesso tenor, si aggirano in uno stesso ambito melodico e
tonale e sono accompagnate da un certo numero di toccate e ricercari, anticipando così, per un verso, il principio dell'affinità tonale
tra i movimenti della Suite e, la tendenza classica a collegare alle
danze, composizioni puramente strumentali. Maggior fortuna della
Suite a tre tempi (possiamo trovare esempi nel 1546 con Rotta e
con i suoi Seguiti di Passamezzo, Gagliarda e Padovana) ebbe, nel
secolo XVI il tipo a due tempi, Padovana e Gagliarda o Padovana e
Saltarello, le cui danze (spesso ancora riunite sotto un unico titolo,
come appare nelle raccolte edite da Attaingnant nli 1529-31 che
descrivono tali coppie come la Magdalena, la Rote, ecc.), sono
talora legate da molteplici affinità tematiche.
Nel Cinquecento, accanto a quello monostrumentale, la Suite
assume un aspetto orchestrale, che durerà fino ai nostri giorni:
secondo la testimonianza di Thoinot Arbeau (1589) la Suite di
basses-dances è affidata, almeno sul finire del secolo, a un complesso di flauti, oboi, violini, e spinette. Sin dalla sua nascita questo
tipo di Suite rivela una indipendenza dagli schemi e dai principi
elaborati in campo cameristico per il raggruppamento delle danze
diverso da quello dell'affinità tonale o tematica. Nelle Suite illustrate dall'Arbeau, il raggruppamento è infatti sostituito dal criterio
dell'affinità sul piano coreografico, come accade appunto nella
Suite di basses-dances, oppure da quello dell'appartenenza a uno
stesso tipo di danza, come nelle Suite della fine del Cinquecento
dove i maestri francesi volevano riunire vari tipi di movimenti (in
genere non più di quattro) in reciproco contrasto ritmico: come
branle double, grave (binario); branle simple, plus vif (binario);
branle gal (ternario); branle de Bourgogne (binario).
Ciò nonostante, fino a tutto il secolo XVI non è ancora possibile
parlare di Suite: troppo evidente appare il carattere funzionale di
54
Le origini ’500
queste musiche e la dipendenza dei compositori dalla pratica delle
sale da ballo se non addirittura dalle innovazioni proposte in sede
coreografica dai maestri di danza. Il merito di aver sintetizzato,
a un superiore livello d'arte, gli elementi formali del cinquecento
spetta, nei primi decenni del secolo successivo, a Frescobaldi.
55
La Suite '600
Il prototipo Frescobaldiano delle danze stilizzate del Seicento è
rappresentato dai due Balletti dell'Aggiunta alle toccate e partite
del 1614 in cui oltre ad una impostazione formale incentrata, alla
maniera dei classici, su una danza lenta a misura ternaria, la passacaglia, realizza quell'unione delle esperienze stilistiche delle Suite
cinquecentesche, con tutte le risorse di una conoscenza tecnica, dato
lui essere un compositore, che verrà a sottrarre definitivamente la
Suite monostrumentale dalla competenza dei musici e dei ballerini
del tempo.
E proprio Frescobaldi sarà il primo grande indipendentista della
musica strumentale, fino ad allora sempre subordinata alla vocalità,
alle parole di un testo che la eleva ad arte (Wikipedia, Girolamo
Frescobaldi).
Alla morte di Frescobaldi (1643) la Suite utilizzata è ormai un
genere largamente praticato dai migliori compositori europei. Ma
poiché la sua duttilità consente l'esperimento delle più varie tendenze stilistiche, la pratica di tale forma è per ora contrassegnata
soprattutto da una grande disparità di intendimenti e di risultati,
nonostante si possa già rilevare da più parti quel tacito processo di
coordinamento di tali esperienze che condurrà, alla fine del secolo
XVII, al prototipo della Suite classica.
Già la varia classificazione del tipo seicentesco testimonia la
56
La Suite ’600
particolarità delle concezioni stilistiche e formali in esso realizzate.
Mentre, infatti, le Suite sono designate in Germania come Partiten
o Partien, in Francia sono definite Ordres e in Inghilterra Lessons
o Suites of Lessons. In Italia alla primitiva qualificazione di partita
succede invece, dalla metà del seicento, quella piuttosto generica
di sonata da camera, sotto cui rientrano anche i primi saggi della
sonata strumentale, la cui pratica, distrarrà i compositori italiani
da quella della Suite di danze. Tipico è l'esempio di Corelli (che
insieme a M. Rossi, G. B. Vitali e G. M. Bononcini dette i migliori
esempi di Suite italiana dopo Frescobaldi). Infatti, mentre le sue
prime sonate da camera (1683-94) sono normalmente Suite di due
o tre danze nella stessa tonalità, precedute da un preludio (secondo
l'uso cinquecentesco ripreso agli inizi del secolo XVlI dal Buonamente), quelle delI'op. V (1700) tendono già a sostituire la danza
centrale con un adagio o, comunque, a diversificarla tonalmente
rispetto alle altre danze.
In Francia, dove ancora agli inizi del Seicento prevale nella
musica per liuto il tipo di Suite basato su diverse varietà di una
stessa danza, l'evoluzione è più lenta poiché i clavicembalisti
della prima metà del secolo (Champion de Chambonnières, Louis
Couperin) tardano a lungo nella pratica dei moduli liutistici prima
di procedere all'elaborazione di uno stile autonomo.
Comunque, già in J. B. Lully appaiono esempi vicini del tipo
settecentesco, come la Suite in mi minore, divisa in allemandasarabanda-corrente-minuetto-giga, che comprende, sia pure in altro
ordine, tutte le danze “fisse” della Suite classica.
Più intenso, invece, il processo di sistemazione formale presso
i musicisti tedeschi del secolo XVII, impegnati soprattutto a stabilire la formula definitiva della successione dei movimenti. Così,
nei primi anni del secolo, Isaac Posch compone Suite a quattro e
cinque parti ripartite in gagliarda (o corrente)-danza-proportio, e
nelle raccolte del 1611-20 Paul Peurl, rielabora lo stesso tema in
57
Suite
quattro tempi (padovana-intrada-danza-gagliarda), mentre nel Banchetto Musicale del 1617 Schein riunisce cinque tempi (padovanagagliarda-corrente-allemanda-tripla) e Neubauer, nel 1649, adotta
un tipo a sei movimenti. Verso la metà del secolo, infine, pressoché
contemporaneamente agli esempi lulliani, compare nelle Suite di
Froberger il tipo definitivo a quattro tempi (allemanda-correntesarabanda-giga) che costituirà il nucleo strutturale delle Suite del
secolo seguente.
Mentre altrove la Suite a due tempi, in coincidenza con la grande
diffusione delle danze francesi e il corrispondente declino di quelle
italiane, cade in disuso, in Inghilterra essa incontra ancora, nel secolo XVII, il favore del pubblico (insieme al tipo eccezionale del
movimento di danza isolato come composizione per complesso di
viole). Assai modesto, comunque, l'apporto inglese, come quello
spagnolo, al processo di elaborazione delle forme definitive di
Suite. Il merito dell'Inghilterra e della Spagna al riguardo consiste sostanzialmente, nell'aver creato due danze “fisse” del tipo
classico: rispettivamente la giga e la sarabanda; la prima, tuttavia,
ancora sul finire del Seicento poco praticata nella terra di origine
a giudicare dalla sua assenza nella Choice Collection of Lessons
di Purcell (1696) che pure riunisce in Suite la maggior parte delle
danze dell'epoca (Groove, David Fuller, 671)
58
La Suite ’700
Agli inizi del Settecento il genere è ormai regolato da principi
unanimemente accolti, sia sul piano della concezione strutturale
che su piano della disposizione delle danze. Cosi, mentre gli antichi
tipi italiani appaiono definitivamente abbandonati, si stabilizza, da
un lato, il tipo quadripartito di Froberger e si consolida, dall'altro,
in luogo di quello dell'affinità tematica, il principio dell'analogia
tonale dei movimenti che costituisce la differenza sostanziale tra
la Suite settecentesca e la forma parallela della sonata. Se infatti
quest'ultima si fonda sul contrasto tonale dei vari tempi e, all'interno di essi, sulla ricchezza dello sviluppo armonico oltre che
sulla dialettica di contrastanti elementi tematici, la Suite classica
appare costituita da una successione di movimenti tutti nello stesso tono (salvo varianti modali), strutturati internamente secondo
una formula tipica (due sezioni simmetriche armonicamente
elaborate sui gradi fondamentali della tonalità di base) e basati
su spunti melodici e ritmici strettamente affini. La successione
dei movimenti, come appare già nelle prime raccolte di Suite del
secolo XVIII (quelle di Loeillet e di Mattheson, 1714) conserva
invece la stessa alternanza di ritmi e di andamenti delle Suite più
antiche: una danza moderata in misura binaria (l'allemanda), una
danza veloce e ternaria (la corrente), ancora una danza ternaria, ma
lenta ed essenzialmente armonica, a differenza delle due precedenti
(la sarabanda) e, infine, una danza binaria in 6/8 o 12/8 (la giga),
59
Suite
più rapida ma talvolta anche lenta come quella della Prima Suite
Francese e della Partita in mi minore di J. S. Bach. Tra la sarabanda
e la giga sono solitamente interposti i cosiddetti intermezzi, composizioni in genere d'origine francese assai più fedeli dei quattro
movimenti fissi al carattere delle danze originarie. Tali la gavotta,
il minuetto, la bourrée, il passepied e, meno frequenti, la loure, la
polonaise, il rigaudon, la cui funzione è la medesima dello scherzo
o del minuetto con trio della sonata moderna: restituisce alla forma
l'equilibrio spesso alterato dalle notevoli dimensioni del movimento
iniziale, che è, nella tradizione dei classici, una introduzione strumentale. Per quanto, il brano introduttivo non sia legato né a una
precisa struttura formale, ne a un determinato modus stilistico, i
maestri dei Settecento hanno sempre provveduto a differenziarlo
dalle danze successive, sia attraverso l'esaltazione del suo carattere
puramente strumentale, sia attraverso la particolare complessità
della formula strutturale. Così, ad esempio, i preludi delle Suite
inglesi di Bach, riflettono assai spesso la stessa concezione formale
dei movimenti estremi del Concerto italiano dello stesso Bach: due
sezioni distinte e perfettamente concluse, separate da una parte
intermedia di sviluppo armonico, in cui vengono spesso inserite
nuove figurazioni tematiche.
Con il brano introduttivo lo schema della Suite classica, è formato dunque da un'introduzione, un'allemanda, una corrente, una
sarabanda, uno o più intermezzi e una giga.
Sia tale disposizione che i suesposti princìpi formali hanno,
ovviamente, numerose eccezioni. Ad esempio, l'ordine delle danze
è alterato in talune delle Suite Bachiane con la sostituzione della
giga con un rondò e un capriccio.
Meno frequenti, invece, le deroghe al principio dell'unità tonale:
in tutte le Suite Bachiane compaiono solamente le due eccezioni del
minuetto II della Quarta Suite inglese e della gavotta II della cosiddetta Ouverture Francese. Completamente eccezionali appaiono
60
La Suite ’700
alcuni tipi di Suite praticati dai maestri francesi del secolo XVIII.
Tra essi la citata Ouverture Francese (in cui manca l'allemanda,
la sarabanda è compresa fra due intermezzi e la giga è seguita da
un eco) e il tipo adottato soprattutto da Jaean Ferry Rebel che, in
coincidenza con la diffusione in Francia della sonata violinistica
italiana (primi decenni del Settecento), sostituisce progressivamente
le danze con pezzi di carattere. Nel novero delle eccezioni si pone
anche la Suite per orchestra. Alla accennata indipendenza dagli
schemi fissi (la prima delle Suite orchestrali di Bach, ad esempio,
è costituita da ouverture-corrente-gavotta I e II-furlana-minuetto
I e II bourée I e II passepied I e II), si aggiunge ora la dilatazione
formale dei movimenti, soprattutto del preludio, che raggiunge
spesso, come nella quarta e ultima delle Suite Bachiane, proporzioni assai cospicue.
Nella seconda metà del Settecento, col prevalere della sonata,
la Suite cade in disuso. Le musiche di danza di Haydn o di Mozart,
riunite in gruppi di danze orchestrali dello stesso tipo, si pongono
più come assortimenti con destinazione pratica che come Suite
d'arte in senso classico, il cui filone si continua e sì esaurisce
altrove: nelle cassazioni e nei divertimenti della fine del secolo e
nei tempi secondari della sonata preromantica. Verso la metà del
secolo XIX, tuttavia, alcuni compositori provvidero alla restaurazione della tradizione classica, consentendone, sia pure con diversi
intendimenti e varia fortuna, la prosecuzione fino ai giorni nostri
(DEUM, Bruno Boccia, 557).
61
La Suite ’900 e le forme estese del Jazz
La successiva fioritura del primo Novecento è spesso favorita
da ritorni a concezioni stilistiche del passato. Così la Suite Bergamasque e Pour le Piano di Debussy (1901) o Le Tombeau de
Couperin di Ravel (1917) si mostrano come delle reinvenzioni del
clavicembalismo francese del Settecento, mentre sotto il segno di
un ritorno a Bach sono le Suite di Hindemith (1922), Beck (S. per
due violoncelli, 1924).
Un tipo assolutamente originale di Suite moderna, è rappresentato
dalle Trois Dances, walzer, ragtime, tango, dell'Histoire du Soldat
di Stravinskij, 1918.
Un altro esempio molto importante sarà quello di Dmitrij
Dmitrievi_ _ostakovi_i con la sua Suite per Orchestra Jazz n°1,
composta nel 1934 ed eseguita, per la prima volta in pubblico, il
24 marzo dello stesso anno, la composizione dura intorno agli otto
minuti ed è divisa in tre movimenti, ognuno dei quali è indicato
con il nome di una danza: Valzer, Polka, Foxtrot.
Quattro anni più tardi, scrisse la Suite per Orchestra n°2. La
Suite nacque nel 1938 per la neonata Orchestra Jazz Nazionale Sovietica, coordinata da Wiktor Knuschewitzki. La prima esecuzione
dell'opera ebbe luogo a Mosca, il 28 novembre dello stesso anno.
La suite è composta da tre movimenti, come nella n°1 ma questa
volta in Scherzo (Allegretto alla marcia), Ninna nanna (Andante),
62
La Suite ’900 e le forme estese nel Jazz
Serenata (Allegretto)
Comunque nei suoi sviluppi più recenti, dalla metà del secolo
XIX in poi il termine Suite indica anche un seguito di brani per
strumento solista, complesso cameristico o orchestra, non più solo
danza, nè vincolati ad una tonalità comune, ma disposti e strutturati
secondo le necessità dei compositori, proprio come avverrà anche
nel Jazz.
In questo ambito, come definisce Stefano Zenni, è più coerente
parlare di forme estese. Nel jazz vi è una maggioranza di forme
brevi, ma tutti i grandi compositori, al di fuori di Jelly Roll Morton, hanno comunque prodotto opere con forme più dilatate. Come
sostiene sempre Zenni, il problema risiede nel dilettantismo e nella
inadeguatezza tecnica, essendo i compositori jazz non aventi la
preparazione accademica necessaria ad affrontare la sfida delle
forme estese, e per questo costretti a ripiegare sulle strutture a
suite formalmente deboli, e prive di reale unità tematica. L'analisi successiva che Zenni affronta è però che un tipo di pensiero
come quello sopra esposto ha il limite fondato su un pregiudizio
eurocentrico che considera valide solo le forme ispirate al modello
compositivo classico e ignora la filosofia formale di altre culture
(I Segreti del Jazz, Stefano Zenni, 2007, 269).
Allora conviene stabilire un punto di partenza che lo si può
ritrovare nella Rhapsody in Blue di George Gershwin (1924). Essa
è un esempio tipico di composizione americana, degli anni venti,
concepita in una forma rapsodica narrativa in cui gli episodi si susseguono con logica non già di coerente sviluppo sinfonico, bensì di
incalzante montaggio cinematografico (Musica Jazz, Piras, 2001,
134). A questo modello compositivo si ispira la Creole Rhapsody
di Duke Ellington (1931). Concepita esclusivamente per la discografia occupava due facciate di un disco da 78 giri. In Ellington
possiamo ritrovare colui che espanse le forme estese: prima con
Reminiscing in Tempo, quindi con la Black, Brown, and Beige,
63
Suite
una suite in tre movimenti, che durava quasi cinquanta minuti.
Ellington indubbiamente è stato il maggior utilizzatore e scrittore
di suite per il jazz, che potremmo suddividere in base ai movimenti
che esse contengono. Ha scritto suite ad un movimento, come ad
esempio la Creole Raphody, con due movimenti, Controversial
Suite, tre come la sopra citata Black, Brownand Beige, in quattro
Perfume Suite, e in più movimenti, Liberian Suite, che a loro volta
possono essere suddivise o meno su relazioni e sviluppi motivici.
Dalle analisi delle suite a quattro movimenti ne risulta che molto
spesso seguono un andamento simile a quello delle forme classiche,
con un movimento a tempo medio, uno rapido, un episodio lento,
ed un finale swingante per il solista.
Altre opere si basano sul modello compositivo esteso ad uno
o più movimenti. Le forme ad un movimento più famose oltre a
quelle citate possiamo trovare Meditations on Integration, di Charles
Mingus, Ascension di John Coltrane, Spanish Key, di Miles Davis,
Afro-Cuban Dru Suite, Dizzy Gillespie, Shodow World, Sun Ra.
Mentre quelle in più movimenti troviamo Summer Sequence di
Woody Hermann, A Love Supreme di John Coltrane, Freedom Suite
di Sonny Rollins, Epitaph di Charles Mingus, ed infine la Western
Suite di Jimmy Giuffre che di seguito andrò ad analizzare.
Un aspetto molto importante è quello di analizzare il rapporto
che c'è tra la scrittura e l'improvvisazione. Infatti in nel jazz questo
duplice aspetto è strettamente legato. A differenza della musica
di derivazione eurocolta il compositore jazz non definisce il testo
in ogni minimo dettaglio ma ne delinea gli aspetti essenziali che
vengono pienamente realizzati solo all'atto dell'esecuzione. Anche
volendo intraprendere una scrittura molto dettagliata si incapperebbe
nel problema che il compositore concepisce spesso la sua musica
in funzione dei suoi musicisti, come faceva Ellington, abbozzando
delle partiture che poi completava in fase di esecuzione con l'orchestra. Quindi questo è un altro aspetto fondamentale da tenere
64
La Suite ’900 e le forme estese nel Jazz
in considerazione se si vogliono classificare le forme estese nel
jazz e un motivo in più per separarle dal confronto con la musica
eurocolta.
65
WESTERN SUITE
analisi del disco
68
WESTERN SUITE
Jimmy Giuffre è stato uno dei più incessanti esploratori del jazz
senza mai soffermarsi a lungo su di una delle varie formazioni da
lui create. Ha sempre guardato in avanti cercando di approfondire
tutte le forme di espressioni possibili. In questo disco la Western
Suite, che fu registrata con la casa discografica Atlantic il 3 dicembre
del 1958, Giuffre cerca di dimostrare cosa può essere fatto senza
l'ausilio di una sezione ritmica. Il punto di partenza della sua ricerca
lo trova ascoltando Gerry Mulligan, che in quel periodo suonava
con una band alla quale mancava il pianoforte e che riusciva a far
percepire gli accordi attraverso un gioco polifonico a tre parti, tra
il sax la tromba ed il contrabbasso. Così per prima cosa nell'album
Tangents In Jazz, Giuffre sviluppa l'idea di Mulligan anche al ritmo
levando completamente ogni esplicita scansione ritmica, che verrà
fatta percepire in modo indiretto dagli interventi a rotazione dei
quattro strumenti. Quindi il passo successivo che spetta a Giuffre,
è quello dell'eliminazione definitiva della batteria. Così dapprima
forma un trio, formato solamente da sax, contrabbasso e chitarra,
con un repertorio fatto di semplici melodie blues e country, e da
un continuo gioco di cambi di ritmo. L'ulteriore passo che Giuffre
compie è l'eliminazione del contrabbasso, andando così a formare
un nuovo trio senza più la traccia di una sezione ritmica, formato da
Bob Brookmeyer al trombone a pistoni e da Jim Hall alla chitarra.
(Marcello Piras, Musica Jazz, 1987, 54)
69
Western Suite - Analisi del disco
«Bobby, Jim e io,» spiega, «avevamo fatto quella che era probabilmente la nostra migliore prestazione pubblica a Newport,
nel luglio del 1958, e così decidemmo di incidere un disco prima
che il trio si sciogliesse definitivamente. Nel mese di dicembre di
quell'anno, davanti a un pubblico di invitati, per ricreare l'atmosfera del concerto dal vivo, e quindi senza curarci delle sbavature,
facemmo la registrazione.
In quello che stavamo facendo non c'era la sezione ritmica
quindi era essenziale per ogni musicista essere costantemente a
conoscenza delle proprie capacità e del risultato che si voleva
ottenere. Ognuno di noi doveva essere qualcosa di simile a un
giocoliere. Siamo stati in grado di lasciarsi andare completamente
come faremmo in un club.»
Sempre Giuffre afferma che era particolarmente grato per il modo
in cui Brookmeyer e Hall interpretarono le parti scritte del disco.
«Non si può pretendere di ottenere tutto quello che si ha in mente
attraverso la scrittura, bisogna comunque affidarsi al caso ed alla
creatività dei musicisti. Questi non potranno seguire ciecamente la
vostra musica, ma dovranno renderla parte di se. Ci sono solo pochi
musicisti in grado di prendere la musica scritta e rapidamente farne
un prolungamento di se stessi. Un esempio è il modo in cui Bobby
ha eseguito il solo del secondo movimento». «Dopo un anno» dice
Giuffre, «abbiamo avuto meno problemi con il tempo di qualsiasi
altro gruppo con cui ho lavorato, compresi quelli con una sezione
ritmica. Per ovvi motivi, un batterista o bassista sono concentrati
mentalmente nei confronti del tempo, e comunque il problema più
grande per il jazz è trovare musicisti che riescano a lasciarsi andare. A mio avviso, una volta che si intraprende una direzione, fuori
da una pulsazione ben definita, basta solo cavalcare quel flusso,
andandogli dietro» (Western Suite, libretto interno CD)
L'impianto formale dell'opera non è una Suite ma piuttosto
una sonata, con i quattro tempi Allegro-Adagio-Scherzo-Allegro,
70
Western Suite
a testimonianza che spesso nel mondo del jazz, viene impropriamente usato il nome Suite. Originariamente registrato su supporto
in vinile, il disco presenta sul LATO A i quattro movimenti. Nel
primo, "Pony Express," il tenore di Giuffre, già di per sé piuttosto
atipico, risulta quanto mai "baritonale" specie nell'articolazione
delle note. La chitarra rimane comunque lo strumento-guida, così
come nel successivo movimento "Apaches" lo è il trombone, con
Giuffre stavolta al baritono. Ancora il trombone si divide il comando delle operazioni col clarinetto, dalla tipica pronuncia impastata
e cogitabonda, nel terzo movimento, "Saturday Night Dance". Il
conclusivo "Big Pow Wow," con Giuffre stavolta tenorista, riprende
per finire il tema di "Pony Express," richiudendo su di sé questo
capolavoro di originalità concettuale.
Il LATO B presenta due brani non di Giuffre. Il primo “Topsy”
di Edgar Battle / Eddie Durham, mentre l'altro è “Blue Monk” di
Thelonious Monk. Scelta insolita per quegli anni fare la cover di
Blue Monk, perché un brano ancora “giovane”. Infatti Thelonious
lo aveva scritto solamente qualche anno prima e precisamente nel
1954, a differenza di “Topsy” che vide la sua prima registrazione
nel 1937 grazie all'orchestra di Count Basie. Giuffre dirà a riguardo che la scelta di “Blue Monk” deriva dalla convinzione con cui
Thelonious suonava e scriveva era uno che non si tirava indietro.
Ritrovava in lui la stessa autorità che vedeva in John Coltrane,
Miles Davis, Steve Lacy e Ornette Coleman. In pratica ne fa una
sorta di omaggio.
"Topsy" si presenta in una versione molto riuscita, col leader
al clarinetto e Brookmeyer "imbavagliato" dalla sordina sopra
l'accompagnamento frusciante, con basso incorporato, di Hall.
"Blue Monk," con identico assortimento strumentale, sordina
compresa. Due episodi importanti, per il fatto che ci mostrano
un Giuffre clarinettista ormai proiettato verso quell'esplorazione
integrale dello strumento. Western Suite chiude il ciclo Atlantic.
71
Western Suite - Analisi del disco
Il caso più ecclatante, del lascito Western Suite, lo troviamo
nel 1988 con l'album “News for Lulu”. Non tanto per l'impianto
formale ma soprattutto per l'insolita formazione. Qui troviamo,
infatti, come band leader il saxofonista polistrumentista, compositore John Zorn, il chitarrista Bill Frisell (il diretto erede di Jim
Hall) ed il trombonista George Lewis.
72
PONY ESPRESS
Fig. 1 Schema generale dell’arrangiamento
La forma complessiva del primo movimento Pony Express (Fig.
1) è formata da nove sezioni. Un tema iniziale di 28 battute, due
interludi che precedono i soli di trombone e sax, tre soli in sequenza
di trombone, sax tenore e chitarra, sviluppato sul chorus del tema
iniziale.
Subito dopo il solo di chitarra troviamo una sezione di 15 battute
a canone completamente scritta prima della ripresa del tema finale
che è sostanzialmente una variazione per aumentazione del tema
iniziale, per concludere sulla coda.
73
Western Suite - Analisi del disco
Tema
Il tema è in Mi bemolle maggiore. Si basa su armonie semplici: Mi
bemolle maggiore per A e La bemolle maggiore e poi Si bemolle
settima per B, rispettivamente il primo quarto e quinto grado della
scala. In pratica armonie che ricordano un blues.
Comunque gli accordi, come già Giuffre aveva appreso da Mulligan, sono assorbiti nella polifonia. Melodicamente si basa su una
scala pentatonica maggiore come in quasi tutta la suite, sicuramente
una ricerca stilistica voluta per ottenere il carattere popolare come
suggerisce il titolo e la copertina dell'album. La prima A formata
da sei battute con attacco anacrusico, viene ripetuta due volte. Lo
sviluppo tematico, come si può vedere dalla trascrizione è affidato
al sax tenore (Giuffre) e al trombone (Brookmeyer) all'unisono per
la prima A mentre per la seconda A il trombone armonizza (Fig. 2,
battuta 8) eseguendo la terza, con il supporto della chitarra di Jim
Hall che regge l'armonia suonando la tonica e la quinta dell'accordo. Da notare l'uso del mi bemolle basso usato dalla chitarra,
tecnicamente possibile tramite scordatura di mezzo-tono della
sesta corda mi.
La parte B si sviluppa invece in otto battute, sax trombone e
chitarra si muovono all'unisono, tranne nelle battute nove, undici,
tredici, quindici dove la chitarra si muove per moto contrario. L'ultima A' è la ripetizione della prima A con l'aggiunta di due battute,
quasi come fosse una coda, affidate al trombone alla chitarra, dove
ripropongono le note delle battute 24 e 25.
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Pony Express
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Western Suite - Analisi del disco
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Pony Express
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Western Suite - Analisi del disco
Assoli
All'esposizione del tema, segue un interludio, con una serie di trilli
e di battute più lunghe e più corte. Il primo assolo è di Brookmeyer
dove l'armonia viene retta in A con un riff eseguito da sax e chitarra in sequenza, e in B da bicordi ribattuti, con accenti spostati.
L'assolo, che a tratti si avventura su armonie lontane, termina con
un rallentando. C'è di nuovo un interludio affidato al sax tenore,
che ripropone con libertà la melodia di A, e poi un duetto scritto
trombone-chitarra, basato su una figura che ricorda il tema.
Ora troviamo l'assolo di sax tenore, sorretto da una continuo
gioco chitarra trombone, fino ad arrivare all'assolo di chitarra.
Questo occupa un chorus, dilatato a piacere, ma riconoscibile. In
A, Jim Hall alterna le frasi ai rintocchi di un mi bemolle grave. In
B, i fiati intonano sullo sfondo una frase scritta.
Canone
Giocando ancora ancora sul contrasto tra stasi e moto, troviamo
una ripresa ritmica con un episodio scritto (Fig. 3). Sax e trombone
eseguono una melodia di cinque note fino a battuta dieci, esposta in
canone all'unisono, per poi concludere con contrappunto e l'aggiunta
della chitarra a sostenere con la ribattuta della nota si bemolle. La
musica si infittisce, per sfociare infine nella ripresa del tema.
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Pony Express
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Western Suite - Analisi del disco
Tema finale
Questa in pratica è una variazione scritta, salvo l'ultimo A, che è
identica al tema iniziale. Le sezioni AAB sono variate per aumentazione, cioè le note sono stirate in valori più lunghi (Fig. 4). Nel
primo A il sax fa la melodia e il trombone risponde; nel secondo
viceversa. In B, troviamo tutti e tre gli strumenti ad eseguire la
stessa frase. La coda, polifonica, conclude con un rallentando.
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Pony Express
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Western Suite - Analisi del disco
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Pony Express
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APACHES
Fig. 5 Schema generale dell’arrangiamento
La forma complessiva del secondo movimento Apaches (Fig. 5) è
formata quattro sezioni. Il brano è completamente scritto con una
forma tritematica ABC, più variazione finale su A'. Un tema iniziale in 4/4 di X battute (Fig. 6). Dalla trascrizione se ne possono
contare 33, dato i frequenti rallentando e i non a tempo. La parte
B è un canone con cambio di tempo in 7/4. La parte C lo special,
troviamo un nuovo cambio di tempo in 5/4 per le prime 10 battute
(Fig. 8, battuta 10) per poi svilupparsi con diversi cambi di metro.
La parte A' finale è la variazione del tema iniziale A.
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Apaches
Tema
Il secondo movimento, in 4/4, Apaches, in Si bemolle dorico, è
l'Adagio della composizione. Secondo le note di Nat Hentoff esso
«evoca per Giuffre un indiano che sta in cima a una montagna.
Man mano che l'episodio si dipana, compiono gruppi di indiani,
alternati all'indiano solitario. Segue quella che Giuffre definisce "la
tipica atmosfera indiana da luna pallida", e poi un canto di guerra,
culminante in una serie di rapidi cambi di tempo, a volte a ogni
battuta. C'è infine un ritorno al tema iniziale».
Nella prima melodia A (Fig. 6) si può notare una libertà ritmica,
difficile anche da trascrivere, dove troviamo la chitarra che esegue
un pedale continuo, giocato sulle note fa e fa diesis, e il trombone
che espone il tema. Qui Giuffre utilizza il sax baritono, che nel
caso dell'esposizione di A lo troviamo in sporadici momenti in
contrappunto con il trombone (Fig. 6, battuta 16).
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Western Suite - Analisi del disco
Fig. 6 Trascrizione del tema (suoni reali)
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Apaches
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Western Suite - Analisi del disco
Canone
La sezione B (Fig. 7) ha un carattere del tutto diverso. È un canone trombone chitarra una quinta sotto, in 7/4, dove dalla battuta
numero tre il sax di Giuffre sovrappone poi un'altra melodia (Fig.
7, battuta 7).
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Apaches
Fig. 7 Trascrizione del canone (suoni reali)
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Apaches
Special
La sezione C (Fig. 8) nelle prime dieci battute in 5/4 troviamo un
gioco di domanda e risposta dove il perno centrale è il trombone
che si muove all'unisono prima con la chitarra per poi rispondere,
sempre all'unisono, con il sax baritono, sostenuti dal si bemolle della
chitarra. Da notare quest'ultima esegue frasi che si estendono sino
alla nota si bemolle in chiave di basso. Tecnicamente impossibile,
ma anche in questo brano Jim Hall adotta la scordatura della sesta
corda sino al si bemolle (Fig. 8, battuta 1).
Le seconde dieci battute sono caratterizzate da un continuo
cambio di metro (Fig. 8, battuta 11).
Le frasi vengono e seguite all'unisono da trombone e sax, mentre la chitarra scandisce il battere di ogni nuova battuta. Infine per
terminare sulla ripresa di A' variata.
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Apaches
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SATURDAY NIGHT DANCE
Fig. 9 Schema generale dell’arrangiamento
La forma complessiva del terzo movimento Saturday Night Dance (Fig. 9) è formata da dodici sezioni. Troviamo un tema di otto
battute ritornellate, a seguire i soli in ordine di chitarra trombone
e clarinetto. Subito dopo il solo di clarinetto troviamo il solito
canone sviluppato su 17 battute, seguito dalla ripresa del tema e
dalla coda finale. Ogni episodio tranne tra il solo del clarinetto e
il canone e preceduto da un interludio.
Tema
Il terzo movimento, in 6/8, Saturday Night Dance, è lo scherzo della
suite. Qui siamo Si maggiore. Si tratta più o meno di un brano su
un accordo solo. C'è un semplice tema di otto battute ritornellate
(Fig. 10), sostanzialmente otto più otto diversificate dall'orchestrazione. Nelle prime otto battute vi è l'unisono della chitarra con il
trombone, poi si passa a due voci separate con il tema affidato al
clarinetto (Fig. 10, battuta 9) e il background di contrappunto al
trombone sulle fondamentali armoniche.
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Fig. 10 Trascrizione del tema (suoni reali)
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Saturday Night Dance
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Assoli
Dopo l'esposizione del tema troviamo in sequenza i soli di chitarra,
trombone e clarinetto, anticipati da un interludio. I tre solisti improvvisano su pedali di si. Ciascun assolo termina con una breve
cadenza.
Canone
Di nuovo Giuffre ricorre al prediletto canone, stavolta all'ottava, e
con entrate strette di mezza battuta (Figura 11, battuta 1). Il canone
è suddiviso da tre parti molto simili tra loro. Come sempre l'autore
gioca sull'orchestrazione, dapprima facendo entrare in sequenza
chitarra, trombone e clarinetto, per le prime sei battute di canone
che conclude con un la corona. Per le seconde sette battute (Fig.
11, battuta 7), le entrate sono trombone, clarinetto e chitarra con
corona conclusiva. Mentre nelle ultime quattro battute (Fig. 11,
battuta 14), clarinetto, chitarra e trombone è la sequenza di entrata,
che è maggiormente serrata, un ottavo tra i primi due strumenti.
Anche in questo movimento Jim Hall ricorre alla scordatura della
sesta corda sino al si (Fig. 11, battuta 1). Dopo il canone vi è la
riproposizione del tema, preceduto e seguito dallo stesso interludio che annunciava i soli, per poi concludere definitivamente il
movimento con una coda.
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Saturday Night Dance
Fig. 11 Trascrizione del canone (suoni reali)
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BIG POW WOW
Fig. 12 Schema generale dell'arrangiamento
La forma complessiva del quarto movimento Big Pow Pow (Fig.
12) è formata da otto sezioni. Troviamo un tema di 48 battute, a
seguire i soli in ordine di sax tenore, trombone e un duo sax trombone, una variazione scritta della sezione A del tema, il solo della
chitarra. In fine prima della coda vi è una riproposizione dei dei
temi dei tre movimenti precedenti.
Tema
Il quarto ed ultimo movimento, Big Pow Wow «powwow o anche
pow-wow o pow wow o wau Pau, è un raduno di nativi del Nord
America. La parola deriva da powwaw, che nella lingua della
tribù dei Narragansett significa "leader spirituale". Un pow wow
moderno è un tipo specifico di evento in cui la gente si incontra
per danzare, cantare, socializzare e onorare la cultura degli indiani d'America. A volte c'è anche una gara di ballo con premi in
denaro. I powwow possono durare da un minimo di un giorno e
cinque ore ad un massimo di tre giorni. I powwow più lunghi di tre
giorni durano in genere una settimana intera e servono a celebrare
un'occasione speciale.
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Western Suite - Analisi del disco
Il termine inoltre è stato usato per descrivere ogni raduno di
nativi americani di ogni tribù perciò non è difficile sentire questo
termine anche nei film western» (Wikipedia, Pow Wow).
La struttura è ABA' di sedici battute ognuna, e la tonalità è Mi
bemolle. Giuffre torna al sax tenore. Il tema per le prime sedici
battute è sostanzialmente un contrappunto a tre voci. (Fig. 13, da
battuta 1). La parte B, quindi le successive 16 battute sono anche in
questo caso giocate sulla distribuzione dei ruoli. Il tema è affidato
al trombone, con le risposte della chitarra nelle prime otto battute
(Fig. 13, da battuta 17) e del sax nelle seconde otto con Jim Hall
che tiene un pedale di Si bemolle (Fig. 13, battuta 25). La sezione
A' è ancora una volta un gioco di scambio di ruoli rispetto alla
sezione A iniziale.
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Big Pow Wow
Fig. 13 Trascrizione del tema (suoni reali)
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Big Pow Wow
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Big Pow Wow
Assoli
Si susseguono in fila il solo di sax di trombone, una sezione in
cui i due solisti si sovrappongono improvvisando; una variazione
scritta di A e una parte dove Giuffre fa sentire tutti e tre i temi dei
movimenti precedenti.
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TOPSY e BLUE MONK
Queste due cover sono chiaramente un riempitivo del lato B dell'album in quanto non hanno nessun legame con il lato A.
In Topsy di Edgar Battle / Eddie Durham troviamo un Giuffre
al clarinetto. E' la chitarra di Jim Hall che attacca con l'accompagnamento, detto "pump", caratteristica pennata miscelata ad una
stoppata di corde che dà nome al tipico accompagnamento manouche; si tratta di una tecnica complessa che permette ad una o più
chitarre di sostituire la sezione ritmica. Al clarinetto è affidato il
tema supportato dal trombone con sordina che lo sostiene a volte
con unisoni e a volte con linee melodiche che si allontanano per
poi tornare al tema. Il primo solo è di Giuffre supportato dall'accompagnamento di Hall che a volte si trasforma in walking bass,
e da sporadici interventi in background del trombone. Subito dopo
il solito scambio di ruoli. Ora il solo è affidato al trombone. Ed
infine il solo di chitarra, con clarinetto e trombone che aiutano la
chitarra eseguendo poche note dell'armonia. Degli scambi finali
tra clarinetto e trombone riportano al tema fino conclusione. Comunque per essere un brano eseguito in tre trovo importante far
notare i dodici minuti complessivi.
In Blue Monk di Thelonious Monk troviamo lo stesso tipo di
arrangiamento trovato in Topsy. Chitarra con accompagnamento
“pump”, tema al clarinetto di Giuffre, e trombone sordinato. Pri108
Topsy e Blue Monk
mo solo al clarinetto, poi trombone, chitarra, questa volta niente
scambi quindi ripresa del tema. Anche questo brano molto lungo
con otto minuti.
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CONCLUSIONI
La Western Suite è una «grande opera» proprio nel senso strutturale,
dell'ampiezza del progetto. Non vi è alcuna lungaggine: non un
solo episodio arriva a quaranta battute, e poche sono le ripetizioni
testuali. Essa però trabocca di piccole idee, interconnesse e saldate dalla grande forma. Si tratta di un esercizio di scrittura teso
al limite delle possibilità: con tre soli strumenti, e un tematismo
così semplice, era improbabile che chiunque potesse andare oltre
i diciotto minuti (Marcello Piras, Musica Jazz, 1987, 54).
Sicuramente un grande lavoro di arrangiamento, nell'utilizzo
dei tre strumenti. I quattro movimento non sono certo una ricerca
esasperata delle armonie, anzi forse la loro estrema semplicità fa
pensare proprio alla volontà di portarle ad un livello così basico
per concentrarsi maggiormente sugli arrangiamenti. Giuffre ha
lavorato sicuramente sulle linee melodiche, che comunque sono
per la stragrande maggioranza pentafoniche, sull'utilizzo degli
strumenti e sulle tecniche compositive. Infatti come si può notare
il canone è utilizzato largamente in tutte e quattro i movimenti.
Quest'ultimo non molto utilizzato, e anzi quasi accennato forse
per una mancata padronanza di questa tecnica. L'aumentazione è
un altra aspetto compositivo che Giuffre utilizza, come nel primo
movimento quando ripropone il tema dilatato nel finale. Nel secondo
movimento si può notare anche l'utilizzo del cambio di metro.
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Conclusioni
L'arrangiamento è sicuramente, grazie anche al suo passato
proprio in questa veste, l'aspetto dove Giuffre dimostra di essere
preparato, giocando con i continui cambi di ruoli, la scrittura di
background, sempre molto equilibrati. Un apporto all'arrangiamento
sicuramente viene anche da Jim Hall dato il suo uso continuo della
scordatura della chitarra. Sicuramente un aspetto che Giuffre non può
conoscere a fondo quanto il chitarrista, dato che non tutte le chitarre
riescono a reggere una scordatura fino al Si bemolle basso.
La Western Suite ha avuto una strana fortuna critica che non ci
aiuta a capire lo spessore dell'opera. In apparenza tutti gli studiosi
ne parlano bene; ma in realtà i più la liquidano con una pacca sulle spalle. Essa si è situata lontano dalle grandi correnti evolutive
del jazz, che nel 1958 passavano per Mingus, Rollins, Coltrane,
Davis, Coleman. E però all'epoca Giuffre era considerato sul loro
stesso piano, e non a torto l'ambiguità polimodale della Western
Suite, ottenuta con l'uso di armonie semplici, collocava Giuffre su
posizioni però più avanzate di quelle di John Coltrane, che all'uso
sistematico dei pedali sarebbe arrivato più tardi (Marcello Piras,
Musica Jazz, 1987, 57).
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Audioteca Provinciale
Giugno 2015
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