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La strada dell`abbraccio. L`accoglimento delle vittime nelle storie di
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
FORMAZIONE CONTINUA SULLA PERSONALIZZAZIONE DELLE CURE
Servizi Sociali e Famiglia
La strada dell’abbraccio.
L’accoglimento delle vittime nelle storie di violenza
A cura di
Viviana Olivieri
1
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
FORMAZIONE CONTINUA SULLA PERSONALIZZAZIONE DELLE CURE
Servizi Sociali e Famiglia
La strada dell’abbraccio.
L’accoglimento delle vittime nelle storie di violenza
A cura di Viviana Olivieri
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il volume raccoglie le relazioni dell’evento formativo “La strada dell’abbraccio.
L’accoglimento delle vittime nelle storie di violenza”
Responsabili Scientifici del percorso formativo:
Chiara Bovo, Direttore Sanitario, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona;
Viviana Olivieri, Formatore e laureata in giornalismo, Servizio per lo Sviluppo della
Professionalità e l’Innovazione, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona;
Giorgio Ricci, Direttore Pronto Soccorso Borgo Trento, Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata Verona
Corrado Vassanelli, Direttore Cardiologia, Azienda Ospedaliera Universitaria
Integrata Verona
Verona, maggio 2015
Editor: Gabriele Romano, Viviana Olivieri, Servizio Sviluppo Professionalità
Innovazione
© Copyright Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Autori/Relatori
Chiara Bovo, Direttore Sanitario, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Enrico Buttitta, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Militare di Verona
Sabrina Camera Criminologa, Giudice Onorario presso il Tribunale di Sorveglianza di
Venezia
Roberto Castello, Direttore Medicina Endocrinologia Sezione Decisione Clinica,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Francesco Cobello, Direttore Generale, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata
Verona
Marco Dalla Valle, Infermiere terapia Intensiva Cardiologica, Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata Verona
Emanuele Finardi, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva –
Università degli Studi di Verona
Maria Gabriella Landuzzi, Dipartimento Tesis, Università degli Studi di Verona
Monica Lavarini, Direzione Medica Ospedaliera, Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata di Verona
Anna Leso, Assessore ai Servizi Sociali e Famiglia, Comune di Verona
Anna Malaguti, Referente AIF Veneto, Associazione Nazionale Formatori
Michele Masotto, Psicologo Psicoterapeuta
Giuliana Menegatti, UOC Cardiologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata
Verona
Ilenia Mezzocolli, Pronto Soccorso, Azienda Ospedaliera Padova
Emmanuele Morandi, Dipartimento Filosofia, Pedagogia e Psicologia, Università
degli Studi di Verona
Viviana Olivieri, Formatore, Servizio Sviluppo Professionalità Innovazione, Azienda
Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Stefano Quaglia, Provveditore agli Studi di Verona
Giorgio Ricci, Direttore Pronto Soccorso Borgo Trento, Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata Verona
Marina Spallino, Presidente Comitato Unico di Garanzia, Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata Verona
Giulio Tamassia, Presidente Club Giulietta
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Stefano Tardivo, Professore Associato Dipartimento di Sanità Pubblica e Medicina di
Comunità, Università degli Studi Verona
Annalisa Tiberio, Referente Ufficio Scolastico Regionale Veneto per la legalità,
politiche giovanili e sicurezza
Simonetta Tregnago, Presidente Commissione Pari Opportunità, Regione Veneto
Corrado Vassanelli, Direttore Cardiologia, Azienda Ospedaliera Universitaria
Integrata Verona
Francesca Vassanelli, Cardiologia, Università degli Studi di Brescia
6
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
INDICE
Premessa (F. Cobello)
pag.
9
di violenza e il ruolo dell’AOUI Verona (C. Bovo)
pag.
11
La strada dell’abbraccio.
Come accogliere le vittime di storie di violenza (V. Olivieri)
pag.
13
contrastare la violenza contro le donne (S. Tregnago)
pag.
15
Azioni del MIUR (A.L. Tiberio)
pag.
19
nelle relazioni di aiuto (A. Malaguti)
pag.
27
Presentazione (A. Leso)
pag.
29
Paradigmi mitici minori per una diversa percezione del sé (S. Quaglia)
pag.
35
Il Comitato Unico di Garanzia dell’Azienda
Ospedaliera Universitaria Integrata Verona (M. Spallino)
pag.
55
Origine della cultura e violenza sociale (E. Morandi)
pag.
59
Il ciclo della violenza: una questione sociale (M. G. Landuzzi)
pag.
73
Il ciclo della violenza: le fasi. Aspetti educativi preventivi (V. Olivieri)
pag.
81
Si può guarire dagli episodi di violenza? (M. Masotto)
pag.
89
Violenza e legalità (E.Buttitta)
pag.
93
La strada dell’abbraccio. L’accoglimento delle vittime nelle storie
Interventi regionali per prevenire e
I bisogni di apprendimento di chi opera
7
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il monitoraggio della Regione Veneto sugli episodi di violenza
(S. Tardivo, M. Lavarini, E. Finardi)
pag. 107
Donna, persona, culture (G. Ricci)
pag 111
La violenza sulle donne: il percorso specifico nel DEA
dell’Azienda Ospedaliera di Padova (I.Mezzocolli)
pag. 117
Autori e vittime nelle nuove forme di violenza:
tutela nella fase successiva al reato (S.Camera)
pag. 119
Il mal d’amore, sindrome di Tako-Tsubo: emozioni e
malattie cardiovascolari nella donna
(C.Vassanelli,G. Menegatti, F. Vassanelli)
pag. 133
La violenza: differenza di genere? (R. Castello)
pag. 139
Un libro accanto: cenni di biblioterapia (M. Dalla Valle)
pag. 143
Come il club di Giulietta accoglie e risponde
alle problematiche sociali… (G. Tamassia, V. Olivieri)
pag. 147
Conclusioni (V. Olivieri)
pag. 151
8
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Premessa
Francesco Cobello
Direttore Generale
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Si tratta di un incontro formativo aperto a tutta la cittadinanza e a tutto il mondo
dei professionisti sanitari. Il problema della violenza sulla donna coinvolge non solo chi
nel sociale se ne occupa ma anche e soprattutto il mondo della sanità.
Questo è un primo incontro formativo/informativo a carattere multidisciplinare
che desidera affrontare le problematiche della donna che subisce violenza, e non solo.
I vari professionisti coinvolti, dalla Regione, al Comune, alla giurisdizione, alla
mondo socio sanitario metteranno in evidenza in quale modo è possibile attuare una
continua informazione, formazione, prevenzione e interventi socio terapeutici.
Il breve percorso formativo potrà essere un’importante occasione per
approfondire le tematiche sulla genesi della violenza, il contributo sociologico
epidemiologico sulla diffusione e sul ciclo della violenza, le eventuali terapie che
permettono non solo la prevenzione ma anche una cura. Inoltre verrà messo in evidenza
in quale modo la legislazione è vicina non solo alle donne che subiscono violenza ma
anche agli operatori che trattano le donne che hanno subito il danno.
Si parlerà poi se esiste una violenza di genere e quali patologie possono
insorgere a seguito di emozioni violente.
L’obiettivo della giornata formativa è di creare coesione tra i vari professionisti
che si occupano di sociale, scuola e sanità, in modo di creare così un team di sicurezza e
tutela di alcune delle maggiori fragilità del nostro momento storico attuale: il mondo
femminile.
Di problema culturale si tratta e per attuare una corretta prevenzione è necessario
un continuo e attento monitoraggio da parte di tutte le forze istituzionali, sociali e
sanitarie. Questo è un primo incontro, una base sulla quale strutturare una formazione
continua e permanente.
9
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
10
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La strada dell’abbraccio. L’accoglimento delle vittime nelle storie di violenza
e il ruolo dell’AOUI Verona
Chiara Bovo
Direttore Sanitario
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Attuare una corretta informazione/formazione su prevenzione, accoglimento,
cura e monitoraggio della donna che ha subito violenza è una vera e propria emergenza
sanitaria che impone agli enti di attuare un corretto protocollo di accogliento della
donna che subisce violenza.
I relatori coinvolti sono alcuni dei rappresentanti che concorrono ad attuare un
corretto percorso di accoglimento delle vittime e di monitoraggio di questo fenomeno
che rappresenta uno dei più gravi disagi sociali.
La violenza contro le donne (sessuale, fisica e/o psicologica) rappresenta una
vera emergenza mondiale e italiana con ricadute gravi e significative sulla salute ed il
benessere mentale e fisico della donna.
Secondo uno studio ISTAT del 2007, 3 milioni di donne tra i 15 ed i 70 anni
sono state vittime di violenza e maltrattamenti, di queste 2.938.000 hanno subito
violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali da parte di partner o ex partner.
A livello nazionale solo il 7,2% sporge denuncia; il 90% delle vittime decide di
non denunciare l’accaduto alle Forze dell’Ordine per diverse ragioni alla base delle
quali c’è sempre una pressione sociale e psicologica (paura, vergogna, dipendenza).
L’ISTAT ha anche evidenziato come la diffusione del fenomeno sia maggiore
nel Nord Italia. Un altro dato significativo, sia da un punto di vista sociale che
epidemiologico, è che più del 31% delle violenze avviene nell’abitazione della vittima e
solo il 10% a casa dell’aggressore, quindi nella maggioranza dei casi la vittima conosce
bene il maltrattante.
Le ricadute della violenza hanno effetti devastanti sulla salute psichica e fisica
della donna che ne è vittima. Questo impone che si attuino interventi specifici su due
fronti: la presa in carico e la cura della persona che ha subito violenza e le azioni
specifiche per impedire che questo possa riaccadere.
11
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Si sta attuando così in Azienda un progetto che vede il coinvolgimento dei
Pronto Soccorso e del Pronto Soccorso di Ostetricia e Ginecologia, che sono i poli di
accoglimento delle vittime.
Scopo di questo percorso formativo è proprio quello di coinvolgere i diversi enti
e professionisti che si occupano di sociale, scuola, sicurezza e sanità al fine di istituire
un modello di presa in carico globale delle vittime di violenza. Si desidera poi creare
un’azione sinergica e propositiva per garantire un approccio multi professionale e
multimodale in grado di creare una rete di prevenzione, accoglimento, tutela e supporto
alle donne vittime di violenza.
L’obiettivo del corso è di fornire alla cittadinanza e al mondo della scuola
strumenti culturali per promuovere una cultura maschile e femminile volta alla
mediazione reciproca per educarci a creare nuovi modelli di genere sinergici e solidali
nella propria diversità.
Il passo successivo sarà di attuare una formazione multidisciplinare, continua e
mirata degli operatori sanitari dei PS per garantire una valutazione a 360° della persona
per una corretta presa in carico socio assistenziale della vittima.
Il corso desidera inoltre monitorare l’attività con il coinvolgimento di tutte le
forze politiche, sociali, sanitarie e della sicurezza promuovendo in modo continuativo la
formazione e l’informazione.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La strada dell’abbraccio. Come accogliere le vittime di storie di violenza
Viviana Olivieri,
Formatore, Servizio Sviluppo Professionalità Innovazione
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
La violenza sulle donne assume sempre più i connotati di una malattia sociale
cronica. E’ vero, molti sono stati gli approcci preventivi come le iniziative socio
culturali, ma di fatto il problema resta e secondo i dati regionali con una frequenza
quotidiana.
Si evidenzia sempre di più che la violenza sulle donne riconosce soprattutto una
causa di tipo culturale e in tale modo deve essere affrontata.
La giornata di oggi desidera con un approccio multidisciplinare mettere in luce
sia l’importanza della cultura per attuare una corretta prevenzione e alcune delle
istituzioni che con forza e costanza cercano di debellare questo fenomeno sia offrire un
sostegno concreto e positivo alle donne che subiscono violenza domestica.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Interventi regionali per prevenire e contrastare la violenza contro le donne
Simonetta Tregnago
Presidente Commissione Pari opportunità Regione Veneto
La legge regionale 23 aprile 2013, n. 5 “Interventi regionali per prevenire e
contrastare la violenza contro le donne” (pubblicata nel Bollettino Ufficiale della
Regione del Veneto n. 37 del 26 aprile 2013 ed entrata in vigore il giorno 11 maggio
2013) promuove interventi di sostegno a favore delle donne vittime di violenza in
collaborazione con Enti pubblici e privati che abbiano tra i loro scopi prioritari la lotta e
la prevenzione alla violenza contro le donne e i minori.
A tal fine la L.R. n. 5/2013 prevede che la Regione del Veneto ponga in essere
azioni volte alla tutela e al recupero di condizioni di vita normali delle donne vittime di
violenza, nonché attività mirate al contrasto del fenomeno.
Gli interventi finalizzati a dare attuazione alla citata legge sono indicati
all’articolo 2 e di seguito vengono riassunti:
a) realizzazione e miglioramento strutturale di centri antiviolenza, di case rifugio e di
case di secondo livello;
b) attività di sostegno agli enti locali e alle aziende unità socio-sanitarie (ULSS) per la
creazione, implementazione e gestione di strutture e servizi di supporto alle donne
vittime di violenza;
c) individuazione di strumenti e strategie interistituzionali atti a garantire il
coordinamento e le sinergie tra gli enti pubblici e fra questi e gli organismi sociali delle
comunità locali (forze dell’ordine, prefetture, sistema sanitario regionale, magistratura);
d) formazione delle operatrici e degli operatori che svolgono attività connesse alla
prevenzione e al contrasto della violenza contro le donne e al sostegno delle vittime;
e) realizzazione di attività di prevenzione, monitoraggio e studio dei fenomeni,
individuazione di proposte per mettere in atto misure efficaci di contrasto nonché di
specifiche attività di carattere informativo, culturale, educativo e formativo.
L’elenco dei centri antiviolenza approvati dalla Giunta regionale è pubblicato e
costantemente aggiornato sul sito web istituzionale della Regione del Veneto:
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
(link:
ttp://www.regione.veneto.it/web/pariopportunita/rilevazione-delle-strutture-
regionali ) dove sono anche consultabili i provvedimenti della Giunta regionale.
Al momento sono state censite e inserite negli elenchi regionali 15 centri
antiviolenza, 9 case rifugio di primo livello e 12 case rifugio di secondo livello.
Per quanto riguarda i contributi regionali, lo stanziamento stabilito dal Bilancio
di previsione per l’esercizio finanziario 2013 ammontava a € 400.000,00 e riguardava
unicamente spese di natura corrente. La Giunta regionale con deliberazione n. 1784 del
3 ottobre 2013 (acquisito precedentemente il previsto parere della V Commissione
consiliare: CR 91 del 16.07.2013 – parere del 5 settembre 2013) ha definito i criteri, le
priorità e le modalità per la concessione dei finanziamenti ai Comuni del Veneto e alle
Aziende ULSS per progetti finalizzati all’implementazione e alla gestione di strutture
adibite a centri antiviolenza, case rifugio, case di secondo livello per accogliere donne
vittime di violenza, sole o con figli minori, (L.R. n.5/2013, articolo 2, lettera b).
Anche nel 2014 è stato disposto un finanziamento regionale per un totale di €
400.000,00 a cui si sono aggiunti i fondi statali per il 2013 e 2104. Alla Regione del
Veneto sono stati assegnati complessivamente € 1.440.506,29 secondo la ripartizione di
seguito indicata:
I. Istituzione di nuovi centri antiviolenza e di nuove case rifugio: 33% dell’importo
complessivo stanziato. Il riparto di tali risorse si basa sul numero della popolazione di
ciascuna regione, sul numero dei centri antiviolenza e delle case rifugio esistenti per
ciascuna regione rapportati alla media ponderale pari a 1,79 stimando un centro
antiviolenza per ogni 400.000 abitanti, come indicato nella Tabella 2 allegata al citato
DPCM. Per il Veneto l’ammontare dei fondi stanziati è pari a € 692.974,09;
II. Finanziamento aggiuntivo degli interventi regionali già operativi volti ad attuare
azioni di assistenza e di sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli, sulla base
della programmazione regionale: 80% della somma rimanente al netto dell’importo di
cui alla precedente lettera a). Al Veneto sono stati assegnati € 641.868,16;
III. Finanziamento dei centri antiviolenza pubblici e privati già esistenti in ogni regione:
10% della somma rimanente al netto dell’importo di cui alla precedente lettera a), per il
Veneto pari a €58.622,81;
IV. Finanziamento delle case rifugio pubbliche e private già esistenti in ogni regione:
10% della somma rimanente al netto dell’importo di cui alla precedente lettera a), per il
Veneto pari a €47.041,23.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
L’articolo 8 della L.R. n. 5/2013 prevede l’istituzione di un “Tavolo di
coordinamento regionale per la prevenzione e il contrasto alla violenza contro le
donne”, un organismo con funzioni di supporto, di consultazione e di indirizzo nei
confronti della Giunta regionale per l’attuazione della legge citata. Il Tavolo ha anche il
compito di curare le relazioni con la Rete nazionale antiviolenza. La legge ha
demandato alla Giunta regionale il compito di individuare la composizione del Tavolo,
previa acquisizione del parere della competente Commissione del Consiglio regionale.
Il Tavolo risulta composto come segue:
a) l'Assessore regionale alle Pari Opportunità, o suo delegato, che lo presiede;
b) la Presidente della Commissione regionale per la realizzazione delle pari opportunità
tra uomo e donna di cui alla legge regionale 30 dicembre 1987, n. 62 "Istituzione della
Commissione regionale per la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna";
c) il Pubblico Tutore dei minori, o suo delegato;
d) il Dirigente responsabile della struttura regionale competente in materia di diritti
umani e pari opportunità, o suo delegato;
e) il Dirigente responsabile della struttura regionale competente in materia di servizi
sociali, o suo delegato;
f) il Dirigente responsabile della struttura regionale competente in materia di sanità, o
suo delegato;
g) un componente designato dall’Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica con
sede presso l’Università di Verona;
h) quattro componenti nominati dalla Giunta regionale tra soggetti aventi almeno tre
anni di esperienza nell’ultimo quinquennio nel ruolo di responsabile, o un suo delegato,
della gestione di centri antiviolenza o di case rifugio o di case di secondo livello di cui
almeno due in rappresentanza delle organizzazioni non a scopo di lucro (non profit);
i) due componenti con esperienza di pronto soccorso e medicina di base nominati dalla
Giunta regionale del Veneto;
j) un componente designato dall'ANCI del Veneto;
k) un componente designato dalle Prefetture del Veneto;
l) due componenti designati dalle Forze dell'Ordine operanti nel Veneto rispettivamente
dalla Polizia di Stato e dall'Arma dei Carabinieri;
m) un componente designato dalla Corte d'Appello di Venezia;
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
n) un componente designato dal Centro Diritti Umani dell’Università degli Studi di
Padova.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Azioni del MIUR
Anna Lisa Tiberio
Referente Uff. Scolastico Regione Veneto per legalità, politiche giovanili e sicurezza
In attuazione del protocollo di Intesa siglato tra il Ministro dell’Istruzione,
Università e Ricerca e il Ministro delegato alle Pari Opportunità il 30 gennaio 2013,
è stata promossa dal 24 al 30 novembre del 2014, la Settimana nazionale contro la
violenza e la discriminazione.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e il Dipartimento
per le Pari Opportunità, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, così come
sottoscritto nel Protocollo (art.2), “si è impegnato a promuovere un piano
pluriennale di attività comuni, nel rispetto della propria autonomia e nell’ambito
delle rispettive competenze, di sensibilizzazione e formazione, volte a promuovere
nei giovani, sulla base delle norme e dei valori della Costituzione italiana, la
cultura del rispetto e dell’inclusione, nonché per la prevenzione e il contrasto di
ogni tipo di violenza e discriminazione”.
Le Istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado sono state invitate, pertanto,
ad attivare opportuni e significativi percorsi di sensibilizzazione, di informazione e
di prevenzione e di contrasto a tutte le forme di violenza e di razzismo in
considerazione del fatto che:
È compito delle Istituzioni scolastiche diffondere la massima conoscenza
possibile dei diritti della persona e del rispetto verso gli altri, così come
declinato anche nelle recentissime Indicazioni Nazionali;
La prevenzione ed il contrasto dei fenomeni di violenza e discriminazione,
sulla base del genere, della religione, della razza o dell’origine etnica, della
disabilità, dell’età, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere
richiedono azioni mirate da parte dei soggetti istituzionali deputati e delle
Associazioni;
Fenomeni quali la violenza, il bullismo, la discriminazione possono essere
prevenuti e contrastati mediante adeguati percorsi formativi a scuola;
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Iniziative di studio, di confronto, di apprendimento e di riflessione, con il
coinvolgimento di genitori, alunni e docenti, sui temi della legalità e del
contrasto ad ogni forma di violenza e discriminazione possono creare un
proficuo scambio ed ausilio tra le istituzioni scolastiche e le famiglie.
Ciò premesso, si rende altresì necessario, così come sottoscritto nel Protocollo
di Intesa, “tematizzare, in particolare, almeno una settimana nel corso dell’anno
scolastico alle predette iniziative, prevedendo, nel contempo, percorsi formativi
stabili dedicati al tema del contrasto ad ogni forma di violenza e di
discriminazione, nonché dell’educazione alla legalità”.
Con riferimento allo specifico tema della violenza di genere, il nuovo quadro di
riferimento normativo che si connette strettamente con le disposizioni del recente
decreto legge, n.93/2013, convertito con modificazioni dalla L. 15 ottobre 2013, n.
119 (in G.U. 15/10/2013, n.242), assegna alle Istituzioni scolastiche un ruolo e una
funzione determinante e irrinunciabile per la prevenzione e per il contrasto dei
femminicidi e delle violenze sulle donne. Il decreto sottolinea, infatti, la necessità
di promuovere, nell’ambito del Piano straordinario contro la violenza “l’educazione
alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere nell’ambito dei
programmi scolastici nelle scuole di ogni ordine e grado, al fine di sensibilizzare,
informare, formare gli studenti e prevenire la violenza nei confronti delle donne e la
discriminazione di genere anche attraverso una adeguata valorizzazione della
tematica nei libri di testo” e di “garantire la formazione di tutte le professionalità
che entrano in contatto con la violenza di genere e lo stalking” (art.5, comma 2, b e
d).
Alla luce di quanto sopra evidenziato, il Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca e il Dipartimento per le Pari opportunità della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno lanciato, in occasione della Settimana
contro la violenza e la discriminazione, un avviso pubblico nazionale destinato al
finanziamento di progetti contro la violenza e la discriminazione, rivolto alle
istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Campagne di sensibilizzazione, concorsi, promozione e diffusione di spettacoli
nelle scuole. Sono solo alcune delle azioni del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca per il contrasto alla violenza di genere. L’ultima è
sul piano della formazione dei docenti, così come previsto dal Decreto.
L’istruzione punta all’aumento delle competenze relative all’educazione
all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere per fare in
modo che la scuola non sia semplicemente un luogo in cui si celebrano le
ricorrenze, ma lo spazio in cui si sedimenta un reale cambiamento culturale.
Il Miur quindi è al lavoro per un vero e proprio piano di formazione degli
insegnanti contro la violenza di genere, che coinvolga anche i Dirigenti Scolastici e
i Direttori degli Uffici Scolastici Regionali, con il sostegno delle Università e delle
Associazioni.
Quest’anno il Miur ha preparato anche la campagna di sensibilizzazione “Tante
diversità uguali diritti”, con diffusione on line di materiali informativi e formativi,
un concorso per corti cinematografici ed approfondimenti curricolari sul tema
donne e legalità.
Come ogni anno l’8 marzo sono stati premiati al Quirinale i migliori progetti
delle scuole che partecipano al concorso “Donne per le donne”.
E quale modo migliore ed istituzionalmente corretto concludere questo scritto
con il discorso del Ministro Giannini in occasione della festività dell’8 marzo.
Signor Presidente, Gentili ministri, Autorità, parlamentari,
care studentesse e cari studenti oggi è una giornata solenne e
importante per il nostro Paese e per la nostra società. E in virtù di
questa innegabile rilevanza vorrei aprire il mio intervento con una
breve nota storica.
La cultura occidentale si è aperta con un capitolo letterario di
magistrale tragicità.
Eschilo nelle Supplici ci racconta il primo atto di violenza
istituzionale contro un
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
gruppo di donne: le cinquanta figlie di Danao che scappano in
Argolide dall’Egitto
per sfuggire al matrimonio loro imposto con i cinquanta cugini.
Siamo nel 463 a.C.
nel Mediterraneo orientale.
Le Danaidi, come ricorderete, subiranno il matrimonio, salvo
poi diventare loro
stesse assassine dei loro mariti nella prima notte di nozze, con
l’eccezione di
Ipermestra che disobbedisce al padre e salva il suo sposo Linceo.
Una prima, modernissima rappresentazione, quella di Eschilo,
della complessità
delle relazioni di genere e dell’eterno conflitto fra valori universali
e convenzioni
politiche contingenti.
Sul ruolo delle donne, l’umanità da allora ha poi compiuto
avanzamenti e passi
indietro segnando notevoli differenze tra vari popoli e culture ma
scontando, anche
nel nostro Paese, inconcepibili ritardi.
Di certo, nel corso degli ultimi decenni la Comunità
internazionale ha espresso una
crescente sensibilità sul tema del contrasto alla violenza sulle
donne : con la
Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione di
genere (1979); con
la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della
violenza contro le donne
(1993) e da ultimo con la Convenzione di Istanbul (2011).
Perché è evidente a tutti, o perlomeno dovrebbe esserlo, che
libertà e uguaglianza
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
devono procedere di pari passo.
Lo sforzo normativo c’è stato, il nostro Paese ha fatto la sua
parte. Ma la violenza
è rimasta. Nel 2012 sono state 124 le donne uccise in Italia. Un
dato di per sé
inaccettabile che al contempo rappresenta solo la punta di un
iceberg.
Dunque, la “questione femminile” va affrontata soprattutto da
un punto di vista
culturale: con una piena riappropriazione di un ruolo paritario
della donna nella
società e con un maggior rispetto per l’immagine femminile.
Tutti devono fare la loro parte anche se non tutti in realtà lo stanno
facendo.
Con questo spirito, la Giornata mondiale delle Donne
rappresenta un necessario
momento di riflessione che tuttavia deve andare oltre le
celebrazioni ufficiali o le
manifestazioni ad essa dedicate. Nel nostro Paese, la “questione
femminile” è
ancora una questione irrisolta, direi una questione ‘nazionale’.
Risolvere questa questione significa: più donne al lavoro, più
donne nei ruoli di vertice, più mamme serene in casa e realizzate
fuori, più giovani donne ambiziose, che sappiano e vogliano osare.
Insomma per tutte le donne italiane vogliamo i diritti e i doveri
della vera uguaglianza.
Perché anche in Italia le donne sono più numerose e in media
più qualificate degli uomini, ma il mercato del lavoro non se n’è
accorto e ne scoraggia l’inserimento e l’avanzamento in carriera.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Per una donna è difficile entrare e ancor più difficile superare gli
ostacoli: salari più bassi, maggiore precarietà, difficile
conciliazione dei tempi tra casa, figli e lavoro, minore
indipendenza economica.
E’ quindi nella scuola il luogo elettivo dove si creano le
premesse per una vera e propria sensibilità, per una scelta
consapevole. Ed è nella funzione educativa della scuola la chiave
per arrivare a un vero e pieno accesso alle opportunità di crescita
e di lavoro.
Il mondo della scuola italiana aderisce convintamene alla
“Giornata Internazionale della Donna” con il pieno
coinvolgimento delle studentesse e degli studenti oltre che dei loro
appassionati insegnanti che qui ringrazio.
Grazie ai docenti anche quest’anno le scuole partecipano al
concorso “Donne per le Donne”, un’iniziativa sulle pari
opportunità, organizzato di concerto tra il nostro Ministero e la
Presidenza della Repubblica. Oggi abbiamo consegnato i premi. E
gli elaborati dei vincitori sono esposti nella galleria dei busti che
mi auguro avrete la possibilità di vedere e apprezzare.
Oggi sono qui davanti a voi, nel ruolo di Ministro della
Repubblica. Svolgo il mio compito in una “squadra” che per la
prima volta nella storia repubblicana è composta da una adeguata
rappresentanza femminile. Otto ministri donna sono un segno
tangibile di presenza di genere e una scelta politica chiara e
lungimirante.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Io credo che il rispetto, l’autonomia e al dignità siano alla base di
una società civile che genera sviluppo e crescita umana, culturale
ed economica. Ed è questa l’Italia che vogliamo”.
Io c’ero ad ascoltare queste parole che ogni giorno nella
nostra scuola si trasformano in azioni tese a sensibilizzare i
giovani al grande valore del “Rispetto” per una cittadinanza
sempre più autentica e responsabile e sempre più proiettata verso
l’alleanza educativa e la reciprocità.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
I bisogni di apprendimento di chi opera nelle relazioni di aiuto
Anna Malaguti
Referente AIF Veneto
Questa iniziativa dell'Azienda Ospedaliera di Verona affronta un tema
assai centrale e scottante: come accogliere, ascoltare e accettare le vittime di
violenza che spesso portano con se un tale carico di dolore e orrore da
muovere i nostri fantasmi interiori.
Per affrontare un tema così vasto e complesso i punti di vista non
potevano che essere molti e diversificati. Il percorso progettato ci parla della
genesi della violenza, che ha sempre in se anche il dolore e la sofferenza del
"carnefice", punto di vista che spesso fa indignare ma da cui non si può
prescindere se si vuole mettere in campo delle politiche preventive o di
contenimento dei fenomeni violenti verso i più deboli.
Le vittime di violenza hanno necessità di essere accolte e sollevate dalla
colpa che nasce in loro, dalle domande sul perché proprio a loro e cosa
possono aver suscitato nell'altro per essersi attirate la violenza.
Il titolo del convegno evoca l'abbraccio come atto di accogliere, atto che
mette in contatto i corpi, sottolinea la vicinanza e la relazione di aiuto, porta al
centro le capacità di tutti coloro che vengono in contatto con la persona che ha
subito violenza.
Compito difficile quello di accogliere senza giudizio, che mette in gioco i
vissuti degli operatori, siano essi sanitari o con altri diversi compiti, di
indagine giudiziaria o di sostegno psicologico.
La crescente complessità della società odierna implica sempre maggiore
attenzione alla formazione degli operatori che si trovano di fronte a casi
diversi per età, sesso, culture, credo religioso, ecc. e vivono la stessa violenza
con sentimenti e comportamenti diversi, a volte difficili da interpretare.
Spesso chi ha subito violenza prova vergogna, senso di colpa. Può sentire odio,
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
repulsione, paura. È stato ferito/a, ha perso la fiducia. Con quali capacità,
competenze e sensibilità può essere sostenuto/a? Cosa comunica la vittima di
violenza? Cosa apprende l'operatore che la accoglie? Quali competenze deve
cercare dentro di sé e costruire nel percorso formativo che dovrà
accompagnarlo e sostenerlo a sua volta per tutta la vita lavorativa?
Formazione, supervisione, ascolto sono necessari, essenziali per
sostenere chi sostiene.
Parlare dei casi, mettere in contatto i diversi ruoli che intervengono,
creare in questo modo la certezza di operare in squadra, costruire la fiducia
nelle istituzioni di chi opera nelle istituzioni. È questo un impegno sfidante che
deve essere promosso da tutti coloro che hanno i potere e la capacità di farlo. Il
percorso della formazione continua dei diversi soggetti, pensati come individui
portatori di esperienze e saperi ed anche come gruppi allargati portatori di
cultura comune. Questa occasione di confronto proposta dalla Azienda
Ospedaliera di Verona ha in se un grande potenziale di condivisione e
collaborazione che sicuramente permetterà agli operatori tutti, coinvolti nella
attività di accoglienza e sostegno alle vittime di violenza, di relazionarsi con
fiducia tra loro e sentirsi parte di un progetto più grande al servizio della
comunità.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Presentazione
Anna Leso
Assessore ai Servizi Sociali e Famiglia del Comune di Verona
Sono lieta di partecipare a questa importante iniziativa a cui, come Comune di
Verona, abbiamo aderito con grande interesse in quanto riteniamo che l’Azienda
Ospedaliera Universitaria Integrata svolga un ruolo fondamentale nell’approccio alla
donna vittima di violenza che necessita di cure ed assistenza sanitaria
nell’immediato e per il successivo invio ai servizi specialistici.
Infatti, dopo l’accesso al Pronto Soccorso e conclusa la fase emergenziale di
diagnosi, osservazione e cura, con eventuale ricovero, la donna avrà la possibilità di
ricevere tutte le informazioni utili per valutare l’opportunità di un inserimento in una
struttura protetta, qualora il rientro a casa non sia possibile, rivolgendosi ai servizi
territoriali (Servizi Sociali, Consultori Familiari, Centro Antiviolenza, Forze
dell’Ordine, ecc.) per poter intraprendere un percorso per riscattarsi dalla violenza.
L’odioso fenomeno della violenza di genere, che tristemente e quasi
quotidianamente i mass media portano alla luce, agita da un uomo nei confronti di una
donna con cui ha, o ha avuto, una relazione intima ed affettiva, è ritenuta una violazione
dei diritti umani.
Infatti, la Convenzione del Consiglio d’Europa (11 maggio 2011) sulla prevenzione e
lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica,
documento più noto come Convenzione di Istanbul, riconosce come grave violazione
dei diritti umani ed elemento di discriminazione la violenza domestica, la violenza
sessuale, lo stupro, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili
“costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze e il
principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi”.
Prima di passare ad esporre le azioni di contrasto alla violenza, messe in campo
dal Comune di Verona, vorrei fare una riflessione partendo dai concetti racchiusi nel
titolo di questo incontro:
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
“La strada dell’abbraccio. L’accoglimento delle vittime nelle storie di violenza”
Sia chi subisce che chi sta a fianco di una vittima deve tener conto che per uscire dalla
violenza, dovrà affrontare un percorso, una strada, più o meno lunga, più o meno
tortuosa, piena di ansie e paure, ma anche carica di speranze che porteranno al vero
cambiamento legato all’interruzione della relazione violenta.
L’altro messaggio, che questo titolo vuol passare, è che sarà un percorso basato
sull’accoglimento competente ed empatico di chi con professionalità starà accanto alla
donna senza mai sostituirsi a lei.
LE AZIONI
Il Centro Antiviolenza P.e.t.r.a.
A Verona l’Amministrazione Comunale, per il tramite dell’Assessorato che rappresento,
è impegnata da tempo sul fronte del contrasto alla violenza sulle donne: nel concreto dal
2004 è stato aperto un Centro denominato P.e.t.r.a. (Pratiche Esperienze Teorie
Relazioni Antiviolenza), che si rivolge alle vittime della violenza, in particolare donne,
al cui interno opera un’equipe costituita da tecnici che quotidianamente trattano, per
professione, il fenomeno del maltrattamento agito all’interno delle relazioni affettive.
Ci si può rivolgere al centro P.e.t.r.a., tramite un numero verde gratuito 800392722 con
segreteria telefonica h24 o via e.mail [email protected] ,
per trovare:
ascolto telefonico con operatrice: lunedì, mercoledì e venerdì dalle 10.30 alle
13.00; martedì, mercoledì e giovedì dalle 15.00 alle 17.00;
accoglienza in sede su appuntamento;
consulenza legale;
ascolto, sostegno, accompagnamento per la costruzione di un progetto
individualizzato per un’uscita consapevole dalla violenza anche con l’ausilio di
mediatori culturali;
consulenza psicologica e sociale;
percorsi di sostegno psicologico e sociale
ospitalità temporanea per donne con o senza figli;
garanzia di anonimato e riservatezza
gratuità
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La Casa Rifugio di P.e.t.r.a.
Il 24.11.2007 l’Amministrazione Comunale con la Mozione n. 56 del Consiglio
Comunale, decise di potenziare il Progetto P.e.t.r.a. prevedendo l’apertura di una Casa
Rifugio che potesse ospitare donne vittime di violenza da sole o assieme ai figli minori.
Nel 2008 fu individuato e attrezzato un alloggio comunale (ATER) da adibire a una
comune abitazione per ospitare un piccolo numero di donne (massimo 8 – 10) con gli
eventuali figli.
Nel 2009 la Casa Rifugio, denominata Casa di P.e.t.r.a., venne aperta; la casa è un
luogo protetto, ad indirizzo segreto, per donne, sole o con figli, che si trovano in
condizioni di incolumità fisica e/o psicologica senza una rete di riferimento
(familiare amicale sociale) che intendono interrompere la relazione maltrattante. Il
distacco dalla relazione violenta avviene anche attraverso un percorso personale di
crescita e cambiamento, effettuato presso il centro P.e.t.r.a., che facilita il recupero
delle proprie risorse, della fiducia in sé e dell’autonomia.
Nella casa vengono inserite solo situazioni ad alta autonomia sociale cioè donne
capaci di autogestire le proprie necessità e quelle dei figli che non necessitano di
personale educativo presente nella casa sulle 24 ore.
L’inserimento viene valutato dal Centro P.e.t.r.a. in collaborazione con in servizi
territoriali coinvolti (Servizio Sociale del comune o dell’ULSS, altri) con cui verrà
definito un progetto di presa in carico.
Nella casa sono presenti, per alcune ore giornaliere, due educatrici con funzioni
educative (accompagnamento ai servizi per la ricerca del lavoro, l’autonomia
economica, il reperimento di un alloggio, ecc.), di coordinamento ed organizzazione
della vita quotidiana (garantire la pacifica convivenza tra le ospiti e la quotidiana
gestione della casa, ecc.). Le educatrici hanno una reperibilità telefonica h24 e fanno
riferimento a un referente fornito sempre dalle cooperative sociali in convenzione.
La permanenza nella Casa è temporanea (fino a un massimo di 6 mesi) in quanto,
generalmente, le donne inserite possiedono capacità di recupero delle risorse personali
in tempi brevi.
Nella Casa non sono previsti inserimenti di situazioni: di tutela minorile, o di grave
invalidità o problematiche psichiatriche o da dipendenza da sostanze certificate, o in
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
emergenza abitativa in quanto tali tipologie possono trovare risposte mirate presso i
servizi preposti per affrontarle.
La Pronta accoglienza
Sempre dal giugno 2009 si è stipulata anche una convenzione con
l’Associazione Cattolica Internazionale al servizio della giovane, più nota come Casa
della giovane, per un servizio di ospitalità in pronta accoglienza per donne con o
senza figli minori che sono costrette ad allontanarsi urgentemente dalle proprie
abitazioni perché a rischio la loro l’incolumità psico-fisica. L’ospitalità in pronta
accoglienza è a carico del Servizio delle Pari Opportunità del Comune di Verona per un
massimo di 3 gg sia per donne non residenti che per quelle senza fissa dimora, mentre
per le residenti sarà fino a un massimo di 15 gg.
Alcuni dati
Dal 2009 al 31 dicembre 2014 sono state messe in protezione complessivamente
96 donne e 90 figli minori. Le richieste di aiuto telefonico pervenute al centro P.e.t.r.a.
dal 2004 al 31 dicembre 2014, sono state 2.364, i casi seguiti 1.112 e i colloqui
effettuati 4.956.
Progetti e sperimentazioni
Tra il 2009 e il 2011 l’Amministrazione Comunale è stata capofila di un
Progetto ministeriale denominato “Verona libera dalla violenza sulle donne” che ha
puntato sulla formazione degli operatori e dal 2012 al 2014 è stata ancora capofila di un
altro progetto ministeriale denominato “C.L.A.R.A. città-lavoro-accoglienza-retiantivolenza” che ha puntato a “Rafforzare le azioni di Prevenzione e contrasto al
fenomeno della Violenza” (partner coinvolti: ULSS 20, AULSS 21, ULSS 22,
Università di Verona, Associazione Telefono Rosa di Verona, Studio Guglielma,
cooperative sociali Azalea, L’albero e Il Ponte, la Consulta delle Associazioni
Femminili di Verona e l’ associazione Eurodonne).
Con il progetto C.L.A.R.A. è stata aumentata la copertura dei servizi dedicati
alle donne vittime di violenza con l’apertura, dal 2013 al 2014, di 3 nuovi Punti di
ascolto provinciali (Villafranca, Porto di Legnago e S. Bonifacio); il progetto ha,
inoltre, avviato delle sperimentazioni per il recupero dell’autonomia lavorativa ed
abitativa delle donne vittime di violenza e formato un gruppo di famiglie di accoglienza
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
che possono ospitare temporaneamente donne vittime di violenza con eventuali figli
minori.
Occuparsi di violenza all’interno delle relazioni affettive significa non solo
occuparsi delle necessità (bisogni e condizioni di salute) delle vittime, donne e bambini
che la subiscono in maniera diretta o indiretta, ma anche prendersi cura di chi la agisce.
Per contrastare la violenza sulle donne è necessario lavorare con gli uomini che la
agiscono.
Partendo da questo principio nel giugno 2013, col finanziamento del progetto
C.L.A.R.A., è stato aperto Uno Spazio di Ascolto per Uomini che agiscono violenza
nelle relazioni affettive e intrafamiliari denominato “Non agire violenza scegli il
cambiamento” dove, tramite personale qualificato, si offre, ascolto telefonico e
accoglienza in sede per un percorso individuale mirato al cambiamento. Tale servizio,
aperto nelle giornate di giovedì e venerdì, presso la sede delle Pari Opportunità del
Comune di Verona, prosegue per volontà dell’Amministrazione Comunale che lo
sostiene assieme alla Regione del Veneto.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Paradigmi mitici minori per una diversa percezione del sé
Stefano Quaglia
Provveditore agli Studi Verona
I miti acquistano la loro massima
importanza nelle società fondate
sulla tradizione e illetterate
G. S. KIRK, La natura dei miti greci,
Laterza, Roma-Bari 1977
Nella terra dei miti
In un celeberrimo lavoro a quattro mani con Carl G. Jung, Karoly Kerenyi
sosteneva: “La mitologia «fonda». Essa non risponde in vero alla domanda «perché?»
bensì a questa : «da dove? da qual origine?». In greco si può esprimere questa differenza
con la massima precisione. La mitologia non dà mai degli αἴτια «cause». Essa le dà (è
«eziologica») soltanto in quando gli αἴτια –come dice Aristorele (Metaf. 2, 1013 a
Metaf. D, 2, 1013a) – sono delle ἀρχαί (…) Non mere «cause» dunque, piuttosto
materie o condizioni primordiali che non invecchiano, né vengono mai superate”.1
ἀρχαί in greco antico è il plurale di ἀρχή e significa principio. Alla mitologia, quindi i
due autori attingono quella serie di fattori fondativi non tanto del comportamento
quanto della stessa architettura interiore, per giunta sommersa, che Jung chiamava
Archetipi dell’inconscio collettivo.
Non voglio arrischiarmi in un terreno accidentato e scosceso, ma certo a chi
percorre le strade dell’esperienza classica e si misura ogni giorno con i problemi
educativi qualche suggestione e qualche dubbio sorgono inevitabilmente nel momento
in cui si guardano i panorami comportamentali che si presentano sotto i nostri occhi. La
domanda che sorge è: ma questo inconscio è fermo o si muove e cambia? I Cinesi, i
Senegalesi, i Filippini e i Singalesi che coabitano con noi e percorrono le vie del mondo
hanno lo stesso inconscio collettivo nostro? Dico questo perché mi domando se queste
riflessioni possano andar bene anche per gli allievi che venano di vivace e multicolore
presenza le nostre aule.
1
C. C. JUNG E K. KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino
1972, pp. 20, sg.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Mi domando: ma per questi uomini, questi cuccioli d’uomo che condividono con
noi l’esperienza della vita tecnologica, vale l’osservazione che qualche giorno fa ho
sentito fare da un illustre Psichiatra, passato nel corso della sua esperienza, prima tra le
file degli Psicologi e poi fra quelle più articolate e complesse dei Pedagogisti, o meglio
degli Psico-Pedagogisti, ovvero che non esiste più il figlio edipico, ma esistono solo
narcisi? In altre parole: al cambiare del sistema sociale cambia anche l’inconscio? E
quale area di intersezione esiste fra l’Inconscio Collettivo e l’Immaginario Collettivo?
La generazioni che hanno di volta in volta avuto nelle Tigri di Mompracem, in
Ombre Rosse, in Jesus Christ Superstar, e nel Gobbo di Nôtre Dame i territori della loro
fantasia, e non parleremo di cantanti o di calciatori o di altri idoli, sono assimilabili alle
community di Face Book e degli altri Social Network sui quali sembra scaricarsi ogni
sorta di catarro ed escrezione dell’anima? Ma esiste ancora, alla maniera di Hillman,
un’anima?
Tutti questi interrogativi sono inquietanti e turbativi per noi, che con una
scafatura di medio peso in materia di psico+(n-suffissi) affrontiamo le aule, sempre più
insicuri e sempre meno a noi stessi amici, ancorché protetti dalla confortevole armatura
delle nostre discipline e delle nostre competenze educative. È in questo quadro
preoccupante che io tenterò di introdurre sommessamente, sottovoce, l’idea che forse
dobbiamo comunque tentare di leggere testi diversi, di cercare di andare a scovare altre
ἀρχαί giacenti nel fondo della nostra coscienza storico-collettiva, negli archivi di un
immaginario non nuovo, ma trascurato, non rinnovato. In altre parole io credo che se i
cuccioli d’uomo, sempre e comunque nel pienissimo e indiscutibile rispetto delle
famiglie, dei loro valori e dei sani principi di pluralismo e democrazia, vengono posti di
fronte ad altri modelli, non dico che tutto cambi, ma certo qualcosa comincia
gradualmente a sgretolarsi di una roccia di immagini ormai non più coerenti con
l’assetto interiore necessario a fronteggiare l’era della complessità. Aggiungo che
bisogna stare molto attenti. Non lo dirò a questo pubblico raffinato, ma in educazione
non c’è nulla di meccanico. Il modello è di natura biologica e fluido, se dobbiamo
ricorre alla fisica è a quella complessa dei Quanti che dobbiamo pensare, non a quella
lineare e gravitazionale di Newton.
Orbene, veniamo a noi. Qui proporrò alcune figure della nostra più profonda
mitologia non consuete, per certi aspetti possiamo dire lontane, se non persino estranee
al nostro immaginario collettivo. Quanto abbiano a che fare con l’inconscio e in quale
misura siano di natura archetipica non saprei, di certo però quando si incontrano
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
esercitano su di noi un incredibile fascino e sembra che in qualche modo con loro
abbiamo avuto già a che fare. Non ci sono indifferenti, anzi hanno una potenza
paradigmatica che ci stupisce, considerato anche il fatto che non sono per lo più molto
note.
Quasi tutti questi personaggi hanno a che fare con la morte. Anzi, la morte li
attornia, li insegue, li sfida o persino li fa propri per liberarli da una condizione difficile;
in qualche caso si lascia superare da una metamorfosi che li rende persino eterni. Forse
è per questo che possono aiutarci a cogliere profili nuovi di un’umanità più autentica.
Incontrarsi con loro per certi aspetti è come ritrovare un modo d’essere che ci sembra di
avere perduto, uno stile relazionale basato su una lealtà che non pare appartenere
all’orizzonte di senso nel quale viviamo. Ecco, direi che i due tratti essenziali di queste
storie - non so se archetipiche, ma di certo dotate di incisività emotiva fortemente
paradigmatica - sono la lealtà e la dialettica con la morte. La morte, come fatto o come
consapevolezza che la fine incombe sull’uomo li rende incredibilmente grandi e capaci
di proporsi come riferimento interiore.
L’amore filiale fino alla negazione di sé: Kléobis e Bìton
(Erodoto, 1.31)
Kleobis e Biton, erano due giovani fratelli di grande prestanza fisica e avevano
entrambi riportato vittorie nelle gare atletiche. Erano figli di Cidippe, sacerdotessa di
Hera. Un giorno si celebrava in Argo una festa dedicata alla dea e i due dovevano
assolutamente portare la madre al tempio con un carro, ma i buoi, ai quali doveva
essere aggiogato il carro, erano in ritardo nel rientro dai campi. Allora, per consentire
alla madre di arrivare in tempo alla celebrazione, i due giovani la fecero salire sul
carro, misero i gioghi sulle spalle e la portarono fino al tempio per un tragitto di 45
stadi (8,3 Km). Al loro gesto, ammirato da tutta la popolazione riunita per la festa,
seguì una fine nobilissima: con loro il dio volle mostrare quanto, per un uomo, essere
morto sia meglio che vivere. tutti ad Argo si complimentavano con la madre per quegli
splendidi figli e lei, oltremodo felice dell'impresa e della grande reputazione
derivatane, si fermò in piedi di fronte all'immagine della dea e la pregò di concedere a
Kleobis e a Biton, la sorte migliore che possa toccare a un essere umano. Dopo questa
preghiera i giovani celebrarono i sacrifici e il banchetto e si fermarono a dormire lì nel
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
tempio. L'indomani non si svegliarono più: furono colti così dalla morte. Si dimostrò
così il valore di due antichissimi proverbi: secondo il primo: muore giovane chi è caro
agli dei; il secondo sostiene che la cosa migliore per un uomo è non essere mai nato, la
seconda tornare al più presto là da dove si è venuti. Gli Argivi li ritrassero in due
statue che consacrarono a Delfi, come si fa con gli uomini più illustri.
Polymedes di Argo, VI Sec. a. C., Kleobis e Biton
Kleobis e Biton rappresentano quindi l’archetipo della generosità verso la
madre. La grande madre mediterranea che riassorbe in sé le creature dopo la morte. In
questo caso l’ossequio verso la figura femminile è fondato sulla dipendenza filiale. La
lettura può essere duplice, ma il fatto significativo è che l’impresa per cui sono
apprezzati non è di guerra, ma di servizio alla madre e si carica di valenza anche
religiosa. Non dimentichiamo che Hera è la moglie di Zeus.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La generosità di Alcinoo
(Od. VIII 557 sgg.)
Nel sesto libro dell’Odissea, Odisseo, sbattuto dalla tempesta sull’isola dei
Feaci, Scheria, al risveglio dal sonno in cui è cauto per la stanchezza, si rivela a
Nausicaa, la giovane principessa, venuta alla riva del mare per lavare i panni e giocare
con le compagne. La fanciulla lo soccorre e lo invita a salire alla città, dove gli
presenterà i genitori e gli altri dignitari di corte.
La società dei Feaci ha caratteristiche particolari, che meritano di essere
ricordate. Essi sono pacifici e leali, aiutano tutti gli stranieri che approdano alla loro
terra a ritornare in patria. Faranno la stessa cosa con Odisseo, anche se sono consapevoli
del rischio tremendo che corrono. Chi aiuterà l’eroe di Itaca, infatti, si scontrerà
inevitabilmente con l’ira di Poseidone, il cui figlio, Polifemo, Odisseo ha accecato
spietatamente nella caverna dove era rimasto prigioniero con i suoi compagni. Per i
Feaci si tratta di una sfida:
Infatti i Feaci non hanno piloti,
le loro navi non hanno i timoni che hanno le altre,
ma sanno da sole i pensieri e la mente degli uomini,
le città e i grassi campi di tutti conoscono,
e traversano celeri l’abisso del mare
avvolte nella foschia e in una nube: esse non temono
mai di soffrire alcun danno o d’andare in rovina.
Ma una volta sentii dire questo a mio Padre
Nausitoo: diceva che Posidone era irato
con noi , perché senza danno siamo guide di tutti.
Diceva che un giorno avrebbe spezzato una nave ben costruita
ai Feaci, mentre sul mare fosco da un viaggio di scorta
tornava, e avrebbe avvolto la nostra città d’un gran monte.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Claude Lorrain, Ulisse parte dalla terra dei Feaci (1646)
Essi, il Popolo del Mare, pur di restare fedeli al loro modo di trattare gli ospiti
non temono l’ira del dio più potente del mare. Anzi lo sfidano. E la pagano cara, perché
come la nave che ha portato Odisseo ad Itaca arrivò presso il porto
nella sua rapida corsa, addosso le fu l’Enosictono,
che pietra la fece, la radicò nel profondo,
a mano aperta colpendola e poi se ne andò.
(Od. XIII, 162 sgg)
e da lontano Alcinoo, che riconosce il segno inconfondibile della fine, grida
«Ahi! Dunque un’antica profezia ci raggiunge,
questo una volta udii predire dal padre,
da Nausìtoo: diceva che si adirerebbe
Poseidone con noi, ché di tutti siamo i trasportatori impuniti.
Un giorno - diceva - una solida nave delle genti feacie
rientrante da un accompagno sul mare nebbioso,
distruggerà, e poi coprirà la nostra città d'un gran monte.
Così diceva il vecchio, e ora tutto si compie,
o lascerà incompiuto, come piace al suo cuore».
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
(Od. XIII, 171 sgg)
I Feaci rappresentano dunque l’inevitabilità del destino e la fedele adesione alla
propria identità. Non sono guerrieri, la loro etica non è quella del conflitto e dell’onore
in battaglia, ma si fonda sull’ospitale cordialità e sulla lealtà, a costo di attirarsi anche
l’ira degli dei. L’Odissea non dice quale sia stato l’esito finale del loro rischio, lascia
immaginare che attraverso ecatombi e suppliche abbiano potuto ancora salvarsi, ma il
loro destino sembra inevitabilmente segnato. Qui la morte cancella un popolo, un intero
popolo colpito dall’ira di un dio non per aver violato una norma o un patto, ma per aver
aiutato un proprio simile. I Feaci sono dunque il modello di un eroismo semplice e
senza retorica. Un paradigma valido ancor oggi nella società degli astuti navigatori della
complessità? Questo è l’interrogativo che vorrei condividere con voi. I Feaci hanno
forza archetipica? Io non lo escluderei.
Amore, morte: Piramo e Tisbe
(Ovidio, Metamorfosi IV 55-166)
Coppia prototipica di tutte le situazioni d’amore ostacolato, i due giovani
protagonisti di una delle più delicate Metamorfosi di Ovidio, costituiscono anche un
caso complesso di interesse filologico. Probabilmente, ma non voglio qui fare
anticipazioni, noi veronesi abbiamo qualcosa in comune con questa vicenda.
Piramo e Tisbe, l’uno il più bello dei giovani, l’altra la più amata delle fanciulle
che l’oriente ebbe, abitavano case vicine dove si dice che Semiramide abbia fatto
cingere l’importante città con mura di mattoni cotti. La vicinanza rese possibile la
conoscenza e i primi innamoramenti; l’amore crebbe con il tempo; si sarebbero anche
uniti secondo un rito nuziale, ma i padri lo vietarono; quello che non poterono vietare
fu che entrambi nello stesso modo innamorati ardevano. (…) Una notte decidono di
ingannare i custodi e di uscire dalle loro case per darsi un appuntamento in un luogo
solitario dove un grande albero stendeva i suoi rami e mostrava i suoi frutti bianchi, un
alto gelso, vicino ad una fresca fonte. (…)
Tisbe prudente attraversa l’oscurità, esce e, con il volto velato, giunge presso
l’albero stabilito; l’amore la rende audace. Ma ecco sopraggiungere una leonessa con
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
le fauci imbrattate e schiumanti di sangue per una recente strage di buoi; la belva si
avvicina all’acqua della fonte per placare la sete. Tisbe la vede di lontano, alla flebile
luce della luna, e con passo incerto fugge verso un antro oscuro; ma mentre fugge
lascia cadere dalle spalle il velo. Non appena la leonessa crudele ha placato la sete, si
avventa sul velo abbandonato da Tisbe e lo lacera con la bocca insanguinata. Piramo
uscito dalla sua casa un po’ più tardi quando arriva all’albero vede nella polvere le
impronte della belva e impallidisce. Scorge anche il velo macchiato di sangue e grida:
“Una sola notte perderà due amanti dei quali lei fu la più degna di una lunga vita, la
mia anima è colpevole; io ti ho tolto la vita, o infelice, io che ti ordinai di venire di
notte in un luogo pieno di paura né io per primo sono venuto”. Prende il velo di Tisbe,
e lo porta con sé all’ombra dell’albero stabilito, bacia in lacrime il velo, e grida:
“Ricevi ora anche il sorso del mio sangue”, conficcando nel ventre la spada di cui si
era cinto prima di uscire e, senza indugio, la estrae dalla ferita. Il sangue sprizza in
alto e tinge i frutti dell’albero, che assumono un colore bruno; la radice intrisa di
sangue tinge i frutti pendenti di un colore rosso.
Pierre Claude Gautherot, Piramo e Tisbe 1799
Passata la paura, lei ritorna a cercare il giovane amico, desiderosa di
raccontargli quanti pericoli ha incontrato. Riconosce il luogo e l’aspetto nell’albero
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
stabilito, tuttavia il colore dei frutti la rende esitante; ella non sa se sia questo: mentre
si interroga tremante vede a terra nel sangue un corpo ancora sussultante negli spasimi
che precedono la morte. Riconosce il suo amore e strappandosi i capelli e
abbracciando il corpo amato, bagna le ferite di lacrime, mescola il pianto al sangue e
riscaldando di baci il volto gelido, esclama gridando: “O Piramo, quale sorte ti toglie
a me, o Piramo, rispondi! La tua amatissima Tisbe ti chiama! ascoltami e solleva il
volto!”. Al nome di Tisbe Piramo volge gli occhi appesantiti dalla morte e vedutala li
chiude. La giovane riconosce il suo velo e vede il fodero vuoto della spada a terra;
comprende il tragico equivoco e decide di seguire l’amato nella morte: “La tua mano e
il tuo amore, ti ha perduto, o infelice! Anche io ho una mano forte per questo, anch’io
ho l’amore, questo mi darà le forze per i colpi mortali. Io ti sarò vicina e si dirà che io
sono stata l’infelicissima causa e sarò la compagna della tua morte; tu che potevi
essere strappato da me solo con la morte, tu non potrai essere allontanato da me con la
morte. Conficcatasi la punta della spada sotto la parte estrema del petto giace sulla
spada che ancora era calda del sangue di Piramo.
Tuttavia le preghiere commossero gli dei, commossero i parenti; infatti il colore
del frutto quando è maturo è scuro e quello che resta del rogo riposa in un’unica urna.
Penso che i più abbiano riconosciuto in Piramo e Tisbe i tratti di un’altra
celeberrima e sventurata coppia, separata in vita dall’ostilità dei parenti e unita in morte
dalla violenza del proprio braccio. Anche qui sembra che l’energia maggiore dell’anima
si manifesti ai bordi dell’oscuro infinito che inquieta la nostra parte più profonda. Al di
là delle innumerevoli rielaborazioni letterarie e del degrado al quale spesso queste storie
sono sottoposte nel loro riuso “rosa” e consumistico, non possiamo non interrogarci
sulla valenza simbolica della dedizione reciproca.
Anche noi oggi assistiamo, nella vita ordinaria, ad un vissuto che sembra
rivelare al fondo paradigmi archetipici in certa misura riconducibili a frammenti o
aspetti limitati di questo mitologema. La violenza sulla donna, da parte di un uomo che
non tollera la separazione da lei, in realtà sembra riconducibile al modello della rabbia
d’Agamennone per la restituzione di Criseide e alla ancor più nefasta ira di Achille per
la perdita risarcitoria di Briseide. “Muoio io che non posso vivere senza di te muori
anche tu, che non vivrai senza di me” sembra essere il sillogismo analogico che
soggiace a tante forme di violenza.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Non è raro infatti il caso di femminicidi (plurale di femminicida) che insistano
nell’affermare come l’uccisione dell’amata che li ha respinti è stata prodotta da un
eccesso d’amore. Con Piramo e Tisbe siamo di fronte invece a un altro paradigma.
Ciascuno preferisce la morte propria alla separazione. Quindi la morte diventa il luogo
dell’unione perpetua. L’archetipo, qui sembra non tanto la fedeltà, quanto la
consapevolezza che la propria identità è incompleta senza l’altro, per cui la vita non
mette conto più d’essere vissuta. Non possiamo poi per analogia correre con la mente a
Paolo e Francesca, anche se in quel caso la morte viene dall’esterno e non da una scelta
degli amanti. In ogni caso però anche per Paolo e Francesca è la morte, per giunta la
morte eterna infernale, il luogo in cui l’amore durerà eterno.
Il paradigma della semplicità: Filemone e Bauci
(Ovidio, Metamorfosi) VIII 618-724
Che cosa sarebbero potuti diventare negli anni Piramo e Tisbe, se il loro amore
fosse stato coronato da piena soddisfazione? Forse (dico “forse” perché quando
pattiniamo sui miti rischiamo sempre di scivolare malamente) possiamo intravederne le
linee di sviluppo in un altro racconto mitico, quello dell’amore delicato e umbratile fra
Filemone e Bauci. Ancora Ovidio, dunque. Ma cambia l’età dei protagonisti. Non più
giovani amanti alla ricerca di una gioia impossibile, ma anziani coniugi legati da una
lunga consuetudine, fatta di cose semplici e di tranquilla, persino, solitaria, vita a due
che non li ha esauriti nella reciproca intesa.
Si racconta che un tempo, - quando sull’Olimpo vivevano gli dei dell’antica
Grecia – Zeus volle discendere sulla terra per rendersi conto di come gli uomini si
comportassero. Per questo, preso l’aspetto di un uomo qualunque, egli e il figlio
Hermes, il quale per l’occasione si era tolto dai piedi le ali, si diedero a percorrere le
vie della Grecia. I due pellegrini, così travestiti, giunsero in Frigia senza farsi
riconoscere da nessuno. Qui, desiderosi di trovare un rifugio dove riposarsi, si misero a
bussare di porta in porta chiedendo ospitalità. Si presentarono così a innumerevoli
palazzi, ma dovunque furono scacciati e trovarono le porte chiuse a catenaccio.
Giunsero finalmente ad un povera capanna, ricoperta di canne e di erbe palustri, dove
abitavano due vecchietti della medesima età, la pia Bauci e il buon Filemone. In quella
44
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
capanna Filemone e Bauci avevano vissuto insieme fin dalla giovinezza; in quella
erano
invecchiati
senza
vergognarsi
della
loro
povertà
e
sopportandola
tranquillamente, tanto da non sentirne neppure il peso. Nell’umile dimora era inutile
chiedere quale fosse il servo e quale il padrone: vi erano due sole persone, e tutte e due
comandavano e ubbidivano a vicenda. Qui Zeus e Hermes trovarono pronta cordiale
accoglienza. (…)
I due anziani coniugi non si rendono conto a chi hanno aperto la loro capanna.
Poi poco a poco accadono fatti che li stupiscono. Infatti
(…) durante il pasto, ogni volta che il vaso del vino rimaneva vuoto, lo vedevano
spontaneamente riempirsi, come se il vino sorgesse su dal fondo. Meravigliati per una
cosa tanto straordinaria, Filemone e Bauci furono presi da timore, e, levando le mani
al cielo, invocarono perdono per i cibi frugali e per la mancanza d’ogni apparato."Noi
siamo proprio dei" dissero i due ospiti "e i vostri empi vicini subiranno la punizione che
hanno meritato; voi invece rimarrete immuni dal flagello. Abbandonate dunque la
vostra casa e seguiteci sulla cima del monte".
Nicolaes Lauwers (1600-1652), Filemone e Bauci
45
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
L’ira degli dei si abbatté su tutto il territorio e sugli abitanti ostili e inospitali,
che non avevano accolto i due dei pellegrini, alla ricerca di un luogo che li accogliesse. I
due vecchi assistettero ad un’inondazione che trasformò quella terra in una tetra palude.
Contemporaneamente
(…) la vecchia capanna, piccola perfino per due soli padroni, ecco si converte
in un tempio: i pali a sostegno del tetto si trasformano in colonne, la paglia della
copertura diventa d’oro, il pavimento si copre di marmo, le porte appaiono
magnificamente scolpite. Allora Zeus, parlò con benigna voce: "Ditemi ora, o buoni
vecchi sposi, degni l’uno dell’altro, che cosa desiderate". Scambiate poche parole con
Bauci, Filemone rispose: "Chiediamo di essere sacerdoti e di poter custodire il vostro
tempio; e siccome abbiamo trascorso insieme d’amore e d’accordo tutta la vita,
desideriamo di morire nel medesimo tempo, cosicché io non debba vedere il sepolcro
della mia sposa, né essere da lei sepolto."
Giunti al termine della vita, si trovarono per caso sui gradini del tempio a
narrarne la storia ai visitatori. A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre
il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter
fronde anch’esse. Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano
parole di saluto, fino a quando fu loro possibile. "Addio, sposo mio" si dissero a un
tempo. I quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia. Ancora
oggi, in quel medesimo luogo, si possono vedere i due tronchi, l’uno accanto all’altro,
nati dai due corpi.
Filemone fu trasformato in quercia e Bauci in Tiglio, e tutt’oggi perdura il loro
abbraccio. Come un albero solo, apparivano quei due tronchi di fronte al tempio. Due
nature legate a formare una sola creatura. La morte li supera e non li tocca, li trasforma.
Non vedono la sepoltura l’uno dell’altro e l’amore assoluto, nella semplicità del
quotidiano, assume il valore di un antidoto non solo alla morte ma persino
all’esperienza della morte della persona amata. Mentre Piramo e Tisbe, trovano nella
morte la terra della loro unione, Filemone e Bauci sono premiati con la trasformazione
della loro terra in un tempio che esce dalla sfera dei vivi ed essi stessi si mutano in una
creatura non più umana. Non la morte li libera, ma la natura li libera dalla morte. Il tema
è tutt’altro che semplice, perché si pone con esso l’arduo dilemma se la natura umana
sia così intessuta di dolore da perdere se stessa nel momento in cui al dolore rinunci. A
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
prescindere comunque da questi dubbi, la fedeltà e la semplicità di Filemone e Bauci
rappresentano un paradigma di positività non sempre compreso, al di là di certe
zuccherose interpretazioni.
La disincantata cortesia di Glauco, l’amabile virilità di Bellerofonte
(Iliade VI, 144-211)
Ed
eccoci
giunti
a
quella che considero la “akmè
del nostro percorso, forse la
chiave stessa di tutte le altre
interpretazioni. Abbiamo a che
fare con personaggi particolari
e di straordinario fascino. Un
guerriero
un
po’
filosofo:
orgoglioso, ma cordiale; di
nobile
stirpe
greca,
ma
schierato dalla parte di Troia
per le inquietanti vicende nelle
quali furono coinvolti i suoi
antenati; ardito sfidante del più
forte dei Greci in campo, Diomede, (Achille ancora si rifiuta di partecipare alle ostilità),
il quale poi contro ogni previsione si scopre suo antico ospite. Glauco figlio di Ippoloco,
discendente da antica stirpe d’eroi, interpreta alla perfezione la fedeltà emulativa ai suoi
antenati, fra i quali spicca luminoso il principale protagonista della nostra riflessione:
Bellerofonte, l’uccisore della Chimera, eroe spietato e fortissimo, ma anche obbediente
e corretto. Eticamente irreprensibile, egli paga le conseguenze del suo irriducibile
fascino. Ad un certo punto sul campo di battaglia vengono a fronteggiarsi due guerrieri:
Glauco, giovane Licio e Diomede, signore di Argo. Questi si stupisce che qualcuno osi
affrontarlo e gli chiede chi sia mai, se si renda conto di chi ha di fronte. A questo punto
Glauco risponde:
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Magnanimo figlio di Tideo, perché domandi della mia stirpe?
Come è la stirpe delle foglie, cosi quella degli uomini.
Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva
fiorendo ne genera, quando torna la primavera;
così le stirpi degli uomini, l'una nasce e l'altra dilegua.
Uomini e foglie. Il paragone che avrà innumerevoli riprese nella letteratura dell’Occidente nasce qui. La fragilità della condizione umana è chiara a Glauco, che alle
spalle ha innumerevoli storie di gloria e miseria. Egli ricorda come fra gli antenati ci
fosse un suo omonimo, il padre di Bellerofonte, l’eroe perfetto
τῷ δὲ θεοὶ κάλλός τε καὶ ἠνορέην ἐρατεινήν /ὤπασαν
al quale gli dèi diedero come scorta bellezza e amabile virilità;
Per queste sue doti
Impazziva per lui la moglie di Proitos, la nobile Anteia,
che voleva unirsi segretamente con lui, ma non persuase
il saggio Bellerofonte, che aveva onesti pensieri.
E allora, mentendo, la donna disse al re Proitos:
"O muori, Proitos, o uccidi Bellerofonte,
che contro la mia volontà volle unirsi con me".
Così disse, e all'udirla la collera prese il sovrano:
si trattenne dall'ucciderlo (ne ebbe ritegno nel cuore),
ma lo mandò in Licia e gli diede una tavoletta piegata
con su scritti segni funesti, parole capaci di dare morte,
e gli ordinò di mostrarla al suocero, che lo uccidesse.
Ma lui non senza la guida degli dèi andò in Licia,
e quando fu giunto in Licia, al fiume Xanto,
lo onorò in amicizia il re della vasta terra di Licia,
lo ospitò per nove giorni, e ogni giorno uccideva
un bue; ma quando per la decima volta sorse l'Aurora
dalle dita di rosa, allora lo interrogò e gli richiese
di mostrargli il segno che gli portava da parte del genero Proitos.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
E quando ebbe avuto il funesto segno del genero,
per prima cosa gli ordinò di uccidere la Chimera indomabile:
era di stirpe divina e non umana,
davanti era leone, di dietro serpente e in mezzo capra,
e spirava la terribile forza del fuoco ardente.
Bellerofonte la uccise, fidando nei segni divini.
La seconda volta combatté coi gloriosi Solimi,
la battaglia più dura, disse, mai sostenuta;
la terza volta uccise le Amazzoni, donne virili,
e mentre tornava, il re tramò un altro inganno:
scegliendo i migliori guerrieri della terra di Licia,
gli tese un agguato, ma non tornarono a casa;
tutti quanti li uccise l’irreprensibile Bellerofonte.
Giambattista Tiepolo, Bellerofonte uccide la Chimera, 1723
Quando il re comprese che era di stirpe divina,
lo trattenne presso di sé e gli diede in sposa la figlia
e metà di tutto il suo potere regale,
e i Lici gli concessero un podere migliore degli altri,
piantagioni di alberi e terreni seminativi.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La sposa al saggio Bellerofonte diede tre figli:
Isandro, Ippoloco, e Laodamia. Con Laodamia
si unì il saggio Zeus e generò Sarpedonte,
guerriero divino, armato dell'elmo di bronzo.
Quando anche Bellerofonte fu in odio a tutti gli dèi
allora vagava da solo per la pianura di Alea,
rodendosi il cuore ed evitando le orme degli uomini.
Suo figlio Isandro lo uccise Ares, il dio insaziabile
di guerra, mentre lottava coi gloriosi Solimi;
Laodamia la uccise Artemide irata, la dea dalle redini d’oro.
Ippoloco mi generò, e io mi dico suo figlio,
e mi mandò a Troia, e mi raccomandava moltissimo
di distinguermi sempre al di sopra degli altri,
e non macchiare l'onore dei padri, che furono grandi
sia in Efira e sia nella vasta terra di Licia.
Di questa stirpe e sangue mi vanto di essere».
Bellerofonte dunque
è ἀµύµων “irreprensibile”. L’aggettivo è formulare e spesso perde il suo significato.
Probabilmente indica la nobiltà dell’origine;
è dotato di bellezza e di amabile virilità;
non approfitta della moglie del re, che pure gli si offre senza ritegno;
nel paese dove viene mandato rispetta i compiti senza discutere. L’obbedienza è
davvero in questo caso una virtù “eroica”;
raccoglie, grazie alle sue imprese il frutto della sua capacità di obbedire senza
ribellarsi. La ricompensa sarà altissima e degna di un eroe.
Ma il cuore del nostro ragionamento sono le due caratterizzazioni fondamentali
di bellezza e virilità amabile: κάλλός τε καὶ ἠνορέη ἐρατεινή, indicate da parole che
hanno di solito esiti diversi nelle traduzioni. La bellezza, κάλλος, non pone problemi, il
termine è chiaro, κάλλος vuol dire bellezza e stop. L’espressione problematica è invece
ἠνορέη ἐρατεινή tradotta da alcuni con “ardore invidiabile”, da qualcun altro persino
“invidiabile bellezza e coraggio”, collegando l’aggettivo alla bellezza, più che al
coraggio. Molto più vicina al testo è l’interpretazione di Monti: “E quel dolce valor che
i cuori acquista”, che tuttavia sembra esageratamente più lunga sul piano testuale di
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
quanto non sia l’originale.
Ebbene queste oscillazioni della traduzione sono emblematiche. La parola greca
ἠνορέη è una variante dialettale poetica del più comune ἀνδρεία, che significa
“coraggio, valore”. È il valore del maschio adulto, cioè il tratto che caratterizza l’uomo
nella sua espressione matura e che abitualmente ha la sua traduzione operativa nelle
imprese di guerra. Ecco perché l’ἀνδρεία difficilmente può essere amabile. Per questo
qualcuno attribuisce l’aggettivo ἐρατεινή al sostantivo che significa bellezza; altri
traducono acrobaticamente con “ardore invidiabile”. Questo perché non si dà alla parola
ἠνορέη il suo autentico significato originario, ovvero “virilità”.
E dunque dobbiamo recuperare un concetto antico al quale, tuttavia, non siamo
abituati: la virilità può essere amabile. Su questa caratterizzazione io credo si gioca una
sterzata, se così possiamo dire, dell’immaginario collettivo. In sostanza dobbiamo
recuperare l’idea che non vi sia contraddizione fra la dimensione prettamente maschile,
intesa come energia, forza e dinamismo fisico, ovvero quel tratto tipicamente maschile
che è amato dalle donne, senza che questo aspetto perda nulla della sua seduzione se
viene associato all’eleganza, alla finezza interiore e persino alla dolcezza, intesa come
sensibilità affettiva e relazionalità gradevole.
La parola ἐρατεινή è qui ambivalente. “Amabile” in senso estrinseco vuol dire
“ricercata, oggetto di desiderio”. Ma in senso intrinseco significa “dotata di quella
amabilità che la rende raffinata e mite”. Ben ne coglie il significato Monti, la cui
traduzione è un ossimoro: “dolce valor”. Ma forse la contraddizione è solo apparente,
nel senso tutto nuovo, ma in realtà antico, che la virilità non perde nulla del suo valore
intrinseco se è amabile. Ovvero se si caratterizza, non per quei tratti fisiognomici che
abitualmente la caratterizzano: ardimento, coraggio, orgoglio per il comando, forza
fisica, rudezza di modi; ma per altri valori, che non sono meno maschili, come la
capacità di affrontare le relazioni complesse, la fedeltà alla parola data, il rispetto per
l’altro, l’assunzione delle proprie responsabilità anche in contesti difficili, l’energia che
sa guidare i cambiamenti. Soprattutto, anche, la capacità di tollerare le sconfitte.
La virilità insomma non è quella riduzione della figura maschile degradata,
semplicistica, farsesca ed infantile che in questi anni abbiamo visto esprimersi in un
machismo insulso e stupido che ha nella supremazia fisica sulla femmina e nella
sicumera economica il cardine della sua identità. Nell’era dell’intelligenza, della
comunicazione e delle relazioni, in una parola della Knowledge Society, i modelli di
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
forza non funzionano più, se non si riconvertono in energia intellettuale, in potenza
creativa, in saldezza psicologica e coerenza etica.
Bellerofonte e Glauco ci aprono ad un orizzonte inusitato della dimensione
psicologica maschile. Esso implica anche una visione vagamente malinconica e
disincantata della vita, come quella che Glauco lascia intuire nella sua risposta a
Diomede. Non vorrei spingermi troppo in là. Tuttavia faccio notare come nel discorso
che Glauco fa a Diomede sul campo di battaglia, ad un certo punto troviamo questo
passaggio:
Ippoloco mi generò, e io mi dico suo figlio,
e mi mandò a Troia, e mi raccomandava moltissimo
di distinguermi sempre al di sopra degli altri,
e non macchiare l'onore dei padri, che furono grandi
sia in Efira e sia nella vasta terra di Licia.
Glauco insomma ha un Padre dietro di sé e dentro di sé; ha nella memoria
personale fra gli antenati dei Padri che deve onorare. Figure maschili alle quali è legato
da spirito di emulazione. Certo da un guerriero non potremo attenderci qualcosa di
totalmente nuovo rispetto all’orizzonte della sua esperienza, però, qui noi che siamo alla
ricerca di nuovi paradigmi e di nuovi padri, possiamo riconoscere in Glauco la stessa
fedeltà al dovere e agli impegni che abbiamo visto in Bellerofonte. Gli altri protagonisti
della saga hanno vissuto vicende tragiche ed esiti inquietanti; lo stesso Bellerofonte
venne alla fine “in odio a tutti gli dei” e la sua gloria si scontrò con la loro invidia.
Tuttavia queste vicende ci pongo di fronte nuovi lineamenti interiori, frammenti di un
modo antico e originale di essere uomini, che forse può essere ripreso e rianimato dalla
nostra, talora disorientata, modernità.
Epilogo
Non mancano anche altri esempi di relazione tali da sovvertire l’archetipo del
maschio dominante. Che dire di Alcesti, la generosa consorte di Admeto, pronta ad
affrontare la morte in sostituzione dello sposo, che non trova nessuno disposto a morire
per lui. Lei sola è tanto generosa da rinunciare per il consorte (strano consorte davvero)
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
alla propria vita. Ma Eracle, il forte, rustico generosissimo Eracle, la strapperà a
Thanatos, la Morte, e la riporterà alla vita. Tuttavia la sua sarà una vita d’ombra.
Possiamo forse riconoscere in Alcesti l’ipostasi della fedeltà coniugale usque in
effusionem sanguinis, o forse la dichiarazione di impotenza del coniuge, del
rappresentante del cosiddetto sesso forte, che in realtà non sa assumersi le sue
responsabilità?
E ancora come valutare Orfeo, il Cantore Tracio, incapace di mantenere la
promessa di non guardare l’amata, al momento di risalire dagli inferi, fino a quando non
fosse tornato fra i vivi? Improvvisa follia lo colse, incauto, lui che amava come nessuno
la dolce consorte: perdette lei e se stesso con lei. Fu follia o scelta di una distruzione
comune? Queste figure si agitano ancora in noi e il loro influsso è fortissimo. Anche
queste sono da annoverarsi fra gli archetipi di cui non abbiamo coscienza piena?
Vorrei chiudere questa breve analisi con un pensiero di James Hillman: “…noi
prendiamo ispirazione da Jung: «Gli Dei sono diventati malattie». Jung ci sta indicando
che la causa formale dei nostri malesseri e delle nostre anormalità sono delle persone
mitiche; le nostre malattie psichiche non sono immaginarie, bensì immaginali (Corbin).
Sono anzi malattie della fantasia, sofferenze delle fantasie. Di realtà mitiche.
L’incarnazione di eventi archetipici”2.
Mi auguro che queste riflessioni possano aiutare quanti ricercano un senso nelle
cose a non perdere il riferimento alla civiltà classica, la quale con i suoi miti i suoi
personaggi, i suoi paradossi ed eventi prodigiosamente naturali, costituisce
l’irrinunciabile patrimonio di fantasia e di immaginario, la cui potenza forse non ci è
ancora perfettamente nota e chiara, e forse non si è ancora esaurita.
2
JAMES HILLMAN, La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano 1991, pp. 93 sg.
53
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il Comitato Unico di Garanzia
dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Marina Spallino
Direttore Servizio Affari Generali e Presidente del CUG
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Nell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona è stato istituito nel
2011 il Comitato Unico di Garanzia per le Pari Opportunità, la valorizzazione del
benessere di chi lavora, e contro le discriminazioni, nel quale sono rappresentate tutte le
professionalità presenti in Azienda; composto da un numero pari di componenti di
nomina sindacale e aziendale.
Il Comitato Unico di Garanzia è l’organismo che ha sostituito, unificandoli, i
preesistenti Comitato per le Pari Opportunità e Comitati antimobbing, operando in
un’ottica di continuità con le progettualità e le iniziative promosse e realizzate dai
preesistenti Comitati.
Il Comitato Unico di Garanzia attraverso il proprio ruolo propositivo, consultivo e di
verifica intende perseguire le finalità di:
-
Contribuire ad assicurare nell’ambiente di lavoro parità e pari opportunità di
genere, impegnandosi al fine di garantire l’assenza di qualunque forma di
violenza morale e psicologica e di discriminazione, diretta e indiretta, relativa
all’orientamento sessuale, alla razza, alla lingua, all’origine etnica, alla
disabilità, alla religione ed alle condizioni personali e sociali;
-
Favorire la promozione di un ambiente di lavoro improntato al rispetto dei
principi di pari opportunità, di benessere organizzativo e di contrasto a qualsiasi
forma di discriminazione e di violenza morale e psichica nei confronti dei
lavoratori e delle lavoratrici anche attraverso la promozione e la diffusione di
una cultura orientata alla formazione e all’informazione in tema di pari
opportunità e di rispetto della dignità della persona nel contesto lavorativo;
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
-
Contribuire a promuovere la conciliazione tra impegni di vita privata e vita
lavorativa a favore dei dipendenti dell’Azienda Ospedaliera Universitaria
Integrata-Verona.
Con particolare riferimento all’esigenza di contribuire a favorire il contrasto a
qualsiasi forma di discriminazione, di mobbing e violenza morale e psichica è stato
elaborato dal Comitato Unico di Garanzia il nuovo Codice di Condotta per la tutela
della libertà e della dignità della persona, approvato dal Direttore Generale con
deliberazione del 24.12.2014 n 872, in sostituzione del precedente Codice approvato nel
2011.
L’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona si è dotata del Codice di
Condotta con l’intendimento di perseguire la tutela dei diritti delle persone, verso i
pazienti, gli operatori e tutti coloro che in Azienda svolgono la propria attività, nonché
di garantire un ambiente di lavoro in cui i rapporti professionali e interpersonali siano
improntati alla correttezza e reciproco rispetto.
Il Codice di Condotta è documento ufficiale dell’Ente, previsto dall’Atto aziendale,
e definisce i principi, i valori e le regole fondamentali di gestione dell’organizzazione
per contrastare situazioni di disagio lavorativo e promuovere il benessere organizzativo,
rappresentando un significativo segnale di attenzione da parte dell’Azienda verso i
lavoratori e le lavoratrici con l’intendimento di promuovere un clima favorevole al
rispetto delle libertà e della dignità della persona che lavora; il Codice integra, affianca
e supporta le regole contenute nei contratti collettivi e nelle leggi. Con l’adozione del
codice di condotta l’Azienda si è proposta di offrire uno strumento per contribuire a
prevenire e contrastare l’insorgere di comportamenti quali discriminazioni, molestie,
molestie sessuali, mobbing, che riguarda ogni forma di violenza morale e psichica
ripetuta nel tempo, attuata nell’ambito lavorativo dal datore di lavoro o da altri
dipendenti nei confronti di un lavoratore.
Il Codice di condotta prevede che la persona che si ritenga oggetto di uno dei
comportamenti discriminatori oggetto del Codice possa, fatta salva la tutela in sede
56
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
penale e civile, attivare delle procedure al fine di ottenere l’interruzione del
comportamento o comunque di favorire il superamento della situazione.
Figura centrale e indispensabile per l’attuazione del Codice di condotta è il
Consigliere di fiducia. Il Consigliere di fiducia è uno specialista esterno chiamato ad
affrontare il tema delle discriminazioni e in generale i comportamenti quali
discriminazioni dirette o indirette, e di genere, molestie morali e sessuali, violenza
psicologica e mobbing.
Il percorso per l’individuazione del Consigliere di fiducia è stato gestito dal
Comitato Unico di Garanzia su mandato della Direzione, e si è concluso con
l’affidamento dell’incarico nel novembre 2011 all’avv. Francesca Briani, di recente
prorogato fino a tutto il 2016.
La Consigliera, dopo un primo periodo dedicato alla conoscenza reciproca dei
Servizi, delle strutture e dell’organizzazione dell’Azienda (premessa indispensabile per
poter svolgere al meglio il mandato conferito), svolge attività di ascolto, informazione e
trattazione dei casi sottoposti alla sua attenzione ai fini della soluzione in conformità e
secondo le indicazioni del Codice di condotta dell’AOUI.
Nel corso del primo periodo di attività 2012-2014, la Consigliera, che riceve un
pomeriggio alla settimana, ha trattato - come risulta dalla relazione presentata di
recente- casi che hanno coinvolto 125 persone, tutti dipendenti a tempo indeterminato,
la maggior parte dei quali ha avuto più di un colloquio.
Sono stati portati alla sua attenzione comportamenti contrari ai valori della condotta
etica quali discriminazioni, violenza psicologica, molestie morali e conflittualità nei
rapporti interpersonali con superiori o colleghi tali da compromettere il benessere
organizzativo; alla Consigliera non sono stati finora segnalati casi di mobbing o
molestie sessuali.
Oltre la metà dei casi (60%) sono stati risolti, per una parte (20%) è stato sufficiente
un intervento di ascolto, il 15% esulava dalla competenza della Consigliera e alcuni
sono in corso di trattazione.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Alla Consigliera si sono rivolte in maggior parte donne (72%) in prevalenza a tempo
pieno (79%), metà sono dipendenti delle professioni sanitarie, 10% medici, 40%
personale tecnico amministrativo.
Dell’adozione del Codice di condotta e della presenza della Consigliera di fiducia si
è fin dall’inizio data comunicazione e diffusione, sia attraverso apposita sezione sulla
intranet aziendale (che viene periodicamente aggiornata), sia attraverso una serie di
incontri informativi con il personale e in occasione di convegni e di iniziative formative.
La presenza in Azienda della Consigliera di fiducia, anche in considerazione del
delicato momento socioeconomico che ha costretto a una importante revisione di spesa
in area sanitaria, rappresenta un’opportunità in più non solo per i lavoratori ma anche
per l’Azienda, per aiutare a cogliere i segnali che, se intercettati per tempo, possono
contribuire ad evitare la dispersione e l’impoverimento delle risorse.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Origine della cultura e violenza sociale
Emmanuele Morandi,
Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia
Università degli Studi Verona
1. Premessa
Un aspetto fenomenologico della violenza è il fatto che per la maggior parte dei casi
essa non è mirata ad una vittima in quanto tale vittima, ma in quanto la vittima possiede
“qualcosa” che il reo desidera: ricchezza, bellezza, potere etc. Tale constatazione
puramente fenomenologica, che non ha la pretesa di coprire tutte le forme di violenza,
ma sicuramente la maggior parte di quelle che abitano nelle nostre città e megapoli, ci
segnala che la violenza pur colpendo la persona e trasformandola in vittima, in realtà è
mossa da un desiderio che è determinato da un oggetto e non da una persona. La
domanda allora è: chi, o cosa, determina e specifica i desideri?
È fin troppo evidente che un desiderio lo si può soddisfare nel rispetto degli altri,
oppure violando sia la legge sia la vita o la libertà degli altri. Ciò però non tacita la
nostra domanda: chi determina la mia facoltà desiderante a volere questo o quello?
Dove apprendiamo a desiderare ricchezza, potere e bellezza e ad aborrire sobrietà,
modestia e austerità?
Sicuramente, anche se non esclusivamente, apprendiamo a desiderare da modelli
culturali la trasmissione dei quali ha, in alcuni casi, una storia molto antica.
Il tentativo di porre questa domanda, una domanda che cerca di smarcarsi da uno
sguardo che prende in considerazione l’intersoggettività della relazione violenta tra
vittima, reo e società, per assumere uno sguardo che tematizza i modelli culturali che
possono essere condivisi non solo dal violento e dalla vittima, ma anche da tante
persone che si reputano “perbene”, è il vero problema che pone in relazione la cultura
con la violenza.
Desiderare ricchezza, dominio/potere e piacere, ad esempio, fini che spesso
dominano l’agire umano, e desiderarli per se stessi, non fa problema nella misura in cui
tali finalità risultano raggiungibili con mezzi legalmente riconosciti. Chi oggi osa
59
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discutere i modelli culturali che propongono la ricchezza, il potere e il dominio come
fini buoni in se stessi? Fini, tra l’altro, che risultano desiderabili proprio perché non
sono accessibili a tutti, anzi solo perché non sono accessibili a tutti sono essenzialmente
desiderabili.
In questo contesto la teoria girardiana ci può offrire una decisiva comprensione sul
significato e sulle dinamiche dei modelli culturali, una comprensione, a conoscenza di
chi scrive, mai prima raggiunto. Il mimetismo girardiano riesce a farci comprendere
come la violenza nasca dalla cultura e non dall’ignoranza, come vuole una vulgata,
nonostante la lezione faucoultiana ed illichiana3, che vede nella scolarizzazione di
massa uno degli strumenti per arginare il conflitto e la violenza sociale.
Se da una parte, e per fortuna, non possiamo più accettare l’onirico sociologismo
durkheiminano, cioè quella ingenua antropologia sociale che fa di ogni uomo il
“prodotto” della società, rovesciando sui modelli culturali ogni tipo di responsabilità, e
quindi implicitamente dichiarare l’assenza del colpevole, non possiamo neppure
ingannarci raccontandoci che la cultura, non tutta ma soprattutto quella che si incarna
energeticamente nei diversi ruoli sociali, sia estranea rispetto alla violenza sociale4.
In altre parole, la cultura, quella che si implementa nei ruoli sociali, quella che si
mostra “in carne ed ossa”, nelle “nostre carni ed ossa”, non è estranea alla violenza e
questo proprio perché non è estranea alla determinazione di ciò che è desiderabile5.
Tali contesti vanno studiati mettendo a tema quelle finalità sociali inscritte nei
modelli culturali, modelli che immettono, spesso godendo di una totale immunità, una
conflittualità permanente tra gli attori sociali.
In questo modo, molto probabilmente, scopriremo che siamo un po’ tutti meno
innocenti di quanto non siamo disposti a riconoscere; siamo un po’ tutti meno buoni di
quanto non crediamo e, infine, siamo tutti, o quasi, co-responsabili di quelle violenze
che si consumano quotidianamente.
3 Cfr.: Foucault M. (2001; 2010); Foucault M. (1998, in partic. L'etica di sé come pratica della libertà); Foucault
M., (2001a; 1993); su Illich invece cfr. Illich I. (2005; 2005a; 2009; 2009a; 2009b; 2013).
4 Sul definitivo superamento della sociologia durkheimiana si vd. Archer M.S. (2007); della stessa autrice interessanti
Archer M.S. (1997 e 2006)
60
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2. L’origine della cultura e la teoria mimetica
Uno dei fondamenti della realtà umana che la teoria di René Girard va ad interrogare
è la cultura e la sua genesi6. Porre questa domanda, ben prima di una sua risposta, è già
un problema. Come tematizzare il fondamento e la genesi di ciò che rende possibile il
linguaggio e il metalinguaggio che lo esplica e lo dice? In altre parole, come è possibile
parlare dell’origine della cultura, se non utilizzando un determinato linguaggio che
rende la cultura storica? L’origine della cultura non è un problema che si possa porre e
risolvere con una strumentazione logico-linguistica o metodologica, ma è una questione
che può essere affrontata rapportandosi alla storicità in cui queste due dimensioni
dell’uomo, la natura e la cultura, entrano in una mutua e continua relazione
morfogenetica. Gli uomini per Girard hanno una natura mimetica, per cui il loro intero
apprendimento si attiva riproducendo la realtà con cui entrano in relazione, ma tale
“riproduzione” non è assolutamente una ripetizione passiva bensì un atto generativo e
generatore di cultura7: nell’imitazione è dunque contenuto quel fondamento nascosto e
muto, ma anche quel principio generativo, in cui la natura si rende storica diventando
cultura. In questo preciso punto, in questa “zona” di confine, si colloca il novum delle
scoperte di Girard: «[...] Abbiamo bisogno – scrive l’autore - di una teoria che, come la
teoria mimetica del capro espiatorio, sappia far luce sulla nascita della cultura e
dell’attività simbolica nell’uomo partendo da un punto di vista strettamente naturalistico
5
Sul rapporto tra riflessione sociologica e morale, tema strettamente connesso alla dimensione del desiderio, vd.
Colozzi I. (2004); vd. anche Donati P. (2010).
6
Per un’esposizione sintetica ed introduttiva del pensiero di Girard e della cosiddetta teoria mimetica, che ne
costituisce il motore e la chiave di accesso, segnaliamo la prima monografia uscita in lingua italiana di Carrara A.
(1985). Molto utile anche il capitolo “L’origine della cultura secondo l’antropologia mimetica” all’interno di un
lavoro ben più ampio e ricco di sviluppi autonomi: Fornari G. (2006: 14-51). Per ragioni di spazio è impossibile in
questa sede fornire una rassegna minimamente significativa della letteratura critica su Girard, anche limitandosi ai
soli lavori in lingua italiana; pertanto consigliamo come primo orientamento: Casini F. (2006: 129-158). Tra le opere
di René Girard segnaliamo Grard R. (1981; 1987; 1992; 1983; 1987; 1994; 1998; 2001; 2006; 2008). Da segnalare
anche le raccolte di saggi girardiani: Girard R. (1998); Girard R. (1999); Girard R. (2000); Girard R. e Fornari G.
(2002). Notevole anche il lavoro di approfondimento e diffusione del pensiero di Girard portato avanti da Giuseppe
Fornari e Pierpaolo Antonello nell’ambito della collana “Girardiana” edita da Transeuropa e da loro curata, i quali
intendono proporre una serie di testi di René Girard ancora inediti assieme a studi e proposte critiche che hanno al
centro della propria discussione la teoria mimetica sviluppata dal pensatore francese: Girard R. (2005; 2006; 2006a;
2009); Barbieri M.S. e Morigi S., a cura di (2010); Ammannati R. (2010). Un ultimo filone che qui vogliamo porre
all’attenzione del lettore è quello costituito dai più recenti libri-intervista, in cui l’ultimo Girard ripercorre la genesi
delle proprie idee o tratta argomenti ed obiezioni poco affrontati nei suoi scritti anteriori: Girard R. (2005a; 2003;
2004).
7 Vedi a questo proposito il burrascoso rapporto di Girard con lo strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss: «[Tutte
le questioni antropologiche] convergono su un problema fondamentale: l’origine del pensiero simbolico. Se i sistemi
simbolici non sono mai “lo sviluppo spontaneo di uno situazione di fatto”, se c’è rottura tra natura e cultura, la
questione dell’origine si pone, e si pone con urgenza. Lévi-Strauss e in genere lo strutturalismo rifiutano di
considerare il problema dell’origine se non in modo puramente formale. Il passaggio dalla natura alla cultura si radica
nei “dati permanenti della natura umana”; non si ha motivo di interrogarsi su di esso. Sarebbe solo un falso problema
da cui la scienza si tiene lontana.» Girard R (1992: 322).
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e tenendo conto di tutti i condizionamenti biologici, etologici, antropologici [...]. Quello
che ho sempre tentato di fare a proposito è elaborare una teoria della cultura umana che
fosse uno strumento interpretativo di larga portata, e dove una grande varietà di fatti
potesse rientrare in una sola cornice esplicativa.» (Girard R. 2003: 70 ss.). 8
Un aspetto decisivo, però, è che l’imitazione altro non è che il modo in cui la
capacità desiderante che ogni uomo ha in potenza viene ad attuarsi. Il desiderio dunque
si origina dall’uomo, ma la specificazione, cioè la determinazione oggettuale del
desiderio si origina dalle nostre relazioni sociali. Tale determinazione, dal punto di vista
sociale, la chiamiamo “modello”, dal punto di vista antropologico è imitazione: in altre
parole, l’uomo impara a desiderare da un modello. Spesso ci focalizziamo sull’oggetto e
non focalizziamo il processo attraverso il quale arriviamo a desiderare quel particolare
oggetto. Non sono semplicemente gli oggetti in sé a generare e specificare i nostri
desideri, ma i nostri desideri si determinano attraverso la mediazione di altri uomini:
«Come dice il termine – sintetizza Fornari (2006: 15-16) – l’antropologia mimetica
parte dall’imitazione, affermando che l’intero apprendimento umano si basa su di essa.
Quest’imitazione o mimèsi non dev’essere intesa come una ripetizione meramente
passiva, bensì come un processo dinamicamente attivo e generatore: la mente umana è
una prodigiosa macchina di simulazione che, mediante un ininterrotto processo per
tentativi ed errori, riproduce e per così dire rigenera dentro di sé la realtà. Tale
riproduzione mimetica della realtà non è un processo astrattamente naturale, bensì
concretamente culturale e relazionale: non è possibile imitare senza dei modelli
dell’imitazione, a partire dai quali strutturare sistematicamente le conoscenze e i
comportamenti»9.
Lo scoperta mimetica consiste nel riconoscimento della natura mimetica del
desiderio e dello svelamento delle conseguenze conflittuali che genera a livello sociale:
«[…] Poiché gli oggetti che desideriamo - scrive Girard (2001: 28) - appartengono
sempre al prossimo, è evidente che è quest’ultimo a renderli desiderabili […].
Generalmente si crede che il desiderio sia oggettivo o soggettivo: in realtà, esso si basa
8
Ancor più chiaramente, in un altro testo, scrive Girard: «Non c’è nulla o quasi, nei comportamenti umani, che non
sia appreso, e ogni apprendimento si riduce all’imitazione. Se gli uomini, a un tratto, cessassero di imitare, tutte le
forme culturali svanirebbero» Girard R. (1983: 22).
9
Così continua il testo di Fornari (2006: 16): «L’uomo costruisce la sua individualità e identità relazionandosi con i
suoi simili e prendendoli come modello. [...]. Questi rapporti imitativi, di norma almeno in apparenza tranquilli,
nascondono tuttavia degli esplosivi pericoli. L’imitazione, se controllata, è assolutamente indispensabile e positiva, e
Girard l’ha ammesso nelle sue ultime opere, senza però riconoscere l’effettiva importanza di tale aspetto né tanto
meno spiegarne le precise modalità, così che l’accento quasi esclusivo sugli aspetti distruttivi della mimèsi che è
contenuto nelle sue opere principali non viene corretto, e lascia la fondata impressione che ai suoi occhi la mimèsi
umana abbia in sé alcunché di violento. [...] Il fatto è che il pensatore francese ha reagito a una millenaria tradizione
che vuole che l’imitazione sia qualcosa di neutro e inoffensivo».
62
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
su un altro che dà valore agli oggetti, su un terzo che è chi ci sta più vicino, il prossimo,
appunto. […]. Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini
desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto
li guida. Essi non hanno alcun desiderio proprio. Ciò che è proprio del desiderio è di
non avere nulla di proprio. Per desiderare veramente, noi dobbiamo ricorrere agli esseri
umani che ci circondano, dobbiamo prendere in prestito i loro desideri».10
Si innesta qui, come evidenzia Fornari, una relazione triangolare che investe
soggetto, modello e oggetto: «La definizione del desiderio in un certo senso, la
raggiungiamo ripercorrendone e rivivendone il processo, facendolo emergere attraverso
la nostra esperienza, e questa esperienza che si fa consapevole ci attesta che il nostro
desiderio funziona secondo una tipica configurazione a triangolo: 1) il “soggetto” o per
meglio dire l’imitatore, che deve apprendere per imitazione come organizzare e
orientare il suo desiderio; 2) il modello, che gli mostra cosa desiderare; 3) l’oggetto da
desiderare che, oltre che materiale, può essere simbolico, psicologico, sociale e così
via».11
L’oggetto può essere un’altra persona, uno status sociale, un simbolo, un
comportamento, una conoscenza, qualsiasi “cosa” insomma. Ha inizio così, quasi
banalmente, la mediazione esterna e acquisitiva: «Nella reale situazione triangolare del
desiderio – scrive Fornari (2006: 16-17) – è il modello che funge da mediatore fra colui
che lo imita e l’oggetto dell’imitazione. Noi desideriamo soltanto ciò che ci viene
consapevolmente o inconsapevolmente mostrato come desiderabile, ed essendo
l’oggetto desiderato di necessità il medesimo, il mediatore che ce lo rende desiderabile
tende facilmente a diventare il rivale, l’ostacolo da superare per impossessarsi
dell’oggetto,
che
più
risulterà
irraggiungibile
più
apparirà
desiderabile,
indipendentemente dal suo valore reale. L’imitazione acquisitiva o per il possesso porta
così alla rivalità per il possesso».
La dialettica mimetica non si ferma certo qui, essa si intensifica diventando una forza
interna di straordinaria potenza; il desiderio, ormai determinato dall’oggetto, tende a
spostare l’acquisizione oggettuale sullo sfondo e a concentrare la rivalità proprio sui
10
In un altro testo Girard spiega anche la scelta del termine greco mimesis, scelta che ha una matrice sociologica:
«Invece del termine sterile di imitazione, – scrive Girard – adopero dunque il termine greco di mimesis senza adottare
per questo una qualche teoria platonica della rivalità mimetica che peraltro non esiste. Il solo interesse del termine
greco è che rende concepibile l’aspetto conflittuale dell’imitazione pur non rivelandone mai la causa. Questa causa,
ripetiamolo ancora, è la rivalità per l’oggetto, la mimesi d’appropriazione da cui bisogna sempre partire.» Girard R.
(1983: 35).
11 Così continua il testo di Fornari : «Al contrario di quanto credono il senso comune e la concezione romantica, che
vedono il soggetto come preesistente al suo desiderio e il desiderio come una relazione lineare e binaria fra soggetto e
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
soggetti in gioco: imitatore e modello rafforzano intensivamente la loro conflittualità
perché entrambi, nel desiderare il medesimo oggetto, confermano il valore del loro
desiderio: «Il materializzarsi improvviso di un rivale – scrive Girard (2001: 29) –
sembra confermare la fondatezza del desiderio, l’immenso valore dell’oggetto
desiderato. L’imitazione s’intensifica più che mai all’interno dell’ostilità, ma i rivali
fanno il possibile per nascondere agli altri e a se stessi la causa di tale fenomeno. È vero
anche l’inverso. Imitando il suo desiderio io do al mio rivale l’impressione che egli
abbia delle buone ragioni per desiderare ciò che desidera, per possedere ciò che
possiede, e l’intensità del suo desiderio raddoppia. [...] Dando al mio modello un rivale,
io gli restituisco, per così dire, il desiderio che egli mi presta: do un modello al mio
proprio modello, e lo spettacolo del mio desiderio rafforza il desiderio dell’altro nel
momento esatto in cui questo, opponendosi a me, rafforza il mio».12
La rivalità ha il suo inizio in una competizione per l’oggetto, ma l’oggetto
progressivamente perde la sua centralità e l’antagonismo si sposta sempre più
inesorabilmente in direzione dei soggetti/cerchie sociali (imitatore e rivale), fino a
perdere la sua rilevanza: «Più si esasperano le rivalità, – continua Girard (1983: 43-44)
– più i rivali tendono a dimenticare gli oggetti che al principio la causano, e più sono
affascinati gli uni dagli altri. La rivalità, insomma, si purifica di qualsiasi esteriore posta
in gioco, si fa rivalità pura o di prestigio. Ogni rivale diventa per l’altro il modelloostacolo adorabile e odioso, colui che bisogna insieme abbattere e assorbire. La mimesi
è più forte che mai, ma ora non può più esercitarsi al livello dell’oggetto, perché non c’è
più oggetto. Ci sono oramai solo degli antagonisti che designiamo come doppi poiché,
dal punto di vista dell’antagonismo, non li separa più nulla».
Entriamo nella spirale del “doppio vincolo” che nella sua semplicità descrive
perfettamente la conflittualità nella sua dialettica sociale: «[...] Girard – scrive Fornari
G. (2006: 20) – presenta il doppio vincolo come il paradosso tipico della sua
mediazione interna rivalitaria. Il modello del desiderio lancia implicitamente
all’imitatore il messaggio: “sii come me!”, ma quando l’imitatore obbedisce a tale
comando ciò provoca la rivalità, per cui il modello gli manda il messaggio opposto:
“Guai a te se sei come me!”; siccome però nella relazione il modello è portato a sua
volta a confermarsi in quanto modello, questo farà sì che, una volta che l’imitatore si
oggetto, il concetto di imitazione acquisitiva ci costringe a vedere la struttura ternaria del nostro comportamento e la
sua dipendenza sociale dagli altri che ci fanno da modello» Fornari G. (2006: 17).
12 Non va mai dimenticato, per chi è digiuno delle analisi girardiane, che il linguaggio dell’autore molto spesso
psicologico è in realtà assai più adeguato e pregnante per l’analisi sociologica, cioè per l’analisi delle dinamiche dei
gruppi, o simmelianamente, delle cerchie sociali.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
allontana, il modello ritorni a lanciare il messaggio iniziale, con un esasperarsi della
mediazione mimetica: più l’imitatore segue il primo comando più il modello gli
infliggerà il susseguente divieto, ma più l’imitatore si conforma al divieto più l’altro
ribasice il suo ruolo, ritornando all’ingiunzione iniziale».13
I rivali diventano dei doppi, non si differenziano più gli uni dagli altri.
L’antagonismo per sua propria logica si accresce smisuratamente e i doppi si scontrano
simmetricamente e si assomigliano sempre di più: la mediazione esterna, che si giocava
sul piano dell’oggetto acquisitivo, diventa ora mediazione interna. Nella mediazione
interna il gioco, mi si perdoni l’espressione, si “fa pesante” perché le identità e le
differenze precipitano in un caos primordiale dove l’io e l’altro, prima separati, si
rincorrono in un circolo vizioso inarrestabile: «I doppi – scrive Girard (1992: 224) –
sono tutti intercambiabili senza che la loro identità sia riconosciuta; le differenze non
sono abolite ma confuse e mescolate».14
In questo preciso momento della dialettica rivalitaria, un momento che può anche
assumere i tratti di una cieca violenza, si apre il baratro sacrificale. La rivalità rende i
due antagonisti, individui o collettività, simmetrici, identici: entrambi compiono gli
stessi gesti, adottano le stesse strategie per appropriarsi dell’oggetto che altro non è
diventato che la conferma della desiderabilità del loro desiderio: «Le parti in gioco –
commenta Fornari G. (2006: 21) - credono di accentuare e confermare sempre più le
loro differenze, e invece manifestano sempre più l’identità dei loro desideri. Il momento
finale in cui si realizza questa simmetira speculare è la violenza dei doppi, in cui la
rivalità non ha più freni di sorta e diventa desiderio di distruggere in modo totale il
nemico, situazione che si può sviluppare contagiosamente in un processo a catena
suscettibile di coinvolgere un’intera collettività».
È evidente che la vita sociale non potrebbe reggere alla contagiosità
mimetico/rivalitaria, forse non potrebbe neppure sorgere, se «la violenza di tutti contro
tutti […] non si trasformasse spontaneamente, automaticamente, in un tutti contro uno
13
Così continua il testo di Fornari G. (2006: 20): «Comunque vada, il modello conferma sempre più la sua
superiorità, mentre l’imitatore sarà da parte sua sempre più disorientato, avvertendo la propria incapacità di
soddisfare ai comandi contraddittori dell’altro come una colpa o inferiorità costitutiva».
14 A proposito delle differenze Fornari G. (2006: 19) scrive: «[...] la polarizzazione mimetica accantona l’oggetto, di
per sé l’obiettivo “naturale” del desiderio, e si fissa solo sul modello, che viene gradatamente investito di una
superiorità irreale, ed è trasformato nel modello-ostacolo che domina il campo cancellando ogni altra cosa. [...] La
rivalità fa emergere il paradosso profondo in cui vivono gli esseri umani: essi si invidiamo e odiano non per ciò che
hanno di irriducibilmente diverso, come crede una versione di tipo romantico, ma per ciò che hanno di simile, anzi di
identico». Sullo stesso tema Girard R. (1992: 77) afferma: «Nella religione primitiva e nella tragedia opera uno stesso
principio, sempre implicito ma fondamentale. L’ordine, la pace e la fecondità riposano sulle differenze culturali. Non
sono le differenze ma la loro perdita a provocare la rivalità pazza, la lotta a oltranza tra gli uomini di una stessa
famiglia o di una stessa società. Il mondo moderno aspira all’uguaglianza tra gli uomini e tende istintivamente a
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
che permette al gruppo di ritrovare la propria unità. La vittima di uno stato di frenesia
mimetica è selezionata dallo stesso processo mimetico, e sostituisce tutte le altre vittime
che la folla avrebbe potuto scegliere qualora le cose fossero andate diversamente»
(Girard R. 2001: 46).
A un certo punto la crisi mimetica, fonte di una conflittualità sociale diffusa e sempre
in procinto di precipitare la comunità nel baratro della violenza totale, si risolve
passando da un antagonismo uno contro uno (sia di individui sia di gruppi sociali)
all’opposizione di tutti contro uno. La comunità si scarica di ogni responsabilità
attribuendo la colpa dei conflitti interni a una vittima (individuo o gruppo) e supera la
crisi attraverso la violenza sacrificale di una vittima.
La risoluzione improvvisa della crisi e il ritorno della pace sono dati dall’uccisione di
una vittima (che può essere, non è inutile ripeterlo, anche un gruppo sociale) sulla quale
si concentra la violenza di tutti: «[...] un membro del gruppo, – scrive Fornari G. (2006:
23) – per un motivo qualsiasi, (un difetto fisico o una qualche diversità, ciò che Girard
chiama segno vittimario), attira l’attenzione di altri, e questo è già sufficiente a rompere
la simmetria. La polarizzazione mimetica si può ora rapidamente concentrare, in forza
di un identico processo contagiosamente imitativo, sulla vittima prescelta, che diventa
l’unico bersaglio della violenza scatenata di tutti. Di colpo ritorna l’accordo, e questo
accordo spontaneo ed unanime può significare soltanto l’uccisione della vittima, su cui
si concentra il mimetismo ormai incontrollabile del gruppo».15
La rivalità ha una altissima contagiosità in grado di trasformare una contesto
conflittuale interindividuale in malattia collettiva. È in questo preciso istante che la
comunità, polarizzando e scaricando le molteplici conflittualità che essa, e solo essa,
genera su una vittima, riesce a liberarsi dal proprio disordine interno, disordine che è
vedere nelle differenze, anche se queste non hanno nulla a che vedere con la condizione economica o sociale degli
individui, altrettanti ostacoli all’armonia tra gli uomini».
15
Girard afferma ancor più radicalmente «Una volta che la povera vittima è completamente isolata e priva di
difensori, niente la può salvare dalla folla scatenata. Tutti possono accanirsi concordi contro di lei senza timore della
minima rappresaglia. [...] Dato che ormai nessuno nel gruppo ha un nemico diverso dalla vittima designata, una volta
che questa è cacciata, espulsa, annientata, la folla si ritrova priva di conflitti, senza più nemici [...]. Perlomeno in via
provvisoria, la comunità non prova più né odio né risentimento verso chicchessia, si sente purificata da ogni sua
tensione, da ogni sua divisione e frammentazione» Girard R. (2001: 59- 60). Esistono degli aspetti di selezione
vittimaria che possono essere culturali, religiosi o fisici: «La gente – continua Girard – mostra di avere quella che si
potrebbe chiamare un’antipatia naturale per le eccezioni o per le deformità fisiche, che tende a interpretare come
segni di vittimizzazione. [...]. Tali segni preferenziali di vittimizzazione vengono presentati come il motivo per
colpevolizzare qualcuno, motivo non valido naturalmente, ma che non ci permette di parlare di puro caso nella
designazione della vittima. In generale, le infermità vengono interpretate come segni di colpa» Girard R. (2003: 41).
Ancora a proposito della selezione vittimaria, Girard afferma: «I Vangeli suggeriscono che esiste in ogni comunità, e
non solo presso gli Ebrei, un processo mimetico di espulsione, di cui i profeti sono le vittime preferenziali, un po’
come tutti gli esseri eccezionali, gli individui che per le più svariate ragioni non sono simili agli altri. Possono
diventare vittime di questo processo gli zoppi, gli infermi, le persone svantaggiate o handicappate, gli individui
mentalmente ritardati, ma anche le personalità di grande carisma religioso come Gesù e i profeti ebraici, oppure, ai
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violenza, molto spesso pura violenza: «Accade che improvvisamente, – scrive Girard
(2003: 36) – nella frenesia della violenza mimetica collettiva, si crei un punto focale
nella forma di un colpevole, colui che viene identificato e ucciso con la partecipazione
unanime di tutta la comunità. Naturalmente non è più colpevole di chiunque altro, ma
l’intera comunità crede che lo sia. Il meccanismo mimetico chiude la crisi con il
trasferimento unanime della colpa su una vittima».16
Il meccanismo mimetico, e importante questa considerazione girardiana, ha un
carattere inconsapevole. La comunità crede fermamente nella colpevolezza della vittima
e si ritiene legittimata ad assegnarle la responsabilità della crisi mimetica. Non riesce
invece a scorgerne l’innocenza: «Questo è il ruolo chiave – continua Girard R. (2003:
45) – della méconnaissance (misconoscimento) nel processo mimetico: permette di
avere l’illusione di accusare qualcuno che si crede veramente colpevole e che quindi
merita di essere punito. Per poter avere un capro espiatorio bisogna che uno non sia in
grado di percepire la verità delle cose e di conseguenza non possa rappresentare la
vittima come capro espiatorio. La rappresenterà invece come responsabile della crisi
mimetica, così come avviene nella mitologia»17.
In questo modo si consuma il passaggio dalla violenza al sacrificio, ed è un
passaggio decisivo per comprendere la potenza dei modelli culturali nei confronti delle
singole esistenze.
La violenza, nelle sue molteplici forme, consuma se stessa, in un atto che in sé è
tanto distruttivo della vittima quanto autodistruttivo della violenza del carnefice; nel
sacrificio, invece, la violenza funge da potenza pacificatrice di una collettività
contagiata intimamente da essa; un torsione, quella tra violenza e pace, che è il vero
scandalo che suscita la teoria mimetica. Chi può reggere una luce così accecante? Come
è possibile pensare un rapporto, quasi una indistinzione, tra violenza e pace? La pace
non appare in questo contesto come l’accogliente dimora in cui si occulta la violenza?18:
«Se il sacrificio – scrive Girard R. (1983: 41) – conclude i riti, deve apparire alle società
religiose come la conclusione della crisi mimetica messa in scena da questi riti. L’intero
nostri giorni, i grandi artisti o i grandi pensatori. Tutti i popoli hanno la tendenza a espellere, con un pretesto o con
l’altro, chiunque vada al di là della loro nozione di ciò che è normale e accettabile» Girard R. (2003: 47-48).
16 Riguardo il meccanismo mimetico Girard R. (2003: 39) scrive: «Il meccanismo mimetico è meccanico perché si
sviluppa a fasi e ogni face produce o favorisce l’apparire della successiva. La rivalità mimetica iniziale coinvolge un
numero sempre maggiore di membri della comunità fino a che l’effetto cumulativo la trasforma in crisi mimetica e
quindi in risoluzione vittimaria. Questo non significa però che il meccanismo mimetico sia deterministico perché non
implica affatto che ogni gruppo sociale che si trovi in una situazione di crisi mimetica giunga necessariamente alla
risoluzione del capro espiatorio».
17 In modo lapidario Girard afferma: «Capro espiatorio designa simultaneamente l’innocenza delle vittime, la
polarizzazione collettiva contro di esse e la finalità collettiva di questa polarizzazione […]. La polarizzazione esercita
una tale costrizione sui polarizzati che per le vittime è impossibile giustificarsi» (Girard R. 1987: 70).
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uditorio è tenuto, in numerosi riti, a prender parte all’immolazione, che somiglia al
linciaggio in modo tale che si può scambiare l’una per l’altro. Anche laddove
l’immolazione è riservata a un unico sacrificatore, costui di norma agisce in nome di
tutti i partecipanti. Nell’atto sacrificale si afferma l’unità di una comunità e questa unità
sorge nel parossismo della divisione, nel momento in cui la comunità si ritiene lacerata
dalla discordia mimetica, votata alla circolarità interminabile delle rappresaglie
vendicatrici. [...] Si capisce facilmente in cosa consiste questa risoluzione sacrificale: la
comunità si ritrova completamente solidale, a spese di una vittima non solo incapace di
difendersi, ma del tutto impotente a suscitare la vendetta; la sua persecuzione non
potrebbe provocare nuovi disordini e ravvivare la crisi poiché unisce tutti contro di essa.
Il sacrificio è solo una violenza in più, una violenza che si aggiunge ad altre violenze,
ma è la violenza ultima, l’ultima parola della violenza»19.
3. Conclusione
Il legame sociale, questa è la scoperta che Girard ci consegna, è intessuto di una
rivalità potenzialmente illimitata, rivalità che porta in sé un paradosso gordiano, perché
essa esplode non nonostante la vicinanza tra gli individui o i gruppi sociali, ma
precisamente a causa di essa; la vita sociale si presenta dunque come luogo in cui gli
uomini competono tra di loro - fino alle possibilità dell’annientamento nelle sue varie
forme - esattamente per le stesse ragioni per le quali si cercano e vivono insieme.
Tali modelli culturali quando ricevono la loro consacrazione nei ruoli sociali e in
quelli istituzionali, spesso allargati dall’enorme potere dei media e dei nuovi media, è
inevitabile generino un escalation rivalitario-conflittuale senza precedenti nella storia
sociale.
Quando ricchezza, successo, potere e bio-potere – tematiche assai care ad una
stagione della riflessione sociologica e di critica sociale orami tramontata - assumono
18
Su questo tema vd. L’importante: Ceruti M. e Fornari G. (2005).
A proposito delle vittime: «Se si osserva la gamma formata dalle vittime, in un panorama generale del sacrificio
umano, ci si trova, a quanto pare, di fronte a una lista estremamente eterogenea. Ci sono i prigionieri di guerra, ci
sono gli schiavi, ci sono i fanciulli e gli adolescenti non sposati, ci sono gli individui minorati, e i rifiuti della società
come il pharmakos greco. In certe società, infine, c’è il re. [...] esseri che non appartengono affatto, o ben poco, alla
società, i prigionieri di guerra, gli schiavi, il pharmakos. Nella maggior parte delle società primitive, neppure i
fanciulli e gli adolescenti non ancora iniziati appartengono alla comunità; i loro diritti e i loro doveri sono pressoché
inesistenti. Per il momento abbiamo a che fare soltanto con categorie esterne o marginali che non possono mai
intrecciare con la comunità legami analoghi a quelli che uniscono tra loro i membri di questa. A impedire alle future
vittime di integrarsi pienamente nella comunità, può essere ora la loro qualità di stranieri o di nemici, ora l’età, ora la
condizione servile.» (Girard R. 1992: 27-28).
19
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
connotazioni valoriali che strutturano le tante costellazioni dei tanti ruoli sociali, la
inequivocabile interdipendenza sistemica che lega fortissimamente i ruoli sociali tra loro
enfatizza in modo incontrollabile il contagio rivalitario-mimetico, rendendola una prassi
sociale quotidiana.
Proprio i ruoli sociali, sia quelli accessibili a tutti sia quelli più fortemente
istituzionalizzati, caricandosi irresponsabilmente di desiderabilità in chiave mimeticorivalitaria e caricandosi di funzioni sempre più connesse al piacere/potere introducono
una diffusa e inquietante tensione sociale.
I ruoli sociali diventano il medium pragmatico di una indefinita moltiplicazione di
modelli mimetico-rivalitari che abbracciano mortalmente l’intera vita sociale.
Processi selettivi e di governance introducono tra valutatori e valutati, tra canditati e
commissioni, tra eletti ed elettori, tra amministratori e amministrati vincoli di valori
desiderabili che si ispirano al successo, al denaro, al piacere e al potere. Ogni critica a
quei modelli sembra cadere nel vuoto di un puro moralismo, ma in realtà quei modelli
producono non solo trasformazioni ma trasformazioni che generano una Arena sociale
probabilmente senza precedenti.
La scoperta girardiana ci mostra che la violenza mimetica prima di consumarsi su un
capro espiatorio si esaspera in una crisi identitaria che rivela come nel cuore della
conflittualità mimetica si nasconde il desiderio di essere l’altro. La struttura della
personalità, che oggi va ad occupare uno o più ruoli carichi di relazioni sempre più
qualificabili in chiave mimetico-rivalitaria, non può cambiare pressoché nulla facendo
affidamento solo sulla forza ed energia individuale o personale; anzi a livello psichico
l’aumento indefinito di possibilità, e quindi di contingenza sociale, rende ogni legame
sociale fragile e in continua latenza, cosicché il desiderio di essere l’altro appare sempre
più spesso una sorta di aspirazione insopprimibile nei confronti della perdita di identità
sociale, ancoraggio che assume i volti di una rivalità globalizzata. La piscologizzazione
della vita pubblica, che quotidianamente affligge la nostra cultura mass-mediatica,
peggiora le cose, e non potrebbe essere diversamente, in quanto spostando l’attenzione
pubblica su ciò che non è determinante sul piano sociale - in quanto determinanti sono i
contenti culturali implementati nei ruoli - produce una sorta di distorsione collettiva
nella lettura dei processi socio-culturali.
Assumere fino in fondo la lezione girardiana, significa sollevare invece il “velo di
Maya” di quali responsabilità ogni ruolo, ma proprio ogni ruolo, ha nello spingere le
relazioni sociali verso la violenza rivalitaria. Certamente la riflessione girardiana non è
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
una riflessione che incoraggia un autostima sociale, siamo un po’ tutti meno buoni di
quanto non pensassimo di essere, ma evita sicuramente di pensare che la violenza sia
una questione che interessa “altri” e non le nostre quotidiane pratiche di vita.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il ciclo della violenza: una questione sociale
M. Gabriella Landuzzi
Dipartimento Tesis,Università degli Studi di Verona
Premessa
La WHO - World Health Organization (1996) definisce il fenomeno violenza
come “l’utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro
se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che
abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico,
cattivo sviluppo o privazione” e lo considera come uno dei problemi di salute pubblica
mondiale più grandi e in crescita.
L’Assemblea sulla Salute Mondiale ha evidenziato in una delle risoluzioni, le
gravi conseguenze della violenza – sia nel breve che nel lungo termine – a livello
individuale, familiare, comunitario e sociale relativo ad interi paesi, e ha sottolineato i
danni prodotti dagli effetti della violenza sui servizi di salute pubblica (WHO 2002). In
particolare, la forma di violenza maggiormente riconosciuta e prevalente è quella agita
nei confronti delle donne soprattutto in ambito domestico, un fenomeno trasversale che
non si circoscrive all’interno di determinate fasce sociali e che rappresenta il caso più
frequente di mancato rispetto dei diritti fondamentali delle donne stesse. Si definisce
violenza domestica “ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale che riguarda
tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di
coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato
hanno relazioni di carattere parentale o affettivo” (WHO, 1996), una violenza che è
culturalmente influenzata e che risente dei cambiamenti di valori e norme sociali.
Uno sguardo ai dati
Partendo da un dato generale dell’Unione Europea del 2014, la violenza contro le
donne è stata analizzata attraverso una ricerca effettuata su 42 mila donne appartenenti
ai 28 Stati Membri dell’UE, attraverso interviste sulla loro esperienza relativamente a
73
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
episodi di violenza fisica, sessuale e psicologica, nonché “violenza domestica”
(fra.europa.eu - 2014).
I dati emersi evidenziano che il 33% della popolazione femminile in Europa (pari a 62
milioni di donne) ha subito violenza fisica, psicologica o sessuale almeno una volta
nella vita e che tra esse, oltre i due terzi non ha denunciato la violenza ricevuta da parte
del partner.
Smontando ogni stereotipo, i dati sottolineano che in UE la violenza è maggiore nei
Paesi ritenuti maggiormente paritari e dove i tassi di occupazione femminile risultano
più elevati come ad esempio la Danimarca dove il 70% delle donne lavora ma che è
caratterizzata dal 52% di vittime oppure la Finlandia (con il 47% di vittime) , la Svezia
(46%) e l’Olanda (45%).
74
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Tali dati impongono riflessioni approfondite ed esprimono la necessità di porre
attenzione a variabili diverse e relative all’intero sistema culturale, territoriale,
economico: il sistema pensionistico (in Danimarca ad esempio, le donne vanno in
pensione almeno a 70 anni e quindi risultano esposte per un tempo particolarmente
lungo a episodi di molestia o violenza ad esempio, nei luoghi di lavoro), il consumo di
alcol, la consapevolezza delle donne nel definire violenti alcuni comportamenti.
Rispetto a questi Paesi, il dato europeo mostra che in Italia le vittime rappresentano il
27% (apparentemente in calo rispetto al 32% evidenziato dall’ultima indagine Istat nel
2006).
Osservando i dati Eures nel 2013 in Italia sono state uccise 179 donne (che corrisponde
quasi a una vittima ogni due giorni); nel 68,2% dei casi ovvero 7 donne su 10 (pari a
122 in valori assoluti) le donne sono state uccise all'interno del contesto familiare/
affettivo. Il dossier sottolinea che si sta "consolidando un processo di femminilizzazione
nella vittimologia dell'omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni,
considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l'11,1% delle vittime
totali" (www.eures.it).
Come? Le forme della violenza
La violenza si manifesta in diversi modi che raramente si presentano singolarmente
e che sono così sintetizzabili:
violenza fisica o maltrattamento fisico.
Rappresentabile sia come attacco diretto, sia come forma d’intimidazione. È
caratterizzata da comportamenti come spintonare, costringere nei movimenti, sovrastare
fisicamente, rompere oggetti per intimidire l’altro, sputare contro, dare pizzicotti,
mordere, tirare i capelli, gettare dalle scale, cazzottare, calciare, picchiare,
schiaffeggiare, bruciare con le sigarette, privare di cure mediche, privare del sonno,
sequestrare, impedire di uscire o di fuggire, strangolare, pugnalare e nei casi più
estremi, uccidere;
violenza psicologica.
Rappresenta ogni forma di abuso e mancanza di rispetto volto a ledere l'identità
della persona. E’ una forma di violenza subdola e la persona che ne è oggetto si sente
priva di valore; ciò spesso determina l'accettazione di ulteriori comportamenti violenti.
Soprattutto nella coppia, questi sono atteggiamenti che spesso si insinuano
gradatamente nella relazione e che finiscono con l'essere accettati dalla donna come
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
“normali” al punto da non essere più considerati come dannosi e lesivi per la sua
identità, procurando grande sofferenza. Si manifesta con molteplici tipologie e modalità
come svalorizzare, trattare la donna come un oggetto a propria disposizione, attribuirle
eccessive responsabilità nei fatti anche non conducibili direttamente a lei, indurre senso
di privazione, distorcere la realtà oggettiva dei fatti;
violenza sessuale.
Definisce ogni imposizione di pratiche sessuali non desiderate. Si intende ogni atto
sessuale attivo o passivo, imposto alla vittima mediante violenza fisica, minacce o
abuso di autorità come coercizione alla sessualità, essere insultata, umiliata o
brutalizzata durante un rapporto sessuale, la costrizione ad un rapporto sessuale non
desiderato, essere obbligata a ripetere delle scene pornografiche ed essere “prestata” ad
un terzo per un rapporto sessuale;
violenza economica o maltrattamento economico.
È caratterizzato da privazione, controllo o dipendenza economica dalla persona che
la esercita e che limita l’accesso all’indipendenza economica dell’altro. Questo tipo di
violenza è spesso usata dall’uomo al fine di mantenere saldo il potere, di esercitare il
controllo e di assoggettare la donna. Il denaro viene utilizzato, consapevolmente o
inconsapevolmente, per tenere la donna ancorata alla relazione, la donna può avere
paura di cadere in povertà o di perdere status sociale. Alla donna viene vietato ad
esempio di svolgere un lavoro o un percorso formativo, viene sfruttata come forza
lavoro, ricoperta di debiti, limitata e privata del denaro o costretta a versare lo stipendio
sul conto dell’uomo. Spesso la violenza economica viene accettata dalla società come
un delitto “minore” sminuendone il significato e il “peso”;
violenza assistita.
È quella violenza fisica, psicologica, sessuale, economica compiuta sulle figure di
riferimento di un/una minore e/o su altre figure significative, adulte o minori. Di
questa violenza il/la minore può farne esperienza diretta vedendo o sentendo e/o
indiretta essendone solamente a conoscenza ma percependone comunque gli effetti.
Per la/il bambina/o o adolescente vivere in continua situazione di stress, tensione,
ansia e assistere regolarmente alla violenza esercitata da uno dei due genitori contro
l’altro, produce danni di varia natura. Le vittime in questo caso sono bambini che
corrono il rischio di diventare adulti con difficoltà a trovare un proprio equilibrio e a
costruire relazioni sane;
comportamento persecutorio, “stalking”, "Molestie Assillanti".
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
È un insieme di comportamenti intrusivi e reiterati di sorveglianza, controllo, ricerca
di contatto e comunicazione, nei confronti di una vittima, che risulta infastidita e/o
preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi.
Questo tipo di
comportamento è per lo più messo in atto quando una coppia si separa ed uno dei
due non vuole accettarlo, spesso quando la donna cerca di allontanarsi da una
relazione anche violenta. Il maltrattatore perseguita l’ex-partner seguendola negli
spostamenti, aspettandola sotto casa, al lavoro, telefonandole continuamente a casa,
in ufficio, sul telefonino o scrivendo lettere, sms, e-mail. Gli effetti possono essere
devastanti: viene minato il senso dell’autonomia e dell’indipendenza della donna
facendola sentire “in trappola”;
cyberstalking.
Un comportamento minaccioso o contatti indesiderati agiti mediante strumenti di
comunicazione tecnologicamente avanzati. Il comportamento dei cyberstalker è
spesso legato all’anonimato garantito dalla rete e si manifesta con contenuti di
controllo (es. “ so dove sei”), ma anche di adescamento (es. nelle chat),
denigrazione con la diffusione di false informazioni o diffusione di false immagini e
documenti della vittima anche a carattere pornografico.
Perché la violenza?
I dati mostrano che nel 2013 una donna su tre è stata uccisa a "mani nude", per le
percosse, mediante strangolamento o soffocamento e tali modalità vengono messe in
relazione ad un "alto grado di violenza e rancore" (www.eures.it). Infatti, la modalità di
esecuzione appare correlata con il movente, in particolare da un lato, quello 'passionale
o del possesso' è il più frequente (31,7%) e sembra sottolineare “la reazione dell'uomo
alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno
formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire";
dall’altro, il "conflitto
quotidiano", la litigiosità a volte banale della gestione della casa (20,8%). Il rapporto
Eures mostra quindi che tante donne vengono uccise per aver lasciato il proprio
marito/compagno, per avere deciso di uscire da una relazione di coppia; oppure nei casi
di un nuovo partner della ex, o in relazione all’affidamento dei figli (www.eures.it).
La violenza è un fenomeno/una relazione complessa e non esistono cause
genetiche, biologicamente determinate e quindi inevitabili, della violenza umana. La
violenza umana “si acquisisce con l’educazione” (Heritiers 1997) e come si evince
anche dalla Dichiarazione di Siviglia (1986), la violenza è un prodotto socio-culturale.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La violenza è socialmente prodotta ed è un fenomeno complesso che ha le sue
radici nell’interazione di diversi fattori: biologici, sociali, culturali, economici e politici
per la cui comprensione l’OMS (2002) ha utilizzato un modello ecologico caratterizzato
da 4 livelli diversi che si intrecciano e si influenzano vicendevolmente come si osserva
dalla figura di seguito presentata:
società
comunità
relazioni
individuo
1. primo livello – i fattori biologici e della storia personale che influenzano il modo
in cui i comportamenti individuali possono portare ad essere vittima o carnefice
(es. caratteristiche demografiche - età, educazione, reddito -, disordini
psicologici o di personalità, abuso di sostanze, storie pregresse di abusi);
2. secondo livello - le relazioni più vicine e strette come la famiglia, gli amici, il
partner. Tali relazioni possono aumentare il rischio di divenire vittime o
carnefici (es.nella violenza giovanile, avere amici violenti o che incoraggiano ad
avere comportamenti violenti, può aumentare il rischio di divenire vittime o
carnefici);
3. terzo livello - il contesto comunitario ovvero relazioni con la scuola, posto di
lavoro, vicinato (es. vivere per molto tempo nello stesso luogo; la presenza di
alti livelli di disoccupazione; la presenza di un commercio locale di droga
rappresentano fattori di rischio);
4. quarto livello - il livello societario crea un clima in cui la violenza è incoraggiata
o inibita (es. la disponibilità o la presenza di armi, di norme sociali o culturali, il
livello di salute, la presenza di politiche sociali ed educative).
All’interno di questa complessità, occorre anche sottolineare che nella relazione
violenta sono state osservate delle fasi alterne che si susseguono in modo circolare, il
cosiddetto “Ciclo della Violenza”, una sorta di circolo vizioso che può essere interrotto
solamente tramite un intervento e un accompagnamento esterno. Un esempio tipico di
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
ciclo della violenza è la violenza domestica che si caratterizza per una fase di crescita
della tensione, seguita da una fase di maltrattamento, una fase di latenza ed infine una
fase dello scarico delle responsabilità che si ripetono nel tempo in una spirale negativa
capace di generare, laddove le parti coinvolte non chiedano aiuto, un’escalation di
violenza (Walker 1983).
Prospettive
La violenza è una delle principali cause di morte nel mondo per le persone tra i 15 e
i 44 anni (OMS) e benché le stime siano difficili da ottenere, il costo della violenza si
traduce oltre che in spese economiche (in termini di giorni di lavoro perduti, questioni
legali, ecc.), in costi incalcolabili, legati ai traumi, alla paura derivante da tali
comportamenti o azioni. La violenza, influendo negativamente sui risultati scolastici
delle donne, sulle loro capacità di successo lavorativo e sulla loro vita pubblica,
allontana
progressivamente
le
società
dal
conseguimento
di
dell’obiettivo
dell’uguaglianza di genere (Bachelet, UN Women ).
I dati continuano a sottolineare che la violenza e in particolare quella operata sulle
donne, rappresenti un fenomeno in crescita, e mettono in evidenza l’incapacità di
costruire una relazione paritaria e rispettosa, priva di idee preconcette relative ai ruoli
all’interno della coppia e volta al riconoscimento della donna come soggetto e non un
oggetto di proprietà. A fronte di ciò, l’approccio preventivo, dissuasivo e terapeutico
non potrà prescindere dalla cura degli aspetti culturali e delle competenze relazionali
affinché sia possibile per tutti (uomini e donne) acquisire una nuova e diversa mentalità:
«occorrono cambiamenti culturali per smettere di guardare alle donne come “cittadine
di seconda classe”. Dobbiamo creare una cultura di rispetto» (Michelle Bachelet, Vice
Segretario Generale e Direttore Esecutivo di UN Women - ONU).
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80
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il ciclo della violenza: le fasi. Aspetti educativi preventivi
Viviana Olivieri
Formatore, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Questo corso di formazione, inserito nel più articolato percorso di
umanizzazione comprendente temi impegnativi quali la morte, la verità, la corporeità
ecc., affrontando il complesso e attuale tema della violenza vuole dedicare uno spazio di
riflessione a questo fenomeno di così grande attualità20. Un corso che per le sue
caratteristiche assume carattere interistituzionale, multidisciplinare e multiprofessionale
e rappresenta uno dei primi importanti passi fatti dal mondo della formazione per creare
sinergie tra le varie forze che concorrono a creare una cultura, una politica, una
legislazione e una medicina corretta e consona per creare una identità maschile e
femminile che offra una buona qualità di vita.
La violenza alle donne solo da pochi anni è diventato tema e dibattito pubblico.
Sempre di più è necessario sviluppare politiche in contrasto alla violenza alle donne,
ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione.
La violenza contro le donne è violenza basata sul genere, è ritenuta una
violazione dei diritti umani. Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che
la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in quelli in via di
sviluppo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali,
e a tutti i ceti economici. E’ un fenomeno che esprime un grave disagio sociale e
rappresenta una vera emergenza mondiale e italiana con ricadute gravi e significative
sulla salute ed il benessere mentale e fisico della donna.
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno una donna su cinque
ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita. E il rischio
maggiore sono i familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici: vicini di casa, conoscenti
stretti e colleghi di lavoro o di studio. Molto spesso, la vittima decide di non denunciare
l’accaduto alle Forze dell’Ordine per diverse ragioni alla base delle quali c’è sempre
una pressione sociale e psicologica (paura, vergogna, dipendenza). Ciò risulta
20
Morgan G., Images, Ed. Franco Angeli, Milano 2001
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
documentato come ad esempio dai dati rilevati dal Centro antiviolenza Petra (Verona):
delle 822 donne che si sono rivolte al centro dal 2004 al 2012, ha fatto denuncia il 39%
delle stesse che poi sono state seguite con sostegno psicologico e sociale.
Un dato significativo, sia da un punto di vista sociale che epidemiologico, è che
più del 31% delle violenze avviene nell’abitazione della vittima e solo il 10% a casa
dell’aggressore, quindi nella maggioranza dei casi la vittima conosce bene colui che
agisce in modo violento. A riprova di ciò altre percentuali affermano che nel 13,4% dei
casi la violenza è perpetrata da mariti e fidanzati, nel 46,1% da ex mariti ed ex fidanzati
e solamente nel 3,5% dei casi la vittima non conosce il proprio aggressore.
L’identikit dell’uomo violento, esiste?
Non vi è una tipologia particolare di uomo che attua la violenza, così come non
esiste una tipologia femminile di donna, quando si parla di violenza femminile verso
l’uomo.
È importante per le donne sapere che non si può giungere all' identikit dell’uomo che
maltratta né per l’etnia, né per l'età, né per lo status sociale e le condizioni economiche e
culturali, né per una specifica condizione psico-patologica. Si tratta di una situazione
trasversale che colpisce donne di ogni tipo e viene perpetrata da uomini d' ogni
condizione.
Molti stereotipi non corretti sono stati formulati per individuare una tipologia di
uomo violento; a tal proposito l’ISTAT ha invece evidenziato che il problema è
culturale e non di zona geografica, di religione e di stato sociale: la diffusione del
fenomeno è maggiore nel Nord Italia, la violenza accade sia nelle case povere che
ricche e non vi è differenza tra colti e non colti, anzi l’ago della bilancia propende più
per i ricchi e i colti.
Da un punto di vista educativo culturale possiamo affermare che negli ultimi anni è
cambiato il ruolo dell’uomo nella società. Da un ruolo dominante, inserito in un
contesto sociale che vedeva nel maschio una persona che più facilmente poteva
affermarsi nel mondo lavorativo ed essere accolto nella famiglia, oggi l’uomo deve fare
i conti con la propria fragilità. Non ha più il ruolo dominante di possesso della famiglia
e della propria donna e questo può destabilizzare. Come può destabilizzare subire un
abbandono.
82
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Mentre la donna nella nostra società europea ha dovuto combattere per affermarsi e
realizzare i propri obiettivi acquisendo così degli strumenti che le danno forza,
competenza e capacità, l’uomo su un piano familiare e affettivo questi strumenti se li
deve costruire, diventa così a volte molto più facile schiacciare o addirittura eliminare
quello che l’uomo considera sua proprietà e oggetto di potere.
Il rapporto basato sulla violenza ha una sua caratteristica ed esula da qualsiasi
rapporto normale: anzi determina una sorta di relazione polare tra due soggetti. La
polarità tra i ruoli di vittima e carnefice si manifesta nell'ambito delle relazioni di
coppia: è questo infatti uno dei luoghi dove questa polarità si manifesta più
frequentemente, dando luogo a situazioni potenzialmente devastanti dal punto di vista
psicologico e non solo. Una delle più classiche circostanze da cui può avere origine
questo tipo di situazione, è quella in cui uno dei due soggetti teme di perdere l'altro per
qualche ragione, auto-attribuendosi in questo modo il ruolo di debole (potenziale
vittima) e assegnando all'altro quello di forte (potenziale carnefice).
Questa situazione si manifesta attraverso comportamenti quali da un lato la gelosia,
la volontà di dominio, dall’altro lato con comportamenti di sottomissione, con la paura
di essere abbandonati. Questo gioco di potere nella relazione si verifica quando si
definisce amore (ovvero ciò che per sua natura è disinteressato e rispettoso) la
possessività, ovvero quando voglio possedere una persona e averla in modo esclusivo.
Ciò porta ad una situazione dove il polo forte detiene il potere e detta le condizioni,
mentre il polo debole si sottomette e obbedisce agli ordini con conseguenze che portate
all'estremo risultano distruttivi per entrambi i soggetti coinvolti.
Il ciclo della violenza
La relazione di coppia trasformata in relazione vittima-carnefice vive fasi alterne
che si susseguono in modo circolare, il cosiddetto “Ciclo della Violenza” , una sorta di
spirale che si protrae all’infinito passando sempre per gli stessi punti in un circolo
vizioso
che
può
essere
interrotto
solamente
accompagnamento esterno.
83
tramite
un
intervento
e
un
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Fig. I. Il ciclo della Violenza
2. MALTRATTAMENTO
3. FASE DI LATENZA
1. CRESCITA
DELLA TENSIONE
4. SCARICO DELLA
RESPONSABILITA’
Il ciclo della violenza elaborato dalla Walker (Landuzzi in Olivieri 2011) è
caratterizzato da alcune fasi come si vede da fig. I e di cui un esempio è la violenza
domestica:
1. fase di crescita della tensione nella quale il maltrattatore esercita una volontà di
sminuire, mortificare e insultare la vittima che cerca a modo suo di prevenire le violenze
fisiche. In questa fase la vittima sopprime le proprie paure e i propri bisogni
concentrando tutta l’attenzione sul maltrattatore, cerca di evitare situazioni conflittuali e
conseguenti maltrattamenti. Anche solo un motivo futile può sfociare in un attacco di
violenza, il maltrattamento.
2. Fase di maltrattamento fisico. Le vittime reagiscono in maniera diversa: fuggendo,
contrattaccando o sopportando. Se la vittima non riesce a scappare o difendersi è
costretta a subire. Si è osservato che con il passare del tempo, i maltrattamenti tendono a
diventare più frequenti e più gravi, tendono a verificarsi nella quotidianità come una
vera e propria modalità relazionale. Le conseguenze oltre alle lesioni fisiche, sono
psichiche. Quando il maltrattatore riprende il controllo di se stesso si rende conto di ciò
che ha fatto, prova sensi di colpa e vergogna.
3. Fase di latenza nella quale il maltrattatore fa (false) promesse di cambiare, dà
giustificazioni alla vittima rispetto al suo comportamento accompagnati solitamente da
regali. Si tratta di una vera e propria “luna di miele” che può essere più o meno lunga,
nella quale sembra che veramente tutto sia cambiato. La speranza della donna che
questo cambiamento sia definitivo è grande, che sia finalmente tornato l’uomo del quale
lei si era innamorata, a suo tempo aveva scelto una relazione d’amore e non di
84
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
violenza. In questa fase alcune donne lasciano i percorsi iniziati di uscita dalla violenza
interrompendo le consulenze in corso o rientrando al proprio domicilio dopo essersi
rifugiate altrove. I maltrattamenti vengono mentalmente rimossi e le violenze subite
sminuite. Spesso in questa fase sono anche i famigliari o gli amici a far pressioni sulla
vittima affinché perdoni il partner e gli conceda un’altra chance. Dopo essersi pentito
l’uomo và a ricercare la causa che gli ha scatenato l’attacco o gli attacchi di violenza.
4. Fase dello scarico delle responsabilità. Molti uomini credono che la propria azione
violenta sia dovuta a una forza maggiore che li ha “travolti”, senza che loro potessero
controllarla. Molte vittime si assumono questa colpa volutamente e perdonano il partner
pentito accollandosi la responsabilità del suo agire violento e pensando effettivamente
di averlo provocato. La vittima sentendosi corresponsabile crede quindi di poter evitare
la prossima escalation di violenza e s’illude che la prossima volta potrà influenzare la
situazione.
A questo punto, se nessuna delle parti coinvolte cerca aiuto, ricomincia lentamente la
fase di crescita della tensione. Un fatto qualsiasi conduce allora a un’ulteriore escalation
e la spirale della violenza torna a girare. La cosiddetta “luna di miele” diventa sia un
periodo di pace apparente che di grande tensione. Per ovviare a questa tensione
determinata da un’estenuante attesa, la donna può anche provocare consapevolmente
l’escalation della violenza perché sa che poi per un po’ avrà pace nella sua seconda,
decima, centesima luna di miele.
Cosa fare?
Per educare nella società di oggi è necessario percepire nettamente e concretamente a
che cosa bisogna aspirare e da che cosa bisogna allontanarsi: “l’educazione presuppone
delle decisioni. Chi educa deve sapere cosa vuole, ha bisogno di fini educativi e deve
scegliere i mezzi con i quali sia possibile conseguirli” (Portera, 2008, p. 17). Affinché
l’educazione diventi possibile è necessario fare un ulteriore passo per garantirne un
buon risultato: il dialogo intra- ed inter- generazionale, inteso come la capacità di
trasmissione delle conoscenze che sono proprie di una specifica generazione. La
realizzazione del dialogo rende necessaria una prospettiva non egocentrica, la
costruzione di uno spazio di interazione in cui la diversità dei valori ponga le basi per
un arricchimento reciproco e la comprensione scaturisca dalla volontà di confronto su di
un piano paritetico (Cugno, 2004).
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Subire violenza ha ricadute devastanti sulla salute psichica e fisica della donna
che ne è vittima, questo impone che sia a livello di ULSS che a livello di ospedali si
attuino interventi specifici su più fronti: è necessario predisporre dei percorsi dedicati
per la presa in carico e la cura della persona che ha subito violenza, con professionisti
educati e formati ad accogliere le donne che vivono queste situazioni. Questo
presuppone una sinergia (questo evento ne è l’esempio) delle Istituzioni e degli
interventi mirati di educazione, prevenzione, cura, accoglimento, monitoraggio.
Educazione e sostegno
-
che la donna e l’uomo insieme, possono ottenere dai servizi offerti e attraverso
i quali possano educarsi a vivere una vita di coppia che permetta una buona
qualità di vita;
-
che permettano alla donna sola, nel caso non possa condividere con l’uomo, di
avere la possibilità di acquisire il coraggio di uscire dalla spirale negativa e
pericolosa che un rapporto di violenza crea;
-
che favoriscano
il lavoro di rete per accogliere e aiutare le donne e far
emergere la violenza;
-
che
agiscano
in
termini
preventivi
attraverso
l’eliminazione
della
discriminazione di genere nei vari ambiti (famiglia, scuola, lavoro, società);
-
che diano vita a campagne di sensibilizzazione per aumentare la consapevolezza
di tutti e la sensibilità sociale al fenomeno;
-
degli operatori dei servizi sociali e sanitari, delle forze dell’ordine, dei
magistrati, degli avvocati e di tutti coloro che sono coinvolti;
-
che promuovano iniziative politiche e legislative a supporto della donna
vittima.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Bibliografia essenziale
-
A.I.F., Castagna M. ( a cura di), Progettare la formazione, Ed. Franco Angeli,
Milano, 1997
-
AIF, Professione formazione, Ed. Franco Angeli, Milano 2001
-
Alberici A., Imparare sempre nella società della conoscenza, Ed. Bruno Mondadori,
Milano, 2002
-
Antonelli G., L’italiano nella società della comunicazione, Ed. Il Mulino, Bologna,
2007
-
A. Cugno, Il dialogo tra generazioni, Milano, Franco Angeli, 2004
-
V. Olivieri (a cura di), I vari volti della violenza…., Verona, Cortina, 2011
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Si può guarire dagli episodi di violenza?
Michele Masotto
Psicologo, Psicoterapeuta
Cosa significa guarire? Escludiamo alcuni significati del guarire che potrebbero
creare illusioni, disagi, rafforzamento di problematiche e patologie psichiche nate dalla
violenza subita. Guarire non può corrispondere a dimenticare, e neppure a non essere
segnati.
La violenza si imprime nella mente, e lascia un segno: guarire potrebbe allora
essere l’integrazione del ricordo, per cui la donna può collocare quanto avvenuto
all’interno della sua storia senza sentirsene schiacciata e senza avvertire un macigno sul
proprio sé, sul senso della propria identità e del proprio valore; potrebbe essere
l’abbassamento del dolore emotivo del ricordo; potrebbe essere la capacità di
apprendere le modalità collusive alla violenza subita senza entrare in pericolose ed
errate autoattribuzioni di colpa ed assumendo una responsabilità costruttiva per il
proprio futuro.
Ad ogni modo, guarire è un processo probabilmente mai terminato, e le strade,
come le possibilità del guarire, dipendono dal tipo di violenza subita, dalle
caratteristiche di personalità delle persone coinvolte, dall’età in cui avviene, dai ruoli
che le persone violente hanno ricoperto nella vita della vittima.
Credo che la violenza è un danno che ha carattere sia privato che sociale, per cui
la guarigione passa da entrambi questi canali: ridurre l’idea della guarigione da un
vissuto di violenza ad un percorso interiore e comportamentale della vittima corrisponde
a mio avviso ad un profonda ingiustizia, e ad una modalità sottile di vittimizzazione
secondaria.
Il poco tempo a mia disposizione mi chiede di fare una scelta: non indicherò le
varie strade sociali di cooperazione con il percorso di guarigione dalla violenza, ma
alcune situazioni che sperimento essere spesso dannose, colludenti con la violenza,
favorenti una vittimizzazione secondaria, cioè una ulteriore pressione sulla vittima.
Per la mia esperienza ci sono due strategie psicosociali e giuridiche che favoriscono il
violento:
89
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
-
L’utilizzo dello strumento della mediazione familiare quando esiste uno
squilibrio importante sul versante del potere all’interno di una coppia
-
La quasi assoluta sottovalutazione del peso della violenza economica.
Per quanto riguarda il primo punto, non è infrequente che coppie dove l’uomo ha
assunto atteggiamenti minacciosi e violenti vengano inviate dai giudici per percorsi di
sostegno alla genitorialità o di mediazione familiare: va osservato che non esiste in
realtà una condizione di dialogo conciliativo, perché la sproporzione del potere delle
parti in gioco è troppo alta. Quando mancano i criteri della mediabilità, promuovere e
far vivere percorsi conciliativi è una mossa socialmente disastrosa: proviamo ad
immaginare ad esempio una donna straniera che ha sposato un uomo italiano, e si
ritrova qui senza una rete parentale, con un lavoro che non le permette un’autonomia,
con una divergenza economica per cui il suo avvocato non ha né mezzi né capacità
adeguate rispetto allo studio legale a cui l’altro si è riferito, con una capacità
comunicativa più bassa, con la paura di non essere creduta quando racconta le violenze
subite, con il timore di rivedere i gesti minacciosi dell’altro riapparire fuori dallo studio
del professionista, …….. che mediazione sta avvenendo in quella stanza? E quanti finti
percorsi di mediazione sono stati tenuti all’interno di un contesto relazionale di questo
tipo?
Proviamo invece a pensare alla valutazione della genitorialità: una donna che ha
subito violenza non è valutabile, come non lo è un barbone rispetto alle sue patologie
psichiche, come non lo è un alcolista rispetto alla sua personalità. È necessario strappare
l’alcolista dall’alcool, il barbone dalla strada, la donna dalla violenza: allora, e solo
allora, sapremo con che uomini, padri e madri abbiamo a che fare. Una donna che vive
con la paura della violenza, anche solo economica, non può vivere la sua maternità in
modo adeguato, e si muove con modalità goffe, a volte trascuranti, che il non esperto
cataloga facilmente come incapacità genitoriale….. può essere, ma prima bisogna
restituirle la libertà dalla spada di Damocle che il violento le ha appeso sulla testa. Poi,
solo poi, valuteremo.
Una prima strada di guarigione è quindi psicosociale: introdurre i percorsi corretti, e
non utilizzare strumenti non adeguati o addirittura collusivi con il violento, che può così
dimostrare che “anche lei era d’accordo” o che non è una buona madre.
La seconda questione è quella economica, violenza a mio avviso sottovalutata: non
sto parlando di quelle famiglie dove la separazione è semplicemente un impoverimento
per tutti, e occorre ritrovare una distribuzione delle risorse familiari intelligente. Ci sono
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
purtroppo uomini che trovano il modo di ridurre in grave crisi economica le donne,
affondando il loro bisogno di sicurezza, e ponendolo in contrasto con la necessità di
essere presenti per i loro figli. I padri separati di frequente lamentano la loro miseria, e
forse non a torto, ma spesso alle spalle di queste situazioni esistono valutazioni
giudiziare non sempre accorte o semplicemente il dramma che coinvolge sia il padre
che la madre; ma le donne spesso sono sotto minaccia proprio sulla questione
economica. Non accorgersene è grave: è purtroppo normale che nelle ctu, nei percorsi
dei servizi, aleggi l’idea che dei soldi non ci si occupa, che conta lo sguardo sui figli: sì,
ma pure io che scrivo e qualunque lettore faticheremmo ad essere genitori adeguati se
vivessimo con la sensazione amara di non possedere basi economiche minime.
Passiamo ora alla guarigione nel percorso interiore delle donne.
L’operatore deve aiutarle a superare i sensi di colpa: è un sentimento arcaico che ci
colpisce davanti al male che ci travolge, per cui tendiamo a sentirci in colpa quando
soffriamo. Le persone si chiedono cosa hanno fatto di male quando sono colpiti da una
malattia, un bambino piccolo si percepisce cattivo se ha male alla pancia, un uomo e
una donna si vergognano di una violenza subita, che li umilia e lascia loro la sensazione
di essere sbagliate/i.
Una donna va aiutata a non sentirsi in colpa: non esiste un motivo che giustifichi la
violenza dell’altro, neppure la nostra provocazione. E mentre impara che non ha colpe,
può attivare la responsabilità: come ho colluso con un sistema di violenza? Non c’è
colpa, ma responsabilità: una donna che si accorge che per anni ha sempre accettato
tutto, ha lavorato nell’attività del marito senza stipendio né tanto meno contributi, non
ha mai posseduto il bancomat e ha sempre dovuto chiedere per ogni spesa, ha
sopportato tradimenti, è stata presa per il collo davanti alle sue proteste, ha accettato di
vivere atti sessuali non voluti e lontani dai propri desideri. Anni così, senza alzare una
mano per chiedere aiuto, che è successo? Cosa dentro di sé l’ha condotta a pensare che
un amore tollera tutto? Una donna che si interroga sui propri schemi di vita si
responsabilizza, comincia dalle più normali amicizie a modificare gli atteggiamenti,
nasce come persona capace di porsi e darsi dignità e valore.
La responsabilità osserva la collusione con il violento, percepita come soggettivamente
inevitabile, che comporta ad esempio l’accettazione di comportamenti non voluti, la
rinuncia alla denuncia, e che a volte riguarda donne che non riconoscono di avere
risorse e non le utilizzano in modo adeguato.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La responsabilità aiuta a vivere una fase dell’uscita dal legame violento, grazie
alla capacità di superare le paure: le ritorsioni, le conseguenze sui figli, la solitudine a
cui si va incontro, il giudizio degli altri, la paura di perdere i bambini, la sfiducia nei
percorsi di giustizia, la paura di non avere più mezzi per vivere, il timore di essere
considerate la causa, di non essere credute, ……
La responsabilità permette di riconoscere le dinamiche in cui la violenza ha
trovato spazio, e di accorgersi che non esiste mai e in nessun modo una giustificazione
alla violenza; permette anche di riconoscere i volti con cui la violenza si esprime:
violenza fisica, psicologica, economica, sociale (isolamento e controllo). Responsabilità
personale e sociale devono però incontrarsi, pena abbandonare una donna ad uno sforzo
eroico, o peggio ad una specie di condanna di Sisifo, il mortale condannato dagli dei a
trasportare un macigno sulla cima della montagna, a lasciarlo cadere in basso per poi
riportarlo in cima, in una ripetizione infinita: senza l’appoggio sociale, una donna che
subisce violenza cede all’idea che il tentativo di liberarsi dal violento abbia la stessa
efficacia del portare la pietra in cima alla montagna: solo se e quando si troverà fuori da
questa condanna inferta non dagli dei ma da un uomo troppo potente, potrà
riorganizzarsi internamente, e prendersi cura delle proprie ferite e delle proprie modalità
relazionali disfunzionali.
Quando poi il dolore emotivo che nasce dai ricordi è troppo alto entriamo nel
mondo dei disturbi post traumatici, dove la terapia si confronta con il peso dei ricordi, la
necessità che essi hanno di uscire ed insieme di non distruggere. Il percorso dell’emdr è
una strategia utile, che forse andrebbe maggiormente conosciuta: comporta un lavoro
sul ricordo basato non sul verbale, sul cognitivo, ma sull’elaborazione che ciascuno
dentro di sé è in grado di attivare, ma che spesso rimane bloccata ed inespressa.
I percorsi terapeutici di guarigione comportano quindi la scelta dello strumento
adeguato, a volte il percorso di responsabilità, a volte l’utilizzo di terapie che
permettono di integrare i ricordi. Il passo finale si potrebbe descrivere come la capacità
di riprogettarsi: poter pensare ad un nuovo progetto di vita, in cui la violenza, anche se
ha segnato, non è più in grado di girare il volante della propria storia.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Violenza e Legalità
Enrico Buttitta,
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Militare di Verona
Fattispecie di reato e conseguenze penali. Dai maltrattamenti in famiglia allo stalking,
alla violenza sessuale, passando da percosse e lesioni personali, minaccia, ingiuria ecc.
Il fenomeno della violenza maschile contro le donne è un crimine e rappresenta
una violazione fondamentale dei diritti umani che attraversa tutte le culture, le classi, le
etnie, i livelli di istruzione, di reddito nonché tutte le fasce di età. La violenza sulle
donne comprende tutti gli atti di violenza fondati sul genere, ossia diretti contro una
donna in quanto tale, che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze
di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere
tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che
nella vita privata (art. 3 della Convenzione di Istanbul).
In Italia una donna su tre tra i 16 e i 74 anni ha subito durante la sua vita almeno
un episodio di violenza. Ogni anno, solo in Italia, sono oltre 120 le donne uccise per
mano di un partner o di un ex partner.
Tuttavia, quello della violenza alle donne è un fenomeno sommerso, col 90% dei
casi confinati in un disarmante silenzio. Molte violenze non vengono denunciate e
spesso la vittima ritorna con il partner anche dopo la denuncia. Può accadere addirittura
che la donna si leghi al partner violento quale suo unico punto di riferimento anche
“affettivo”. Si tratta, in questi casi, di quella che è stata definita sindrome di Stoccolma,
osservata per la prima volta nei lagher nazisti: la vittima diventa sempre più subordinata
al proprio aguzzino dal quale fa dipendere la propria esistenza. Quanto più è lunga la
durata dei maltrattamenti tanto più viene compromessa e schiacciata la libertà di
autodeterminazione della vittima. La situazione si cronicizza, perché il terrore prende il
sopravvento e diventa sempre più difficile uscirne.
Non esiste una tipologia di donna maltrattata, in quanto il fenomeno è trasversale
e colpisce donne italiane, migranti, di qualunque stato sociale, economico e culturale.
Allo stesso modo, non esiste una tipologia di uomo maltrattante: si tratta di uomini di
tutte le età, provenienze, categorie economiche e culturali; a volte sono uomini
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
insospettabili, affidabili agli occhi altrui e che solo di rado soffrono realmente di
disturbi mentali.
Le forme giuridiche che può assumere la violenza di genere sono varie e sono il
frutto di un mutamento culturale piuttosto recente. Infatti, alcune norme del codice
penale del 1930, vigenti fino a pochi decenni fa, non solo non offrivano alla donna
un’adeguata tutela ma, al contrario, la ponevano su un piano di inferiorità rispetto
all’uomo. Basti pensare che il nostro codice penale prevedeva l’omicidio per causa
d’onore, tutelava la famiglia più che i suoi componenti e recepiva una morale in cui una
dose minima di violenza domestica era tollerata e rientrava nel costume sociale.
Pensiamo ai delitti di adulterio e di concubinato: mentre la donna era punita anche solo
per un singolo episodio di adulterio, l’uomo restava impunito purché avesse avuto
l’accortezza di non tenere la sua concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove.
O ancora, fino al 1996 lo stupro era considerato un delitto contro la morale pubblica e il
buon costume e non già contro la libertà personale.
Fortunatamente il diritto è in continua evoluzione ed anzi proprio la norma
giuridica può avere una precisa funzione di “produrre la storia”, dando un importante
contributo all’evoluzione della cultura e della società.
I reati più importanti che si possono individuare nei casi di violenza sulle donne
sono: molestia (art.660 c.p.), ingiuria (594 c.p.), minaccia (art. 612 c.p.), violenza
privata (art. 610 c.p.), percosse (art. 581 c.p.), lesioni (582 c.p.), violazione degli
obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.),
violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.), riduzione in
schiavitù (art. 600 c.p.), fino ad arrivare all’omicidio (art. 575 c.p.).
Gli ultimi dati ISTAT disponibili (relativi al 2011) confermano la forte
femminilizzazione relativamente alle vittime di violenza sessuale (90,4 % del totale) e
di stalking (77,1%), a fronte di una quota di vittime donne comunque molto
significativa per quanto riguarda le ingiurie (53,7%), le percosse (48%), le minacce
(45,1%) e le lesioni dolose (40,4%). La composizione per generi degli autori nei vari
reati di criminalità violenta evidenzia al contrario un’assoluta prevalenza di uomini (pari
al 98% per le violenze sessuali, all’84,4% per lo stalking, all’83,1% per le lesioni
dolose, al 75,6% per le percosse, al 78,6% per le minacce e al 65,3% per le ingiurie).
Molto significativi risultano i dati sullo stalking: 7.080 vittime donne nel solo 2011, pari
a 19,4 in media ogni giorno, con una crescita del 38,6% rispetto alle 5.110 denunce del
2010. Questa dinamica è particolarmente rilevante, in quanto lo stalking costituisce un
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
comportamento frequente nella ricostruzione storica dei contesti coniugali e affettivi
delle donne vittime di omicidio, ovvero un reato fortemente correlato al femminicidio.
Guardando alla situazione italiana degli ultimi venti anni, l’ISTAT ha osservato come ci
sia stata una forte riduzione del numero complessivo degli omicidi (dovuta in primo
luogo al processo di mascheramento adottato dalle mafie, che stanno progressivamente
rinunciando alle azioni sanguinarie in favore di una strategia di mimetizzazione
nell’economia legale), mentre il numero dei femminicidi è rimasto pressoché costante,
attestandosi a circa 180 casi annui, ovvero a una donna uccisa ogni due giorni, senza
soluzione di continuità. Questa regolarità statistica è impressionante, se pensiamo alle
composite e articolate dinamiche interpersonali, ambientali e psicologiche che spiegano
il femminicidio. Nel solo 2013 le donne uccise in Italia sono state 179, di cui ben 122
per mano di un familiare, di un partner o ex partner. Tutto ciò fa purtroppo pensare che
il numero è destinato a non ridursi, almeno nel medio periodo.
Proprio per questo, fondamentale è la risposta che la legge può e deve dare per
contrastare il fenomeno.
Analizziamo innanzitutto il reato di stalking, che, come detto, spesso si ritrova
nella storia delle vittime di femminicidio (secondo i dati forniti dal Ministero degli
Interni, il 10% degli omicidi dolosi avvenuti in Italia dal 2000 al 2008 sono stati
preceduti da atti di stalking).
Lo stalking (dal termine di origine anglosassone to stalk, letteralmente “fare la
posta”) è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 11 del 23 febbraio
2009, all’art. 612 bis c.p., al fine di riconoscere il disvalore sociale e criminale degli atti
persecutori, comportamenti che prima venivano generalmente puniti solo con il reato di
molestie di cui all’art. 660 c.p. (reato posto a tutela dell’ordine pubblico), oppure nei
casi gravi con il reato di cui all’art. 610 c.p. di violenza privata.
L’art. 612 bis c.p. dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate,
minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante stato di ansia o di paura
ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo
congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere
lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Il bene protetto dal reato è la libertà di autodeterminarsi, da intendersi sia nella
sua accezione positiva, come libertà di agire, sia nella sua accezione negativa, come
libertà di non esser costretti a subire le condotte altrui. Ulteriore bene giuridico protetto
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è l’incolumità psicofisica della persona. Lo stalking è un fenomeno che riguarda almeno
due persone: il molestatore o stalker (soggetto attivo) e il molestato (soggetto passivo,
vittima). Affinché si verifichi lo stalking, è necessario che l’aggressore compia delle
attività che superino un limite socialmente e personalmente individuabile, quello della
privacy o riservatezza. Lo stalker assume cioè in maniera ripetitiva comportamenti
invadenti, di intromissione, con pretesa di controllo, minacciando costantemente la
vittima con telefonate, messaggi, appostamenti, ossessivi pedinamenti. Questa condotta,
per integrare il reato, deve arrecare alla vittima un grave stato di timore per la propria
salute o sicurezza o per quella di un altro soggetto a lei vicino, tanto da farle alterare lo
stato di vita quotidiano.
Si sono sviluppati molti studi sul fenomeno dello stalking, che hanno distinto due
categorie di condotte attraverso le quali lo stalking si può attuare:
-
comunicazioni intrusive e persecutorie, che si attuano con l’ausilio di strumenti
come telefono, lettere, sms, e-mail o graffiti e murales;
-
contatti che possono essere attuati sia attraverso comportamenti di controllo
(pedinamento), sia mediante il confronto diretto (visite sotto casa o sul posto di
lavoro).
In genere queste due tipologie si trovano in forma mista e alla prima segue la
seconda.
In base ai bisogni che spingono gli stalker a porre in essere atti di questo tipo si
possono distinguere poi cinque tipologie di molestatori:
-
il risentito: colui che è spinto dal desiderio di vendicarsi per un danno o un torto
che ritiene di aver subito e, per tale motivo, cerca la vendetta;
-
il bisognoso d’affetto: è il molestatore motivato dalla ricerca di attenzioni e di
una relazione che possa riguardare sia l’amicizia che l’amore ed il cui rifiuto
dall’altra parte viene negato e reinterpretato;
-
il corteggiatore incompetente: tiene un comportamento opprimente ed esplicito e
quando non riesce a raggiungere i risultati sperati diventa aggressivo; in genere
questa categoria è meno resistente nel tempo e tende a cambiare la persona da
molestare;
-
il respinto: colui che diventa persecutore a seguito di un rifiuto, generalmente un
ex che mira a ristabilire la relazione o a vendicarsi per l’abbandono;
96
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
-
il predatore: è il molestatore che ambisce ad avere rapporti sessuali con una
vittima pedinandola, inseguendola o spaventandola. La paura, infatti, eccita
questo tipo di stalker che prova un senso di potere nell’organizzare l’assalto.
Ci sono tre elementi che contraddistinguono lo stalking:
-
lo stalker agisce nei confronti di una persona che è vittima in quanto legata a lui
da un rapporto affettivo basato su una relazione che può essere reale, ma anche
solamente immaginata;
-
lo stalking si manifesta in una serie di comportamenti basati sulla comunicazione
e/o il contatto e caratterizzati dalla ripetizione, insistenza e intrusività;
-
la pressione psicologica legata al comportamento dello stalker crea nella vittima
uno stato di allerta, emergenza e stress psicologico che possono sfociare in
sentimenti di angoscia, preoccupazione e paura per la propria incolumità.
Lo stalking può anche essere unito agli strumenti di comunicazione e tecnologia propri
dei nostri tempi: e-mail, chat, newsgroup, forum e blog. In tal caso di parla di
cyberstalking (o electronic stalking). Ad esempio, le e-mail possono essere spedite in
quantità e dimensioni tali da bloccare la casella di posta elettronica della vittima,
impedendone un normale uso. Il molestatore può porre in essere un’attività ossessiva di
delegittimazione della vittima all’interno del web con attacchi personali o con la
diffusione di false informazioni o notizie. Frequenti risultano anche le immissioni in
internet di false immagini a carattere pornografico o la pubblicazione di messaggi fasulli
con finalità denigratorie. Il cyberstalking può arrivare anche a comprendere forme di
sorveglianza nascosta, attraverso ad esempio l’invio, come allegato ad una mail, di un
software specifico. La mancanza di contatto visivo e il mancato tempismo delle
eventuali risposte potrebbero portare a valutare meno i possibili danni psicologici e la
sofferenza inflitta. Tuttavia, gli effetti sociali, psicologici ed economici dello
cyberstalking sono del tutto analoghi a quelli dello stalking classico.
Analizzando lo stalking dal punto di vista più strettamente giuridico, possiamo dire che
si tratta di un reato abituale improprio, in quanto occorre che le condotte siano reiterate
nel tempo ma le stesse sono singolarmente idonee ad integrare fattispecie di reato
perseguibili in via autonoma. La giurisprudenza è ormai granitica nel ritenere che per la
configurazione del reato siano sufficienti anche due sole condotte intervallate tra loro
nel tempo. Lo stalking è inoltre un reato di evento, perché per la sua punibilità non è
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
sufficiente la reiterazione di condotte di molestia o di minaccia, ma occorre anche che
esse determinino nella persona offesa un perdurante e grave stato di ansia o di paura,
ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine,
oppure costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
Non è sempre facile, dal punto di vista probatorio, valutare la sussistenza di
questi eventi, sussistendo dei margini di ampia discrezionalità del giudice soprattutto
per quanto concerne la definizione del concetto di alterazione dello stile di vita o della
manifestazione di uno stato ansiogeno. Nel caso dell’alterazione dello stile di vita si
dovrà tenere conto, ad esempio, di ogni mutamento significativo e protratto per un
apprezzabile lasso di tempo della gestione della propria vita quotidiana, come l’utilizzo
di percorsi alternativi rispetto a quelli usuali, o il distacco telefonico nelle ore notturne.
Più semplice invece l’indagine dal punto di vista dell’elemento soggettivo del
reato, in quanto è sufficiente il dolo generico e cioè la consapevolezza da parte
dell’autore di porre in essere una serie di contegni, dal carattere aggressivo, in modo
duraturo, nei confronti di un altro soggetto.
Il legislatore ha poi previsto delle ipotesi aggravate: in particolare, la pena è
aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona
che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è
commesso con strumenti informatici o telematici. Quest’ultima specifica, che mira a
reprimere il fenomeno del cyberstalking sopra citato, è stata introdotta con la recente
legge n. 119/2013 ed è una novità apprezzabile in quanto, nonostante la crescente
diffusione e pericolosità di tale fenomeno, sono pochi gli ordinamenti giudiziari che
fanno riferimento alla comunicazione elettronica come atto vietato.
Inoltre, la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un
minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità, o con armi o
da persona travisata. Per queste ipotesi il legislatore, attesa la maggiore vulnerabilità
delle categorie tutelate, ha previsto la procedibilità d’ufficio, diversamente dalle ipotesi
ordinarie per le quali la procedibilità è a querela della persona offesa nel termine di sei
mesi, analogamente al termine previsto per i reati sessuali.
Tuttavia la novella del 2013 ha previsto l’irrevocabilità della querela nei casi di
gravi minacce ripetute, ad esempio con armi. In tal modo si è cercato di evitare
l’induzione della revoca della querela sotto la pressione altrui. Anche nei casi in cui la
querela è revocabile, la stessa può essere fatta solo in sede processuale davanti
all’autorità giudiziaria.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La legge sullo stalking prevede anche una procedura alla quale la persona offesa
può ricorrere prima di presentare querela. Si tratta del ricorso all’ammonimento da parte
del Questore, il quale intima al protagonista degli atti persecutori di desistere dal suo
proposito criminoso. Nel caso in cui un soggetto già ammonito dal Questore commetta
il delitto di stalking, l’ammonimento opera come circostanza aggravante del delitto di
cui all’art. 612 bis c.p. Con il decreto del 2013 sul femminicidio si è previsto che il
Questore, anche in presenza di percosse o lesioni (considerati “reati sentinella”), possa
ammonire il responsabile aggiungendo anche la sospensione della patente da parte del
prefetto. Si estende in tal modo alla violenza domestica una misura preventiva già
prevista per lo stalking. Non sono ammesse segnalazioni anonime, ma è garantita la
segretezza delle generalità del segnalante. L’ammonito deve essere poi informato dal
Questore sui centri di recupero e servizi sociali disponibili sul territorio.
Dal punto di vista della tutela cautelare, la legge sullo stalking ha introdotto nel
nostro ordinamento la nuova figura prevista all’art. 282 ter c.p.p., che prevede il divieto
di avvicinamento, con cui il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a
determinati luoghi frequentati abitualmente dalla persona offesa o da persone comunque
legate alla stessa da vincoli di parentela o conviventi o legate da qualsiasi relazione
affettiva. Lo stesso articolo prevede anche la possibilità di imporre il divieto di
comunicare con le persone di cui sopra.
Con la novella del 2013 è stato previsto che in caso di flagranza, l’arresto sia
obbligatorio anche per i reati di maltrattamenti e stalking. La polizia giudiziaria, se
autorizzata dal Pm e se ricorre la flagranza di gravi reati (tra cui lesioni gravi, minaccia
aggravata e violenze), può applicare la misura precautelare dell’allontanamento
d’urgenza dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
persona offesa (nuovo art. 384 bis c.p.p.). Chi è allontanato dalla casa familiare può
essere controllato attraverso il braccialetto elettronico o altri strumenti elettronici. Nel
caso di atti persecutori, inoltre, è possibile ricorrere alle intercettazioni telefoniche. A
tutela della persona offesa, scatta poi in sede processuale una serie di obblighi di
comunicazione, in linea con la direttiva europea sulla protezione della vittime di reato.
E’, ad esempio, garantita la comunicazione al difensore della persona offesa o, in
mancanza, alla persona offesa stessa, dell’intervenuta revoca o sostituzione delle misure
cautelari o della richiesta di revoca o sostituzione avanzata dall’imputato.
Il fenomeno dello stalking può essere configurato anche come un vero e proprio
illecito civile e in quanto tale oggetto di pretesa risarcitoria. Nella vittima possono
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
ingenerarsi una serie di patologie che, valutate attraverso la consulenza medico-legale,
possono dare vita alla sussistenza di un vero e proprio danno biologico. Sotto un profilo
risarcitorio, dunque, la vittima di atti persecutori avrà diritto al risarcimento del danno
patrimoniale e non patrimoniale, costituendosi parte civile nel processo penale o
potendo attivare un autonomo giudizio risarcitorio in sede civile.
Una volta analizzato il reato di stalking, vediamo quali sono le principali differenze
dello stesso rispetto ai reati di molestie e maltrattamenti in famiglia.
Il reato di molestie è disciplinato dall’art. 660 c.p., che prevede che si integri
tale contravvenzione tutte le volte in cui, con dolo, chiunque, in luogo pubblico o aperto
al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o altro biasimevole motivo,
reca a taluno molestia o disturbo. La natura delle molestie ex art 660 c.p. è molto
diversa dalle molestie previste dall’art. 612 bis c.p. Queste ultime, infatti,
presuppongono uno stadio temporale successivo rispetto a quelle delineate all’art. 660
c.p. Solo le condotte reiterate di molestia che generino un perdurante stato di ansia, un
fondato timore per sé o per i prossimi congiunti o una alterazione delle proprie abitudini
di vita, assumeranno rilievo ai fini della configurabilità del reato di stalking. Inoltre,
differenti sono i beni giuridici tutelati: nel caso dell’art. 612 bis c.p. la libertà morale
della vittima e la sua integrità psico-fisica, nella previsione dell’art. 660 c.p. viene
invece genericamente tutelato l’ordine pubblico.
Il reato di maltrattamenti in famiglia è disciplinato dall’art. 572 c.p., che
prevede che chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o
una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione,
istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è
punito con la reclusione da due a sei anni.
Una prima distinzione col reato di stalking la si rinviene sotto il profilo degli
interessi penalmente tutelati, partendo dalla stessa collocazione dei due reati: i
maltrattamenti sono collocati nel capo inerente i “delitti contro l’assistenza familiare”,
lo stalking nei “delitti contro la libertà morale”. E’ evidente infatti che, mentre il delitto
di cui all’art. 572 c.p. ha natura plurioffensiva, tutelando l’integrità della famiglia
nonché il decoro di coloro i quali subiscano maltrattamenti, nella previsione di cui
all’art. 612 bis c.p., invece, il legislatore ha inteso tutelare la libertà di
autodeterminazione del soggetto passivo nonché la sia salute psicofisica e incolumità.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
I maltrattamenti rilevanti, ai fini del delitto in questione, sono pertanto quelli che
finiscono per sottoporre i familiari ad una serie di atti continui di vessazione, in grado di
cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonti di disagio
continuo.
Per famiglia, deve intendersi non solo il tradizionale consorzio di persone
avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche un’unione di persone, come la
famiglia di fatto, tra le quali, per intime relazioni e consuetudine di vita, siano sorti
legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà (Cass. N. 24688/10). E’
sufficiente, cioè, che esista una stabile relazione sentimentale, tale da far sorgere
rapporti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale. La caratteristica
di relazione stabile tipica di alcuni rapporti extraconiugali, ha indotto la giurisprudenza
ad estendere la possibilità di applicare il reato di maltrattamenti in famiglia, e la
conseguente pena, anche ad una relazione adulterina.
Il reato di maltrattamenti è un reato abituale proprio, che consiste nella
ripetizione di condotte che possono anche non essere autonomamente punibili, e a
forma libera, potendosi perfezionare mediante la realizzazione di comportamenti
diversi. Le condotte del reato di maltrattamenti, dunque, acquistano rilevanza penale per
la loro reiterazione nel tempo. Anche in questo si rinviene una differenza col reato di
stalking, in cui bastano anche due soli episodi persecutori per poter integrare la
fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.
Nel concetto di maltrattamenti possono rientrare sia le aggressioni fisiche in
senso stretto (percosse e lesioni), sia in genere quegli atti di disprezzo, vilipendio e
sopruso, tali da incidere in modo significativo sul patrimonio morale del soggetto
passivo. La condotta abituale illecita può essere caratterizzata anche da periodi di
normalità durante il quale non vi sia lesione del bene protetto.
Non è neanche necessaria una relazione simmetrica tra lo stato di sofferenza
inflitto alla persona offesa e specifici contegni vessatori attuati nei suoi confronti dal
soggetto agente, potendo quello stato derivare anche dal diffuso clima di afflizione,
sofferenza e paura indotto nella vittima dall’autore. I plurimi atti che integrano
l’elemento materiale del reato devono essere collegati tra loro da un nesso di abitualità e
devono essere avvinti da un’unica intenzione criminosa, quella appunto di avvilire ed
opprimere la personalità della vittima. I fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della
persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei
101
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano invece il delitto di
maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
Il dolo richiesto è il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di maltrattare il
soggetto passivo, a nulla rilevando le eventuali ulteriori finalità perseguite dall’agente.
Questo dolo, unitario e programmatico, funge da elemento unificatore della pluralità dei
vari atti vessatori e si concretizza nella inclinazione della volontà ad una condotta
oppressiva e prevaricatoria che, reiterata nel tempo, induce il maltrattatore ad assumere
una “consapevolezza di persistere in un’attività illecita, posta in essere già altre volte”
(Cass. N. 6541/04).
Secondo una vecchia interpretazione giurisprudenziale, se i maltrattamenti si
configurano durante la convivenza e poi proseguono dopo la cessazione della stessa, si
configura il reato di stalking perché il 572 c.p. richiede la convivenza. In realtà oggi non
è più così e la convivenza non rappresenta più un presupposto indifettibile del reato in
oggetto, che può sussistere anche in assenza di un rapporto di convivenza, cioè quando
questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal
caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che
nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.
Il rapporto tra i due diversi reati è stato bel delineato dall’ordinanza n.
2090/2011 del Tribunale di Termini Imerese, che riconosce la possibilità di un concorso
apparente di norme e ritiene che non si configuri il reato di atti persecutori se le
condotte sono poste in essere all’interno della famiglia, essendo in questo caso
applicabile il reato di maltrattamenti. Lo stalking, quindi, si inquadra in un ambito in cui
non vi sono affatto legami di tipo domestico, come in un contesto lavorativo o di
semplice conoscenza, oppure riguarda soggetti già legati in precedenza da una relazione
sentimentale (ipotesi espressamente prevista come aggravante al comma 2 del 612 bis
c.p.). In quest’ultimo caso i comportamenti, sorti in seno alla comunità familiare, non
rientrano nei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio
familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale. Questo
unicamente in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata; nel
diverso caso di separazione legale e di fatto rientriamo invece nella fattispecie dei
maltrattamenti. La linea divisoria tra le due fattispecie viene quindi individuata nella
intervenuta sentenza di divorzio o comunque nella definitiva cessazione del rapporto
familiare o affettivo.
102
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Non ci sarà invece concorso tra il reato di maltrattamenti e i reati di ingiuria, percosse e
minacce in cui si concretano eventualmente i singoli atti di maltrattamento, trattandosi
di condotte che offendono tutte lo stesso bene giuridico, ossia l’integrità psico-fisica del
soggetto passivo, sicché le percosse, le minacce e le ingiurie restano assorbite nei
maltrattamenti. Per quanto riguarda la morte e le lesioni, se queste sono una
conseguenza voluta dei maltrattamenti o l’autore abbia accettato il rischio del loro
verificarsi, concorreranno con il reato di maltrattamenti. Se, invece, sono una
conseguenza non voluta determineranno solo un aumento di pena come previsto dall’art.
572 c. 2 c.p. Le lesioni comuni (lievi o lievissime) volontarie concorrono con il delitto
di maltrattamenti, agendo il soggetto non solo con l’intenzione di maltrattare ma anche
di ledere la vittima; le lesioni comuni involontarie, invece, sono considerate
conseguenza normale dei maltrattamenti e perciò vanno in questo delitto assorbite.
Tra le altre novità di rilevo del decreto contro la violenza di genere del 2013, vi è
un’agevolazione delle procedure per il rilascio del permesso di soggiorno a vittime
straniere e il gratuito patrocinio a prescindere dal reddito per le vittime di stalking e
maltrattamenti, oltre che per le vittime di mutilazioni genitali femminili.
Alcune considerazioni finali sul reato di volenza sessuale, disciplinato dall’art.
609 bis c.p., che così stabilisce: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso
di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione
da cinque a dieci anni”. Con riguardo alle modalità di coartazione della volontà della
vittima vi è stata un’evoluzione giurisprudenziale, per cui la costrizione non
necessariamente consiste in violenza fisica, ritenuta in passato provata solo in caso di
sussistenza di lesioni ed escoriazioni o di vestiti strappati, ma ricomprende anche il
compimento insidioso e rapido dell’azione criminosa ovvero la violenza che si
estrinseca in una minaccia o un’intimidazione idonea a provocare la coazione. La
Cassazione ha inoltre affermato che “non è necessario che la violenza sia contestuale al
rapporto sessuale, per tutto il tempo del suo svolgimento, ma è sufficiente che il
rapporto sessuale non sia voluto dalla parte offesa, che sia stato consumato anche
solamente approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in
cui è ridotta la vittima” (Sez. III, sentenza n. 35242/2006). Questo è ciò che accade di
norma quando la violenza sessuale è commessa dal convivente o marito maltrattante. In
questi casi può accadere che le donne vittime di maltrattamenti da parte del partner
riferiscano di aver subito, oltre ad aggressioni fisiche, psicologiche e morali, anche atti
sessuali da esse non voluti, ai quali fanno fatica ad opporre esplicita resistenza a causa
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
delle minacce o della paura di subire ulteriori ritorsioni. Dunque la giurisprudenza è
orientata nel senso di ravvisare la fattispecie di violenza sessuale in una situazione di
maltrattamento, anche quando la donna maltrattata non provi di aver opposto esplicita
resistenza al singolo atto sessuale, perché deve essere considerato lo stato di soggezione
in cui ella è ridotta proprio a causa della situazione di prostrazione vissuta. Il partner
risponderà, quindi, del reato di maltrattamenti e, in aggiunta, del reato di violenza
sessuale.
Molto è stato fatto, alla luce di quanto sopra esposto, a livello normativo per
combattere la violenza contro le donne nel nostro Paese. Tuttavia manca ancora una
legge organica per la prevenzione e il contrasto del fenomeno a livello nazionale, che si
basi su una consapevolezza delle politiche necessarie e una definizione degli standard
minimi dei servizi di supporto per le vittime. I lavori avviati della Task Force
interministeriale contro la violenza alle donne durante il Governo Letta non sono stati
ripresi dal Governo Renzi. Il territorio è caratterizzato così da una forte disomogeneità
normativa e di intervento. Se è vero poi che il nostro ordinamento è dotato oggi, grazie
all’insieme delle disposizioni introdotte nel tempo, di vari strumenti ed istituti utili per
assicurare l’accesso alla giustizia delle donne sopravvissute alla violenza maschile,
manca tuttavia una strategia organica e articolata che assicuri l’efficacia degli strumenti
introdotti. La stessa legge 119/2013 affronta il fenomeno della violenza in modo
frammentario e settoriale, trascurando ad esempio l’aspetto della prevenzione e della
formazione. Non ci sono ancora dati ufficiali sulla riuscita di questo intervento, però già
ci sono segnalazioni provenienti dalle associazioni che riferiscono come gli arresti in
flagranza in caso di maltrattamenti o atti persecutori sono ancora rari, pochi gli ordini di
allontanamento dalla casa familiare e anche degli ammonimenti. Anche l’immediata
protezione delle donne vittime di violenza non è garantita in maniera continuata ed
omogena sul territorio italiano.
Dal punto di vista dell’adeguamento al diritto internazionale ed europeo, da un
lato è stata ratificata la Convenzione di Istanbul, ma dall’altro non sono state previste
misure in adempimento degli obblighi derivanti dall’atto. Negli stessi uffici giudiziari
italiani, l’obbligo introdotto per legge di assicurare priorità assoluta nella formazione
dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi per i delitti di maltrattamenti,
violenza sessuale e stalking non risulta ancora del tutto attuato. L’accesso al gratuito
patrocinio garantito alle vittime non ha visto erogati i fondi destinati alla copertura
integrale dell’attività difensiva prestata.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Infine, nonostante le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, la violenza assistita
(bambini testimoni e vittime di violenza domestica) è ancora sottovalutata.
Quanto sopra, per evidenziare quanto ancora sia da compiere per poter finalmente
prevenire ed eliminare la violenza nei confronti delle donne.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il monitoraggio della Regione Veneto sugli episodi di violenza
Stefano Tardivo*, Monica Lavarini*, Emanuele Finardi**
*Direzione Medica Ospedaliera,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
**Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva –
Università degli Studi di Verona
La violenza domestica è un evento diffuso che comprende diverse forme di
abuso fisico, sessuale e psicologico esercitato nei confronti di persone che fanno parte
del nucleo familiare. La diffusione è capillare: sono colpiti tutti i paesi e tutte le classi di
reddito. Le vittime sono prevalentemente donne bambini ed è problematico quantificare
con precisione l’entità del fenomeno poiché molto spesso gli abusi subiti non vengono
denunciati per vergogna o timore di ritorsioni. Occorre infatti ricordare che i fatti che
raggiungono la cronaca sono solamente la punta dell’iceberg di una realtà per vasti tratti
ancora oscura. Le conseguenze della violenza possono protrarsi nel tempo: depressione,
diminuzione dell’autostima, ansia, sensi di colpa e disturbo post-traumatico da stress
sono solo alcuni esempi di danni a lungo termine che colpiscono le vittime.
A livello globale le statistiche non sono incoraggianti: negli USA Il 28% delle donne ha
dichiarato di aver subito almeno una volta atti di violenza fisica da parte del partner. Nel
Regno Unito il 25% delle donne ha dichiarato di essere stato colpito almeno una volta
con pugni o schiaffi da un partner o un ex partner. Queste percentuali raggiungono
valori ancora più alti in paesi come il Giappone (59% delle donne ha dichiarato di
essere stato oggetto di maltrattamenti fisici da parte del partner) o l’India (secondo
un’indagine del 1996 svolta nello Stato dell’Uttar Pradesh il 45% degli uomini
coniugati ha ammesso di sottoporre la moglie a maltrattamenti fisici). Neppure l’Unione
Europea è immune dal fenomeno: da una ricerca svolta dalla European Union Agency
for Fundamental Rights nel 2012 che ha intervistato un campione di donne europee tra i
18 ed i 74 anni di età è risultato che circa un terzo delle donne europee ha subito una
qualche forma di violenza (fisica o sessuale) nel il corso della vita. Sempre nell’UE è
stato rilevato che circa il 2% delle donne ha subito violenza sessuale nel solo 2012. La
violenza domestica purtroppo è molto diffusa anche nel nostro Paese. Nel 2007
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
un’indagine condotta dall’ISTAT ha delineato ritratto preoccupante del nostro Paese:
oltre 6 milioni di donne hanno subito abusi fisici o sessuali nell’arco della loro vita, 2
milioni di donne hanno subito violenza domestica dal partner o da un ex partner e ben 5
milioni di donne hanno subito violenza fuori dalle mura domestiche. Gli aggressori sono
sconosciuti (15,3%) oppure persone vicine alla vittima: amici (3%), colleghi (2,6%),
partner (7,2%) o ex partner (17,4%). Sempre secondo l’ISTAT in Italia il 31,9% delle
donne ha subito una qualche forma di violenza fisica/sessuale. La Regione del Veneto si
posiziona all’ottavo posto (34,3%) tra quelle nazionali. Il rapporto EURES-ANSA del
2013 sul femminicidio evidenzia un aumento del 16,2% degli omicidi in ambito
familiare. In ben 7 casi su 10 i femminicidi si sono consumati in famiglia.
In Veneto secondo l’indagine condotta dall’ISTAT nel 2007 il 19,6% delle donne ha
subito qualche forma di violenza fisica ed il 26% qualche forma di violenza sessuale. Il
15,9% delle donne in Veneto ha subito qualche forma di violenza nella coppia (18,1% è
il dato medio italiano). Il 34,3% delle donne in Veneto ha subito qualche forma di
violenza al di fuori della coppia (30,2% è il dato medio italiano).
LA VIOLENZA IN VENETO
LA VIOLENZA SULLE DONNE
% VENETO
% NAZIONALE
VIOLENZA FISICA
19,6
18,8
VIOLENZA SESSUALE
26,0
23,7
% VENETO
% NAZIONALE
15,9
18,1
VIOLENZA AL DI FUORI DELLA 34,3
30,2
VIOLENZA NELLA COPPIA
COPPIA
% VENETO
DENUNCIA VIOLENZA SUBITA 6,1
% NAZIONALE
7,3
DA PARTNER
DENUNCIA VIOLENZA SUBITA 4,4
DA NON PARTNER
108
4,1
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Fonte: Elaborazione Regione Veneto - Direzione Sistema Statistico Regionale su dati
Istat
Una ricerca effettuata dall’Osservatorio Nazionale Violenza Domestica (ONVD)
sul territorio del Veneto nel triennio 2009-11 ha indagato omicidi in ambito familiare:
Venezia, Verona, Treviso e Padova sono le città dove si è verificato il maggior numero
di omicidi familiari. Va considerato comunque che la maggioranza degli omicidi o
tentati omicidi si è verificata nei centri piccoli e medio-piccoli delle province. Per
quanto riguarda la sola Verona, nel 2006 si sono verificati 2380 casi di violenza
domestica, con 2301 vittime. Nella maggior parte dei casi autore e vittima erano
entrambi italiani (68,9%). Gli aggressori erano spesso maschi italiani tra i 41 e i 45 anni
o donne italiane tra i 31 e i 35 anni. Le tipologie di reato comprendono soprattutto
percosse e lesioni personali. Il 3% dei casi è rappresentato da violenze sessuali e il 2%
da tentato omicidio. È da rilevare come la fase di separazione tra due partner emerga
come background preponderante dei reati (25%).
Un’altra subdola forma di violenza che merita considerazione è senza dubbio lo
stalking: si tratta di un argomento per cui non esiste una definizione largamente
condivisa. Per la legge italiana lo stalker è “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o
molestia taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura
ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo
congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere
lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. In Italia si stima che circa 2 milioni di
donne abbiano subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner. Tra le donne
che hanno subito violenza fisica o sessuale da parte dell’ex partner la percentuale di
stalking arriva al 48,8% ed è più frequente quando l’autore è l’ex-fidanzato (54,1%)
rispetto all’ex-marito o ex-convivente (42,7%).
Un ulteriore problema che il nostro Paese deve prendere in seria considerazione
è rappresentato dalla violenza sugli anziani. Le statistiche demografiche rivelano un’età
media in aumento e un numero di nascite in costante calo. L’aumento continuo della
frazione più anziana della popolazione determinerà un sempre maggior numero di
persone che necessiteranno di cure continue. L’assistenza agli anziani non
autosufficienti è spesso a carico dei familiari; vi è infatti una diffusa carenza di servizi
di assistenza sul territorio nazionale e ciò si ripercuote inevitabilmente sulle famiglie
degli anziani, che continuano a farsi carico delle attività di cura e di aiuto, molte volte
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
non possedendo le necessarie capacità. Questo può generare nei familiari condizioni di
stress, ansie e paure che possono condurli, in casi estremi, ad usare violenza
sull’anziano che hanno in cura. Non bisogna però incorrere nell’errore di ritenere il
fenomeno della violenza sugli anziani circoscritto all’ambiente domestico: infatti anche
laddove intervengono i servizi assistenziali non sono rari i casi di abusi sugli anziani.
Questo accade soprattutto perché i caregivers sono spesso sottoposti a grandi pressioni e
talvolta si possono creare dinamiche che inducono ad atteggiamenti aggressivi.
In conclusione, ci troviamo di fronte ad un fenomeno, quale quello della violenza,
complesso ed in preoccupante crescita nei paesi occidentali che, come indicato dalla
Commissione Europea, necessita di un approccio preventivo integrato che veda una
cooperazione attiva fra strutture politiche, di protezione (tra le quali le sanitarie e sociali
emergono in maniera rilevante), giudiziarie e del terzo settore volte alla individuazione
precoce dei fenomeni di violenza, alla tutela delle vittime e alla adeguata sanzione dei
colpevoli.
BIBILIOGRAFIA
National Violence Against Women, Full Report of the Prevalence, Incidence, and
Consequences of Violence Against Women, 2000
European Commission, Special Eurobarometer 344 “Domestic Violence against
Women Report”, 2010
National Center on Elder Abuse, Reporting of Elder Abuse in Domestic Settings, 2006
ISPESL, primi dati dal monitoraggio sul territorio di Verona nel 2006
Istat, La violenza e i maltrattamenti delle donne dentro e fuori la famiglia, anno 2006
ONVD, Memoria di approfondimento dell’Osservatorio Nazionale sulla Violenza
Domestica (anno 2006)
ONVD: il fenomeno degli omicidi domestici in Veneto nel triennio 2009-2011
Regione Veneto. Individuare la violenza domestica: manuale per operatori – guardiamo
avanti con sicurezza. Verona, 2010
ONVD: Violenza in famiglia: l'altra faccia della realtà - rilevazione trimestrale del 2012
Meloy,R. (1998). The Psychology of Stalking. San Diego : Academic Press
110
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Donna, Persona, Culture
Giorgio Ricci, Pronto Soccorso Borgo Trento,
Azienda ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Benché i diversi contesti sociali culturali e politici diano luogo a forme
differenti di violenza domestica, essa è ovunque presente, passando sopra
frontiere nazionali e identità culturali. Nonostante questa universalità
tuttavia una cospirazione di silenzio continua a nascondere l’estensione
della violenza
Radhika Coomaraswamy
Negli ultimi anni, in Italia molta attenzione è stata dedicata al fenomeno della
violenza contro le donne in termini mediatici; è necessario però percorrere ancora molta
strada, se si vuole prendere una posizione realmente efficace: la violenza contro le
donne non è un’anomalia della società in cui viviamo, ma una manifestazione evidente
di quanto la struttura sociale sia il risultato di meccanismi in cui la violenza, anche
simbolica, è implicita.
La complessità del fenomeno della violenza domestica risulta ancora più
chiaramente quando si decida di includere - ed è necessario farlo! – il mondo delle
donne straniere in Italia: occorre un ripensamento critico delle nozioni di ‘cultura’,
‘identità’ e ‘integrazione” che l’antropologia della migrazione, ha avviato negli ultimi
anni.
“la violenza contro le donne è uno dei principali meccanismi
sociali, tramite i quali le donne sono costrette in una posizione subordinata dagli
uomini.”
(ONU, Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne)
E quindi: la violenza investe sia la sfera pubblica che quella privata! Sappiamo che
ne esistono di molti tipi:
-
Fisica, inclusa la mutilazione dei genitali e il levirato, l’abuso sessuale:
costrizione al rapporto sessuale tramite minacce, intimidazione o forza fisica, rapporti
sessuali estorti contro volontà, o coercizione ad avere rapporti sessuali con altri. Questo
111
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
tipo di violenza, nella percezione comune, è associata allo stupro da parte di estranei,
spesso stranieri, ma in realtà il 96,5% della violenza sessuale risulta agita da un
familiare o da un conoscente. Però, l’essere costrette ad avere rapporti sessuali, per
alcune donne, ma soprattutto per molti uomini, è solo uno dei tanti doveri coniugali che
si devono accettare con il matrimonio;
-
Psicologica: parole o comportamenti ripetuti nel tempo, capaci d’intaccare la
dignità o l’integrità fisica e mentale del partner. Si tratta di umiliazioni, di abuso
di potere, di manovre per isolare l’altro, farlo sentire colpevole e inadeguato,
fino a fargli perdere ogni stima di sé e, a volte, il gusto della vita;
-
Economica: la vittima è privata del denaro e viene messa nella condizione di non
poterselo procurare: alla vittima, quasi sempre la donna, può essere impedito di
studiare, lavorare o avere un conto corrente personale, così come può esserle
negata la disponibilità di bancomat o carte di credito
Ricordiamolo: per alcune donne è molto difficile riconoscersi come vittime di
violenza!!! Le variabili culturali influenzano notevolmente, non solo la capacità della
donna di definire ciò che può essere considerata violenza, ma anche la sua capacità di
raccontarlo; laddove infatti il gender gap sia minimo e quindi le condizioni di parità di
genere migliori, come nei casi dei paesi del Nord Europa, in generale i livelli di
consapevolezza sono più alti e la capacità di discutere apertamente la violenza è
maggiore.
La violenza domestica non attiene soltanto a situazioni di devianza o marginalità,
ma è connaturato alla normalità del sistema, riguardando in modo trasversale culture,
classi sociali, fasce di età e le categorie professionali; quindi, la violenza sulle donne
non interessa solo strati sociali disagiati, famiglie multiproblematiche o individui
patologici! È proprio perché la violenza è connessa a un modello di normalità, che le
donne fanno fatica a riconoscerla e a verbalizzarla al di fuori della famiglia.
Si parla allora di violenza simbolica, meccanismo che perpetua situazioni di
oppressione e disuguaglianza sociale, attraverso l’utilizzo di quelle risorse culturali
come educazione, famiglia e classificazioni cognitive, come strumenti simbolici per il
mantenimento di una condizione di privilegio e di potere.
I sistemi simbolici più potenti sono quelli che, mentre sembrano descrivere una realtà
sociale (la relazione tra uomini e donne, lo Stato, la famiglia, il corpo della donna ecc.),
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
in realtà prescrivono solo uno dei modi di esistenza possibile, che è quello che è stato
scelto dal potere, perché meglio di altri permette la conservazione dei meccanismi e
delle strutture su cui si costituisce.
Nelle società che si rappresentano come ormai modernizzate in senso postpatriarcale, la violenza sulle donne è un’inspiegabile patologia sociale retaggio di tempi
passati per ciò che riguarda gli episodi riferiti a uomini e donne ‘occidentali’, e come
predicibile barbarie degli estranei-da-noi, per i quali invece la violenza sarebbe
addirittura intrinseca alla loro cultura.
Per una profonda comprensione delle dinamiche che si sviluppano laddove la
vittima di violenza è una donna straniera, occorre tentare di cogliere il significato intimo
del processo migratorio.
Ogni gruppo culturale ha “leggi personali”: divorzio, matrimonio, custodia dei
figli, divisione e controllo delle proprietà di famiglia, eredità.
La difesa di queste “pratiche culturali” è quasi del tutto affidata alla donna, le cui
energie vanno tradizionalmente spese nel preservare e mantenere il lato ri-produttivo
famigliare: Più la cultura di origine richiede la presenza della donna in questo ambito,
meno essa potrà acquisire pari opportunità. Tutti i miti fondanti dell’umanità, in tutte le
culture e religioni, privilegiano il ruolo dell’uomo rispetto alla donna: Atena,
germogliata dalla testa di Zeus, o Romolo e Remo allevati senza madre.
Moltissime pratiche culturali (in Africa, Medio Oriente, America Latina, Asia)
elaborano modelli di socializzazione, rituali e sistemi volti ad assicurare il controllo
dell’uomo sulla donna: mutilazioni genitali, matrimoni combinati, poligamia….
“Quando mia moglie sarà vecchia o malata, se io non ne avessi un’altra, chi si
prenderebbe cura di me?”
In molti paesi, ad esempio in Perù, La donna violentata è solo un bene danneggiato……
Nell’analisi del fenomeno migratorio non vanno quindi considerati in primo
luogo gli aspetti economici e politici, bensì quei vissuti individuali e collettivi che
continuamente ridefiniscono lo spazio occupato nella famiglia, nel lavoro e nella
società:
l’integrazione
dell’individuo
avviene
così
attraverso
un
lavoro
di
accomodamento e mediazione tra modelli, categorie e disegni che solo in parte
appartengono alla storia personale che precedeva la partenza.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
L’emigrante ha l’obbligo del successo che, anche laddove l’esperienza
migratoria sia vissuta in piena solitudine, si esprime nei confronti di se stesso e in
relazione alle attese della sua famiglia e del suo gruppo sociale, rendendo ancora più
difficile da sostenere un possibile fallimento. Un punto di svolta significativo nel
processo di migrazione, si verifica nel momento in cui esso cessa di essere prerogativa
dell’individuo, per allargarsi e assumere i connotati di un’esperienza familiare.
Il ricongiungimento: questo “ritrovarsi” dei coniugi ha simbolicamente un
duplice significato: da un lato, confermare l’unione con una persona dello stesso paese
rafforza il legame con il paese di origine, dall’altro la scelta di farla emigrare, magari
insieme ai figli, consolida il progetto migratorio nel paese ospite e, in termini simbolici,
completa una rottura iniziata con la partenza. Ma… il re-incontro dei due coniugi, in un
luogo diverso da quello dove si sono costituiti come coppia, rappresenta un momento di
frustrazione e di grande difficoltà relazionale tra marito e moglie.
Dopo qualche anno di permanenza nel paese ospitante, molte donne si sentono
cambiate riguardo al loro ruolo nella società, avvertono mutamenti nei modi di
relazionarsi e di comportarsi, sentendosi però straniere ovunque: Le modalità differenti,
spesso opposte tra i coniugi, di rapportarsi
alla vita quotidiana, al lavoro alla
genitorialità, ai rapporti con le istituzioni e con la comunità, possono concorrere a
esacerbare una situazione di conflitto all’interno dell’ambito domestico, portando alla
violenza.
Ma la percezione soggettiva della violenza può risentire fortemente della misura in cui
essa viene legittimata nel paese di origine:
“Mi ha dato…solo due sberle…solo qualche spinta”
Lingua, isolamento, timore per la condanna da parte della comunità locale e dei
connazionali, paura di perdere la genitorialità e infine, fino a qualche tempo fa, la
dipendenza dal permesso di soggiorno: In tal caso, la risposta personale della donna e la
sua richiesta di aiuto dipendono dall’elaborazione che la donna fa del nuovo contesto di
vita e da quelle variabili che determinano il percorso soggettivo di integrazione nel
paese ospite. Nella pianificazione di un’agenda per i diritti della donna che sia valida, è
necessario tener conto di scelte, desideri e le valutazioni di quelle donne provenienti da
gruppi culturalmente diversi, anche laddove queste scelte non corrispondano con quelle
fatte nei paesi culturalmente egemonici.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
L’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, di concerto con le
forze impegnate nella difesa della donna dalla violenza, ha elaborato, come prima
risposta a questi bisogni, il cosiddetto “Codice Rosa” per:
Individuare precocemente i rischi di violenza attraverso la condivisione tra istituzioni, di
schede con gli indicatori di rischio
Diminuire le recidive di violenza con la cooperazione di tutte le istituzioni sociosanitarie, le forze dell’ordine e la prefettura
Creare una rete informatizzata per la condivisione di dati tra tutte le istituzioni
coinvolte, attraverso una mappatura delle risorse e delle informazioni.
Si tratta quindi di una vera e propria prevenzione primaria della violenza alla
donna tramite l’informazione, già a partire dalle scuole secondarie e di una presa in
carico integrata ospedale - servizi territoriali - forze dell’ordine, una registrazione
informatizzata dell’evento violento, in rete per tutte le istituzioni coinvolte nel
progetto, un percorso di psicoterapia individuale e/o di gruppo alle donne vittime di
violenza, senza dimenticare la formazione continua degli operatori socio-sanitari con
verifiche annuali di efficacia del progetto.
Le figure professionali che si attiveranno nell’ambito del percorso d’aiuto
saranno, oltre alle forze di polizia allertate per l’evento violento, il medico del Pronto
Soccorso (centrale o ginecologico), un medico legale, uno psicologo-psicoterapeuta,
un assistente sociale, infermieri e personale laboratoristico: il tutto avrà il fine di
accompagnare la donna, con psicoterapie sia individuali che di gruppo, in un percorso di
elaborazione del vissuto e dei sentimenti ad esso correlato, per evitare recidive
pericolose.
Misurarsi con la violenza contro le donne deve quindi far entrare nel merito di
quelle differenze che possono incidere profondamente non solo sulle forme della
violenza di genere, ma anche sul loro significato.
E questo va fatto tutti assieme, perché, anche se ci affacciamo da finestre
diverse, è lo stesso cielo quello che vediamo guardando in alto.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La violenza sulle donne:
il percorso specifico nel DEA dell’Azienda Ospedaliera di Padova
Ilenia Mezzocolli, U.O.C. Pronto Soccorso
Azienda Ospedaliera di Padova
Nel nostro DEA almeno 1 donna al giorno accede a causa di una violenza subita,
l’analisi della nostra casistica evidenzia che sono circa 400 le donne all’anno che
accedono al nostro Servizio dichiarando una violenza, sono per la metà italiane senza
una differenza significativa come classe sociale; per più della metà si tratta di violenza
domestica. Il codice colore d’ingresso è prevalentemente il bianco (75%) e le lesioni
più frequenti sono quelle legati alle parti del corpo legate alla comunicazione (volto,
occhi, collo e orecchie) o alla difesa (i polsi).
A fronte di un impegno piuttosto limitato nella maggior parte dei casi dal punto
di vista strettamente sanitario siamo divenuti maggiormente consapevoli negli ultimi
anni di altri bisogni altrettanto emergenti che queste donne ci manifestano: il bisogno di
poter intraprendere un percorso di uscita dalla violenza e il bisogno di essere protette.
Davanti a queste donne abbiamo capito che dovevamo imparare a vivere in modo nuovo
il nostro ruolo di operatori dell’emergenza: il prendersi cura anche del loro rischio per la
vita a breve termine connesso al contesto sociale in cui vivono. La nostra specificità
diventava un privilegio: la donna che arriva da noi per un evento traumatico ci rivela la
sua storia che forse non avrebbe mai osato raccontare e può trovare la forza di reagire.
Questo privilegio per noi è si è trasformato in responsabilità di organizzarci al meglio
con i mezzi di cui disponiamo per dare a queste donne l’opportunità di uscire dalla
violenza.
Abbiamo creato all’interno del nostro Pronto Soccorso un percorso specifico di
accoglienza: già al triage viene loro assegnato un acronimo specifico, vengono fatte
attendere in un’area protetta, viene loro
consegnata una brochure informativa, viene
data una priorità relativa a parità di codice colore e viene eventualmente attivata la
mediazione culturale.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Durante la visita medica viene accertata la violenza, redatto il referto medico,
documentate le lesioni ed eventualmente attivato il collega della medicina legale per la
documentazione iconografica e raccolta delle prove.
Alla paziente viene successivamente proposto il colloquio con i Servizi Sociali
Ospedalieri da eseguire prima della dimissione o in tempi brevi previo passaggio presso
il nostro Servizio. Viene sempre valutato il rischio di letalità alla dimissione secondo
criteri concordati con i nostri Servizi Sociali ed eventualmente trattenuta in O.B. per il
tempo necessario. Infine viene attivato il nostro Posto di polizia per informazioni utili
sui fatti e alla dimissione per la denuncia. Per le donne con figli, in particolare nei casi
di violenza assistita, viene anche consigliato in un secondo momento l’appoggio presso
il nostro Centro specializzato in tal senso.
Per attivare e consolidare questo percorso abbiamo eseguito per tutto il personale
dei corsi di formazione che sono stati importanti momenti di crescita di consapevolezza
del fenomeno; occasioni per trovare modalità comuni ed integrate di lavoro tra
professionisti diversi. Tutto ciò ha contribuito a rendere effettivamente operativo il
percorso stesso come pure a creare una nuova mentalità da parte degli operatori che, in
una realtà lavorativa non favorente, si sono rivelati capaci di accogliere, non giudicare,
accompagnare, assistere e credere nella possibilità di riuscita.
I primi risultati sono promettenti e ci danno fiducia: nel 2011 (prima dei corsi di
formazione) 6 donne hanno intrapreso un percorso mentre nel 2014 (dopo i corsi di
formazione) più di 100 donne hanno intrapreso un percorso di uscita dalla violenza.
Per il futuro vorremmo creare un maggior collegamento intraospedaliero con il Servizio
di Ginecologia e con il Servizio di supporto psicologico che riteniamo in molti casi
indispensabile, e aprirci alla conoscenza delle rete extraospedaliera: il comune, il
territorio, il volontariato e non da ultimo la Procura della Repubblica convinti che il
lavoro in rete sia necessario per rendere l’opportunità di uscita dalla violenza una
possibilità concreta.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Autori e vittime nelle nuove forme di violenza: tutela nella fase successiva al reato
Sabrina Camera
Criminologa - Giudice onorario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia
La tematica in esame rientra nella coscienza ormai condivisa che essa si sta
espandendo in ogni latitudine e longitudine del nostro pianeta senza distinzione di razza
e di religione, divenendo una vera e propria piaga globale. La relazione avrà come
precipua caratteristica di analizzare il fenomeno della violenza sulle donne, che,
certamente accanto ad altri, mina un nostro fondamentale diritto, quale la sicurezza,
dando luogo ad un accezione negativa di essa, l’insicurezza.
Quest’ultima si sta
espandendo sempre più anche in ordine agli ultimi casi di cronaca. Certamente la
problematica della violenza sulle donne è un fenomeno che in quest’ultimi anni,
prevalentemente in ordine al luogo in cui si manifesta, quale le mura domestiche e non
solo, mette a rischio la sfera della vita quotidiana in cui l’individuo esplica la propria
personalità generando una paura senza forma, per indicare uno stato di malessere nel
vivere la propria quotidianità. La conoscenza del fenomeno si è avuta grazie alle
inchieste di vittimizzazione attraverso le quali è stato possibile individuare quali
dinamiche si instaurano al momento della violenza; le motivazioni per le quali viene
posta in essere un’azione violenta nei confronti della vittima; chi sono quest’ultime,
nella specie potenziali o reali; sul legame relazionale tra autore e vittima. A tal
proposito vanno ricordate le parole dello psichiatra statunitense F. Wertham “Non si
può comprendere la psicologia dell’omicidio se non si comprende la sociologia della
vittima “. Ebbene, a contribuire a tale studio è stata la scienza criminologica, scienza
interdisciplinare, che funge da lente d’ingrandimento per comprendere quali siano le
variabili della criminogenesi e della criminodinamica del fenomeno delittuoso. Non
bisogna dimenticare che il crimine proviene dalla vita ed è biasimevole in quanto
portatrice di violenza. Esso è atto dell’uomo contro l’uomo. Nello studio del crimine
non vi sono verità assolute e dogmatiche, soprattutto quando si analizza la condotta
umana. Sempre più si necessita di avere una piena cognizione dei fenomeni
criminogeni, come quello in esame, per comprendere le oscure ragioni che inducono
l’uomo a compiere azioni delittuose. Il crimine deve essere studiato in modo
interdisciplinare e non bisogna allontanarsi da quella diade tra criminale–vittima: in
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
quella relazione che, frequentemente nelle vostre qualità professionali, vi ponete
costantemente, come ad esempio per coloro che professionalmente svolgono la loro
attività nella struttura del pronto soccorso.
In passato la scienza criminologica basava i propri studi sull’autore e il reato
senza considerare la vittima. Attualmente godiamo di una vasta gamma di studi sulla
figura del criminale, dei suoi tratti bio-antropologici, psicologici e psichiatrici, assenti,
invece, per la vittima. Bisognerà attendere l’affermarsi della vittimologia, branca della
scienza criminologica, per attendere studi effettuati sulle vittime. L’errore, cui si
incorre, è quello di spostare il focus di indagine da una visione centrica del criminale ad
una visione centrica della vittima.
È necessario, invece, spostare il focus dell’indagine sulla relazione tra individui
nel contesto della diade criminale –vittima come fenomeno unico, inscindibile ed
interdipendente. La relazione autore-vittima non si limita alla semplice somma algebrica
autore più vittima, ma è qualcosa di più complesso: una terza creatura, un insieme inteso
come complessità organizzata, in cui l’intero è diverso dalla somma delle sue parti.
Soltanto attraverso lo studio, dunque, della relazione criminale è possibile comprendere
la motivazione della consumazione di un reato, le sue modalità e il luogo e il tempo in
cui esso si realizza. Ogni informazione ricavata dal puntiglioso studio della vittima e la
comprensione delle ragioni per cui un criminale decida di scegliere quella determinata
vittima costituiscono una preziosa finestra sul panorama delle domande che gli
investigatori si pongono circa la personalità degli “offenders” e le ragioni legate
all’acting out di un determinato delitto. Ne consegue che tra criminale e vittima esistono
una relazione ed un’interazione molto profonde.
Nella criminogenesi del delitto, infatti, il comportamento del criminale e quello
della vittima si influenzano reciprocamente. Di certo la vittima fornisce durante le
indagini, e poi, in sede processuale penale, un contributo non indifferente per la
ricostruzione del delitto. Ma cosa accade quando la vittima non è sopravvissuta
all’azione delittuosa? Può, comunque, dare un contributo per l’analisi della relazione
che l’ha legata al suo carnefice? La risposta non può che essere affermativa; infatti, essa
può dare involontariamente un contributo di tipo psicologico alle indagini investigative:
ciò può avvenire attraverso la ricostruzione che viene definita tecnicamente autospia
psicologica. L’obiettivo di quest’ultima, che altro non è che una perizia post-mortem, è
quella di raccogliere i dati riguardanti la vittima al fine di costruire un profilo
psicologico della stessa, per ricostruire il suo stato mentale prima del decesso, per
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
valutare in che misura queste specifiche condizioni possono aver svolto un ruolo nella
genesi dei fatti che ne hanno determinato la morte. Comprendendo, dunque,
l’importanza dello studio della relazione criminale sul piano criminologico e non solo,
in ordine alla tematica della violenza di genere dobbiamo domandarci chi sono chi sono
i protagonisti. Inoltre, perché viene utilizzato, cosi come viene fatto dal titolo della
relazione “nuove forme di violenza”; perché il fenomeno della violenza è nuovo?
Ebbene, partendo da quest’ultimo quesito il fenomeno della violenza non è nuovo, già
nel 1993 durante la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui Diritti Umani, in
ordine al tema della violenza si riportava che essa è qualcosa già presente al momento
della fondazione del mondo, non è altro che una presa di coscienza normativa di una
dimensione che a che fare con l’antropologia.
La violenza non è un’invenzione moderna. L’aggettivo “nuova” sta ad indicare
una presa di coscienza recente nello studiare gli effetti e le cause di questi fenomeni sul
singolo e la società. Pertanto, si utilizza nuovo, a parere della scrivente, quando ci
riferiamo alla violenza sulle donne, non tanto nella manifestazione della violenza verso
il soggetto donna, che è sempre esistito, ma si vuole sottolineare i moderni studi in
ambito sociologico e criminologico afferenti a tale tematica. Ebbene, la violenza di
genere gode di una sua specificità, basata su chi agisce la violenza, che prevalentemente
è un uomo, e chi la subisce, che è generalmente, così come ci riportano le cronache, una
donna. Essa può essere considerata una parola contenitore entro la quale vengono
ricompresi diversi fenomeni che singolarmente sono veri e propri genus di violenza
con delle proprie peculiarità; possiamo ricomprendere la violenza che viene esercitata in
ambito familiare o nella cerchia di conoscenti , ma è possibile far rientrare quegli atti
violenti posti in essere nei confronti delle donne che devono essere reclutate ai fini dello
sfruttamento alla prostituzione o come vittime di tratta, fenomeno che ormai costituisce
uno dei mercati più grande per trarne profitti illeciti da parte della criminalità. Possiamo
pacificamente aggiungere all’interno del fenomeno le lapidazioni delle donne adultere,
le pratiche delle mutilazioni genitali femminili esercitate da alcune culture di
appartenenza.
Da tale panoramica si evince che è riduttivo avere un approccio al fenomeno
della violenza di genere legato a stereotipi ormai obsoleti, volti a considerare quasi
esclusivamente le violenze maturate in ambito strettamente familiare nella ristretta
cerchia di parenti prossimi e conviventi. Queste forme più tradizionali di violenze di
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
genere costituiscono una percentuale nel comune sentire, ma occorre tener presente che,
con il cambiamento rapido della società, anche le forme di violenza assumono
connotazioni nuove.
Alla luce di ciò non appare esagerato ritenere che attualmente si possa parlare di
un sistema complesso di violenze di genere al cui interno è possibile operare distinzioni
sostanziali ed operative. Dunque, chi sono i protagonisti della violenza in esame? Gli
aggressori sono soggetti dall’aspetto lombrosiano? Ebbene, così come ci riportano le
statistiche e i casi di cronaca è quasi sempre un uomo ed è legato alla vittima in base ad
una relazione amicale o sentimentale. Di certo il maltrattante non corrisponde affatto
all’immagine stereotipata che viene proposta, quale un uomo dall’aspetto terribile e
violento noto a tutti per la sua condotta biasimevole o appartenente a un contesto sociale
di marginalità con eventuale uso di droghe od alcool. La maggior parte degli uomini
maltrattanti sono persone insospettabili ed all’esterno della relazione criminale non
presentano le stimmate del loro comportamento violento agito in privato. Le
caratteristiche degli uomini in esame non sono categorizzati in contesti sociali
particolari, ma possono appartenere a scenari diversi in base alla cultura e di setting.
Possiamo ritrovare uomini segnati già da biografie di violenze, sia soggetti di ceti alti,
che pur avendo una forte immagine professionale positiva, nelle relazioni di coppia,
invece, possono essere attori di violenza. É sempre più usuale etichettare l’aggressore
malato che è intrinseco di un certo meccanismo mediatico che nel vendere la notizia,
vuole
esasperarne
e
spettacolizzarne
i
contorni,
e
probabilmente
l’autore
psicologicamente disturbato rende la notizia più inquietante ed appetibile. Vieppiù, i
media assecondano anche l’esigenza della società di identificare colui che delinque
come il diverso, l’anomalo, colui che diverge dalla normalità.
Tutto ciò, probabilmente rassicura la collettività che vuole stigmatizzare il
delinquente come diverso, piuttosto che comprendere che il crimine e la
corresponsabilità della società nella sua genesi. Allorquando si parla o si viene in
contatto con gli autori che perpetrano tale forma di violenza, emerge un elemento
disorientante ed è il fatto che essi stessi si dichiarano di essere contrari alla violenza e di
non approvare i comportamenti abusivi nei confronti del genere femminile. Quasi
sempre il maltrattante attribuisce la responsabilità dell’accaduto esclusivamente a cause
esterne, e generalmente alla partner, e non riconosce di aver avuto un ruolo nella
violenza che egli stesso ha posto in essere. Chi agisce violenza frequentemente assume
una sorta di naturalizzazione dei comportamenti violenti, un atteggiamento di
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
pentimento che lo induce a minimizzare, a razionalizzare ed infine giustificare l’evento.
Potremmo affermare, pacificamente, una sorta di bi frontismo maschile, che pur essendo
consapevoli di quello che accade nel privato, cercano di ricostruire un’immagine
positiva di sé sulla scena pubblica, rappresentandosi come soggetti assicuranti.
Chi è l’altra protagonista? Chi è costei? Certamente definire chi è la vittima non
è facile. Per vero, vi è incertezza già sull’etimo del termine e due sono le ipotesi
avanzate: la prima fa derivare il termine vittima da vincere, cioè legare, avvincere e ne
ricollega l’origine alla pratica di legare gli animali che venivano offerti agli dei nei riti
sacrificali; la seconda fa riferimento al verbo vincere e, in ossequio ad essa, la vittima
sarebbe colui che è sconfitto e disarmato di fronte al vincitore. All’oscurità dell’origine
etimologica fa riscontro, come si accennava, la difficoltà di individuare una nozione di
vittima. Il vocabolo è, infatti, utilizzato in ambiti differenti e assume contenuti diversi a
seconda delle prospettive e dei contesti entro i quali è inserito: antropologico–culturale,
sociologico, religioso–spirituale, teologico-sacrificale, psicologico o psicoanalitico ed,
infine giuridico. In tale contesto, si privilegia la prospettiva criminologica, nonostante la
consapevolezza che, anche all’interno della criminologia, manca una definizione
unitaria di vittima. Certo è che la vittima è abbinata al crimine in modo ricorrente, anche
se il soggetto passivo, nella dinamica interpretativa del delitto è stato sempre lasciato
nell’ombra; per lungo tempo è stata ritenuta mero oggetto passivo della condotta
criminosa.
Lo stereotipo del crimine dà per scontato che il rapporto tra il criminale e la
vittima sia tale per cui quest’ultima ignora l’esistenza e le intenzioni del primo, mentre,
in realtà, in molti casi la vittima ha un ruolo importante. Questa considerazione è vera
nella stragrande maggioranza dei casi, ma, come hanno dimostrato gli studi empirici e
sociali, per comprendere alcuni fenomeni criminosi occorre considerare anche le ipotesi
in cui la vittima svolge un ruolo, oppure, ha caratteristiche peculiari di vulnerabilità o
particolari predisposizioni nella genesi e nella dinamica del reato. Si è così giunti ad
ammettere che la vittima rappresenta il secondo polo della diade criminale. La vittima,
infatti, compone, insieme al reo, la realtà umana con cui il diritto penale deve
confrontarsi: raramente l’analisi del fatto criminoso può essere compiuta escludendo
l’esame del comportamento della persona che lo ha subito. La vittima è, quindi, uno
degli attori essenziali della situazione penalmente rilevante; pertanto, l’intera vicenda
criminale, deve essere esaminata tenendo conto del ruolo svolto da ciascuno nella
dinamica che ha prodotto il verificarsi del reato.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Spesso, in tale contesto ed in particolar modo quando si affronta l’efferatezza della
violenza di genere il quesito tipico che ci si pone quando si analizza la condotta della
vittima è il seguente come mai la stessa non riesce a reagire; perché non se ne va? La
vittima certamente cerca di assumere un comportamento di responsabilizzazione per
evitare che il proprio comportamento errato od inadeguato sia la conditio sine qua non
per generare la violenza del partner. Le vittime subiscono effetti devastanti, nella
violenza da “fiducia”, così come viene denominata da Ventimiglia (2002) in quanto si
vuole intendere una forma di violenza esercitata da una persona già conosciuta dalla
vittima, e aggravata dal fatto che esiste una relazione (sia essa familiare, di sangue,
sentimentale o amicale) precedente l’episodio di maltrattamento. Dal punto di vista
giuridico, si può parlare di aggravanti quali abuso di autorità, di relazioni domestiche, di
coabitazione, di ospitalità. La stessa vittima riflettendo sul proprio ruolo pensa che oltre
ad essere “tradita” nella relazione stessa, sperimenta dei sensi di colpa legati
all’eventualità di “averlo meritato”, alla percezione di avere la responsabilità della
buona riuscita della relazione, alla sensazione che per essere una “brava moglie” (o altro
genere di ruolo femminile) è necessario sopportare la situazione di buon grado, perché
”è sempre stato “così”, oppure perché “cosa penserà la gente”, o ancora “per il bene dei
bambini”. Le principali teorie che tentano di sistematizzare le dinamiche dell’abuso
nella coppia e a rispondere al quesito perché ci siamo posti poc’anzi, hanno avuto
origine proprio da esigenze giuridiche, poiché nel 1991 il governatore degli Stati Uniti,
William Weld, apportò delle modifiche alla legislazione vigente, in modo che le donne
che avevano subito maltrattamento in famiglia potessero chiedere un risarcimento,
qualora vi fossero le prove di una “Sindrome della donna picchiata”.
La questione si fece ancora più pressante nel momento in cui alcune donne, accusate
dell’omicidio del proprio marito, furono rilasciate per aver riportato prove di abuso
subito nella relazione coniugale. Da allora, giudici e avvocati iniziarono a dibattere per
definire univocamente la “Sindrome della donna picchiata”. Quest’ultima non si tratta di
un vero e proprio disturbo mentale (non è, tra l’altro, compreso nel DSM - IV); piuttosto
di un tentativo di spiegare, applicando i principi della teoria dell’impotenza appresa, per
quali motivi le donne maltrattate non riescono a lasciare il proprio aggressore.
L’originale teoria dell’impotenza appresa (Seligman, 1975) cercava di spiegare il
comportamento passivo tenuto da determinati soggetti in condizioni di disagio o dolore.
Seligman giunse a formulare la sua teoria, sostenendo che un soggetto collocato in un
contesto spiacevole e incontrollabile diventerà passivo e accetterà degli stimoli dolorosi,
124
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
anche quando l’evitamento è possibile ed evidente. Alla fine degli anni ’70, Walker
(1980) adottò la teoria di Seligman (1975) per spiegare come mai le donne rimangono
con i loro partner violenti. Secondo Walker (1980), infatti, la “Sindrome della donna
picchiata” comprende due elementi: il ciclo della violenza e la sindrome
dell’impotenza appresa. Ci sono fattori di rischi tale per cui potrebbero indicare
l’eventualità del verificarsi di un evento dannoso a seguito di date circostanze non
presupponendo, pertanto, una consequenzialità fra queste ultime e, appunto, l’evento
dannoso.
Definire elementi di rischio significa, quindi, individuare delle condizioni ce
renderanno maggiormente probabile il verificarsi di un evento, ma che non lo
determinano necessariamente. Questi fattori possono essere rilegati tanto nella sfera
individuale, di coppia, comunità e società. Alcuni fattori di rischio fungono come luoghi
comuni come ad esempio la violenza è presente in contesti familiari culturalmente ed
economicamente poveri; la violenza è causata da occasionali e sporadiche perdite di
controllo; è causata dall’assunzione da parte dell’aggressore di sostanze alcooliche e
droghe; la violenza non incide sulla salute della vittima; alle donne piace essere
picchiate; gli aggressori sono soggetti che hanno subito violenza da piccoli.
Qual è la risposta a questa piaga della violenza che genera come abbiamo accennato
una forma di insicurezza sociale? Certamente la risposta a tale quesito è senza ombra di
dubbio l’utilizzo dello strumento della prevenzione. In particolar modo la prevenzione
integrata, che comprende quella situazionale comunitaria (responsabilizzazione dei
cittadini alla sorveglianza dei cittadini alla sorveglianza di alcuni campanellini
d’allarme di alcuni fenomeni) e quella sociale (che ha come obiettivo di ridurre i fattori
criminogenei). Occorre un integrazione integrata in quanto il crimine, ed in particolar
modo la violenza alle donne, è il prodotto di più fattori, dunque anche le misure per
affrontarlo devono muoversi su livelli diversi ed in base a diverse razionalità. Occorre
dare spazio allo strumento della nuova prevenzione caratterizzata da vari soggetti, come
istituzioni e cittadini, da un lato, e dall’altro attuare nuove strategie orientate a diminuire
la frequenza di certi eventi criminogenei come la violenza alle donne con l’utilizzo di
strumenti alternativi da quelli prettamente penali. Ecco, dunque, si inseriscono in tale
spazio:
-
programmi per modificare la cultura effettuando interventi nelle scuole, ritrovi
aggregativi per suscitare condotte non violente indicare la strada del dialogo ,
125
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
suscitare empatia educare ad atteggiamenti solidali, in chiave prettamente di
prevenzione ex ante all’evento di violenza;
-
elaborare un servizio specifico per il trattamento degli aggressori com’è stato
effettuato in passato per le tossicodipendenze e il gioco patologico, come forma
di prevenzione ex post all’evento.
Com’è stato effettuato in America, in particolar modo negli Stati Uniti, ove il
fenomeno è maggiormente sentito, sono state create a livello governativo organizzazioni
strutturate di contatto e coordinamento; una tra tutte è la Violence Prevention Alliance
che afferisce direttamente all’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La Violence Prevention Alliance è una rete di Stati membri afferenti
all’organizzazione mondiale della sanità che condivide strategie preventive del
fenomeno promuove interventi multifattoriali e si riconosce nel World report violence
and health stilato dall’organizzazione mondiale della sanità che di fatto è il primo punto
su scala mondiale che tratta il fenomeno della violenza.
Per quanto concerne il trattamento verso l’aggressore è molto importante per evitare
che la violenza si ripresenti. Il trattamento psicologico dell’aggressore unito ad altre
misure penali è essenziale. Fornisce una connotazione significativa all’evento
attribuisce ad esso un “senso”, non limitando la sua portata nella sfera intima personale
né esaurendo la risposta con la sola condanna penale. Trattare un aggressore domestico
significa considerarlo per tanto prima di tutto responsabile. Non bisogna sottacere in
tale ambito anche il trattamento del reo nel circuito penitenziario, al dopo sentenza di
condanna, visto come strumento di prevenzione ex post all’evento violenza.
Infatti, il trattamento di tale natura va ricordato che non ha carattere coercitivo e ha alla
base una sorta di concertazione e di collaborazione attiva dell’utente soggetto del
trattamento. La condivisione di un progetto /programma nasce dal riconoscimento di un
bisogno e da una richiesta di aiuto da parte dell’autore.
L’art. 27 Reg. es. ord. pen., proprio per assolvere a tale compito , prevede che gli
operatori, che svolgono la loro attività all’interno dell’istituto penitenziario, debbano
rintracciare tutti quegli elementi, culturali, psicologici e sociali, che sono stati
d’impedimento a una corretta condotta penale e che hanno agevolato l’ingresso nella
devianza.
Spesso, può accadere che gli autori dei reati di maltrattamenti in famiglia o all’interno
della coppia non comprendano la decisione sanzionatoria e che di fatto no la accetti, e
126
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
pertanto non si pone nella condizione di chiedere aiuto dato che ritiene di non averne
bisogno. Tale per cui il percorso all’interno del circuito penitenziario nel trattare con tali
autori diventa difficoltoso in quanto manca il presupposto essenziale quale, la
condivisione di un programma /progetto.
Il filtro del trattamento intramurario per tali autori di reati è fondamentale,
perché spesso accade che tali soggetti una volta inseriti nuovamente nella società
intraprendano la relazione con la partner che le ha denunciati, oppure, perché pur
essendoci stata una denuncia autore e vittima non abbiamo mai sostanzialmente
terminato la loro relazione, cosicché può essere assottigliata la recidiva e la possibilità
di portare ad ulteriore stadio la violenza già perpetrata nei confronti della vittima.
Mentre, sempre in chiave di prevenzione, ed in particolare in itinere, va ricordata
in tale ambito la legge 119/2013 che ha previsto, con l’introduzione e l’amplificazione
di alcuni istituti sia a livello sostanziale sia processuale penale, una tutela all’altra
protagonista della relazione criminale, la vittima. A tal proposito va citata anche la
legge regionale Veneto n. 5 del 2013, che prevede interventi regionali per prevenire e
contrastare la violenza contro le donne.
Altro strumento da citare in ambito di prevenzione è la redazione di alcuni
protocolli d’intervento. Questi protocolli hanno una doppia valenza sia nei confronti
delle vittime sia nei confronti degli operatori che intervengono durante il manifestarsi
dell’evento criminogeno ed indirettamente nei confronti della società.
Infatti, per quanto riguarda la prima funzione è necessario sottolineare l’importanza
dell’approccio che gli operatori debbono avere quando si trovano ad effettuare un
intervento operativo nelle forme di violenza e specificatamente durante il primo contatto
con le vittime.
Orbene, è necessario ricordare quanto è già stato illustrato dalle ricerche
effettuate dal U.S. Departement of Justice in America, ove è stato evidenziato che la
maggior parte delle vittime di un fenomeno criminogeno o di reato si senta non
compresa, pur avendo richiesto aiuto, e decida in tal modo di non esporre denuncia per
evitare di provocare i loro aguzzini e ritrovarsi in una situazione di maggior pericolo,
così facendo alimentano il dark number(numero oscuro) della criminalità.
Inoltre, si è rilevato che si sono ottenuti risultati migliori e nel contempo aiuto
effettivo alle vittime in quegli stati in cui sono state formate in maniera professionale gli
operatori che svolgono attività nell’ambito di tali fenomeni con l’adozione di specifici
protocolli d’intervento che permettono una presa in carico più efficace ed articolata,
127
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
evitando la vittimizzazione secondaria connessa ad atteggiamenti di minimizzazione dei
problemi o di colpevolizzazione della persona offesa.
Inoltre, in tal guisa per quanto riguarda la seconda funzione, vale a dire, come
forma di protezione per gli operatori, forze di polizia, sanitari operatori del servizio
sociale, attraverso l’adozione di protocolli operativi possono consapevolmente adottare
tutte le misure idonee per effettuare un intervento efficace, da un lato ed agire in
sicurezza in qualità di lavoratori, dall’altro.
Proprio per questo occorre redigere un protocollo d’intervento specifico per ogni
categoria di operatori che intervengono nell’ambito del fenomeno della violenza di
genere.
I protocolli devono avere come obiettivo la protezione della vittima e per
realizzare ciò devono essere previste due parti: la prima che prevede regole per il
contatto con la vittima; mentre, la seconda parte riguarda regole specifiche afferenti al
campo lavorativo, per adempiere ad obblighi previsti dalla legge per l’operatore che
interviene nel fenomeno della violenza sulle donne.Infatti, un conto è redigere protocolli
operativi per le Forze dell’ordine che hanno specifici obblighi di legge diversi dagli
operatori sanitari.Ebbene, il protocollo pilota dovrebbe prevedere due parti, la prima,
comune a tutte le categorie professionali, avere ad oggetto le Regole OVC (Office for
Victims of crime) che riguardano la necessità della vittime.
Queste regole sono state pubblicate nell’aprile del 2008 con un lavoro dal titolo
“First response to victims of crime” dall’U.S. Department of Justice in America.
Nel testo sono riportate considerazioni in merito al primo contatto con vittime dalle
caratteristiche personali differenti e per le diverse forme di reato (aggressioni sessuali,
violenza domestica, catastrofi naturali).
Il manuale ha una valenza ampia a partire dalle considerazioni di base, fruibili
da ogni professionista che opera con le vittime di reato.
Le modalità con cui una vittima affronta ed elabora il trauma dell’evento non
dipendono solamente dalle risorse personali, ma pure dal comportamento di chi
l’affianca nei momenti immediatamente successivi.
A questi spetta il compito di aiutare la vittima a riguadagnare al più presto un
senso di sicurezza e di controllo sulla propria vita, qualcosa che il trauma ha messo in
crisi.
128
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Una volta gestita l’emergenza della segnalazione, che per i sanitari potrebbe essere
apportare le cure del caso, mentre per la polizia evacuare la zona e mettere in sicurezza
la stessa, l’attenzione va rivolta alla vittima.
Ricordando che qualunque commento fuori luogo, anche se espresso inavvertitamente,
come pure un atteggiamento intrusivo ed anempatico, potrebbe indurre nella vittima la
convinzione d’essere in qualche misura responsabile dell’accaduto, e perciò causandole
una seconda vittimizzazione.
Le necessità delle vittime sono tre:
-
sentirsi al sicuro;
-
poter manifestare le proprie emozioni;
-
e domandarsi cosa accadrà da quel momento specifico.
Mentre, la seconda parte del protocollo dovrà riguardare l’ambito specifico
dell’operatore. Ebbene, se ad intervenire è la polizia, certamente, si dovrà verificare se il
contatto con la vittima avviene presso il comando, in abitazione o telefonicamente.
Ciò in quanto gli stessi operatori nei contesti poc’anzi accennati dovranno seguire delle
regole specifiche lavorative previste per legge ad esempio: raccogliere la denuncia;
effettuare l’informativa ai sensi di cui all’art. 347 c.p.p; raccogliere sommarie
informazioni ai sensi di cui agli artt. 350 351 c.p.p.; procedere ad identificazione 349
c.p.p.; applicare in ordine ai presupposti di legge arresto e fermo artt. 380 e 381 c.p.p..
Ma i protocolli hanno anche un ulteriore funzione quale quella di tutelare gli
stessi operatori che intervengono in qualità di lavoratori per evitare di subire un danno
derivante dai loro interventi con le vittime e gli aggressori.
Ebbene, può essere adottato a tal proposito uno strumento specifico, questo per
gli operatori di polizia, quale la compilazione di una scheda EVA (Esame delle violenze
agite).
Quest’ultima si tratta di un modello di intervento utile per raccogliere
informazioni da parte di coloro che effettuano un primo intervento in assenza di una
querela, di un arresto in flagranza o di una procedibilità di ufficio per eventuali
procedimenti futuri.
Chi interviene presso un abitazione, per strada, in un luogo aperto o chiuso per
segnalata “lite in famiglia” si può trovare di fronte ad innumerevoli scenari. Si può
effettivamente trattare di una situazione di semplice lite, senza alcun rischio o pericolo
129
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
per le persone coinvolte ne per gli operatori, ma si possono verificare situazioni ancor
più gravi per l’incolumità delle persone.
Solo chi effettua il primo intervento può osservare lo scenario ove è avvenuta
l’aggressione.
Sempre per quanto concerne la II parte del Protocollo operativo, certamente, se
ad intervenire è personale sanitario, interponendosi anch’esso in quella relazione
criminale, le regole dovranno essere ben diverse.
Infatti, i sanitari a differenza di quanto abbiamo visto per il personale di polizia,
effettuano la loro attività prevalentemente nella struttura sanitaria, tranne, certamente,
per coloro che effettuano servizio d’intervento, ove la vittima potrebbe recarsi
spontaneamente, o viene accompagnata dallo stesso aggressore, o dalle forze dell’ordine
od infine indirizzata dai centri antiviolenza.La necessità anche in tale ambito di redigere
alcune linee guida è importante in quanto dovrebbero essere finalizzate a garantire a chi
ha subito violenza , maltrattamenti ed abusi il diritto di trovare immediato soccorso in
un luogo dove operatori e operatrici sanitari competenti sappiano affrontare non solo la
visita e la raccolta degli indizi, che poi diverranno prove nella fase dibattimentale a
livello processuale, ma garantire capacità di ascolto , accoglienza e comprensione,
fornire riferimenti chiari ed univoci a tutti gli attori del percorso in ambito di obblighi
normativi e legislativi, tempi e modalità , tipologie di eventuali prelievi.
Inoltre, la parte specifica per i sanitari dovrà , a parere della scrivente, prevedere
regole e strumenti chiari affinché il sanitario possa in alcuni casi, ad esempio quando
non sia necessaria la redazione del referto in quanto si è in presenza di una lesione
guaribile entro 20 giorni procedibile a querela e la vittima non vuole denunciare il suo
aggressore , avere la possibilità di una rintracciabilità delle lesioni subite dalla vittima
nei cui confronti non si è certi che sia stata commessa violenza o maltrattamenti.
Cosicché quando ella si ripresenti presso il presidio ospedaliero per le cure e per
ulteriori lesioni subite il sanitario può valutare, con maggior obiettività se coinvolgere
operatrici dell’area psico-sociale. Non bisogna dimenticare che le lesioni, molto spesso,
sono eventi prodromici alla violenza ed abusi.
Quali sono gli strumenti a tutela del sanitario in qualità di lavoratore e per
tutelare la vittima che non vuole denunciare la violenza che silenziosamente subisce?
Per quanto concerne la prima tutela di soggetti , e dunque , i sanitari in qualità di
lavoratori, si potrebbe utilizzare lo strumento della scheda EVA cosi come viene fatto
per gli operatori di polizia; mentre, per la tutela alle vittime che si rivolgono al presidio
130
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
ospedaliero , in particolare al pronto soccorso , e quando esse non presentano querela e
ove non ci sono i presupposti di legge per la redazione di referto da parte del sanitario ,
si potrebbe adottare lo strumento dettato dal modello ISA.
La sua funzione è quello di aiutare la donna a fare una corretta autovalutazione
del rischio che la stessa ha di essere nuovamente oggetto di violenze.
Tale strumento potrebbe essere fornito dal personale sanitario alle presunte
vittime che dovranno poi compilarlo.
Le numerose ricerche fatte sulla valutazione del rischio hanno evidenziato come
da una parte sia la stessa vittima che fornisce un buon indice di valutazione del rischio
di recidiva della condizione in cui si trova, dall’altra, chi subisce violenza tende a
sottovalutare la condizione di rischio in cui si trova e spesso sottostima il rischio in cui
versa, soprattutto nei casi in cui vive ancora con il maltrattante. Per questo motivo è
stato messo a punto lo strumento ISA, da somministrare alle donne che subiscono
violenza all’interno di una relazione per aiutarle a stimare da sole il rischio sulla base di
una serie di domande a cui devono fornire le risposte, calcolare un punteggio che
ottengono e valutare il livello in cui corrono.
Il principio teorico su cui si basa ISA è che una donna, che riflette e comprende
quello che è successo, aumenta il livello di consapevolezza del rischio e quindi agisce
attuando strategie più efficaci per la sua tutela (Baldry, Winkel, 2008).
ISA è uno strumento messo a punto grazie a un progetto internazionale,
commissionato dall’Unione Europea all’interno del progetto Dafne vi è stato il
coinvolgimento di altri Paesi europei come Portogallo, Regno Unito e Paesi Bassi. Si
tratta di un questionario auto compilato, costituito da una serie di domande che
riguardano sia la storia personale della donna con il reo, sia la sua condizione
psicologica. Una volta risposto a tutte le domande, viene calcolato il punteggio a cui
corrisponde una percentuale di rischio di recidiva che poi viene confrontato con l’autovalutazione fornita dalla stessa donna per vedere se la stessa tende a sottostimare quello
che le accade e le è accaduto. Chissà potrebbe essere d’ausilio per far sì che la stessa
donna vittima trovi il coraggio a denunciare o parlarne con il sanitario.
Questo protocollo specifico potrà essere inserito nel progetto denominato “codice rosa”
previsto e realizzato dalla Prefettura, Procura, Comune, Questura, Comando Provinciale
dei Carabinieri, Guardia di finanza e USSL 20 21 22
L’azione di contrasto alla violenza si scontra certamente con altri fattori endogeni, che
limitano la possibilità di agire efficacemente: il carattere privato della violenza; le
131
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
culture educative, gli usi e i costumi, che, a seconda dei casi, favoriscano i
comportamenti violenti; le condizioni di carenza di protezione delle vittime le quali non
si sentono tutelate e per questo non denunciano.
Per tutte queste ragioni si evidenzia, come una necessità assolutamente
imperiosa, la definizione e l’applicazione di protocolli operativi condivisi che
prevedano le forme di lavoro e di intervento dei professionisti di ogni disciplina e
definiscano criteri unitari per l’ottimizzazione delle risorse.
Tenendo conto dell’eterogeneità e della complessità del fenomeno, si può
pensare alla costruzione di un protocollo di attuazione sufficientemente flessibile che
risponda a distinte necessità ed obiettivi.
Certamente non vi possono essere tipi di violenze sulle donne più importanti di
altri. Occorre conoscere le diversità criminali per calibrare rispetto ai casi concreti le
risposte di assistenza alle vittime e di contrasto ai colpevoli guardare al “dopo”, e da
questo partire per ampliare la tutela, dapprima nei confronti delle vittime reali, e poi a
quelle potenziali.
132
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Il mal d’amore, sindrome di Tako-Tsubo:
emozioni e malattie cardiovascolari nella donna.
Vassanelli Corrado1, Menegatti Giuliana1, Vassanelli Francesca2.
1
UOC di Cardiologia AOUI di Verona, 2Cardiologia, Università degli Studi di Brescia
Uno choc emotivo, di gioia o di tragedia, può indebolire il cuore al punto da far
credere ad un infarto.
La prima immagine che viene alla mente in tema di morte per amore è
probabilmente quella di Romeo e Giulietta, ma forse la scartiamo subito perché ci pare
inverosimile. Tuttavia, la coppia che non è realmente esistita, ha ispirato molte storie
d’amore impossibili e ancor oggi, a Verona, la casa di Romeo e Giulietta rappresenta un
bastione dell’amore al quale approdano persone di tutto il mondo soprattutto il 14
febbraio, giorno di San Valentino.
Nel pieno rispetto della licenza letteraria dell’opera di Shakespeare la morte per
amore è più frequente di quello che si possa immaginare. Analizzando le esperienze di
ottanta adulti che avevano sofferto della perdita di un essere amato recentemente, alcuni
autori hanno osservato che questi erano più suscettibili a disturbi cardiaci di coloro
avevano tenuto una certa stabilità emotiva durante lo stesso periodo di tempo. Le
alterazioni di tipo emotivo influiscono seriamente sull’organismo delle persone
producendo variazioni significative di parametri vitali quali l’incremento della pressione
arteriosa, l’alterazione del ritmo cardiaco e la diminuzione della resistenza del sistema
immunitario. Questo stato di sofferenza quale conseguenza della perdita dell’essere
amato, caratterizzato da depressione, ansietà e ira, termina approssimativamente entro
sei mesi: entro questo periodo una parte dei vedovi muore o sviluppa una malattia
cardiaca.
Studi recenti hanno sottolineato l’influenza di prove emotive e stress, sulla
funzione del cuore. Già da più di 20 anni sapevamo che lo stress mentale ed emotivo
sono in grado di provocare ischemia in più del 50% dei pazienti con malattia coronarica
cronica stabile.
Questa ischemia indotta dallo stress mentale spesso si realizza in
assenza di sintomi ed ha cause diverse da quella tradizionale.
133
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
In quel tristemente famoso 11 settembre morirono improvvisamente molti
pompieri americani che non avevano avuto alcuna precedente manifestazione di
malattia coronarica: è stato sollevato il sospetto che, al di là delle cause fisiche
(inalazioni, polluzione, monossido di carbonio, altre tossine cardiache, ecc), lo stress
fisico e psicologico possano aver giocato un ruolo rilevante.
La “sindrome del cuore infranto”, come è stata chiamata volgarmente questa
reazione alla perdita del partner, genera sintomi simili a quelli che si manifestano prima
di soffrire di un attacco cardiaco. In gergo tecnico il nome scientifico è “Sindrome di
Tako-Tsubo” e si tratta sostanzialmente di una cardiomiopatia di etiologia molto più
ampia e caratterizzata da una disfunzione sistolica del ventricolo sinistro di carattere
transitorio, a volte grave, spesso associata a dolore toracico e dispnea. Normalmente
viene preceduta da un violento stress psichico o fisico ed è più comune nel sesso
femminile.
Affrontare
una
situazione
di
stress
utilizzando
strategie
inadeguate
(caratterizzate da ira e irritabilità) aumenta le probabilità dell’insorgere di malattie
cardiovascolari e cerebrovascolari. Questo manifesta la crescente necessità di sviluppare
una certa elasticità e cambiare la nostra forma di intendere il mondo e quindi di
utilizzare un approccio che comprenda il cambiamento come parte essenziale della vita.
Nel 1969 Massimo Ranieri cantava (Rose Rosse) “D’amore non si muore, ma
non mi so spiegare, perché muoio per te”, e forse una verità la diceva. Tutti ci siamo
sentiti il cuore spezzato e malessere fisico.
I geni coinvolti nel dolore fisico sono strettamente legati alle esperienze
mentalmente dolorose, come, ad esempio, quella di una delusione d’amore. È infatti
stato scoperto un collegamento genetico tra il dolore fisico ed il rifiuto sociale. Il gene
OPRM1 (mu-opioid receptor gene - recettore ‘mu’ per gli oppioidi), regola i più potenti
antidolorifici del nostro corpo e viene coinvolto nelle esperienze sociali molto dolorose.
La variazione dell’OPRM1 (associata spesso al dolore fisico) è legata alla quantità di
“dolore sociale” che una persona sente quando viene rifiutata. Ma questo non accade in
tutti. Esistono dei soggetti che presentano una rara forma di questo gene che li rende più
sensibili del normale al rifiuto e, quindi, al dolore sociale.
Alcuni volontari hanno risposto ad una serie di domande per misurare la propria
sensibilità al rifiuto e ad esprimere il proprio accordo o disaccordo ad affermazioni del
tipo “Io sono molto sensibile a tutti i segnali di una persona che non vuole parlare con
134
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
me”. Successivamente i ricercatori hanno analizzati i campioni di saliva di 122 volontari
per identificare le varianti di gene OPRM1 presenti in queste persone, se quella più
sensibile o meno. Infine, come ultima fase dello studio, i ricercatori hanno testato le
emozioni di solo 31 volontari quando sono stati volutamente esclusi da un gioco al
computer che prevedeva un scambio di una palla virtuale tra i partecipanti. Le persone
con la forma rara del gene del dolore, che hanno mostrato in precedenti lavori di essere
più sensibili al dolore fisico, hanno anche segnalato i più elevati livelli di sensibilità al
rifiuto e hanno dimostrato una maggiore attività nella regione del cervello associata al
dolore sociale quando sono stati esclusi.
Sarebbe interessante sapere se siano più le donne o gli uomini a possedere la
variante rara, ma lo studio non ne fa menzione. Forse, al di là del genere, la fortuna è
non possederla. La spiccata sensibilità non è caratteristica di tutti, permette un contatto
sensoriale con il mondo più elevato, provoca turbinii e vortici di emozioni, fa vivere la
vita a carne viva, tutte le meraviglie che vogliamo, ma di sicuro non ci protegge dalla
sofferenza e l’amarezza.
Mente e cuore sono da sempre stati raccontati come due eterni rivali. Al
contrario mente e cuore sono parti inscindibili dell’essere umano, della sua vita: senza il
loro contributo complementare e sinergico risulterebbe impossibile pensare al futuro,
identificare e superare gli ostacoli che ogni giorno la vita ci fa incontrare.
Il cuore è anche stato paragonato ad un faro che indica la strada da percorre per
raggiungere la realizzazione dei nostri obiettivi. La mente non condizionata deve
cooperare al fine. Si deve rifuggire da questo dualismo (che ricorda il dualismo
psicofisico mente-corpo) che, come abbiamo visto, può solo produrre malattia. La
mente non deve prevaricare generando ansia, senso di disagio, depressione che alla fine
danneggiano proprio il cuore.
Fabio Volo nel libro "È una vita che ti aspetto" scrive:
“Cambiare posto al cuore con il cervello.
Impara a pensare con il cuore e ad amare con la testa.
Pensare con il cuore ti costringe ad agire con amore.
E ogni cosa da amare facendola con la testa, ti costringe ad amare nel modo giusto.”
135
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Mente e cuore, devono camminare all’unisono in un percorso che ci è stato dato
di fare, noi con gli Altri, noi per gli Altri.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
La violenza: differenza di genere?
Roberto Castello, Direttore
Medicina Generale e Sezione Decisione clinica, AOUI, Verona
La Medicina di Genere non è la medicina che studia le malattie che colpiscono
prevalentemente le donne rispetto agli uomini, ma la disciplina che studia l’influenza
del sesso (accezione biologica) e del genere (accezione sociale) sulla fisiologia,
fisiopatologia e clinica di tutte le malattie per giungere a decisioni terapeutiche basate
sull’evidenza sia nell’uomo che nella donna.
Esistono differenze di genere nella violenza?
Il comportamento violento presenta un ampio spettro di manifestazioni che
vanno dall’aggressività alla violenza fisica vera e propria. Si tratta di un elemento
naturale e fisiologico che qualifica e determina il mondo animale. Esso è espressione
dell’istinto di sopravvivenza e di preservazione della specie attraverso la riproduzione.
Tale istinto persiste nell’essere umano, attenuato dai vincoli sociali e familiari.
Valutiamo innanzitutto quale può essere l’influenza del genere nella sua accezione
sociale sulla genesi degli episodi di violenza.
Si parla di “violenza di genere” riferendosi a “qualunque atto di violenza
sessista che produca o possa produrre danni o sofferenze fisiche, sessuali o
psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o la privazione
arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata” (Nazioni Unite,
1993). Il fenomeno attiene più alla “normalità” che alla patologia, riguarda uomini e
donne di tutti gli strati sociali e culturali, esiste in tutti i paesi, attraversa tutte le culture,
le classi sociali, le etnie, i livelli di istruzione e di reddito e tutte le fasce di età.
Per “genere” si intende la diversità di ruoli, diritti e doveri che la cultura e la
società attribuiscono agli individui a seconda del loro sesso. La violenza basata sul
genere coinvolge sia uomini che donne. Di solito la donna è la vittima. Ciò deriva dalla
disparità nell’attribuzione del potere tra uomini e donne.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Può declinarsi in violenza fisica, sessuale, economica, spirituale, psicologica e,
più spesso, in una combinazione delle diverse forme. Le donne sono più a rischio di
violenza nelle proprie case piuttosto che per strada.
Quasi sempre i comportamenti violenti sono commessi da una persona di sesso
maschile legata alla donna da un rapporto stretto (non solo partner, marito o ex
convivente, ma anche figlio).
Anche il sesso, inteso nella sua accezione biologica, è determinante nel
qualificare gli episodi di violenza.
Le emozioni nascono nelle strutture subcorticali (amigdala e ipotalamo) e
vengono poi elaborate dai centri cognitivi prefrontali per essere controllate ed espresse.
Diversi studi hanno dimostrato che soggetti più aggressivi presentano livelli più
alti di testosterone, l’ormone maschile per eccellenza. Ad esempio, la quota di
testosterone totale aumenta notevolmente negli atleti maschi nel corso di competizioni
sportive. Il sesso risulta il miglior fattore predittivo per la criminalità.
La Teoria dell’evoluzione neuroandrogenetica sostiene che il testosterone
stimola la competitività e l’aggressività volte all’accumulo di risorse. Ciò rende il
maschio più interessante agli occhi della femmina e gli garantisce maggiori chance di
accoppiamento.
L’esposizione neurologica agli androgeni si ha nel periodo perinatale e post
puberale. Se l’esposizione è alta, il cervello sarà mascolinizzato, se bassa rimarrà
femminile. L’azione del testosterone nel cervello inizia già nella fase embrionale.
Studi di imaging neuroradiologico hanno dimostrato che, nei maschi adulti, il
testosterone attiva l’amigdala intensificando le emozioni e la sua resistenza al controllo
dei centri cognitivi prefrontali
I ragazzi più aggressivi presentano maggiori livelli di testosterone. I livelli di
testosterone e altri androgeni correlavano con la severità degli incidenti.
140
Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Studi condotti su cavie dimostrano che i maschi castrati perdono l’aggressività
mentre la terapia con testosterone li rende nuovamente violenti.
Nella femmina l’influenza ormonale sull’aggressività è più articolata. Le
femmine ovariectomizzate diventano aggressive nei confronti delle altre femmine. Dopo
la somministrazione di terapia estro-progestinica sostitutiva, tornano docili e propense
all’accoppiamento.
Se le femmine ovariectomizzate sono trattate con testosterone, diventano
aggressive nei confronti dei maschi. Il testosterone risulta correlare con maggior
violenza e aggressività anche nelle donne carcerate.
Con l’avanzare dell’età e il fisiologico calo di testosterone che ne consegue, le
detenute perdono la spinta all’aggressività e alla violenza.
Ricordiamo che nelle donne nel delicato periodo del post partum, le alterazioni
ormonali possono portare ad aggressività e a violenza anche nei confronti del neonato.
Uno studio condotto in Tennesse ha rilevato che il 16% dei soggetti arrestati per
violenza nei confronti del partner erano donne (Feder and Hemmny, 2005). Un secondo
studio condotto in Hampshire ha rilevato un a frequenza del 35%. Si trattava
principalmente di donne arruolate nell’esercito.
Dagli studi emergono alcuni dati interessanti:
•
L a maggior parte delle donne violente reagisce alla violenza del partner.
•
Gli effetti psicologici della violenza sono più marcati nelle donne.
•
Le donne in genere attaccano il maschio per difendersi, per paura, per difendere
i figli o per vendicarsi della sofferenza emotiva inflitta dal compagno.
•
Gli uomini esercitano la violenza per mantenere il controllo.
•
Le donne tendono a manifestare violenza verbale e raramente fisica, mentre gli
uomini esplicano la violenza con aggressioni fisiche e sessuali.
Esistono chiaramente delle notevoli differenze di genere nella violenza, sia dal
punto di vista sociale che biologico.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Un libro accanto: cenni di biblioterapia
Marco dalla Valle, infermiere
Terapia Intensiva Cardiologica
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Dopo aver parlato di violenza, quella vera, quella patita sulla carne, quella che
segna l'anima, ha senso discutere di quella scritta sui libri? Lo sappiamo tutti, la
letteratura ha una tradizione antichissima per quanto riguarda la violenza sulle donne:
nei miti antichi, nelle favole, ma anche nei libri sacri, inclusa la Bibbia. Ma quello di cui
voglio parlarvi è l'utilità che i libri possono avere nell'aiutare le donne attraverso la
biblioterapia. Si tratta di capire non come e perché esistono tradizioni letterarie
misogine o meno, ma i modi di servirsi di testi letterari di diverso genere per fornire
consapevolezza e come mezzo educativo e comunicativo. Alla biblioterapia sono state
associate diverse definizioni. Una di queste recita: la biblioterapia è l'utilizzo creativo e
ragionato della letteratura per favorire il benessere della persona. Per realizzare la
creatività e la ragionevolezza della biblioterapia sono possibili diverse vie. Serve,
innanzitutto, essere consapevoli delle potenzialità̀ della letteratura. Esistono biografie,
ma anche romanzi eccellenti che sanno offrire un panorama psicologico incredibilmente
realistico. Questi sono testi che potrebbero essere utili a alle persone che stanno accanto
alle donne in difficoltà: genitori, figli, partner o amici che hanno bisogno di capire come
stargli accanto. Ma anche agli operatori del settore possono ottenere molti benefici.
Nelle professioni d'aiuto la lettura, in autonomia o in un laboratorio formativo, può
essere un mezzo per appropriarsi delle competenze emotive ed empatiche necessarie.
Certo, la lettura necessita di tempo e ritmo, e l'interiorizzazione del testo ha vie di
realizzazioni a volte molto diverse da soggetto a soggetto, ma le sfumature emotive, la
comprensione profonda, le infinite varianti delle reazioni alla violenza, così come i
possibili modi per lenire la sofferenza, sono conosciuti maggiormente con le lettere e in
alcuni caso con le arti figurative. Pensate al teatro: chi può̀ dimenticare il monologo
autobiografico di Franca Rame intitolato Lo stupro? E' uno degli esempi migliori di arte
declinata al sociale e nessuno può uscire immodificato da una rappresentazione simile.
Può̀ accadere che alle vittime manchi la forza o la consapevolezza per chiedere aiuto.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Un manuale reperibile facilmente, penso ad esempio a Donne che amano troppo
di Norwood, bestseller presente in ogni libreria, potrebbe aiutare a identificarsi e quindi
a capire che è necessario consultare uno specialista o rivolgersi a un'associazione o
iniziare un percorso verso la salvezza sporgendo una denuncia alle autorità competenti.
In questo caso non siamo ancora in presenza di una biblioterapia strutturata.
Ma favorire la lettura, cosa oggi, soprattutto in Italia, non semplice, significa
indicare una porta. Il libro permette di aprirla, trovando dietro quella porta i
professionisti in grado di fornire l'assistenza necessaria. Quando sentite parlare di
lettura, a cui potrebbe accedere ogni classe sociale, e che invece sempre più langue,
potete capire quale incredibile opportunità rischia di essere sottratta a causa
dell'imperante cultura dei media veloci, rinunciando così a un mezzo di enorme utilità
che permette di pensare e assimilare con i ritmi consoni a ognuno.
I libri non possono sostituire le terapie necessarie, lo voglio sottolineare, ma
sanno senz'altro essere compagni di viaggio importanti.ad esempio: una donna è
bloccata e, pur avendo accettato di essere sostenuta, rifiuta un percorso
psicoterapeutico? La biblioterapia, utilizzata all'interno di un gruppo di sostegno,
potrebbe essere utile proprio a questo: a far risuonare consapevolezze tenute sopite per
sopportare la sofferenza e comprendere l'impossibilità di farcela da sola.
Ma quali sono i libri adatti? La scelta va calibrata secondo l'obiettivo che si
vuole raggiungere e le capacità emotive e intellettuali della persona che fruirà del testo.
I racconti inventati, come alcuni contenuti in Dieci donne di Marcela Serrano, possono
risultare utili. In questo caso l'autrice riesce a toccare efficacemente quei tasti dell'anima
che possono maggiormente scuotere, proprio grazie alla sua peculiare capacità
narrativa. Le biografie, anch'esse utili per maturare un processo di consapevolezza, sono
efficaci nel creare un senso di condivisione. La solitudine delle vittime di violenza è
spesso indotta dal proprio aguzzino e difficilmente se ne libera. Nello stesso modo il
senso di autostima è intimamente leso. Una biografia adatta al caso può̀ tentare di
diminuire quella solitudine, di scardinare le profonde ferite inferte dal senso di colpa.
Alle biografie si possono aggiungere le autobiografie. Quest'ultime potrebbero
innescare il desiderio di queste donne di scrivere. E anche la scrittura può ̀ essere uno
strumento estremamente utile per raggiungere uno stato di benessere. Non è possibile in
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
questa sede approfondire l'argomento, ma esiste ad Anghiari (AR) la Libera università̀
dell'autobiografia di cui potete trovare informazioni in rete e che è diventato uno dei
punti di riferimento su questo argomento in Italia.
I libri utilizzati attraverso la biblioterapia affiancano quindi i processi di
guarigione, determinano maggiore consapevolezza, permettono una condizione di
condivisione, riducendo in questo modo il senso di solitudine. Ma la letteratura può
molto altro. È in grado di indicare punti di vista diversi, offrendo prospettive impensate,
e perciò̀ soluzioni mai ipotizzate. Diventa più chiara la condizione vissuta, e l'esempio
di altre vie d'uscita permette una riflessione profondamente differente.
Il testo che mi appresto a leggere è tratto da Dieci donne di Marcela Serrano.
Questo libro parla di nove donne in cura da una psicologa, che si incontrano per
raccontare ognuna la propria storia. Per ultima, anche le vicende della psicologa stessa
verranno raccontate.
Quello che leggerò è l'epilogo, poche riflessioni della terapeuta che dimostra un
senso di amore professionale mai sfociante in un insano eccesso di coinvolgimento, ma
fornendo calore alle tecniche necessarie.
In questo breve intervento non mi è stato possibile, ovviamente, dare strumenti
specifici per usare i libri nei contesti di cura. Ma se posso dare un consiglio, c'è
senz'altro quello di utilizzare la letteratura come palestra professionale. Le competenze
relazionali ed emotive già in vostro possesso ne usciranno certamente rafforzate. Perché
dove non riesce ad arrivare l'acquisizione delle tecniche, potrebbe giungere un buon
libro.
Schiena dritta, testa eretta, Natasha solleva la tenda della finestra e fissa lo
sguardo sul gruppetto di donne che una per una salgono sul pulmino che è
venuto a prenderle. Il parco al tramonto, malinconico eppure maestoso, è
deserto, i giardinieri sono andati a riposare e gli enormi alberi
incorniciano le nove figure femminili che si stagliano contro al Corgigliera.
Fra poco non ci saranno più̀ .
Le ha salutate, una per una. Le ha abbracciate e sussurrando qualcosa le
ha lasciate andare.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Si ricorda di quando era piccola a Buenos Aires, e la cagna di Rudy aveva
partorito.
Lei passava ore e ore inginocchiata sul pavimento a osservare i cuccioli, e
si stupiva di quanto avessero bisogno gli uni degli altri per sopravvivere.
Forse cercavano il calore: tutti ammucchiati, si raggomitolavano vicini. Un
giorno li prese uno per uno per portarli nella sala dove c'era il caminetto
acceso e li sistemò vicino al fuoco. Non lasciarti prendere dall'entusiasmo,
le disse Rudy quando la trovò sdraiata sul pavimento con tutti i cagnolini
addosso, il valore degli esseri umani sta nella loro capacità di separarsi
dagli altri, di essere indipendenti, di appartenere a se stessi e non al
branco.
Natasha lascia ricadere la tenda. Sono partite. Se le immagina mentre
camminano lontano da lei con un passo più lieve, sotto le stelle: non quelle
che conoscono, ma quelle che stanno nascendo, originate dalla morte delle
altre.
Alla fine, dice fra sé allontanandosi dalla finestra, alla fine tutte noi, in un
modo o nell'altro, abbiamo la stessa storia da raccontare.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Come il club di Giulietta accoglie e risponde alle problematiche sociali…
Giulio Tamassia, Presidente Club Giulietta
Viviana Olivieri, Club di Giulietta
La straordinaria forza e attualità del mito di Romeo e Giulietta si rispecchia nelle
lettere che il Club di Giulietta riceve da tutto il mondo e nelle quali si leggono storie di
vita e d’amore che fanno parte della società odierna. Amori contrastati per differenze
sociali o religiose, relazioni a distanza nella società globalizzata, grandi sentimenti ma
anche storie di abbandono e di violenza.
Attraverso la rivista trimestrale “Il Giornale di Giulietta” i nostri giornalisti,
storici e professionisti trattano temi di cultura, filosofia e di attualità sociale. D’altronde
sia la letteratura che la filosofia sono da sempre specchio della società e della realtà,
così come le più grandi opere del passato conservano una straordinaria attualità.
L’attività preponderante del Club di Giulietta è svolta dalle segretarie di
Giulietta che accolgono attraverso le lettere e le numerose e-mail tutti i problemi e i
desideri che le persone (sia giovani che adulti) inviano a Giulietta per avere un
consiglio. Le lettere sono indirizzate a Giulietta, alcune anche a Romeo, e pongono
quesiti che quotidianamente, sia per amore che per altre problematiche di salute, lavoro
ed emozioni, tutti noi viviamo.
Per quanto riguarda il tema della violenza di seguito sono riportate due lettere che il
club ha ricevuto in questi ultimi mesi. Sono testi molto intimi e toccanti che raccontano
di ferite e paure ma anche di amore e salvezza. (Nomi e luoghi sono stati cambiati per
rispetto della privacy).
Cara Giulietta, caro Romeo,
Mi chiamo Elisa, ho 22 anni e mi sono appena separata dal mio
fidanzato, dal mio grande amore. Ho dovuto, anche se io l’ho amato
infinitamente.
Una parte di me lo ama ancora e lo amerà per sempre. Però io amo
anche me stessa, la mia famiglia e i miei amici. E la vita, che a voi
non fu consentito di vivere e che Dio ci ha regalato con tutto quello
che la rende degna di essere vissuta.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Forse non eravamo fatti l’uno per l’altra. L’ho reso furioso, con i
miei gesti, i miei sguardi, le parole. Fino a che lui è scoppiato …
Non voleva, lo so, ha lottato contro se stesso, ma non è riuscito a
fermarsi. Lui ha un’anima pura, ma la sua zona d’ombra fu più
forte. Ha detto che io l’ho torturato, con il mio comportamento l’ho
ferito, come ha fatto lui quando … quando mi ha colpito. E’ così
incredibilmente difficile scrivere questo, dire la verità con le parole,
e tuttavia mi aiuta, essere onesta per una volta.
Mi sono liberata di lui, della paura di tornare a casa,
dall’umiliazione, dal dolore… ma anche dal nostro amore. Tutte le
volte che guardo la luna sono costretta a pensare a lui, ai bei
momenti, che poi erano diventati sempre meno; e poi viene l’ombra,
che portava con sé l’odio in lui e che ancora si posa pesante sul mio
cuore.
Io vi prego, datemi un consiglio, nascondete la ferita con il vostro
amore, fate che si cicatrizzi. Io lo volevo sposare, volevo dei figli,
ma ora è tutto finito. Volevo riuscirci ma non ho avuto la forza di
superare questa prova.
Non sono riuscita a trattenere il suo odio ed ora lui non mi lascia
andare, perché dice che senza di me non può vivere. Forse potete
scrivergli qualche parola di consolazione e convincerlo a lasciarmi
libera. Nessuna minaccia, solo un po’ di conforto … Con la ragione
l’amore non si lascia comprendere, questo voi lo sapete più di ogni
altro e voi siete gli unici di cui io ho fiducia.
Grazie per il vostro tempo e aspetto una risposta.
Con amore, Elisa
Cara Giulietta, care Segretarie di Giulietta,
è da tempo che vi volevo scrivere, la mia è una lunga storia. Mi
chiamo Sara, ho 34 anni e vivo in Belgio. Fra pochi giorni mi
sposerò con Stefan. Lui è talmente meraviglioso che non posso
nemmeno credere alla fortuna di averlo al mio fianco. A Stefan devo
la vita. Se non lo avessi incontrato alcuni anni fa io forse non sarei
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
più qui oggi. Prima di incontrarlo vivevo con il mio ex fidanzato, a
causa del quale la mia vita consisteva in paura e violenza. Non
avevo più nessun contatto con il mondo di fuori, nemmeno con la
mia famiglia perché lui mi aveva isolata e mi manipolava
completamente.
Quando conobbi Stefan lui si rese conto subito di quello che stavo
vivendo e mi aiutò a separarmi dal mio ex. Ho iniziato così una
nuova vita, in una città tutta nuova. Qui ho imparato a rimettermi in
piedi e ad essere di nuovo indipendente. Anche se quello che ho
passato è successo tanti anni fa, ci penso ancora spesso e non lo
potrò mai dimenticare. Ogni giorno, ogni minuto che passo con
Stefan, mi accorgo di quanto fosse terribile la mia vita di prima e mi
accorgo di quanto sono fortunata ad avere incontrato il mio
salvatore.
Nonostante tutto questo amore, io però ho sempre paura, paura di
non essere capace di far durare questa relazione, paura di
svegliarmi un giorno e di rendermi conto che la storia con Stefan è
solo un sogno. Vorrei solo poter scacciare tutti i fantasmi del
passato.
Stefan ti amo.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Conclusione
Viviana Olivieri, Formatore
Servizio Sviluppo Professionalità Innovazione,
Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Lascio a Diskinson le ultime frasi di questo volume, con questa breve poesia.
Penso che uno spirito appassito
debba essere il tesoro più tremendo da possedere,
così come uno spirito sempre in boccio
debba essere il più dolce
Emily Diskinson
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Formazione continua sulla personalizzazione delle cure al paziente.
Verona, maggio 2015
Editor: Gabriele Romano, Viviana Olivieri, Servizio Sviluppo Professionalità
Innovazione
© Copyright Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
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