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Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone
La Quadreria - Giovanni Francesco Guerrieri Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone Andrea Emiliani Le notizie della prima giovinezza di Giovanni Francesco Guerrieri, nato a Fossombrone nel 1589, sono proprio tutte nelle mani e nelle parole del canonico Vernarecci che fu il primo e, peraltro, il solo a potersi avvalere di un "diario" del pittore, oggi perduto, sembra, irreparabilmente. Più tardi, tra il 1615 ed il 1618, ci assisteranno alcuni documenti abbastanza trasparenti, i soli dai quali può emergere qualche informazione: quali colori prediligesse il pittore, se usava modelli, che tempi di lavoro teneva. Ma i primi anni, quelli di un adolescente che arriva a Roma nel 1606, di quale guida si servono, quale vita consentono: come entra un ragazzo nel vasto giro delle botteghe? Possiamo essere sicuri soltanto del fatto che il Guerrieri, nelle sue prime opere, appare subito legato ad un naturalismo riformato di innegabile marcatura caravaggesca, con un’immediata tendenza alla narrazione, alla scena della riforma. Consistenti, ma non facili a riconoscere, sono i punti di appoggio del Guerrieri a Roma. Certo, in lui tornano a far gioco - e non si sono mai spenti, in fondo - quei modelli senza tempo che da Pulzone a Valeriano, e perfino dal vecchio Muziano, o dal Cavalier d'Arpino, hanno portato fino alla luce dell'attualità un seme mesto ma dignitoso, dell'antica protesta di Controriforma. E non tanto di quella ufficiale, decollata nel 1563 e accompagnata dal grosso lavoro programmatico e trattatistico che sappiamo, ma piuttosto dell'altra, più antica, nata in seno ad una ecclesia semper reformanda che si muoveva fin dagli anni della Rinascenza. A un giovane che giungesse dalla provincia del Metauro, figlio di una famiglia di buon ceto amministrativo, il viaggio a Roma era come quello di chi si trascinasse sulle spalle un'enorme memoria storica e anche affettiva, fatta di chiese inerpicate sui monti e di conventi fitti di celle abitate da dedizioni esasperate, di corridoi popolati da santi e da martiri di mite devozione ma anche di efferata crudeltà visiva. Un gigantesco archivio della passione e della pietà, nel quale la Chiesa vinceva non solo con il sacrificio, ma anche per la minuziosa descrizione tassonomica, enciclopedica dei mali, delle trasgressioni colpevoli e delle punizioni inevitabili. Nessuno scrittore tentò mai di opporre la semplice vita, la pura legge naturale, a questa imponente massa di prevenzioni e di ammonizioni, di limitazioni paralizzanti, di castrazioni didascaliche. Nato dall'immagine questo tratteggio doveva essere sconfitto dalla pittura. Il naturalismo caravaggesco è il solo antidoto, esploso addosso e contro questo imponente spessore moraleggiante. Ogni evocazione dei suoi atteggiamenti salvifici, ammesso che si possano così identificare, va prima di tutto a sgomberare il campo visivo da quelle forme inerti e fantomatiche, malinconiche e concettuali, nelle quali la metafora spirituale, l'allegoria beatificante, la trasposizione del mondo dell'occhio in un ossessivo ripiegamento di verità, avevano preso posto, dilagando e coprendo ogni spazio visivo. Visto dalle campagne, e specialmente da quell'obiettivo interessato alla costruzione di una comunità sociale qual era la parrocchia rurale, come del resto la parrocchia urbana, la necessità urgente era quella di rimuovere i detriti dell'intellettualismo manieristico, anche con le sue bellezze mentali, i gioielli della sapienza e le tastiere dell'organizzazione dell'arte retorica, e quei volti muffi, spenti, pallidi, con i quali la nuova comunità parrocchiale continuava a misurarsi, ma disarmata, priva di quel parallelo, ovvero paragone che era così necessario alla biblia pauperum; la ricerca della quel parallelo, ovvero paragone che era così necessario alla biblia pauperum; la ricerca della certezza del mondo. Così, il naturalismo d'avvio e di adolescenza del Guerrieri è subito di quel carattere che deve trovare mediatori forti, dotati, in grado di dare soluzioni a molti problemi in Roma e già intorno al 1607-8. A quel punto, il Guerrieri aveva sedici, diciassette anni soltanto, e'l'impatto con una città che il giubileo del 1600 aveva nominata capitale d'ogni fortuna, commessa, bottega o gruppo di lavoro, dovrebbe essere stato guidato da qualche individualità o atelier di cui in realtà nulla sappiamo. A quelle date, fatta ovvia eccezione per il temibile Caravaggio, del resto già bandito dalla città dopo l'uccisione del Tomasoni, le emozioni cui riservarsi oscillano tra quelle giuste, di prima fila, come quelle indirizzate alle opere del Gentileschi, del Borgianni, o del Saraceni e per certi versi di Mao Salini; oppure si svagano tra le combinazioni non sempre corrette, ma certo seducenti, del Manfredi, del Baglione. Per certi altri aspetti, era anche attiva quella specie di archeologia cattolica che, a partire dalla scoperta del corpo di Santa Cecilia e dalla statua famosa di Maderno nella chiesa della Santa, in Trastevere, aveva creato attorno alle proposte di Cesare Baronio un vero e proprio parco di attitudini naturalistiche, ma belle ed emendate, preludio a quell'idealismo moderno che Guido, da un lato, e il Domenichino, dall'altro, porteranno a compimento nell'età aldobrandiniana. Anche questa era una verità attenta, solo che non sfociava in quella nuova, ribaltante anche se talora rozza, capacità di umanesimo. Il piacere per il nostro giovane pittore sarà insomma quello di guardare alla natura, e di saper dipingere bene le cose dal naturale, ma raccontandolo. A dire la verità, il Guerrieri era giunto a Roma con una piccola carriera alle spalle. I dati acquisiti dal Vernarecci e verificati dalla Cellini, lasciano conoscere per certa una sua attività appena adolescente. Essa è testimoniata da un'opera, a tutt'oggi conservata, la Vergine col Bambino di Montebaroccio, che è ancora là, in quella Residenza comunale che, nei primi anni del Seicento (1602), ebbe a podestà proprio Ludovico, il padre di Giovan Francesco. Non si tratta, certo, di un gran quadro. È piuttosto un segnale, organizzato su modelli grosso modo alla Samacchini, che si direbbe eseguito con un artigianato inesperto ma virtuoso, derivato forse da un'incisione di Agostino. Ma certe attenzioni particolari, soprattutto certe notazioni di paesaggio e poi quell'aria trasparente che avvolge le figure, rassicurano almeno su di una schietta volontà di coltivare ancora, caparbiamente, quella vocazione acerba. Il paesaggio affonda la sua forma in un tramando che dovremmo chiamare "adriatico" e che lontano enuclea anche Lorenzo Lotto e la sua mite avversione al classicismo. Il ritratto, così, si apre in modo curiosamente moderno. Sulla pista tracciata dal diario autografo, possediamo l'immatura opera prima di un artista ancora fanciullo. Si tratta di un evento piuttosto raro, salvato a noi da una condizione speciale e che ci esibisce un'opera germinale non assoggettata in alcun modo ai filtri della scuola o del magistero. C'è di più, Guerrieri non ha maestri, e qui si vede. Non ne cita alcuno nel suo diario ed è il canonico Vernarecci, giustamente in caccia di alberi genealogici in mezzo a tanta oscurità di origini, che se ne duole. Dopo questo esercizio minuto ed anche un po' pasticciato nel tocco, dobbiamo dunque immaginare che il maestro, o i maestri, il giovanissimo fossombronese se li vada a cercare a Roma, addirittura nel 1606, a diciassette anni. Poiché ci mancano i pezzi della scacchiera, almeno fino al 1611, molte cose devono di necessità essere ricomposte sull'induzione, e per giunta camminando all'indietro. Ed è ciò che faremo, quando dovremo finalmente affrontare le prime tele, eseguite - come la Maddalena penitente - nel 1611, e poi le altre successive del 1612 e del 1614, opere cresciute e che vengono sempre più scoprendosi ricche di afflussi culturali. La ricerca di un punto solido sul terreno di partenza è ancora oggi insoddisfatta, anche perché questi sono anni che a Roma contano molto, frequentati dalla prima generazione dei caravaggeschi di avanguardia, i cui eventuali contatti avrebbero dovuto lasciare il segno. Di uno tra essi, e cioè di Orazio Gentileschi, l'intera vita poetica del Guerrieri sarebbe rimasta segnata, anche se la perfezione di quella pittura di profilo altissimo e degno assai più di una corte che d'una strada romana, fu poi per lui un'aspirazione, una tensione, ma non quella mondana, perfino terrestre rivelazione della natura narrata, della natura dipinta per gli altari delle chiese terrestre rivelazione della natura narrata, della natura dipinta per gli altari delle chiese parrocchiali e destinata alla comprensione della gente. Infatti, allorché nel 1615 e per tre anni, il Guerrieri affrontò la commessa forse più promettente della sua vita, quella delle decorazioni in Palazzo Borghese a Campo Marzio, fu proprio il Gentileschi a ritornare alla sua mente visiva per soddisfare quel bisogno immediato di una specie di parco archeologico delle antiche metafore poetiche e delle allegorie più vetuste, ma anche "belle". Poi, l'improvviso ritorno a casa, sul Metauro, è uno stacco senza rirorno verso la vita e il lavoro. Verso un genere ed un metodo di lavoro che hanno in quegli anni un solo obiettivo, e cioè quello di assicurare - all'interno di quel modello sociale addensato attorno al rapporto città-campagna - una verità particolare, una verosomiglianza che altrove, e cioè a Roma e a Bologna, avevano investito tutto l'orizzonte figurativo. Ciò secondo metodi e modelli diversi, intensamente differenziati, per molti aspetti autonomi. La verità dei naturalisti romani, pur scavando anche nel profondo della tradizione, era quella scoperta da un lampo, da un bagliore che non concedeva troppo tempo alle meditazioni: era la cronaca, spesso la cronaca nera, di una città di grandi contrasti, abitata da artisti di mezzo mondo, centro di avanguardia di un'arte nella cui immagine perfino il potere più spregiudicato, come quello dei grandi pontefici o dei cardinali nipoti, si lasciava coinvolgere. Qui, e non altrove, è nata la società arristica moderna. Da queste strade e da questi atelier, fitti di artisti senza troppi mezzi e anche senza troppi scrupoli, s'è mossa una specie di libertà che puntava direttamente sulla drammatica scelta della ricerca della certezza, piuttosto che su quella di una verità teologica. E cerrezza, in pittura, vuoi dire sperimentazione, tanto più resa possibile se - connessa ad alcuni grandi ordini religiosi - il dibattito degli artisti affrontava la verità del mondo come la sola dove lo sguardo riusciva a cogliere fisionomie umane e dolcezze amorose, una drammatica sequenza di vita e la bellezza della santità lontana, le piaghe e l'esaltazione. Quella dei bolognesi, la verità cioè lombarda, nutriva una finalità analoga ma raggiunta nello specchio di una natura circostante con la quale l'artista si confrontava, quasi che il mondo fosse appena tornato a nascere: e che tutto, dunque, di quel rapporto tra uomo e natura, dovesse essere ripercorso, narrato, misurato. Nell'arte carraccesca, la natura si esalta e si nutre di quella narrazione luminosa che la esplora e che, nel contempo, la fa rifluire in seno alla storia, sì che essa sembri tornare tra noi dopo una riforma, il ri-formarsi stesso dell'equilibrio che si ritenne aver abitato il grande Rinascimento. Il Guerrieri, a Roma, non incontrò quasi di certo la verità lombarda, anche per essere il vecchio e malato Annibale affaccendato ancora per poco attorno alle questioni del classicismo e del paesaggio ideale. Lo vedremo piuttosto impegnato a guardare più tardi all'opera del Domenichino, proprio perché in essa la fissazione della verità è quasi archeologica, statuina, impassibile, e dunque tale da agevolare il compito di un pittore giovane che deve ostinatamente "fare la realtà", incontrarla per poterla narrare sullo stesso piano di quella degli uomini. Per questo, la natura del pittore di Fossombrone non sarà mai né commossa, né coinvolgente. Si dovrebbe dire che non avrà neppure le stigmate della quotidianità, quella che a Bologna era la scoperta nuova, il banco di prova della luce e dell'ombra, cioè degli eventi che fanno sicura la presenza degli uomini e che dà loro la certezza di esistere. Così, anche per tutti gli altri eventi che la natura ci propone appunto nel teatro della quotidianità: anzitutto, l'acqua nelle sue manifestazioni, l'acqua nella terra, l'acqua che bagna e che imperla le foglie. Nasce dal fluire di questi eventi la dimensione del tempo, il suo scorrere ed il succedersi delle ore nella giornata che - grazie al sole - sta camminando nel cielo, e allunga le nostre ombre, o macchia di verde e di bruciato ogni paesaggio. In quale misura la Riforma cattolica accompagna e accresce il cammino di un'identità che, per le vie dell'antropologia culturale e anche del progresso scientifico, vediamo così d'improvviso, proprio intorno al 1580, per mano di Federico Barocci da un lato, e per mano dei Carracci dall'altro, precisarsi tanto riconoscibile e umana: nel momento in cui i fantasmi intellettualistici cadono di colpo tra i ferrivecchi del manierismo, della metafora simbolistica, delle distillazioni mentali? Sono gli anni in cui la parola poetica stessa, pur con diversa fatica, delle distillazioni mentali? Sono gli anni in cui la parola poetica stessa, pur con diversa fatica, recupera la sua più diretta realtà come nella poesia di Tasso; nei quali anche il cammino della medicina che riassume in se stessa il progresso della scienza, esige di conoscere la realtà guardando le cose, specchiandosi nell'organizzazione della natura. Il momento della grande scelta della Chiesa è quello che elegge il Vangelo alla massima capacità figurativa e narrativa, nei confronti del Vecchio Testamento. La Rivelazione è letteralmente una didattica del modo e del luogo, dell'uomo e della natura. Si diffida della Bibbia, ma poi alla fine si riconosce che in quest'ultima c'è spazio per un'enorme fantasia storica, ricca anche di contraddizioni e di trasgressioni. Il Vangelo è invece sceneggiatura totale, assoluta, imprescindibile. Nelle sue parole sono le ore, i luoghi, le circostanze. Nella fedeltà alle sue parole c'è ogni possibilità e anzi necessità di natura. L'artista discende dallo scanno teologico ed estetologico, e affronta il modello dell'uomo e il luogo della stanza, della strada e del paese. Qual è stato il grande momento, alle soglie della società moderna, nel quale la Chiesa ha nuovamente deciso di servirsi dell'immagine per condurre una strategia culturale e di fede? Le migliaia, le centinaia di migliaia di dipinti - per tenerci solo all'icona semplice - che irrompono in poco più di due secoli nell'immenso teatro delle chiese italiane, da quelle metropolitane a quelle della periferia parrocchiale più umile, che significato hanno e a quale necessità, bisogno, imperio obbediscono? Qui potevano incontrarsi le diverse concezioni di un solo recupero di storia, e cioè di natura, le due scuole e le due città impegnate alla riforma naturalistica. Certo, quella che il Guerrieri incontrava per le strade di una città fatta di orti, di vigne, di ville e di enormi chiese, aveva in se stessa il seme di una violenza che era pari al rumore destato dal gesto di chi per primo l'aveva svegliata, e cioè Caravaggio. Qui il Guerrieri ha cercato il suo maestro, ha cercato di individuare i suoi modelli, di organizzare le sue riflessioni. Su questo teatro dove vanno e restano artisti d'ogni razza e cultura, i flussi delle diverse tendenze sono continui, le sovrapposizioni inevitabili. Sulla verità di una scoperta perfino semplice nella brutalità esistenziale, qual è quella di Caravaggio, si affannano anche le mediocrità, le contaminazioni e le bigiotterie della realtà, del suo dramma d'ogni ora. Noi non sapremo mai, credo, chi sia stato il maestro di Giovan Francesco Guerrieri, e neppure se esso sia stato uno solo, al di là del nobile obiettivo del Gentileschi. Oggi siamo in grado di conoscere molte opere sue, quasi il suo intero catalogo di attività. E tuttavia perdura nella sua struttura di formazione non già il senso di un'imperfezione artigiana, ché anzi, al contrario, egli si porta velocemente verso le quote della condotta alta. Ciò che è difficile da comprendere è invece la sua capacità di lavorare a più livelli, secondo profili di produzione quasi alternativi: prova di un carattere e di una cultura che conosce bene il fine dell'arte, la strumentalità anche del prodotto, l'efficacia della sua presenza. Solo a guardarsi attorno, magari accasato in qualche convento di minori tra i tanti della patria marchigiana, il ragazzo poteva scorgere al lavoro, tra vicoli e osterie, i protagonisti della svolta caravaggesca. Tumultuosa, scomposta genìa d'artisti qual era quella di Salini e dello Spadarino, di Orazio Gentileschi e del Borgianni, fino al Baglione e al Pensionante del Saraceni: gente che entrava sulla scena dei processi del Merisi con l'aria brusca e spiccia di chi ha da poco litigato e però deve campare l'arte e anche la vita. Che cerca di aggiustarsi un poco le maniche prima di parlare di offese e di prevaricazioni, di madonne lauretane in stagno anziché in argento, di carciofi tirati in faccia all'oste del Moro, e insomma, tutta la scompigliata arsura, la dannata voglia di vivere e la feroce povertà di questi pittori e artisti che vanno e vengono per Roma, e non gli si può dar regola. Accanto a costoro, con meno ardire o grazia di costoro, Guerrieri seguitò a studiare, forse presso qualche artigiano: e a metter giù quel suo tratto pittorico un po' grosso e un po' andante, dialettale talora, e se non vile di profilo, certo lontano dall'abilità versatile della bella pittura italiana. Di tanta pittura che, sull'onda della vita delle forme, colma ogni vano della chiesa, si dilata dal quadro all'ancona, dal ricciolo scolpito ai candelabri, fino all'applauso. Il corso del pennello del Guerrieri è un misto tra la trascuratezza ridondante di uno stile povero e la deterrninazione di dire le cose in modo diretto. Le prime cose dell'arte. uno stile povero e la deterrninazione di dire le cose in modo diretto. Le prime cose dell'arte. L'artista marchigiano sa bene, peraltro, che i suoi immediati committenti sono e saranno soprattutto preti e frati, monaci degli ordini riformati, cappuccini e francescani, quelli stessi che aveva lasciato a questuare per le strade di Fossombrone e a pregare nelle chiese della città alta e in quelle nuove della bassa, fino all'Annunziata, costruita nell'ombra sotto il Petrano, di là dal Metauro. Lungo il fiume che risale a Fermignano, oppure giù dal Furlo, dalla Strega, scendono notizie nuove, una successione appena scandita di brevi, confortanti eventi economici, di rafforzamento - nonostante tutto - di quella società che scongela il clima neofeudale così duro degli ultimi anni di Guidubaldo della Rovere, il granduca del martirio di Urbino, con prudenza condotto poi dall'ultimo dei rovereschi, l'infelice Francesco Maria II. Le strade sconnesse che dagli Appennini portano le novità romane, a dire il vero, escludono sempre più l'alto Montefeltro, bloccato nel confronto, a questo punto immobile, con la Toscana. Anche sotto il profilo culturale, l'omogeneità del sistema feltresco più antico, compreso tra il Foglia e il Metauro, con Urbino in alto, capitale ormai decentrata e lontana, sembra attanagliato nell'ultima società cortigiana, quella solitaria e squisita colmata di ogni sapienza spirituale e artistica dalle mani malate di Federico Barocci. La notte dell'ultimo pittore urbinate è un lucido, nero velluto che si distende da San Giovanni, copre come una coltre trasparente Valbona e s'alza contro la mole immensa e vuota, invasa dal vento, del Palazzo Ducale. È una tenebra insonne sospesa sull'altissimo cielo del Montefeltro, prima che Venere accenda, proprio sopra le torri del Laurana, l'attesa dell'alba, la pallida luce che bagna il Catria una volta ancora; come quella notte, che parve l'ultima del mondo cortese, spentasi tra le mani di Baldasar Castiglione, e che chiudeva per sempre le veglie del Cortegiano. Giù, nelle vallate traversate da traffici, dove l'economia dell'agricoltura è meno povera di quella tutta greppi e scoscendimenti che s'aggrappa in alto, giungono viandanti, si muovono novità e voci si incrociano. La strada di Fabriano discende dall'Umbria e raggiunge il mare a Senigallia. Le fiere e i mercati, le franchigie papali, i pescatori con le loro barche, dopo Lepanto e la fine del pericolo turco, il porto di Ancona con i suoi mercati di Schiavonìa, hanno mutato il volto rudemente montano della Signoria. Gli scambi transitano per la carraia di costa che sorpassa le Siligate, in alto, si stringe più sotto per schiacciarsi contro il San Bartolo, in procinto di scavalcare il corno del Conero che frana sul mare. Tutto entra in un paesaggio che abbandona le città di altura, ricche di vescovi e di finestre che sbalzano lo sguardo e brillano di vetri fino all'acqua azzurra che sfonda il mattino, laggiù, attraversato dalla Santa Casa di Loreto in un fiato solo, proprio per quell'aerea qualità che è di tutte le Marche. I principati dell'interno innestano fronde vuote sugli alberi di una genealogia di doppia e tripla nominanza e nelle vaste sale permane l'eco di un lusso ecclesiastico e un po' pavonazzo, eco di Roma che già un grande marchigiano, Sisto V, aveva condotto a pienezza intellettuale e di potente riassetto architettonico e urbanistico. Sulla direttrice tracciata da questa economia più fervida, e forse soltanto meno indolente, come su un paesaggio meno complesso di quello imposto dalle strade di cresta, nel maggio del 1598 sfila il corteo di un papa, Clemente VIII Aldobrandini. Deciso a ripetere, a fine secolo, quel viaggio nel nord padano già intrapreso da Leone X, che aveva inteso dare definitiva conferma alla conquista di Bologna dopo la cacciata dei Bentivoglio e, insieme, incontrare Francesco I di Francia. Raffaello stesso potrebbe aver accompagnato il corteggio, tuttavia preceduto di qualche mese da quell'Estasi di Santa Cecilia che, dall'altare della bella cappella dell'Arrigucci, in San Giovanni in Monte, faceva ora risuonare il metro severo del classicismo armato, del potere di un edonismo cattolico e neoplatonico avviato a invadere la pianura padana. Questo era il nemico, il vero nemico da opporre all'esoterismo dei pittori bolognesi, al loro sostanziale rifiuto al classicismo: altro che il braccio alzato nella minaccia, piuttosto che nella benedizione, che, secondo Vasari, Giulio II aveva raccomandato a Michelangiolo, e che il popolo nel 1611 aveva sbalzato giù dal portale petroniano con distruttivo furore. Il lungo viaggio di Clemente VIII, che si connota dell'antica, e romana, forma del "possesso", della presa di potere pacificata e definitiva, muove da Roma e infila archi trionfali e serti di gloria, accogliendo benevolmente prosternazioni di gentiluomini. Si coprono di fiori le strade di Narni e di Spoleto, di Foligno e di Ancona. Folle festanti e fanfare di trombetti, magistrati avvolti in zimarre un po' tarlate, accademici senati di pronta devozione, seguono centinaia e centinaia di ecclesiastici e monaci, di suore e di preti usciti come formiche dai seminari e dalle sacrestie delle infinite chiese e pievi e parrocchie e oratori delle Marche. Francesco Maria II della Rovere annota nel suo diario che era di maggio e, anzi, il primo del mese. E il giorno avanti era passata la mula bianca che portava il Santissimo, seguita dal temibile cardinal nipote Pietro, proprio colui che doveva preparare l'ingresso dell'armata in una Ferrara ormai sconfitta da Lucrezia d'Este, ex moglie del duca d'Urbino. Dalla cattedrale di Senigallia, appunta meticolosamente Francesco Maria, il papa si avvia verso Fano e non vuole essere scortato che per mezzo miglio. Da Pesaro, il corteo ripartirà verso il nord soltanto il giorno 4 e il granduca potrà finalmente tornare a Casteldurante, dove i daini incominciavano a figliare, le cicale a cantare e qualcuno doveva fargli vedere la "lepre biancaccia" presa nel Montefeltro. Il diario dell'ultimo signore di Urbino riflette mirabilmente la vita del luogo in una sequenza appena sensibile: le saette dell'estate, la prima neve sul Montelirone, la nascita dei puledri. In questa recuperata quiete s'inscrive in termini quasi inavvertiti, ma di netti contorni, un paesaggio intero. Che è il paesaggio di Giovan Francesco Guerrieri, il pittore di Fossombrone. Il ricordo del "possesso" di Clemente VIII che sale verso Ferrara non è altro che l'ultimo avviso di una devoluzione annunciata e, insieme, di tempi in trasformazione, di traumi che incidono sull'immaginario sociale d'una comunità chiusa qual è quella urbinate; che, verosimilmente, si fanno evento e notizia assai meno risentiti non appena superate le mura del vecchio Comandino e discesa l'erta fino allo stagno della Borzaga. È assai difficile, si è detto, reperire nei luoghi della nascita e della prima educazione del Guerrieri le novità di cultura e la garanzia di qualche insegnamento almeno artigianale, come certifica d'altronde la lacunosità della quale, da Antaldo Antaldi al canonico Vernarecci, tutta la piccola storiografia feltresca si viene lamentando. La scelta del giovanetto pittore, di andare direttamente a Roma, appare la sola opportuna e commendabile. Troppo lontane di qui, e forse anche troppo sapienti, le vistose equazioni di arte, di natura e di storia che reggevano la pur notissima riforma dei Carracci. Da queste parti non rimaneva che alimentarsi con i succhi quasi stremati nell'impeto soave di una diversa uguaglianza, di natura e di anima, quale si distillava nelle stanze del Barocci, in via San Giovanni a Urbino. Troppo cortese, troppo eletta era quella lingua che pure investiva il paesaggio della prima autobiografia, nel segno della passione di Cristo. Il temperamento di un giovane, nato appena nell'89, sollecitava anche la ricerca di un confronto con la realtà esterna, con la durezza della vita. La testimonianza dello stesso Guerrieri data il viaggio a Roma già nel 1606. Alle spalle, il figlio del podestà Ludovico abbandonava quella Madonna col Bambino di Montebaroccio che - dipinta a soli 13 anni - si legge insieme come un exploit e un compito di scuola, entrambi basati su un manierismo di lunga lena. Nessun elemento preciso ci illumina sulla decisione, così precoce e risoluta, di andare a Roma, di affrontare il viaggio della vita. A volte, più che una necessità, un'avventura di questo genere può lasciar più facilmente trasparire il rifiuto di seguitare l'esperienza locale per chi, avendo ricevuto un'educazione borghese e intellettuale, non poteva passare l'adolescenza intera in un mestiere ancora una volta vile e "meccanico". È probabile infine che un'adesione forte qual era certo quella del grande viaggio potesse essere consentita, se non addirittura sollecitata, dai componenti di qualche comunità di religiosi. Ricorre per tutta la vita, nelle tele del Guerrieri, l'ordine cappuccino, la severità concisa della regola, il volto impenetrabile di questi santi uomini che mendicano la vita. Il fatto che la grande copia dalla Deposizione di Cristo, di Caravaggio, che stava in Santa Maria in Vallicella, sia arrivata fino alla milanese chiesa di San Marco a Milano direttamente da San Francesco di Sassoferrato, può essere soltanto una illazione. La sua qualità è buona, da San Francesco di Sassoferrato, può essere soltanto una illazione. La sua qualità è buona, ordinata. Il quadro è scelto con ogni intenzione tra quelli che possono, in tanta mestizia, narrare diverse storie. Perché non pensare che il giovane Guerrieri, giunto ai vent'anni nel 1609, non abbia dato di se stesso un tirocinio di questa natura ai concittadini? In ogni modo, qualcosa di questo genere potrebbe essere certo accaduto, aver procacciato un modo di accostamento al modello esecutivo, alla sua pratica e mai metaforica qualità di superficie. Il pennello ha curato in maniera adeguata, come è ovvio, la tessitura cromatica. Non succederà più, se non in casi eccezionali: l'epitelio pittorico del fossombronese è molto spesso ingrato, poche altre invece cauto e attentissimo. Avversata poi dal tempo, dalla trascuratezza di sacrestani incapaci, sotto volte scrostate oppure in umide sale capitolari, la sua tavolozza tanto disadorna e impolverata, nonostante i restauri, si presenta oggi, ancora e nonostante tutto, come dotata di una volontà immediata, di una restituzione o resa molto realistica. E anche in questa presa diretta della materia, sta uno dei momenti forti della scabra volontà espressiva del Guerrieri. Ma poi, a parte l'eventualità puramente sperimentale di attribuirgli la copia sentinate da Caravaggio, furono necessari altri mezzi, quasi strumenti per una simulazione culturale, per avviare la conoscenza del giovane lungo l'itinerario di un catalogo che non si sapeva come far cominciare. Così, il recupero di questi mesi nebulosi mostrò di avvantaggiarsi non poco della vecchia attribuzione-guida addossata alla Madonna col Bambino di Palazzo Pitti, e avanzata da Federico Zeri già nel 1954: un'ipotesi costruttiva che rinviava, inoltre, seguendo una ricostruzione ad sensum, agli anni 1608-10 grazie anche alla precedente apparizione dell'altra Madonna col Bambino, quella nella Galleria Spada. Ambedue le assegnazioni sono state cancellate, oggi, nel corso del dibattito restitutivo apertosi attorno alla giovinezza del Guerrieri, e anche a riguardo della figlia di Orazio, Artemisia Gentileschi. Ritornato nell'area romana dopo il Pulzone il dipinto della Spada, troppo raffinato comunque per servire alla faticata educazione del Guerrieri; ancora una volta riportata ad Artemisia, cui già apparteneva, la Madonna allogata a Firenze. Nulla resta nella nuda stanza di convento che possiamo immaginare essere stata la dimora romana del Guerrieri, forse divisa con qualche compagno di avventura, comunque da tempo vicina alla bottega di Orazio Gentileschi. Il punto d'arrivo di questa affermazione di contiguità e forse anche di alunnato è pur sempre quella Maddalena penitente che, dalla vecchia proprietà fossombronese nella quale la trovammo nei primi anni Cinquanta, s'è ora spostata sul mercato romano. Si tratta di quella Maddalena, per intenderci, che porta la firma insieme all'orgogliosa datazione di un pittore appena ventiduenne: e che, nel 1611, è davvero utile a stabilire un ante quem per il capolavoro del Gentileschi che sta nella chiesetta di Fabriano dedicata alla Santa. Potremmo spingerci ancor più avanti di quanto non ci permettemmo nella prima monografia dedicata al Guerrieri, del tutto sperimentale e pubblicata nel 1957. E immaginare che il giovane avesse potuto conoscere almeno la bellissima Circoncisione del Lomi nella chiesa del Gesù di Ancona, databile al 1605; come pure quell'accigliato San Michele Arcangelo di San Salvatore a Farnese, di poco successivo. E, ancora, che ne avesse amato subito quella specie di contaminazione, che in Orazio, però, connetteva senza conflitto alcuno, diafana e nitida, tradizione manierista e verbo caravaggesco. Come se a un prodotto di Controriforma venisse sottratta ogni valenza simbolica, restando la forma in una impasse tutta trasparenza e nobiltà; e il nuovo naturalismo vi entrasse, al contrario, con la precisione derivata da un modello nordico, lenticolare, presago in questo del destino ormai prossimo dell'artista, esule prima nelle Marche, poi a Torino e, infine, in Francia e in Inghilterra. È una Crocifissione il quadro che, a immediata e conseguente distanza, ci troviamo di fronte, purtroppo frammentaria ma ancora molto potente anche in queste condizioni. Stava nella chiesa di San Rocco in Cittadella, a Fossombrone alta, e purtroppo già alla fine del secolo scorso era praticamente illeggibile. Ne resta un brandello, nella Pinacoteca Civica, ma in esso aleggiano, così come si esprime nel volto del Santo, un carattere di diretta umanità ed un decoro del naturale tanto fieramente enunciati da saper evocare fin da ora tutti gli indirizzi che, volta a volta, assumerà quel naturalismo morale e quello strenuo dramma etico, che hanno guidato la prima vocazione al naturalismo terrestre, al temperamento "sivigliano" - hanno guidato la prima vocazione al naturalismo terrestre, al temperamento "sivigliano" direbbe oggi ancora Francesco Arcangeli - di questa grande provincia che si distende tra il Metauro e il Savio. Quanto dire alle porte di quell'Italia che, collocata sulle soglie dell'antico e mitico Rubicone, si divideva dalla pianura "lombarda" e rifluiva su Roma, attraverso le grandi strade consolari romane e seguendo i flussi culturali più tipici del nuovo e vecchio stato, quello delle Legazioni. Qui si incontrarono le due diverse figure del naturalismo secentesco, quella che sprofonda nel lume di cantina e che ha un'origine romana e caravaggesca, e l'altra che discende da Bologna lungo la via Emilia, e che è anche vocazione accademica, oltre che di misurata, riformata verità naturale. Rimini stessa è città di frontiera, toccata assai presto nel secolo XVII da opere impegnative come quelle del Mastelletta, del Massari, del Guercino, ma anche del Pomarancio; oppure, nella vicinissima Cesena, del Saraceni. Rimini è, in questo senso, la prima tra le città costiere (seguono Pesaro, Fano e anche Senigallia) che propone una specie di zona franca tra le due culture, capace di ospitare incontri e suggestioni incrociate a più livelli, le quali, per quel che qui ci riguarda, stanno comprese tra l'arrivo del Gentileschi, con la sua prima opera, nelle Marche nel 1605; lo stanziamento del Bonone a Fano, intorno al 1612 almeno; e infine l'educazione, la giovinezza, la partenza per Bologna di quel Simone Cantarini che per molti versi rappresenta il condensato di questa cultura di frontiera. Proprio Simone, poco oltre il 1630, muoverà all'attacco dell'atelier di Guido Reni, servendosi in fondo del nuovo grimaldello che sta tra imitatio ed aemulatio. Ma è proprio il vecchio platonismo di Guido che rifiuta ogni confronto, avviato com'è verso la sua dissoluzione terrestre. Simone da Pesaro, artista di poche opere, è tuttavia un cardine sul quale gira l'intera cultura bolognese del mezzo secolo, e si rinvigorisce quella sublime natura che il gran teatro della disillusione aveva ridotto ad una sindone appena spirituale, ad una fissità iconica assoluta. Nella figura di Simone, è proprio l'intera vicenda che chiamiamo largamente montefeltresca a rivendicare il ruolo di una nobile periferia culturale sulle capitali dell'arte. I documenti accertano, per il semidistrutto quadro di San Rocco, un arco cronologico che si estende tra il settembre del 1611 e il novembre del 1613: e forniscono, nel maggio 1612, la possibilità di immaginare che fosse in lavorazione proprio in Roma (qual fa M. Francesco Guerrieri in Roma). A questo naturalismo, che si può chiamare di riforma, una miscela di accettazione del caravaggismo diretto e romano e di evidenti volontà esistenziali, il Guerrieri giovanissimo riuscì a dar corpo, forse, perché dotato di una cultura borghese e dunque, ipoteticamente, vicino al mondo ecclesiastico e ai suoi temi più gravi: sospinti dagli esiti operativi della nuova società tridentina, come pure dalla qualità umana, più immediata e pastorale, evangelica più che ritualistica, di collettività aggregate attorno al nucleo di una comunità devota, di una prossimità parrocchiale, di un'attitudine, infine, a una pubblica pietas quale doveva essersi costituita nel borgo natale. Fossombrone era cittadina fervida e, già nel quadro del vecchio establishment feltresco, destinata a occupare una posizione economica, oltre che di potere, di buona fortuna e legata ai traffici che scendono la valle del Metauro e agli altri che, per le antiche vie di terra, scorrono da Cagli: commerci dell'alta Marca fabrianese e, più ancora, dell'Umbria di Nocera e di Gubbio. Sarà sempre difficile cogliere nel particolare consorzio dei pittori quale sia l'indirizzo di questo loro parlar opportuno, tempestivo, basandosi ora, all'aprirsi del Seicento, su un linguaggio che deve esibire, spiegare e sostenere la verità del recente e realistico testo evangelico e delle rivelazioni: e dunque secondo modi di precisa riconoscibilità. La multiforme varietà delle aree culturali marchigiane è scarsamente codificabile proprio in forza di flussi molto mobili quanto a economia della cultura e quanto a committenza, materialità artigiana e perfino censo dell'artista. Siamo all'interno, cioè, di un paesaggio orografico, politico, religioso, sul cui profilo la materia della tradizione figurativa, in assenza di centri dominanti coevi alla maniera, ha elaborato per decenni una visione del manierismo essenzialmente policentrica. Il suo difficile diagramma è da cogliere in primo luogo nel essenzialmente policentrica. Il suo difficile diagramma è da cogliere in primo luogo nel profondo della committenza religiosa e nel segreto, immediato profilo delle sue liturgiche esigenze. Nel disegno seppure incerto della diffusione del naturalismo tra Marche e Romagna si ritaglia evidente che il primo avviso di schietta partecipazione è proprio questo del Guerrieri; protratta, per giunta, per molti anni, anche se diversa sarà la motivazione che il pittore, dopo la metà del secondo decennio, darà alla sua poetica. Ne abbiamo conosciuto la qualità manifesta in quella sorta di tavola degli arrivi e delle partenze che, agli storici dell'arte, può apparire la campagna marchigiana con i suoi insediamenti, tra il peso solenne e accademico delle chiese cittadine e dei grandi ordini mendicanti e quell'ultima cellula territoriale e periferica che è la parrocchia. Fuoco organizzativo e pastorale di un'arte che non ha paragone, anche per prossimità di affetti, di passioni, di drammatiche verità quotidiane, con nessun'altra età della cultura italiana. Non ci fu luogo più vicino alle vicende storiche e sociali della comunità italiana, vista nella trama dei suoi comportamenti di povertà e di sapere, della parrocchia, quale uscì dalla riorganizzazione tridentina e si impostò a fianco delle forme di associazione agricola, ovvero, all'approssimarsi dei castelli, al primo infittirsi delle povere case, dei borghi artigiani. Il Guerrieri pittore, tuttavia, al di là dell'iniziale e convinto consenso alla immediata poetica del naturalismo, che definiremo una volta per tutte "parrocchiale" (utilizzando poi questa accezione del termine fino al Centino, al Manzoni e al primo Cagnacci), vive un'epoca che, sia per condizioni politiche sia per dinamica di flussi economici e sociali e, infine, per geografia diversa degli ambiti culturali, deve essere immaginata come transizionale. La parola, che si presta a divenire argomento di comodo, esattamente come accade per quello strumento difficile che è l'eclettismo, si spinge fino a contenere anche i problemi dentro i quali la personalità del Guerrieri si è certamente aggirata. Nato nel secolo precedente, educato nell'ossequio di un banale manierismo ortodosso, gettato d'istinto dentro la ventata del naturalismo degli emuli di Caravaggio, che percorreva le valli lontane, quasi celandosi di fronte alla trasformazione dei centri del potere culturale, Guerrieri deve verosimilmente sopportare un mutamento di orizzonte e di destino che altri, più grandi di lui ma a lui parallelamente, hanno egualmente interpretato. Si pensi, in analogia, a Simon Vouet, più ancora che a Giovanni Lanfranco. Di qui a qualche anno, monumento non trascurabile proprio a questa transizionalità tardiva, sarà il più inventivo e talentoso tra i pittori dell'immaginario padano, il Guercino, a dimissionare con gli ultimi profumi del Rinascimento estense anche il grado, il livello, la moralità appunto di quell'antica poetica che egli veniva riformando: come avevano fatto i Carracci a Bologna, intorno al 1580-85. Il recupero dell'antico non era di valore antiquariale o accademico, ma di ri-forma della storia e stabiliva un ordinato metodo volto a ritrovare, di quel passato, la grande lezione che stava nel dualismo di natura e storia. Per Guercino, come, del resto, per Vouet, l'improvviso giro di orizzonte avvenne dopo il 1623, più esattamente con la morte di papa Gregorio XV Ludovisi. E ciò valse anche per i pittori bolognesi, i quali comunque lasciavano alla segreteria della curia del nuovo pontefice - Urbano VIII Barberini - l'eredità di un altro emiliano, stavolta teorico e trattatista, legato, in più, alla crescente fortuna delle poetiche del neoclassicismo. Era lo stesso monsignor Giovanni Battista Agucchi che, dopo aver poggiato su Annibale Carracci le sue prime esplicite attenzioni, dopo la morte di questi aveva identificato nel Domenichino l'ideale vettore di quella pittura normativa e didascalica. Il giovane Guerrieri non si trova in questa condizione, né glielo avrebbero permesso età e stato di cultura; e tuttavia, per essere la sua collocazione quella di un mediatore tra modelli artistici e forse anche liturgici, come pure un interprete di confini diversi, dalle vecchie Marche alla Roma delle avanguardie del gusto, non si può che osservare pure in lui avanzarsi un'alternanza, sempre più ritmica col passare degli anni, di modi e di correnti, una sequenza di esempi di stile diversi, quasi instabili nel tracciato che se ne ricava e però egualmente di esempi di stile diversi, quasi instabili nel tracciato che se ne ricava e però egualmente condivisi e sinceri. Il fenomeno avrà ricca documentazione negli anni tra il 1620 e il 1630, e oltre, ma esordisce assai prima, già presentandosi nella avvincente decorazione della cappella di San Nicola da Tolentino nella chiesa di Santa Maria del Piano di Sassoferrato. È stata avanzata da Claudio Pizzorusso una intelligente ipotesi a sostegno della memoria di certi affreschi narrativi di quel singolare outsider che fu Simone de Magistris da Caldarola. Sono cronache efficaci di storie monastiche e di caccia, di povertà e di beatitudine, intessute su fondi boscosi e declivi improvvisi, come e quanto le scene che, analogamente, la rinnovata società feuda le commissionava agli artisti; che dovevano commentare puntigliosamente i torbidi possessi dei Colonna e dei Farnese nelle forre dell'alto Lazio. Si aprivano subitanei scivoli di aerea prospettiva, squarci di cielo annuvolato, campagne percorse da un Tevere che scendeva lento in acquitrini pescosi. E anche qui, tra il fiamminghismo naturalistico di Paolo Bril e la sublime aurora di Adam Elsheimer, c'era in fondo un legame che raccoglieva in un comune denominatore di verità le richieste della committenza. Non era, questa, la "quotidianità" dei bolognesi. Ad essa si addiceva proprio quel sentimento del tempo, della giornata e dell'ora che suggeriva l'emergere della luce o il lento declinare delle ombre. Che stillava, con le gocce del battesimo di Cristo, sull'arena umida del Giordano, così da lasciar scorgere l'impronta dei nudi piedi del Battista, lo sforzo delle dita sulla sabbia come in un calco. La quotidianità dei bolognesi, di Annibale e, soprattutto, di Ludovico, apparteneva agli strumenti di vero, sostanziale pensiero che quegli artisti, riformatori del naturale, legavano programmaticamente alla pittura di Lombardia. Era, insomma, il rapporto dolcemente partecipe che tornava ogni giorno a costruire senza accademismo la tensione vitale tra uomo e natura. La pittura del naturalismo caravaggesco scandiva un suono e segnava un traguardo molto più alti, perché più drammaticamente rappresentativa della vita. L'esistenza, anziché affacciarsi e rendersi sensibile nella mimesi e nel rispecchiamento naturalistico, aveva imposto il suo teatro: non metaforico, non meramente simbolico. È il gesto dell'uomo che traccia, sul vasto scenario, una funzione che non disperde allusioni e non cede ad alleanze con le ragioni del cuore, con la specola dei sentimenti. Un gesto supremo, assoluto, frontale. E un atto elementare, nel quale tuttavia la vita si esprime con una pienezza tale da raffrontarsi, per l'ordine esistenziale che vi regna, con la misura del classicismo rinascimentale. In questo senso, non è troppo raro leggere nell'opera di Caravaggio il seme neppure tanto sepolto dell'equilibrio classico maturato nel secolo aureo. L'accademia, ossia l'organizzazione della pittura secondo dettami o conoscenze derivate da una speculazione intellettuale, è, insieme, il vanto e il limite di molti artisti bolognesi: e l'eclettismo, troppo spesso usato come accusa di comodo, è uno strumento vero di questa virtù sapiente. È allora evidente che l'arrivo di influenze carraccesche, o scaturite dal complesso procedere dei cosiddetti Incamminati, non può mancare di avvincere la personalità di un giovane la cui attenzione è acuita dalla marcia veloce dei mesi, degli anni e dalla condizione di "eclettico" che egli stesso è forzato ad assumere e che, d'altronde, attorno a lui e anche a Roma aveva altre e fortunate attenzioni. Basti pensare a Mao Salini oppure al Baglione, per non dire di quel Manfredi nella cui metodica il sapere accademico lucidava i prodotti della realtà e dell'esistenza, probabilmente, senza mai andare in profondità, e però senza mai venire meno a una smagliante volontà di espressione. Negli anni che vedono ancora il Guerrieri a Roma, ostinato cultore di verità pittoriche che si confrontano, oltre che col Gentileschi, specialmente col Borgianni e, in qualche occasione, col Saraceni, la sua scena compositiva - come del resto, in analogia, sarà quella di Antiveduto Gramatica - si appropria anche, quasi un dovere di novità, di quella seria verifica di un naturale, selezionato fin che si vuole ma alla fine veritiero e persuasivo, che era stato del Domenichino negli affreschi dell'abbazia di Grottaferrata. Su quelle mura, tra il 1608 e il 1610, il bolognese giunto da Bologna - come Guido Reni e lo stesso Albani - per partecipare al "programma" pittorico ordinato da Clemente VIII, e forse stesso Albani - per partecipare al "programma" pittorico ordinato da Clemente VIII, e forse più specialmente dal cardinal nipote Pietro Aldobrandini, aveva dato spettacolo di una sua concezione della realtà: emendata e quasi afona, tanto eletto fu il tono di quella narrazione delle Storie di San Nilo. Ma pertinacemente verisimile, come solo sanno essere i progetti del classicismo di tutte le età. Il messaggio del Domenichino, in questa direzione, non è poi lontano da quanto lo stesso Guido aveva elaborato, tra il 1600 e il 1609, creando per l'archeologia dei protomartiri una galleria di infelici e tuttavia imperterrite eroine della virtù, da Cecilia a Caterina, sui cui rosei pomelli anche il più accanito cultore di verità avrebbe trovato pacificazione. Il vero, in quei cercini e, particolarmente, nell'ampio giro della pupilla entro occhi espressivi, che pure erano occhi quietisti, occhi attoniti, era perfettamente rispettato. Era di per sé un grande raggiungimento, anche se albergava nello spirito più che nel mondo. Non c'è dubbio che un quadro perfetto e lucente come il piccolo David che uccide Golia di Guido, oggi a Marsiglia, intorno al 1607 fosse in grado di entrare in sintonia con Orazio Gentileschi. E che la paletta con la Decapitazione di Santa Cecilia, collocata da Ottavio Costa nel 1605 presso la parrocchiale di Conscente di Imperia, suonasse affine alle visioni del Saraceni e ai suoi gusti di delicata ventilazione cromatica. I nemici della verità, per dirla in termini di fantasia espressiva , erano altrove, erano i classicisti del "romance" e del paesaggio, in primo luogo Annibale e la sua cerchia, raccoltasi poco dopo l'apertura del secolo intorno all'idea del paesaggio e al paesaggio dell'idea. Naturalmente, potevano facilmente combinarsi paesi d'arcadia nuova e personaggi di antica poesia, per lo più cavalleresca. Il problema rimaneva per coloro che dovevano ormai vivere la verità della rivelazione evangelica in modi elementari per drammatica umanità. Di uomini, insomma, come il Guerrieri di Fossombrone, nati in questa arroventata e fosca transizione di secoli, giunti a Roma a ridosso del rogo di Giordano Bruno e forse più ancora immersi in una realtà confessionale di Controriforma fitta di rivendicazioni, durissima nelle sue comunicazioni, oppressa - non si può dimenticarlo - da una situazione contingente colma di pene e di difficoltà. In questo teatro, sul quale il Guerrieri, come tanti provinciali, si era affacciato in età precoce, si inscrivevano assai più espliciti e forti di quanto ora si possa immaginare i dettami del clero. La chiesa tridentina aveva fatto, senza neanche eccessivo sforzo, le sue scelte iconografiche potenziando in modo straordinario il volume espressivo della figuratività tradizionale. Con storica decisione aveva scelto, per così dire, di adottare l'immagine come tramite e come consolidamento del potere. Questa era stata la decisione politica e culturale del cattolicesimo già all'alba del Cinquecento, sostanziata tra la radiosità di Melozzo e l'eterna felicità morale di Raffaello. E questa sarà la determinazione dell'ultimo fra gli edonisti del cattolicesimo, Guido Reni, la sua scelta solare prima della secolarizzazione: far coincidere i miti dei gentili con i miti dei cristiani fu il suo capolavoro, ancorché insidiato alle radici dalla crisi della vecchiaia. La morte di Guido avvenne nel 1642, nello stesso anno di quella di Galileo. Tutto ciò finisce per apparire miracolosamente significativo, più che soltanto simbolico. L'antico tetto, la cupola dell'armonia che reggeva il pensiero, l'immensa metafora del mondo e della sua felicità, stava cedendo di fronte alla richiesta di una rinnovata, conoscibile, semplice organizzazione logica del linguaggio. Già dopo la metà del secolo, spentasi appena la guerra dei Trent'anni, l'Illuminismo porterà tra i suoi emblemi luminosi e razionali anche questo e cioè la riduzione dell'umano. Ritornare a Giovanni Francesco Guerrieri, forestiero e provinciale, a Roma, vuol dire inoltre affrontarne spregiudicatamente le varianti o le contraddizioni addirittura difformi, come si presentano a noi, esigenti lettori di poetiche. Il suo naturalismo, che abbiamo intenzionalmente chiamato "parrocchiale", è dunque, insieme all'innegabile volontà di immediato e talora rude approccio non solo al mondo creato bensì all'umanità intera che lo popola, anche un'adesione alla politica di immagine della Chiesa di Controriforma. Accanto alla figura per così dire "militante" - come sarà d'uso sotto altre estetiche - è doveroso costruire un efficace ritratto di regione, quella in cui si consolidano e si esprimono queste interdette verità, questi progressi reazionari o, almeno, reattivi. Questa natura riformata. interdette verità, questi progressi reazionari o, almeno, reattivi. Questa natura riformata. Il canonico Vernarecci ha tramandato integra, dal perduto diario del Guerrieri, l'annotazione attinente la cappella di San Nicola da Tolentino di Sassoferrato, nella "Chiesa di Santa Maria fuori dalla porta di Sassoferrato per Monsig. Vittorio Merollo Medico di Papa Pavolo Quinto di felice memoria, e mi fu pagata scudi quattrocento di pavoli e tutte le spese sì di colori come del vitto per me et un servitore". Dal documento si ricavano alcune piccole verità materiali sull'ordinamento del lavoro. Soprattutto, vi si assoda la sostanza del rapporto che conduce l'artista paesano fino al trono del pontefice Paolo V Borghese. Sul conto di Vittorio Merolli la letteratura patria ha cercato qualche illuminazione, che peraltro non è andata oltre l'accertamento dell'amore per il luogo natale. Ma senza dubbio il tramite dovette essere tanto impegnativo da aprire la via sia verso le altre commesse nel grosso borgo marchigiano sia verso la decorazione di tre sale in Palazzo Borghese in Campo Marzio, che seguirà dal novembre 1615 al settembre 1618. La data della cappella di Santa Maria è il 1614. L'induzione cronologica lascia credere che il Guerrieri avesse fatto ritorno a Fossombrone sul finire dell'anno precedente. Non è infatti impresa di poco conto firmare, e per intero, la decorazione così vasta, e oggi assai degradata, di una cappella, lungo l'arco di un solo anno. Il fregio si avvale di un robusto impianto iconografico, documentato dal Vernarecci, del quale è ormai ineludibile individuare l'inventore e il progettista dell'impalcatura strutturale. Il fatto che la cappella sia stata edificata dal Merolli soltanto nel 1613 concede margini di tempo molto ridotti e sospinge l'ipotesi - qui come in altri casi - di un ulteriore impegno del Guerrieri, affidando l'esecuzione delle parti plastiche a una bottega di stuccatori di Urbania. La sollecitudine, poi, che orienta il Guerrieri verso le mediazioni naturalistico-classiche proposte da Domenichino già a Grottaferrata, conferma l'indiscutibile velocità del transito di cultura, in un pittore che solo ora compie ventisei anni di età, verso un approdo più sicuro. E, probabilmente, caro anche alla committenza. Rispetto alla nitida e silenziosa rappresentazione di San Nilo che cura l'indemoniato figlio di Polieuto, inclusa come un cammeo entro le posizioni segnate dai marmi pavimentali, il Guerrieri decide subito per la linea della narrazione, quale si evince con quella sorta di rigore e di norma, severa e insieme leggiadra, piena di una dignità umanistica più elevata, in fondo, di ogni trattato estetologico. Il pittore di Fossombrone sceglie il suo ordinamento mentale, quello del racconto. Non siamo più in una cappella di stucchi aggraziati, ma in una sorta di cortile che i muratori al lavoro (la basilica tolentiniana, giù in fondo, è arrivata quasi alle volte) hanno disseminato dei loro attrezzi. Il Santo, posata a terra la canna che serviva alle misure, ne fa sgorgare acqua come da una cannella (secondo il termine marchigiano) e bagna il pavimento in cotto con uno spruzzo che diviene rivolo torpido e impigrisce lungo le commessure e lascia stupiti. Alla struttura scenica di Grottaferrata rinvia anche, sulle mura di Santa Maria del Ponte, l'opposito miracolo del Santo di Tolentino, un teatrino conventuale dove il profumo delle rose in grembo al Santo risponde alla bella natura morta (pane, acqua, una cipolla, una melagrana). Vi si avvertono un respiro e anche un'affettuosità più ampi e coinvolgenti. Tutti quei volti che si atteggiano e partecipano, che si uniscono come comparse di un melodramma già verdiano, rimandano forse a una fonte che da pochi mesi si è aperta, con buon successo, nell'arte marchigiana: i dipinti della cappella di San Paterniano, nella chiesa del Santo a Fano. Due soli appaiono superstiti, e splendidi nella loro efficacia di forte accento romantico. Non c'è dubbio che il do di petto di San Nicola tragga da quel nero, sapiente costume di scena di San Paterniano la sua prima origine, mentre gli astanti si appoggiano l'un l'altro, si sporgono all'attenzione sbalordita dei fedeli, predisponendosi all'attacco del coro. Perfino la colonna alla sinistra di San Nicola, con quella base forte, fa da quinta, come Bonone aveva voluto per far emergere il suo fantastico Santo dormiente. E poiché per la cappella fanese non è difficile sostenere ancora oggi - come già facemmo nel 1959 - una data poco dopo il 1611 o il 1612, bisogna immaginare anche il brusìo che tra i giovani corse all'arrivo di queste tele romanzesche, che portavano il seme di un naturalismo fondato sull'esempio di Ludovico Carracci; tele di un ferrarese che qui appare avventuroso come e più del Guercino giovane e ritemprato - questo è il vantaggio - in una giovinezza come e più del Guercino giovane e ritemprato - questo è il vantaggio - in una giovinezza appena trascorsa anch'essa a Roma. Nel 1612 sarà nella cattedrale di Fano anche la paletta di Ludovico Carracci, con i Santi Orso e Eusebio; ma si trattava ormai, a quelle date, di un Ludovico dolcemente impastato e un po' sognante. Semmai, per restare fra santi cavallereschi e poeti, con le loro vesti brune gettate a mantello e il trionfo della sonante virtù espresso a pieno carattere nei volti (sono quasi tutti ritratti, quelli del Guerrieri, mezzo convento si è messo in posa), il terzetto dei protagonisti si deve completare con gli straordinari cavalieri di cappa e spada che Andrea Lilli ha collocato al centro del suo Paradiso, sull'altar maggiore della cappella Nolfi, ancora a Fano, messo là nel 1606 come uno dei dipinti più gentili e affascinanti del secolo intero. Un giro d'orizzonte s'impone, del resto, anche per far strada alla nuova opera che il Guerrieri veniva eseguendo per Santa Maria del Ponte del Piano di Sassoferrato l'anno dopo, il 1615. Quella pala raffigura la Vergine della cintura (un'altra istituzione devozionale cara agli Agostiniani) con i Santi Agostino e Monica, cui fanno compagnia, a terra, il committente pensoso, Nicolò Volponi, e con lui, presumibilmente, altri membri della famiglia, compresa la figlia che, alle spalle di Santa Monica, è pur sempre uno dei ritratti forti nel naturalismo romantico cui Guerrieri sta definitivamente dando corpo. Non è facile evitare una menzione bolognese e più specificamente ludovichiana, oltre che nell'impostazione generale di scena, in ispecie per quel Santo che volge lo sguardo al cielo, e quel piviale lavorato in una condotta pittorica che s'è aperta alla pennellata più larga, piuttosto che serrarsi nella cifra chiusa e un po' grafica che il naturalismo uniformato aveva trasmessa ai suoi adepti. È un tratto, questo della pala Volponi, ormai destinato a riemergere in quella che riteniamo, per molti indizi però mai rinsaldati in certezza acquisita, la giovinezza, prima, di Guido Cagnacci (si pensi al bel San Sisto ritrovato da Pasini e da lui giustamente datato alle origini della carriera del riminese, intorno al 1627); e, in seguito, del pesarese Simone Cantarini. Confesso ora volentieri che tutta la prima indagine condotta sul Guerrieri nei primi anni Cinquanta, in un field-work abbastanza caparbio e reso più difficile dalle condizioni di lavoro di allora, fu proprio motivato dalla necessità, per me assoluta, di giungere ad accertare, alle spalle dell'apparizione del Pesarese nell'atelier del Reni a Bologna, intorno al 1630 o giù di lì, i modi e i tempi di un retroterra marchigiano. Almeno la sinopia, insomma, di quel naturalismo amalgamato con la qualità psicologica del Barocci e con il temperamento densamente esistenziale del Guerrieri e, naturalmente, della poesia del Gentileschi. Un punto cieco di questa successione, sinora abbastanza fedele, di opere e di vicende , è purtroppo costituito dalla oggi scomparsa tela raffigurante San Romualdo, già nell'abbazia fabrianese di Valdicastro con la data importante del 1614. Ricorrendo alla memoria e a qualche vecchio (1957) e personalissimo appunto, dirò che il dipinto poteva forse fare coppia con un'altra scena agostiniana: un Miracolo delle pernici - medesimi teatro e attori che in Santa Maria del Ponte - dove uccelli, piatto di portata, bicchieri posati su un tavolinetto, giacevano offerti alla bella luce del giorno: la quale, dalla finestra spalancata, spioveva su di essi, fino a scoprire le pianelle del Santo accostate al letto con lo scrupolo di una restituzione fiamminga. Un purismo già degno del Sassoferrato, una pulizia agreste e neoarcaica capace di suscitare luminosi pensieri di serena pietà. A pochi anni di distanza, l'educazione del Salvi dovrà molto più di quanto non si dica alla natura rispettosa del Guerrieri. In questa oscillazione di gusto e di dottrina, posta sul discrimine tra la pianura padana e l'entusiasmo risorgente, rinnovato dalle esperienze che portavano a Roma, Guerrieri continuava a dare opera anche a beneficio di committenze diverse, di erudizioni discordanti. Si prenda ad esempio il San Carlo orante con l'angelo della peste, che vola in alto e rinfodera la spada punitrice, la grande pala trasparente che sta ancora oggi nella cattedrale di Fabriano. Essa è tanto gentileschiana da esser stata a lungo, e per tradizione, riferita all'autografia del maestro, fino a quando, nel 1957, ne proposi la variazione di indirizzo attributivo riportandola alla mano del Guerrieri. Al quale, tuttavia e insieme, occorreva del pari riconoscere un'adesione molto partecipe alle opere che Orazio Gentileschi veniva pari riconoscere un'adesione molto partecipe alle opere che Orazio Gentileschi veniva collocando nelle Marche, a cominciare dalla bellissima Circoncisione del Gesù di Ancona, datata assai presto, intorno al 1605, per giungere proprio al gruppo fabrianese. Nel quale, per di più, come accade nella Vergine con Santa Francesca Romana di casa Rosei, par quasi che un purismo inestinguibile, una dolcezza riformata e monacale vengano raccogliendo quelle tenerezze appartate e umanissime di cui Lorenzo Lotto, un secolo o quasi prima, aveva intessuto le sue tele marchigiane. Si tratta di una lunga durata che, d'altra parte, non comprende soltanto l'aspetto formale e cioè il dato pittoresco di atti che tornano, di gesti, di affinità, di vicinanze che segnano il campo dell'affettività; o di quelle rose cui si affida il compito delicato di scandire il tempo della giora mesta, oppure del dolore confortato dal fiore che simboleggia proprio la Vergine e i suoi dolori; e anzi, una concreta sovrapposizione morale e di cultura, come di chi - a distanza di tanti anni - osteggi volutamente le esteriorità della vita, e dunque della pittura, per trattenerne il corso espressivo entro il confine di una moderazione quasi allusiva a una protesta nei confronti della società. Se fu vero per il Lotto, sul filo di una visione riformata della religione, si può meglio comprendere per Gentileschi, artista di una poetica eletta e per certi versi quietista. Il giovane Guerrieri intrecciò, per taluni, importanti orientamenti, la sua originaria esperienza con il carattere risoluto e indipendente di Gentileschi. È invalsa nel frattempo l'opinione, più volte ripetuta, che questo rispecchiamento non abbia sostanza; ma mi sembra ancor oggi che la discendenza, forse addirittura arrischiatasi in emulazione, regga persino bene. Certamente, il Guerrieri tiene alle tinte spesse, corpose. Quella sublime diafanità, quella limpidezza degna di un maestro fiammingo, non giungono alla portata della sua mano, prima ancora che a quella dell'occhio. La densità della materia è tutt'uno con la necessità espressiva, con l'espressione stessa, quasi che il vettore cromatico sopporti, per intero, quella floridezza peccaminosa che nell'originale cala, per giunta, entro una forra rocciosa, uno speco inaccessibile anche per il più fiero insorgere dei sensi. Il grande San Carlo di Fabriano riprende però, quasi improvvisamente, quel magistero. L'angelo, anch'esso memore di Lotto, di sicuro fratello di quelli di Gentileschi, scivola silenzioso, le ali illuminate, frusciando appena dalla porta spalancata sulla Cesana e sui nimbi candidi che crescono fitti all'orizzonte. Rammento bene il consiglio di Roberto Longhi, di continuare a serbare fedeltà, almeno all'invenzione del Gentileschi per questa bellissima pala e alla possibile esecuzione diretta dell'angelo. I recenti restauri e l'aumento qualitativo del catalogo del Guerrieri possono incoraggiare a spendere oggi il suo nome con maggior forza. Una datazione accettabile può, d'altra parte, aggiustarsi soltanto a ridosso di quel vero e assoluto apax del naturalismo internazionale che, in Fabriano, appaiono gli affreschi di Gentileschi nella cappella di San Venanzio. La qualità altissima, il sensazionale nitore cromatico, il riserbo mentale che sfocia in un neoarcaismo tale da escludere ogni compromesso classicista, ne fanno un capolavoro tuttora nascosto. Alcuni, pochi, documenti, permisero a chi scrive di inserirli cronologicamente fra il 1615 e il 1617 circa: sono questi gli anni, sembra ancora adesso, che meglio possono accogliere e spiegare anche l'amicizia e forse la collaborazione fornitagli da un giovane e promettente pittore di Fossombrone, cui affidare proprio il San Carlo nella cappella dell'Arte dei Calzettai. Gli anni difficili della seconda permanenza romana del Guerrieri, compresi, si è detto, fra il novembre del 1615 e il settembre del 1618. Attorno alla cappella del Crocifisso del Gentileschi è inevitabile che si venga creando un'attenzione nuova. Una Croce con i Dolenti e la Maddalena, questa gettata a terra ad abbracciare il legno nudo, sembra affiancarli assai presto. Ed il Guerrieri è qui, ora e improvvisamente, quasi solennemente pittore. L'agghindatura sublime del Gentileschi si aggiusta, si fa borghese sotto il suo pennello. La fissità appassionata di San Giovanni, l'amore vivissimo e strenuo della Madre nell'adorazione della luce eterna, la cerchia che s'apre a corolla angelica dietro la croce, s'impongono scanditi come atti che avvengono su un palcoscenico di inaudita pietà, di densa passione sentimentale e infine di straordinaria, palcoscenico di inaudita pietà, di densa passione sentimentale e infine di straordinaria, perfino inattesa monumentalità, derivata fin qui dai tempi immobili del Pulzone o del Cesio La veste di Maddalena, nel suo ritratto di ragazza con la chioma bionda sciolta sulle spalle, e poggiata in tenerissima posa a qualche finestra di Trastevere, con Castel Sant'Angelo a sinistra, è quella che, con qualche vecchio raso di sacrestia e molta carta piegata e atteggiata, i pittori insegnavano ad imbastire attorno al modello in posa. Tuttavia, da questa dignità teatrale, emergono le parti animate, i volti e le spalle, e le mani incrocicchiate, oppure distese, avvinghiate alla croce, o infine alzate al petto; e queste sono le fisionomie lungamente attese di una desiderata umanità, da tempo invocata e sperata. Il panneggio è solido e fermo, come del resto avviene nell'alta figura dei dolenti nella Crocifissione del Gentileschi a Fabriano. Il suo "tempo di posa" sembra addirittura raccordarsi alle creazioni senza età di padre Valeriano. Ma è poi la materia, quella pennellata grossa, capace di stendere un colore spesso, replicato, filamentoso, che riporta tutta l'assorta composizione nell'immanente, la rende partecipe ad una serie di novità che - poco oltre la metà del secondo decennio del secolo - Roma dibatte nelle sue chiese. Anche se è operazione difficile invocare testimoni adeguati ad una cultura presumibilmente molto ricca e molto mobile, dopo aver citato almeno l'opera di Pietro Vermiglio del 1612, e cioè l'Incredulità di Tommaso, oppure le antecedenze di Tanzio da Varallo nella riserva lombarda in Abruzzo, a Pescocostanzo, prima del 1616; si mettono come è inevitabile in movimento i grandi temperamenti pittorici del nord, come il giovanissimo Baburen, l'altro giovane fiammingo di nome Hontorst e ancora Finson. Siamo ormai entrati nell'impresa romana principale del Guerrieri, la decorazione di Palazzo Borghese, ed il suo incontro con molti artisti del nord è testimoniato - non foss'altro - dal numero di attribuzioni riservate a Régnier, a Baburen, a Valentin stesso che proprio su dipinti del Guerrieri si sono esercitate, prima che la forza dei documenti vincesse sulla complessa verità figurativa. Prima del 1956, anno in cui avevo pressoché completato il testo del voIumetto dedicato al Guerrieri, nulla si conosceva di questo produttivo e problematico ritorno romano; in particolare, dell'opera compiuta e della cultura sviluppata nell'ambito di una grande commessa, la più grande nel curriculum del fossombronese. Quella decorazione affidatagli dal principe Marcantonio Borghese, e probabilmente per il tramite ormai consueto di Vittorio Merolli, riguarda il singolarissimo progetto ornamentale di ben tre sale, superstiti, del Palazzo Borghese in Campo Marzio. Fu Paola Della Pergola, che allora dirigeva la Galleria Borghese, a passarmene notizia prima di pubblicare e illustrare il complesso, dotato di una ricca messe di informazioni documentarie e di additivi interpretativi e stilistici, sul "Bollettino d'Arte" dell'estate 1956. A dirla con i termini di allora, che rivelavano tutta la mia sorpresa (e un riconoscibile impaccio), l'apparizione del complesso decorativo di via Fontanella Borghese, così improvvisa nel percorso stilistico del Guerrieri, fino a quel momento abbastanza compatto, si giustificava anche con il largo e probabile intervento di aiuti dei quali il pittore poté avvalersi, nei modi minuziosamente annotati. Nella sua équipe furono attivi Abele Rampunion, esecutore di paesaggi e, dunque, con un ruolo piuttosto ampio, con elevata incidenza fiamminga e nordicizzante; un tale Avantino, che la Della Pergola proponeva di identificare con Avanzino da Gubbio. E poi il fratello stesso di Giovan Francesco, lo sconosciuto Federico, e Francesco Fransi e Ambrogio Lucenti: questi erano e rimangono soltanto nomi, come si vede, più che individualità riconoscibili. L'inconsueta immagine che sembrava allora derivare in termini quasi traumatici e abbattersi sul pittore della Maddalena del 1611, o sul cantore delle poetiche gesta di San Nicola da Tolentino a Sassoferrato (1614), traeva forzata origine dalla natura stessa dell'impresa borghesiana, nata sotto l'impegno palese di quella raffigurazione emblematica e concettuale che assecondava l'opera iconografica di Cesare Ripa. Il vigoroso, dichiarato e, in definitiva, raro exploit iconologico, riemerso con tanta ornata narratività dopo la morte del manierismo e in pieno secolo barocco, è ricco di suggestione e si dilata tuttavia in una sequenza che, per quanto inventiva, non può mancare di stringere il Guerrieri a un progetto decorativo e simbolico quasi da manuale. Sono, del resto, anni singolarmente precoci, nel panorama simbolico quasi da manuale. Sono, del resto, anni singolarmente precoci, nel panorama romano, quelli che accomunano queste storie ora romanzesche ora nazarene, tutte comunque indagate e, ancor più, viste attraverso un vetro di insolita misura intellettuale. L'ombrìa gentileschiana, quella nitidezza pedissequa e pure geniale, così inconsueta nella pittura mediterranea, alimenta questi cortei di giovani donne che tornano a sedersi, specchiarsi, affrontarsi come in un Cortegiano senza più corte, che non fosse quella sopravvissuta di una nobiltà pontificia in cerca di qualificazioni. Le donne del mito e della storia antica, ricche di simboli come di amuleti o ornamenti, addobbate coi panni di un teatro talora grossolano, o ordinario, non riflettono la virtù senza tempo né l'accadimento della suprema entità metafisica, cioè l'essere senza divenire, giovinezza assoluta del mondo senza evento e senza decadenza. Il naturalismo narrativo del Guerrieri trascrive i modelli del Ripa e, anzi, li adatta non per l'eternità, bensì per la giornata: una giornata di sole, sotto il tempio della Sibilla, magari rallegrata dal gallo dell'Allegoria dello Studio e del Pavone rauco della Superbia. In fondo, l'asino della Pigrizia, sdraiato a terra accanto alla padrona adolescente, ci riporta a casa, dove i sentimenti sono veri e tutti hanno di sicuro qualcosa da fare, anziché aggirarsi in questo eliso che non ha più la natura seconda e suprema dell'antico olimpo e non possiede ancora la virtuosità sussidiaria e alternativa dell'Arcadia. È un po' come vivere dentro il continuo susseguirsi di una bigiotteria del naturalismo, di creazione e di racconto quotidiano, ma vessata anche da una insistente commessa borghese, come capita anche ai Caroselli e ai Paolini e talvolta anche al Gramatica; personalità con le quali, come in altri casi, occorrerà dare inizio a un confronto adeguato; così come al Guerrieri infine, bisognerà, prima o poi, assegnare un ruolo individuale più marcato proprio sull'orizzonte di Roma e sulla metà del secondo decennio del XVII secolo. Concorrono a questo giudizio le convinzioni più recenti, come pure il riesame delle affermazioni di Paola Della Pergola. Riesce comunque difficile, pur abbandonando l'idea ormai superata dell'artista provinciale, accumulare tante opere eseguite certo in questo giro breve di anni, e soprattutto tante diverse esperienze. Certo, il Guerrieri ha quell'età, tra i venticinque e i trent'anni, in cui si opera il massimo sforzo, e l'obiettivo che Marcantonio Borghese gli ha messo davanti è dei più ambiziosi. Lo stesso piano iconografico, che abbiamo visto così pretensioso, è un modello alto della cultura romana, forse davvero posto sotto il patrocinio barberiniano. Più difficile sarà, anche per questo, superare lo scoglio rappresentato proprio dall'idea centrale di questo programma, che era quello di dare veste naturalistica ad un sistema sapienziale e neoplatonico, da Raffaello a quella parte, abituato a ben altri tegumenti. Era pur vero che Guido Reni aveva abbandonato il campo, recuperando la platea bolognese per un applauso più convinto: proprio lui che, con la volta del Casino Rospigliosi, aveva toccato il vertice d'ogni possibile, altra e superiore bellezza. Ma tra l'iperborea definizione di Guido e l'interpretazione di arcadia rurale, colta ma insieme bucolica nel confronto impossibile, c'è di mezzo un mondo intero; un mondo che allarga sempre di più la distanza tra metafora e natura, ricercando piuttosto la finzione teatrale barocca. Esiste poi un versante figurativo che il Guerrieri tenta di mettere in funzione in questi stessi mesi, ed è il versante collezionistico e privato, fatto di quadri liberi e di soggetto diversamente motivato. Si affacciano infatti temi di più disinvolta ispirazione e fattura, come quelli tratti da qualcuna tra le molte immagini femminili del Gentileschi, dove la finalità allegorica veniva superata da un uso sapiente della bellezza. Il Guerrieri esibisce anch'egli le sue armi. Casta come più non si potrebbe, specie in rapporto con la bianca sensualità di Gentileschi, un'Europa che il toro scarrozza sul mare finisce per essere un'allusione che raggiunge, in ipotesi prossima, anche il Cagnacci, e che conduce perfino al Cantarini e si trasmette fino al reggiano Besenzi. Qui passano, almeno in parte, i sintomi di quel caravaggismo in chiaro che, nato a Roma, si era trasferito presto verso il nord europeo. Il nostro ripeterà questo soggetto, probabilmente fortunato, e lo farà nel 1621 affrontando un bulino di qualche insicurezza espressiva. Ma ora, sotto lo strapazzo del toro, il mare si riempie di spruzzi e il pennello di schiuma bianca; il cielo vede nubi e cirri colmare uno riempie di spruzzi e il pennello di schiuma bianca; il cielo vede nubi e cirri colmare uno spazio che, nella realtà, è proprio così veloce a turbarsi, tra i monti e l'Adriatico. Somiglia a quella grande finestra che si era aperta alle spalle del grande San Carlo della Cattedrale di Fabriano, due o tre anni prima. È quasi il segno di un ritorno a casa. Il gruppo di opere che rappresenta l'apice dello sforzo cosmopolita del Guerrieri e di cui anche l'Europa fa parte, del resto, è composto essenzialmente dai dipinti che, raggruppati attorno ai lavori di Palazzo Borghese, hanno ora il conforto di attestazioni documentarie. A giudicare dalla cartella clinica delle diverse, conseguenti opinioni attributive del passato, è lecito pensare che ben difficilmente esse avrebbero potuto giungere alla piena identità senza una guida positiva qual è quella che sortisce dai conti borghesiani. Sia per il Lot con le figlie della Borghese, e per la replica della Doria Pamphilj, come per il San Rocco, le suggestioni di cultura rivestono deliberatamente un valore più ostentato, mentre - del pari - vien meno quella certa resistenza spontanea che il Guerrieri aveva sempre opposto al deperimento del suo ritratto di "provinciale". Quello insomma che ci ha sempre restituito un segno profondo, intensamente accalorato, della periferia della Controriforma italiana. Qui si accettano, invece, scommesse di maggior rilievo, ma il progetto stesso dell'opera diviene preoccupazione costante, il teatro d'azione si tende verso quello spazio che i nordici portano fino a Roma. Nulla di meglio, a dire il vero, che narrare storie dentro questo metro che sembra già ottocentesco, investito com'è dal verisimile. Questa è, in buona sostanza, la stagione più densa del Guerrieri, più mondana o vistosa rispetto al poeta delle campagne e delle parrocchie, ma di certo sorprendente. Giuseppe Ebreo, nella prigione del Faraone, spiega i sogni al coppiere e al panettiere: e stende la mano robusta assecondando, di un passato remoto, la bellezza retorica, grave come quella di un oratore romano; oppure l'altra, a venire, di certi frequentatori di via del Babuino nel 1784, l'anno delle premonizioni rivoluzionarie. Non bisogna immaginare che tutto, del Guerrieri, sia però mutato su questo cavalletto. La pasta pittorica serba ancora e sempre quel tono polveroso, di terra e di biacche intrise. Le mezze tinte non tengono alla distanza del tempo ed il pennello è sempre un po' intrigato in se stesso, rigirando più volte il filo emergente del tocco a illuminarsi proprio sotto la luce che bagna la prigione, che è una stanza sull'orto di casa e non ha il dramma della cantina caravaggesca. Il brano immediatamente più elevato appare essere quello della grande natura morta a destra, vero pezzo spagnolesco di diretta fattura. Il copione d'ogni buon sceneggiato vuole che il ritorno al paese del giovane artista, deluso dall'ultima e mancata occasione di lavoro, avvenga nel pieno di una pesante mortificazione e dunque di una crisi consistente. Non abbiamo in realtà mezzo alcuno per conoscere la condizione del Guerrieri allorché la vallata di casa gli si spalancò davanti agli occhi, affacciandosi al Furlo. Un'occasione di lavoro che non lascia seguito o conseguenza, che si chiude in se stessa dopo tanto impegno, non è mai esperienza gradevole. Ma se vogliamo stare ai fatti, è difficile decidere se la folta attività che segue, passo dietro passo, il ritorno a casa sia un effetto di necessità stringente, oppure il senso d'una matura coscienza d'artista. Se, come sempre in questi casi, l'interrogativo può essere affidato e risolto soltanto all'esame diretto delle opere, dei dipinti eseguiti con quel ritmo incalzante, con quell'assunzione di novità di stile e di varianti suggestive, la risposta non può essere risolta che positivamente: e cioè che il distacco da Roma, pur dopo un lavoro tanto assiduo, è avvenuto in modo critico, di fronte alla variazione ormai consistente dell'orizzonte artistico prevalente, e probabilmente dopo aver dovuto constatare di persona come il suo personale tentativo di adattare la forma del naturalismo riformato alla misura spaziale della decorazione barocca (questo fu, davvero, l'insuccesso di Palazzo Borghese) cozzasse definitivamente contro i tempi. Di questa disattitudine del modello naturale a delineare scene più fantastiche, narrazioni tinte di fiammingo e di gotico, sono in fondo testimonianza anche quel paio o poco più di quadri, come la Circoncisione di Sassoferrato oppure la Visitazione di Serrungarina, che stanno quasi a conclusione del decennio, ed entrano forse già nel 1620. Poi, quasi all'improvviso, basta un segnale che provenga dai ricchi cantieri della costa, e soprattutto da San Pietro in Valle di Fano, per avviare un processo come di maturazione formale, un San Pietro in Valle di Fano, per avviare un processo come di maturazione formale, un assestamento del modellato e anche un rinvigorimento cromatico, tali da far sentire ormai sempre più vicino il caldo conforto di un'accademia sospesa tra naturale e fantastico, tra espressione viva e riflessione intellettuale: che è il prestigio dei bolognesi, quella loro capacità di mediazione colta e tuttavia ricca anche di diretta verità di natura. Il San Barnaba del Museo di Fossombrone, e più ancora il contiguo San Michele Arcangelo, che è del 1624, possono vantare questi sintomi di crescita e insieme di deviazione rispetto al cammino del primo temperamento narrativo. Una pala, come quella di Arcevia, importante ritrovamento recente, è impressionante sotto il profilo della verità organizzata e robustamente epica nel fervore dei Santi, nella venustà della Vergine, nella vastità del paesaggio. Vi si legge, come nella bella pala di San Marco di Pergola, un accostamento diretto, scoperto con le posizioni avanzate che si registrano a Roma intorno o dopo il 1625, a cominciare da quelle del Lanfranco. Ciò che più sorprende è poi come esse si mescolino con disinvoltura a imprestiti di teatralità sacra tratti da Guido Reni, come il San Filippo di Fabriano (1629) per poi ritornare in modo tanto complesso quanto immediato, convinto, nel caravaggismo storico della cappella di San Carlo a Fano. È curioso, proprio dentro quella chiesa di San Pietro in Valle dalla quale s'erano mossi alcuni tra i principali modelli culturali di discendenza padana e bolognese, come quelli appunto di Guido, il Guerrieri decide di alzare improvvisamente la guardia e di recuperare addirittura quello sguardo diretto sulle cose e quella fattura serena che ne rivela, in trasparenza, non dico la cordialità, ma certo l'oggettività positiva, la collocazione in un diorama naturalistico dove tutto, dell'uomo, si colloca in un ordine comprensibile, dignitoso. La mediazione centrale è quella del Saraceni, suo il tramite coloristico cordiale. Ma la bellezza traslucida, quella ritorna al Gentileschi una volta ancora, e non appare per nulla intorbidita dal chiaroscuro padano. Semmai la sua apparizione qualitativa sale una volta di più a quel livello sorprendente cui il Guerrieri sa ormai di poter farci giungere, quando vuole. Una scena come quella della Preghiera di San Carlo, vissuta sulla sinopia iconologica del Getshemani, oltre la finestra di casa, è invenzione di superiore intelligenza inventiva. Ritorna dunque anche il pittore che ha lavorato sapientemente sulla versione narrativa del dramma caravaggesco, ne ha tradotto brani in lingua locale, adottando alla lettera la poetica evangelica della verità palese, e la determinazione di leggerla adeguatamente, insieme, in quel luogo comunitario che è la parrocchia, nel riparato silenzio di conventi sperduti nelle campagne, a guardia di santuari popolati di poveri contadini, visitati da pellegrinaggi devoti. Il naturalismo diafano, il racconto eletto a edificazione, a saggezza quotidiana, a persuasione non devota soltanto, ma umana, piuttosto, sono i gradi di una religione semplice che la maturità del Guerrieri nutre anche nei suoi anni avanzati, con quella continuità ammirevole, che poi si scoprirà non tener conto della vecchiaia e delle malattie che pure le cronache hanno voluto tramandarci affliggenti. C'è un dipinto nella chiesa di Salcara, che raffigura il colloquio tra il Bambino Gesù, sorretto dalla madre, con Sant'Antonio da Padova; e che fu forse un dipinto caro ai devoti (Roberto Contini ce ne ha segnalato una replica nel Casentino). Per qualche ragione che ora scopriamo essere intima alla qualità stessa dell'autore, questo quadro ha nella sua apparizione così ferma e minuta una trascinante capacità di racconto. Si può pensare, allora, o si pensa davvero, che nel convento vuoto e popolato solo dai rumori della primavera, che vengono dal cielo dei passeri e dalle strade vicine, un frate abbia avuto la visita dolcissima della Vergine e del Bambino. La stanza è disadorna, la fuga delle cellette è muta come quella di un'infermeria di collegio, dopo una malattia. Il frate è un giovane pallido, precocemente ingrassato e con un chiaro accenno di incipiente calvizie. Il suo aspetto non è attonito, l'apparizione è dolcissima, è quella appunto di una religione del naturale, vicina e modesta, insostituibile e cara come la vita degli affetti. Vorrei continuare: quel quadro m'ha sempre ricordato la favola che Roberto Rossellini sapeva raccontarci così bene, in Paisà, il film che vide suo assistente anche Fellini; e che narrava come, in un convento di frati tra Marche e Romagna, dove la lingua italica cede alle nasali della timidezza padana, fosse giunta la guerra e, con essa, arruolati nell'Ottava Armata, i ministri di religioni diverse, in visita al convento. Negli anni Cinquanta, le campagne marchigiane non erano davvero mutate gran che dalle immagini di quel racconto semplice marchigiane non erano davvero mutate gran che dalle immagini di quel racconto semplice che un'intelligenza d'arte e di studio ci metteva davanti in quel film ammirevole. Eguale l'impaccio di una timidezza forte, dell'orgoglio della fede sotteso alla delicatezza dei rapporti umani pur in una condizione di orrenda lacerazione e di morte. Simile il dettaglio figurativo, minuzioso e umile insieme, come quello appunto di un quadro, di una pala d'altare conservata nelle chiese della nostra giovinezza. A distanza di tanti anni, quel riserbo gentile calato dentro il mondo di sovrano equilibrio della povertà, torna alla mente proprio come un quadro di Guerrieri. Troppo facile dire che era il saluto dell'adolescenza che se ne andava, meno difficile leggervi dentro l'atroce abbandono del mondo storico, della antica società italiana. Nonostante il richiamo all'oggettività e l'invito a non concedere nulla all'onda della memoria, temo che molto della figura poetica di Giovan Francesco Guerrieri sia, dentro di me, legato in modo irreparabile a quel mondo smarrito. Qui, negli anni Trenta, o poco oltre, si sarebbe tentati di concludere la narrazione critica delle vicende di Giovan Francesco Guerrieri pittore, per cominciare la lunga, e anche se mai mortificante serie delle commesse minori, delle opere di sopravvivenza e insomma nel dilungarsi di una cultura di periferia. A tentazioni di questo genere, lo storico è talora indotto quando il processo creativo sembra togliersi dalla vitalità coinvolta e responsabile del dibattito, nei luoghi della vita culturale, per prendere un suo corso più silenzioso e così rendersi normale alla vita d'una provincia italiana. Se non a questo livello, certo ad una mesta clausola artistica, sopraffatta dall'esistenza e dai suoi mali imperanti, anche noi cedemmo nel 1958, allorché cercammo di narrare, con i mezzi di allora, la lunga storia di un pittore metaurense fuggito di casa e da Fossombrone diciassettenne, nel 1606, e costretto poi a tornarvi alla fine del 1618. È la conclusione della giovinezza, la stessa grande avventura caravaggesca si rifugia nelle periferie italiane e semmai vince il suo confronto nell'Europa del nord. Il procedimento mentale e di metodo era distorto per inflessioni e vaghezze letterarie, e tuttavia aveva dalla sua anche la scarsità di mezzi, la povertà degli strumenti di indagine allora a disposizione. Il lavoro di sonda che oggi, con mano molto responsabile, è stato condotto in tutto il territorio agricolo, tra Marecchia e Metauro, ha fatto letteralmente scaturire nuove, spesso molto elevate quantità di opere del Guerrieri: tele alle quali sarebbe difficile davvero negare il proseguimento di una vitalità creativa, di un fervore intellettuale e anche liturgico. Così, la prospettiva critica muta il suo indirizzo sotto il peso oggettivo del lavoro di scavo, di paragone e di classificazione storica. Turba semmai pensare che si debba parlare di scavo, quasi di una condizione archeologica, a riguardo di un paesaggio storico in piena emersione, qual è quello che si precisa nella trama puntuale, perfetta, indimenticabile della chiesa parrocchiale italiana. E qui, la gratitudine va ad alcuni colleghi che, guidati da Bruno Toscano, ci hanno insegnato con il loro lavoro di Ricerche in Umbria (proprio così, questo è il titolo del lavoro e di una splendida mostra del 1989) che la storia dell'arte italiana è ancora possibile, anzi più proficua che mai nei suoi risultati di prospezione critica e anche di immediata resa storica: a patto però che il territorio italiano, questo fantasma culturale, venga nuovamente affrontato con serietà di indagine, e anche con un vero governo tecnicoscientifico. Una traccia per la conoscenza critica di Giovanni Francesco Guerrieri Andrea Emiliani Il caso di Giovanni Francesco Guerrieri, della sua vita sconosciuta agli studi fino a qualche decennio fa (1958), e della sua attività che gradualmente s'è rivelata, per approdare oggi ad una monografia piuttosto soddisfacente quanto a ricognizione sul catalogo delle opere, è uno dei numerosi casi che oggi ancora, e nonostante i consistenti avanzamenti della ricerca, popolano la nostra storia: quella insomma di un paese, l'Italia, che ha riconosciuto all'arte in anni e secoli passati (non certo ai nostri giorni) un'importanza decisiva per il formarsi di una coscienza di cultura comune. Il nostro paese, in ogni sua forma, è stato letteralmente plasmato in un progetto di forme d'architettura, di figuratività che lo hanno reso unico e insostituibile nel mondo moderno. In ogni luogo, anche nel più periferico all'attuale potere insostituibile nel mondo moderno. In ogni luogo, anche nel più periferico all'attuale potere delle capitali, si palesa la volontà di costruire con l'arte un mondo di complessa unità, nel quale ogni aspetto - dalla cultura alla religione - prende forma espressiva. Ai nostri occhi, l'Italia periferica, e dunque quella che inizia appena fuori dalle periferie non propriamente civili delle poche, stentoree "metropoli", ha la forza, ancor oggi, di esprimere tutto il potenziale artistico e storico di cui è immensamente dotata e capace. L'abbandono del patrimonio, in questi anni risolutivi, porterebbe sulla nostra generazione l'accusa della distruzione, per giunta, di una economia della cultura di future, grandi proporzioni. Il lavoro che oggi presentiamo non è quindi dedicato solo al Guerrieri, ma a tutti gli artisti italiani che, vissuti fuori dai centri del potere costituito - e spesso anche se immersi in essi - non sono ancora riemersi alla luce della conoscenza. La monografia dedicata al Guerrieri è un invito a sollecitare realisticamente l'opera di catalogazione del patrimonio italiano. Non si tratta solo di un adempimento amministrativo, ma soprattutto di un generale, necessario rinnovamento della storia dell'arte italiana. È almeno singolare che un progetto di lavoro per Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone sia nato in noi prevalentemente da ricordi. Questa è una riflessione personale, che non nasconde assolutamente le altre spinte ad un perfezionamento della figura dell'artista (assai più complessa di quanto fosse possibile immaginare nei lontani anni Cinquanta). La personalità di Guerrieri non ha mancato infatti di suscitare adeguate attenzioni in chi, come Paolo Dal Poggetto, porta la responsabilità di restauri di conservazione che per l'artista - in ragione del suo storico abbandono - sono ora fondamentali. Quasi quarant'anni fa, era impossibile, o quasi, "vedere" i dipinti del fossombronese, e specialmente quelli delle chiese di campagna. Oggi, questi restauri suonano esattamente come veri recuperi di identità, e di ciò non si può che essere grati a chi - iniziando da Giuseppe Marchini e da Italo Faldi, da Filippa Aliberti a Dante Bernini e con la collaborazione di Luciano Arcangeli come di altri numerosi giovani studiosi - ha voluto portare la propria, decisa attenzione sul Guerrieri. La forma storica del paesaggio I ricordi vivono però una loro vita, e tra loro si muovono anche alcune giovanili disillusioni. Si viveva, in quegli anni del dopoguerra, nel "meraviglioso" paese della povertà esemplare. Era, quella davanti ai nostri occhi che si aprivano alla poesia e all'arte nell'alta figura architettonica di Urbino, una campagna di così perfette forme, di così storico equilibrio, da farci naturalmente sognare che, sì, a tutto questo, come a quelle montagne montefeltresche e marchigiane, e alle città un po' contrite per il lungo abbandono e meravigliose nella loro solitudine estetica, avremmo finalmente potuto portare il beneficio di un'economia moderna. Avremmo lentamente riportato una parte, sognata appunto, di quell'antica vitalità che il paese delle città e delle campagne, dei municipi e delle chiese, aveva esemplarmente alimentato. Questo era il paese, al quale la memoria - lo capite - è la sola a potersi rivolgere come ad un sogno di armoniosa compostezza, forse anche di contenuta modestia. E in questo paese crebbero, tuttavia, la religione delle nostre madri e quella loro presenza civile, compunta e generosa come la nostra eterna provincia: la provincia italiana, e cioè - di certo per noi che d'arte ci occupiamo - la più straordinaria riserva di conoscenza storica e artistica che si possa immaginare, il luogo dell'incontro fra le scuole delle grandi città, centri di potere e di irradiamento, e questa minuta, vitale, sensibile quota o livello, o medium, di culture di slittamento o di resistenza, di autonomia o di dipendenza: sempre pronta nel rilevare in ogni borgo, o quasi, nato un artista; da ogni artigiano, esprimersi capacità espressive felicissime; da ogni bottega, fiorire progettualità capaci di coinvolgere il volume ospitale, famigliare ed ampio di chiese adatte a riunire e a rivelare la complessa vita delle forme che in quel luogo è stata, nei secoli, creata; e che ancora in quel luogo si esprime. Il solo luogo che, nel mondo intero, possa davvero farlo, e cioè proprio questo nostro paese contraddittorio. Grandissima provincia italiana, sommersa oggi ancor più di un tempo. E non dall'abbandono economico, ma semmai dal travaglio della ricchezza che ne deforma l'aspetto con i suoi economico, ma semmai dal travaglio della ricchezza che ne deforma l'aspetto con i suoi distruttivi ritardi culturali e, sotto certi aspetti, con la ferocia del suicidio culturale. Nulla in questo paese è più fisicamente concreto -sia nella sua qualità artistica, quanto nel suo stesso degrado - di ciò che usiamo chiamare retoricamente "storia dell'arte". Ma questo significa che, ad ogni distruzione o prevaricazione, risponde l'atroce soppressione di un bene artistico. È un intero progetto di vita e di qualità che lentamente, irreparabilmente, si allontana. Studiare un artista vuoI dire creare una importante resistenza della cultura. Una prima proposta di metodo Ecco, il Guerrieri che allora, con il solo conforto di una efficace scheda di Federico Zeri (1954), provammo a identificare nel Montefeltro e ai bordi dell'attigua Romagna, finì per diventare un po' l'eroe di questa muta bellissima geografia del paesaggio periferico, reso solitario da emigrazioni e da sradicamenti imponenti. Avremmo voluto già allora salutare in lui l'eroe di una fuga da Roma, forse parallela a quella dell'altro grande umiliato dal destino e dalla violenza, Orazio Gentileschi; di una fuga che, al pari di quella di oscuri catecumeni, pensavamo allora cercasse rifugio - dopo la scomparsa di Caravaggio - nelle vallate rese sicure da una fede che si opponeva al ritorno di Roma triumphans , dopo la lunga controriforma cattolica che, soprattutto nelle campagne, oltre che a ripristinare nuove autorità, aveva anche accompagnato il fondarsi problematico di tante istituzioni della moderna società italiana. A noi interessava allora, come adesso, l'affiorare di quel bisogno di verità che, dalla poetica degli affetti, passava alla costruzione di una più vicina antropologia, contrastando intensamente, così, gli scritti di interdizione e di intimidazione della pubblicistica ufficiale, dal Gilio al Paleotti. Eravamo convinti che, mai come nella povera pittura fra Cinquecento e Seicento, la trasgressione si applicasse a chiarire in senso affettuoso e appunto naturalistico, verisimile e vero, le ragioni dalla comunità e dell'individuo, quelle della povertà e dell'indigenza oppure dell'onesto benessere; l'immagine del lavoro e, in riflesso, della devozione; la virtuosità infine della modestia temperante, costruttiva e fiduciosa. Volti di uomini e di donne, attitudini e comportamenti che sono giunti - forse malinconici e oppressi, certo sinceri e diretti - fino all'ultima guerra mondiale. L'estate del 1944 segnò per le Marche l'uscita dal vano silenzioso, povero e senza tempo, della storia. Questo libro nasce da alcune sovrapposizioni, l'ultima delle quali fu un progetto di lavoro che mi consentì di riprendere se non un tradizionale saggio critico, almeno una traccia abbozzata per far convergere nuove opinioni verso il problema dell'attività del Guerrieri. Esso fu infatti suggerito dal Centro Studi Salimbeni di San Severino Marche come un'ipotesi attorno alla quale così gli studiosi che il pubblico potessero trovare una non generica informazione. Dentro il nostro tema, almeno come tensione culturale e di sentimento, vorremmo però che il lettore intravvedesse comunque l'immagine reale e insieme evocativa dalla quale siamo partiti. Che è quella del "territorio", un fantasma lessicale in gran voga fino a qualche anno fa, e che ha trascinato con sé nel limbo dei linguaggi morti - quello politico, quello della programmazione, quello della progettazione ambientale - le spoglie del bene maggiore che il nostro paese possedeva. L'essere, cioè, un paese interamente, minuziosamente costruito dall'uomo e dalle sue necessità; modellato centimetro per centimetro dal lavoro, come diceva, nel solo realistico progetto per un'Italia moderna, Carlo Cattaneo. Artisti come Giovan Francesco Guerrieri, che la condizione ha portato ad un'economia di impresa spesso artigiana e tuttavia non priva (e per lunghi anni) di un'efficace figura culturale, coprono uno spazio più vasto - senza paradossi di altri maggiori colleghi legati a committenze illustri e da più riservate strategie collezionistiche o museografiche. I protagonisti di questa provincia, specie di quel Montefeltro urbinate che si avvicina, a quei tempi, all'inesorabile devoluzione e alla morte della signoria roveresca (1631), recitano ormai ruoli difformi e occupano luoghi diversi, fra i quali s'impone la chiesa parrocchiale, questa cellula culturale, questo fuoco di comunità che è stato il fulcro dell'organizzazione territoriale e cioè del paesaggio storico - e di molte forze che ne hanno dettato le forme bellissime. di molte forze che ne hanno dettato le forme bellissime. Le ricerche sulla vita artistica e storica in aree decentrate sono sempre difficili per la naturale e frequente mancanza di strumentazione così documentaria che bibliografica. Se questo vale per oggi, è facile immaginare come si presentasse, nei primi anni Cinquanta, l'ambiente storico marchigiano, nelle province dove il Montefeltro si alimenta nel suo storico rapporto con l'Umbria e, a occidente, con la Toscana; per poi, a settentrione, complicarsi in una serie di enclaves a ridosso del Marecchia, fino quasi il sfociare a Sant'Arcangelo di Romagna. Ma non bisogna dimenticare che il buon positivismo ottocentesco aveva già procacciato alla società, per fortuna, certe ricerche documentarie, risultato di stagioni archivistiche mai abbastanza lodate, sulle quali la nostra pretenziosa prospettiva storica ha d'altronde prosperato, e continua anche oggi a vivacchiare. Tra Marche e Romagna Il caso di Giovan Francesco Guerrieri è, in questo senso, esemplare. La ricognizione che ce ne diede il canonico Augusto Vernarecci, sapiente ricercatore della nostra Fossombrone, condensata in un saggio storico dedicato alla triade secentesca metaurense, composta appunto dal Guerrieri, dalla figlia Camilla e infine da Giuseppe Diamantini, nel 1891 (ma diffuso nel 1892), appartiene a quelle opportunità che per metodo, cautela, caparbietà ognuno di noi vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita. La piccola "Nuova Rivista Misena", diretta da A. Anselmi, fu, a sua volta, un modello prezioso di comunicazione positiva, spesso la sola relazione aperta tra galantuomini desiderosi di vivificare gli studi patrii, tra sacerdoti riscaldati da un amore verso il corpo fisico e storico della Chiesa che non ne tradiva per questo il corpo mistico, ma piuttosto lo alimentava nella più alta tradizione muratoriana. Anche attraverso queste lunghe ore di gelidi archivi invernali, di caldissime sacrestie estive, fra la polvere e le scartoffie, i geloni alle dita o il fazzolettone al collo per tergere il sudore, transita la storia: certo quella, tra altri carneadi, di Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone. La mia prima esperienza rivolta al tema delle ricognizioni d'area, ovvero delle intersezioni fra la dimensione dello spazio e quella del tempo, e cioè il luogo e il modo dell'evento artistico, fu quanto mai fortunata. Fui cioè guidato all'incontro da quel vero, serio "museo immaginario" che una mostra esemplare può esprimere dal suo seno. L'esposizione era La pittura del Seicento a Rimini , una rassegna estiva sorretta da un catalogo a cura di Cesare Gnudi, di Francesco Arcangeli e, infine, di Carla Ravaioli. Correva l'estate del 1952, protagonisti ne erano il Cagnacci e il Centino; ma, tutto attorno al loro naturalismo, s'illuminavano i problemi con gli arrivi bolognesi, dal Massari al Mastelletta; con gli influssi marchigiani, dal Pomarancio al Cantarini. E sembrava dunque di vivere - che so - la lettera famosa dell'Algarotti al Mariette del 1761, con la narrazione dei pregi della Romagna; oppure le belle pagine del Marcheselli, un altro corrispondente di Luigi Lanzi. Il quale era infine il vendicatore calmo e salomonico degli spiriti di provincia, turbati due secoli prima dalla prepotenza vasariana; ed insieme il più splendido, accorto e pragmatico storico del "territorio" che si possa immaginare. Forse un po' purista di fronte al nostro barocco "parrocchiale". Questa mostra riminese era anche e soprattutto un progetto, un programma per una serie di restauri, di recuperi, di nuove indagini a guerra da poco terminata. Credo che se tutte le infinite, proliferanti e talora banali occasioni di mostra fossero state accompagnate da uno sforzo programmatico per una campagna di restauri, avremmo avuto certo meno mostre ma, in compenso, avremmo attivato una capillarità di tutela oggi impensabile. In quella torrida estate riminese vidi sorgere un modello di metodo (e di prassi) al quale non credo di aver mai rinunciato. Il mio esordio nella disciplina e nelle sue pratiche era avvenuto, in qualità di turista estivo e appena diplomato, con una visita ad un'altra caldissima ma sensazionale mostra, quella della Pittura bolognese del Trecento , estate del 1950. Nell'inverno del 1952 avrei affrontato a Milano la grande mostra del Caravaggio, e nel 1953 la mostra di Lorenzo Lotto, prima fatica di Pietro Zampetti a Venezia. Confesso che quando si dice che le mostre sono inutili (e ciò non manca di alcune verità solenni) io sento rimordere dentro di me la sono inutili (e ciò non manca di alcune verità solenni) io sento rimordere dentro di me la coscienza di quell'attacco strepitoso ed esaltante. E non me ne priverei per tutto l'oro del mondo. La mostra del Seicento a Rimini - per tornare al nostro problema - fu anche la piattaforma dell'insegnamento di Francesco Arcangeli, visitatore ciclista di questa città e di queste campagne in stagione balneare. Le chiese erano allora tutte aperte al visitatore, anche quelle campagnole, anche nel mezzogiorno più torrido e pieno di cicale. Ripenso a quel paesaggio meraviglioso e mi domando chi davvero abbia avuto, più di noi, alle soglie del mondo delle istituzioni culturali moderne, l'incredibile, felicissima possibilità di entrare in quelle ombrìe sommerse, e lì abituare gli occhi all'oscurità, intravvedere e vedere quei dipinti che stavano lì in attesa di visite, sommesse pagine di quella società dei poveri, dei derelitti, che la riforma cattolica aveva diffuso nelle nostre campagne. I personaggi, prevalentemente la Vergine col Bambino, e la famiglia delle Sant'Anne e dei Gioacchini, di Giuseppe affaccendato in tralice, e poi dei patroni più domestici, i Santi Ubaldi contro i terremoti, i Biagi contro le tossi maligne, i Crescentini contro le guerre, le Apollonie contro il mal di denti, sostavano in quella frescura un po' complice, semplici nella loro presentazione, composti nelle elementari positure e nei corretti panneggi, immersi in un cromatismo un po' risaputo e domestico. Ma ciò che conteneva poi tutto questo, solenne e affettuoso come una benedizione rurale, era quello straordinario ambiente stilistico e affettivo, una globale Stimmung insomma, che si dovrebbe chiamare "naturalismo" del territorio artistico italiano nell'età di Controriforma. Intendo quel modo accostabile e mite, e tuttavia veritiero, non trionfalistico, con il quale tanti artisti si sono accomunati alle popolazioni, ne hanno vestito innumerevoli dolenti vicende oppure hanno sorriso con loro per una modesta gioia. Questo fu il mondo nel quale mi apparve proprio lui, quasi prima delle sue stesse opere, e cioè Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone. Per le origini di Simone Cantarini Nella realtà quotidiana, e di biblioteca, il nome di Guerrieri, oltre che abitare le Regie Deputazioni di Storia Patria, emergeva soltanto, o quasi, tra le pagine illustrate dell' Inventario degli Oggetti d'Arte del Ministero, allora della Pubblica Istruzione - l'ottavo, dedicato alle province di Ancona e di Ascoli, a cura di Luigi Serra, di Bruno Molajoli e di Pasquale Rotondi (1936). Chi scrive, avendo nel frattempo maturato la scelta di lavorare su Simone Cantarini per la propria tesi di laurea, fece di questo volume un vero calepino. Non si può che nutrire gratitudine verso i tre compilatori, veri amministratori del patrimonio marchigiano, anche per questo volume di "compilazione", come dicono i saccenti, prezioso in realtà - come pochi altri. A pagina 168 dell'Inventario, appare la foto del Miracolo della canna di San Nicola da Tolentino, in Santa Maria del Ponte del Piano: opera diversamente sconosciuta a chi non frequentasse di persona le chiese di Sassoferrato. Era, nel piccolo formato, curiosa e seducente la composizione, un misto di narratività naturalistica e di invenzione allusivamente classicheggiante. Si avvertiva insomma emergere, da sotto il chiaroscuro un po' fumoso, il disegno del Domenichino a Grottaferrata. Era quanto occorreva, però, per sollecitare l'interesse di chi andava in giro a scoprire, se mai riusciva, quali fossero le origini della naturalezza, della sottigliezza anche psicologica del giovanissimo Cantarini; prima che costui, dalla nativa Pesaro, approdasse nello studio di Guido Reni a Bologna. Ma per ricercare, precisare la delicatissima fisionomia di Simone, era necessario tornare ad affondare le mani nel grande spazio che in patria lo precedeva; uno spazio che non contiene soltanto l'immagine moderna, e insieme l'antico modello, di Federico Barocci; ma che si articola in dimensioni storiche molto vaste e intersecate. Le quali certo, oggi, hanno goduto di una buona, spesso ottima illuminazione critica; ma che allora si spalancavano come un vano oscuro di fronte a chiunque cercasse almeno i lineamenti sommari delle intricate vicende marchigiane a cavaliere dei due secoli. Per chi scrive, messo alla frusta dalla necessità, si trattò di un notevole impegno, in seguito approfondito solo in parte, e proprio a cominciare dalla personalità di Giovan Francesco approfondito solo in parte, e proprio a cominciare dalla personalità di Giovan Francesco Guerrieri, di Andrea Lilli, di Federico Barocci e, naturalmente, di Orazio Gentileschi. Quanto al più largo disegno di età e di condizione, fra il 1954 ed il 1955, la nostra ricerca aveva toccato anche generali scenari, alcuni dei quali si possono in fondo cogliere nelle pagine che qui seguono: quasi un progetto, un brogliaccio di lavoro che diverse occorrenze di vita, e altre vicende, non mi consentirono di affrontare mai più. Molto lavoro è stato tuttavia condotto da altri giovani studiosi che operano a Urbino e nelle Marche, e che anche di recente ha vissuto momenti di più largo interesse, come ad esempio nell'occasione felice della mostra fiorentina dedicata ad Artemisia Gentileschi (1991). Note per l'arte tra due secoli Un suggestivo contrasto di lingue condiziona nelle Marche, agli albori dell'età moderna, l'indagine stilistica oggi rivolta alle opere. Emerge, con la forma di una dinamica transizionale, e nel modo che più avanti apparirà evidente, il vario riproporsi ed intersecarsi dei due termini, or concordi, or discordi, nelle persone artistiche che operano nella regione, grosso modo dal ritorno di Andrea Lilli, forte, cavalleresco artista anconetano, alla prima educazione di Simone Cantarini, detto Simone da Pesaro, il raro talento che giunse a spezzare in Bologna il rigido cerchio stretto tutto attorno dall'operare strenuamente perfetto di Guido Reni. Naturalmente il fenomeno della transizionalità non è legato solo alla dimensione stilistica, alle caratteristiche culturali. Esso si incrocia costantemente con quella sorta di labilità, di stallo oppure di contraria velocità di trasmissione, che rende davvero necessaria una indagine storica molto connessa alle tematiche urbanistico-territoriali, e alla forma di una regione "introvabile", come Roberto Volpi l'ha definita qualche tempo fa: non solo policentrica ma anche itineraria. In questo modo, il regime degli arrivi e delle partenze, nel quadro mobilissimo degli eventi artistici, delle collocazioni e delle ubicazioni, delle suggestioni e delle influenze, ha un valore dominante. Si tratta, per molti versi, di un aspetto ulteriore di una geografia della storia. Non mancherebbero, ad orientarci, le notazioni da condurre in margine all'opera dell'autorevole, ma tardo storiografo marchigiano, il marchese Amico Ricci, e particolarmente al riguardo dei capitoli XVIII, XXII e XXIV delle sue Memorie della Marca di Ancona (1834), tutti riguardanti le relazioni fra pittura locale e ambiente artistico cosmopolita, romano e bolognese; altrettanto rimarrebbe da fare nei confronti delle più convincenti e persuasive citazioni, sparse qua e là nell'opera, di presenze delle reciproche influenze e determinazioni stilistiche fra le varie persone artistiche che fanno storia in questo momento. Ma tuttavia una gran parte del lavoro è da condursi direttamente "sul campo". La ricerca degli anni Cinquanta ebbe proprio questo fine, e forse cerco soltanto oggi di riepilogarne in sommario qualche tratto generale e ciò nonostante altri, da Zampetti a Luciano Arcangeli, abbiano fatto molto progredire la conoscenza di questo affascinante problema, da allora a oggi. Questa è ora soltanto una sinopia molto sommaria per creare uno scenario sul quale proiettare la figura del Guerrieri. Quanto al primo oggetto della nostra lettura, e cioè alle relazioni della pittura locale con gli ambienti artistici di Roma, sarà sufficiente l'accenno all'attività romana di Andrea Lilli; e, ancora, ai suoi rapporti con l'ultima Controriforma romana in genere, e con i barocceschi senesi e urbinati in particolare; quanto poi all'accentuazione della frattura fra zuccareschi e barocceschi, così viva nelle pagine del Ricci, essa è probabilmente da ricercare e da giustificare nello spiccato tradizionalismo dello storico, confesso e dichiarato, meglio che in una realtà storica, naturalmente più fluente, continua e mediata, pur nella contrapposizione stilistica, dalla fretta dei tempi carichi di vicende. Ma vedremo meglio più avanti. Quanto invece al secondo aspetto della nostra lettura, i problemi si frazionano, allorché si passi a sottolineare le più vivaci presenze forestiere in seno alla provincia, in una confusa difformità di intendimenti stilistici e poetici. Così, ad esempio, l'attività marchigiana di Cristoforo Roncalli delle Pomarance; la tradizione veneta di Claudio Ridolfi che sembra approdare qui dalle costole dell'ultima pala di Paolo Veronese a San Giuliano di Rimini; la misteriosa "verità" di Ernesto de Schaychis; la naturalezza "civile" e moderna di Andrea misteriosa "verità" di Ernesto de Schaychis; la naturalezza "civile" e moderna di Andrea Boscoli. Né mancherebbero sollecitazioni da aggiungere, tratte dal testo del Ricci, solo a volte ricco e sorprendente; ma l'importante sta forse nel trovare a questi fatti, frammentariamente rinvenuti sulla carta, una nuova significazione, ulteriore e precisata collocazione critica e storica, soprattutto attraverso una più accurata selezione delle precedenze poetiche e qualitative cui talora il Ricci non accenna, che tuttavia il Ricci sempre ritiene scarsamente importanti per lo sviluppo dei fatti a venire. E che invece sono la vera storia del secolo, l'innesto più fruttifero, la traccia infine più eloquente ancor oggi, agli occhi dello studioso che vada ricercando, chiesa per chiesa, i documenti impegnativi di quella civiltà poco conosciuta. Manca infatti nella intera opera del Ricci, strumento tuttavia unico e difficilmente sostituibile, qualsiasi citazione di portati naturalistici, di novità fragranti dal mondo vivo della nuova società caravaggesca romana: fuori dai limiti geografici dell'opera, che interessa la sola marca anconetana, l'attività fabrianese di Orazio Gentileschi, non resterebbe che aggrapparsi, per ascoltare voci di riforma dalla penna di questo conte Monaldo degli studi storico-artistici, troppo esiguo e ritardato, per costituire un cardine di interessi, una fonte di ispirazioni operanti e sollecite. Ed è proprio a questo punto che fu necessario - ed è pure una necessità di studio - scostato il tavolo, ed allontanati carta e calamaio, sostituire alle pur utili notizie forniteci dal Ricci, alcune notazioni più vive, ed integrare attraverso l'autorità di più valide ricerche, viaggi appassionati quando possibile, la storia degli interventi decisivi nella regione marchigiana intorno agli ultimi anni del Cinquecento nel corso dei primi decenni del Seicento. A tal proposito, intanto, si deve ricordare che sulla fine del 1603 è accertata in Tolentino la presenza di Michelangelo da Caravaggio: un soggiorno breve, e quasi immediatamente interrotto, nel regesto cronologico della sua vita, dal famoso lancio di carciofi nell'osteria romana del Moro; ma un soggiorno che avrà certo maturato i suoi frutti. Non mancano, nelle Marche, copie e riprese dirette dall'opera caravaggesca, tali da suffragare la mancanza degli originali, probabilmente pochi e perduti nel tempo. Valga come tipico esempio quel Sant'Isidoro Agricola già nella chiesa di San Filippo ad Ascoli Piceno, citato dal Lazzari (1724) e descritto come opera di pregio e considerevole; la povera copia conservata nel Palazzo Comunale della cittadina, a parere di Roberto Longhi, sembra suggerire una datazione intorno agli anni 1605-6. Legata agli anni tardi dell'attività di Caravaggio, la copia del Cristo alla colonna del Museo di Macerata, se di provenienza locale, suggerisce di nuovi umori, inevitabili reazioni pur nello stagno tranquillo che la provincia fa delle novità del secolo. Né sarà possibile passare sotto silenzio la ormai famosa Natività che Rubens collocò in San Luigi di Fermo intorno al 1606-8. È proprio all'esame di questi primi temi che le Memorie del Ricci, sia per la natura circoscritta dei limiti geografici imposti, sia per la già esemplificata indifferenza nei confronti di alcune vicende particolari, da ritenere estremamente importanti, si rivelano del tutto inutilizzabili. Lilli, Boscoli e il Gentileschi S'è già fatto, più di una volta, il nome di Andrea Lilli; e anche quello di Andrea Boscoli non torna nuovo. La presenza del primo a Roma era documentata negli ultimi due decenni del Cinquecento soprattutto nell'impresa collegiale di Santa Maria Maggiore, uno dei cantieri più interessanti della Controriforma. Il ritorno in patria, avvenuto a parere del Molajoli intorno al 1596, segnerà, nella cultura della regione, una data assai importante, tanto è fresca e viva la lingua che, in quel torno di tempo, sapidamente lega entro un ornato neotibaldesco le belle storiette di San Nicola da Tolentino del Museo Civico di Ancona. Cresce, allora, la storia di questa provincia, apparentemente abbandonata alla sterilità dei minori barocceschi urbinati, o al tardo venezianismo, portato senza troppo conseguenze, delle importazioni marchigiane di Palma il Giovane. Un'indagine molto esauriente è stata quella condotta da Luciano Arcangeli con la mostra anconetana del 1985. Nuovo incentivo è lo straordinario arrivo di Andrea Boscoli in quel di Macerata: straordinario tanto da far prendere per buono l'aneddoto passato dal Baldinucci al Ricci, che ci consegna Andrea come prigioniero militare, colto per avventura a disegnare le fortificazioni di Macerata (con la segreta intenzione, forse, di farne un libero paesaggio). un libero paesaggio). Impegnato, sulla consegna manieristica toscana, ed in particolare del maestro Santi di Tito, a destinare nuove forze verso la riscoperta di una trepida naturalezza, Andrea Boscoli data del 1599 la bella Predica di San Giovanni Battista della chiesa del Santo a Rimini; e probabilmente nello stesso anno porta a termine i due dipinti del monastero di San Luca a Fabriano. Una singolare forza luministica lo spinge a campire, sul grigio semitono d'ambiente, freschi strappi cromatici, dove la felpa del manto, o il cencio che fa da bizzarro copricapo al pastore, suonano come improvvisi, schietti fenomeni che la luce provoca bagnando fredda il colore. Quanto piacerà ad Andrea Lilli, ultimo e attento tramite di voce cinquecentesca in questa terra precoce, lo dicono le sue opere che affiancano quelle del Lilli e che convergono con esse. Ma altrettanto singolare, e direi addirittura sensazionale, è scoprire il modo con cui piacerà, al Gentileschi di una decina d'anni dopo, quest'aria schietta, questo fare sincero, in cui ritrovare la propria lontana, elementare vena toscana, quella che precedeva le novità del primo Caravaggio. Un passo, dunque, insospettato, e un rinnovato sentimento di aristocratica elezione manieristica, che era cresciuto insieme al nuovo pensiero luministico e che, pur nel pieno di quella richiesta di natura e di verità (in lui anche mentale), non abbandonerà mai nel corso della sua lunga e travagliata esistenza. Ma poi il clima dei ricordi, stemperati in una sedimentazione di molti decenni, coinvolgeva anche aspetti ormai antichi della Rinascenza. Sarà bello, per il Gentileschi, riandare per questo ai pensieri della prima giovinezza, mentre intorno maturano altri fermenti, e ritorna la ormai secolare naturalezza di Lorenzo Lotto. Un fenomeno, quest'ultimo, di lunga durata tanto sentimentale che di stile, capace di congiungere l'ornatura scontrosa dell'esule bergamasco con l'eredità lombarda così potente nel nuovo affioramento che prende corpo nella riforma caravaggesca. Naturalmente, come abbiamo anticipato, questo è ormai soltanto un brogliaccio di lavoro, un fondale appena dipinto che, negli anni Cinquanta, aveva il valore di una possibile ricognizione su quella realtà che, dopo le brevi risultanze del Lanzi e poi del Ricci, era stata riesaminata solo da Bruno Molajoli e per certi aspetti da Pasquale Rotondi, con il profitto del buon lavoro di riassetto operato da Luigi Serra negli anni Venti. Le numerose, tempestive mostre di documentazione di restauro e di recupero del patrimonio che la Soprintendenza urbinate ha realizzato a partire appunto da quegli anni, hanno consentito un avanzamento e una illuminazione che allora sembravano inarrivabili. Una volta ancora, in questo dopoguerra, è stato insomma possibile constatare che il restauro ha consentito un grado di leggibilità e di conoscenza altrimenti impossibile. Proprio su questa prima ed elementare chiarezza si sono allacciate tutte le suggestioni e le molteplici, slittanti e veloci, necessità di contatto e di ibridazione che corrono sul campo di una regione non centripeta, appunto, ma policentrica e ancor più, dominata da un regime vallivo che, agli albori dell'età moderna, sposta ogni flusso stradale dalla montagna e dall'intensità dei rapporti mediani e trasversali, verso la diversa condizione dei flussi itinerari costieri. La bibliografia porta traccia concreta degli interventi, prima di progetto culturale e poi di recupero, seguiti da consistenti studi che hanno visto impegnati studiosi e amministratori. Da anni Paolo Dal Poggetto segue con la maggior cura questo invaso problematico di valori artistici e di ragioni storiche, dove la figura così mobile e talvolta intrigante del Guerrieri si versa e, insieme, attinge. Quanto a noi, talvolta convinti a scrivere di Guerrieri assai più con le ragioni del tempo passato che con quelle di un presente criticamente incisivo, non possiamo che riconoscere il consistente, positivo avanzamento del problema. Qualche indulgenza ci consente di riportare ancora l'occhio su alcune pagine, che anche allora si chiamavano di prosa d'arte, e che oggi possono sembrare addirittura disadattate nel clima assai più freddo di molte esperte filologie. Ma, come si sa, la prosa d'arte teneva anche il posto delle soluzioni di continuità, delle cesure che ovviamente frantumavano un percorso già assai complicato; e poi, era davvero difficile non cedere alla seduzione di un paesaggio artistico di enormi, eloquenti stigmate storiche, posto tanto drammaticamente a confronto con l'attualità. Un argomento centrale, come è naturale, era quello della fuga di Orazio Gentileschi da Roma, in cerca di lavoro tra Ancona, Fabriano, e Pesaro. La miglior definizione della sua impresa apriva cerca di lavoro tra Ancona, Fabriano, e Pesaro. La miglior definizione della sua impresa apriva molti confronti con il giovane Guerrieri, così sul piano dello stile che su quello dell'induzione cronologica. "Ma, ad illustrare ancor più minuziosamente la precocità della Circoncisione di Ancona stanno gli stretti rapporti interni che si mostrano palesi con la Maddalena di Casa Pace a Fossombrone. Intanto, una sorta di colossale dilatazione inventiva sembra dominare quella composizione: del gesto 'vero'; del fotogramma erompente; della profonda umanità di Caravaggio, non resta quasi se non l'acredine, questo aguzzare d'occhi vetrini come a meglio intendere la gioia del colore altero e minuzioso. Diaccia, diafana o tagliente, ogni tonalità è distesa con quell'unico intento che s'avvia a divenire sempre più totale ed esclusivo in vista della ormai prossima Madonna Rosei, o della bellissima Maddalena dei Cartai di Fabriano. Riesce quasi impossibile poter parlare dei reali valori del dipinto, in assenza dell'originale; la foto ne conserva appena - è indicativo - il traslucido lucore, freddo e implacabile, che i mezzi di riproduzione consentono. Il colore si distende, luminoso e lavandato per ogni recesso, e fuga con sgarbata lucidezza di 'a fuoco' ogni più piccola intenzione compendiaria e abbreviativa. Non bruciano i 'piccoli bracieri' del tocco caravaggesco: Rembrandt è più lontano che mai. Qui l'impressione è la stessa, scalena ed angoloide, che la composizione e la forma ci consegnano in certi dipinti nordici, dove l'ossessione dell'obiettivo, del telemetro spaziale rende pericolosamente squilibrate operazioni di massa che alla tecnica latina non sarebbe stato difficile risolvere in maniera tradizionale. Occhi aguzzi, fin strabuzzati e strabici; gran muovere di mani per tutto il dipinto; coppe lucide dagli orli taglienti: un'umanità così poco nostrana, memore soprattutto di infinite sopraffazioni manieristiche, acconciata in fogge talora non pertinenti. Un angelo, nella parte più alta della tela, volge il volto ed aggredisce la forma con riccioli e lineamenti affilati come trucioli metallici, frammenti di alluminio; quasi un esemplare fra quelli sanguinosi e bovini del Tanzio tornato a Varallo e compiaciuto della 'vulgata' michelangiolesca del genio lombardo di Pellegrino Tibaldi. È meglio avvertire subito che tale complessità di argomenti luministici era destinata a durare altrove, fuori d'Italia soprattutto. Il giovane Guerrieri mostra fin da questo primo esperimento di non saperne intendere la poesia, avviata ormai al mondo enigmatico e borghese della pittura del 'grande silenzioso' di Delft. Le diversioni sartorili, pretesti di lussuose campiture luminose nel maggior maestro, passano in lui con l'aria fra divertita e ambigua di un guardaroba confusamente indossato sotto certe luci crudeli di proscenio. Gli oggetti che là tranquilli e muti vivono ciascuno un proprio interno tempo di 'Stilleben', son qui disseminati a man salva, fra le ortiche, gli strumenti della mortificazione, lucertole e lumache ed ogni sorta di altri pretesti per l'evidente intenzione di giovare al 'decoro' di un mondo che troppo pare fuorviarsi dalle linee latine e tradizionali". In quegli anni, il problema era forse quello - più tardi chiarito bene soprattutto da Pietro Zampetti e da Luciano Arcangeli; a più riprese, ma specialmente nell'occasione della mostra dedicata ad Andrea Lilli (1986) - di meglio comprendere le consistenti tensioni di incontro che nuovi artisti, quasi tutti provenienti da luoghi alti della cultura artistica italiana, e cioè da (Roma, da Firenze e da Bologna, potessero creare, assumendo la piccola ma accogliente couche marchigiana come un luogo di soddisfacente committenza. In questi anni che chi scrive ha per più versi drammatizzato con le prime indagini sul Gentileschi, sul Lilli e soprattutto sul Guerrieri (1954-58), è giusto leggere anche il clima di attesa quasi millenaristica che coglie il Montefeltro urbinate alle soglie della devoluzione allo Stato della Chiesa: e che la mancanza di un erede maschio della famiglia di Della Rovere complica ulteriormente, colorendo l'attesa con una componente anche altamente popolare. Ma ciò riguarda soprattutto Urbino e il suo establishment, già punito in modo addirittura truce dagli eventi del 1570 e dalla mano vendicativa di Guidubaldo della Rovere: e di questo lento tramonto sono testimonianza principe le pagine di Bernardino Baldi, più che trasparenti in proposito nell'esaltazione di una città e di una comunità - quelle di Federico, per intenderei - erette come un modello ideale nel secolo precedente e già abbandonate, in pericolo di vita, nel 1590. L'altro segnale, di una angosciosa precisione, giunge addirittura vita, nel 1590. L'altro segnale, di una angosciosa precisione, giunge addirittura dall'accezione cristologica che il Barocci assegna ad ogni ricorrente narrazione della passione di Cristo: collocando alle spalle degli eventi dolorosi un paesaggio inevitabilmente, puntualmente urbinate; e ancor più, un paesaggio urbinate visto e traguardato dalla finestra del proprio studio. Ma poi, scendendo da quelle balze ormai abbandonate, verso una nuova vita di commerci e di traffici e lungo le più battute strade vallive e della pianura, si scopre che la condizione di questi anni non è la peggiore. Ad essa e alla sua piana descrizione, Sergio Anselmi dedicò alcune nitide pagine in quel catalogo che, nel 1988, il Centro di Sanseverino realizzò col proposito di disegnare un piano-programma di studi rinnovati e più esaurienti a riguardo proprio di Giovan Francesco Guerrieri (pp. 101-108). Lo scritto dell'Anselmi era già esso, quasi spontaneamente, una proposta di lettura del territorio e delle sue caratteristiche per meglio osservare il dispiegarsi dei flussi culturali possibili: "Ancona e Senigallia per le attività mercantili export-import, Macerata quale capitale amministrativa, Loreto santuario di prima grandezza, il secondo della cattolicità -, Pesaro e Urbino, luoghi di sofistica cultura tardorinascimentale, Fermo potente e ricco caposaldo arcivescovile, fanno delle Marche un'area di solida consistenza: Roma guarda ad essa con notevole cura. Lo attestano, tra l'altro, l'enorme numero di sedi vescovili (ancorché poco presenziate dai vescovi nonostante i decreti tridentini) per una popolazione che, al tempo del primo censimento pontificio (1656) non tocca che le 500 mila teste, l'alto numero di prelati che hanno qualche 'titolo di privilegio' nelle Marche, l'assetto agricolo che assicura, con la fornitura di grani a Roma e a parecchie altre grandi città dello Stato (Perugia, Bologna, Ferrara, ecc.), grossi affari con le 'tratte' per l'estero. Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia, per le vie di mare; Jesi, Macerata, Ascoli Piceno per le vie di terra, sono tra i maggiori centri di esportazione delle granaglie". In questa condizione mediana, non essendo - Marche e Romagna - al centro del mondo, ma neppure nella più infelice periferia di esso, si solidifica una condizione che è quella che regge un sistema urbano-rurale destinato a durare, ormai, fino all'unità nazionale. Per quel che ci interessa, non si può neppure tralasciar di ricordare che come Fano era già da tempo immediate subjecta alla Chiesa di Roma, che in effetti vi fa convergere un visibile numero di opere pubbliche e di imprese liturgico-devozionali e artistiche; e che numerosi erano governatorati e protettorati i quali (come - per quel che ci interessa - Fabriano) gestivano, con concreta capacità di iniziativa di vescovi e di castellani o di magistrati, la ricca materia della commessa architettonica ed artistica. Solo in questo più largo scenario si comprende la nozione di transizionalità così temporale che spaziale delle Marche; e si afferrano anche le prime considerazioni, più tentative ed ipotetiche che altro, di quelle nostre ricerche iniziali. "Orazio, nel 1621, dopo aver lasciato Fabriano e le Marche, quasi ultimo omaggio alla ormai lontana giovinezza, in modi tuttavia di splendida, aristocratica elezione naturalistica, eseguirà la Annunciazione della Sabauda di Torino, dov'è proprio il Boscoli del dipinto fabrianese del Monastero di San Luca a rinverdire la fronda della più antica naturalezza fiorentina. Egli ha rinvenuto in questa solitaria provincia, nel suo sereno soggiorno - poiché tale lo vogliamo immaginare le due componenti più care della sua carriera poetica precaravaggesca: Andrea Lilli, un ben alto ricordo delle amicizie contratte nel cantiere di Santa Maria Maggiore; Andrea Boscoli, parallelamente, a suffragio dei moventi luministici di studiata, pacata verità descrittiva destinati a durare nella storia della pittura europea. Tutto ciò, com'è naturale, dovrà meglio intendersi sulla base dell'esame diretto delle opere, cercando di risolvere nel contempo alcuni problemi specifici e collaterali che, nei casi singoli, si sono presentati. Basterà accennare alla migliore sistemazione cronologica dell'intera produzione marchigiana del Gentileschi, in relazione ad ulteriori ricerche da condurre negli archivi delle città marchigiane. Infatti, una parte non banale dell'attività dei pittori marchigiani dei quali cerchiamo di connettere una prima mappa di orientamento, sta riposta nella loro sveglia capacità di intervento sui grandi problemi tra manierismo e barocco. Si tratta di una tempestività che va a merito anche dell'opera del giovane Guerrieri, in molti modi tuttavia legato al Gentileschi e ai suoi movimenti prima in Roma e poi nelle in molti modi tuttavia legato al Gentileschi e ai suoi movimenti prima in Roma e poi nelle Marche. Così, non è più possibile passare sotto silenzio l'opera di un artista che tempo, sfortuna e mala conservazione sembravano aver sepolto per sempre nella più completa dimenticanza. Giovan Francesco Guerrieri ha carte in mano sufficienti almeno a riscattare l'oblio in cui era caduto, e questo è un altro passo sulla via della debita restituzione di una buona vicenda della nostra eterna provincia, che tanto ha tardato a entrare nella storia. Potremo seguirlo, il Guerrieri, mentre guarda ai fatti più importanti della Roma caravaggesca fra primo e secondo decennio; avverte le indicazioni più consone al suo temperamento del Gentileschi marchigiano; e come, lui partito, riprende la via di quella specie di revisione romantica e provinciale della riforma caravaggesca, tipica delle aree periferiche. Una seconda ipotesi, che sembra ormai assumere pieno valore di constatazione, e che giunge a interessarci anche al di là di interessi meramente locali, è quella che ci porta, con una serie di utili raffronti stilistici e storici, dall'atmosfera dell'ambiente di cui or ora abbiamo tentato le linee essenziali, alla prima, ignorata formazione di Simone da Pesaro. Proprio da questo problema specifico siamo partiti nella nostra ricerca, con l'intento di rinvenire fra le varie componenti della cultura di Simone, intorno ai primi anni '50, proprio quella traccia costante di natura, quella più trepida naturalezza di accenti che lo fa perennemente, costituzionalmente ostico alla 'metafisica' del grande maestro bolognese, Guido Reni: una formula freddamente suggestiva, per Simone, un'aristocrazia insperata. Sogno di un attimo, quasi subito abbandonato, sul '40 per tornare poi, vedi caso, a moduli di più appassionata confidenza naturalistica: al gran Lodovico, al Cavedoni, in qualche modo al Guerrino e al primo Cagnaccio Corrono gli anni della sua adolescenza intorno al 1628 e oltre, sono già a Fano i capolavori di Guido Reni, e tuttavia, pur dopo aver assediato Guido nel suo ultimo itinerario, fatto di larve metafisiche, riaffiorano, indomabili, le memorie del Gentileschi, del Boscoli e anche del Guerrieri. Mentre il grande, mitico maestro dipinge, Simone s'attarda ad osservare in che modo pene e disillusioni vadano incidendo il suo stanco volto; e sulle labbra affilate coglie l'antico, per lui incomprensibile, detto: 'Ho riguardato in quella forma che nell'Idea mi son stabilita'. È da questo momento, crediamo, che Simone comprende l'amara realtà che lo costringerà, nel 1648, a morire giovane allievo 'sbagliato' di un grande maestro senza più storia terrena". Il ritorno del Guerrieri La frequentazione delle chiese, per chi voleva entrare, rivelava tesori. Magari già noti, o solo non divulgati - come gli affreschi di Orazio Gentileschi nella Cattedrale di Fabriano oppure la sua Maddalena penitente nella chiesetta delle Cartiere, un gioiello di acutezza e di tensione ottica, la più alta celebrazione in assoluto del caravaggismo in chiaro. Il vecchio archivio fotografico Croci, acquisito all'Istituto Supino, esibiva una lastra fra i vetri di spropositato formato, attribuita al Cantarini: ed essa raffigurava una strana e insieme appassionante Visitazione della Vergine, con tre Santi affacciati alla mensa dell'altare come fossero tre reliquiari, a mezzo busto. In alto, una rurale canefora, rigenerata indiscutibilmente dal Domenichino della cappella Nolfi di Fano, e tuttavia anch'essa tradotta in lingua locale, si ergeva contro un largo avvincente paesaggio metaurense. Nessun rapporto con Simone, con la sua già assecondata classicità del cuore, che è una tensione di alta cultura, un empito che segue da vicino l'ellenismo di Guido, la sua ricerca di mediazione fra un presente drammatico ed un passato travestito di atticismo, colmo di meditazioni e di un "antico" immemorabile, e poeticamente raffaellesco. Il legame quasi connaturato del Guerrieri con Gentileschi doveva avere la sua ragione già a Roma, dove il marchigiano aveva potuto vivere - scriveva nel suo diario autobiografico dopo il 1605 o il 1606, scappato dalle Marche e da quella Pesaro che pure gli aveva messo sotto il naso alcune utili esperienze. Il Guerrieri non poté appartenere dunque, per ragione d'età, della schiera dei subappaltanti di Santa Maria Maggiore, ma certo alla morte di Sisto V, e al "tutti a casa" del Lilli, del Fenzoni e degli altri che smobilitarono di fronte al consistente mutamento di gusto del nuovo papato Aldobrandini, egli finì per conoscerli invecchiati e un mutamento di gusto del nuovo papato Aldobrandini, egli finì per conoscerli invecchiati e un po' delusi, e tuttavia indomiti. Sul finire del primo decennio del Seicento, egli poté quindi assistere ad avvenimenti che mentre tenevano ormai lontano Caravaggio e infermo Annibale Carracci - vedevano la crescita soprattutto di Guido Reni e del Domenichino. Il primo non poteva certo amarlo, astratto e lontano com'era nella ricerca della sua musicale perfezione di altri tempi. Il secondo, invece, lo avrà certo interessato per via di quell'espressiva minuzia purista che lo stesso classicismo ufficiale ravvisava già nella grande parete di San Giorgio Magno, con il Martirio di Sant'Andrea . Anche se questo può sembrare singolare, la poetica degli affetti e dei caratteri - proprio per la reazione didattica che sapeva destare nella vecchierella tramandata nell'apologo famoso dell'Agucchi - finiva per prendere il posto di più immediate, brucianti istantanee del naturalismo. Non c'è dunque da stupirsi se, in anni immediatamente successivi, anche la vena inevitabilmente meticcia del Guerrieri lascerà affiorare, come ho già del resto accennato, il sapore dell'inquadratura scenica dello Zampieri. Che poi questo primo soggiorno romano avesse per il Guerrieri non ancora ventenne il valore di un apprendistato operante, lo si può ricavare anche - ritengo - dall'esercizio di copia che egli laggiù venne facendo. Già sappiamo che, nella provincia marchigiana, egli faceva copie da Barocci, nel quadro di quel vero piccolo artigianato così diffuso e anche scorrettamente praticato, che costrinse il Barocci stesso a restaurare alcuni suoi capolavori, e specialmente la Sepoltura di Cristo di Santa Croce di Senigallia, tra il 1602 e il 1608. Nella cartella delle fotografie di cui Longhi era tanto geloso avevo intravisto una Deposizione di Cristo, copia evidente dal Caravaggio della Vaticana, che il professore già aveva collocato al nome del Guerrieri e che almeno le circostanze topografiche e di data potevano in effetti restituirgli. E il quadro si trovava per giunta a Milano, in San Marco! La mia fantasia di critica restituzione totale andò dall'attribuzione al Guerrieri, fino alla ricostruzione mentale di un "necessario" viaggio del Guerrieri in Lombardia. Questo avrebbe risolto alla radice molti problemi, e ricongiunto il Guerrieri a Caravaggio, in un vero viaggio sentimentale. In realtà, il quadro c'era andato lui, a Milano, con le soppressioni rovinose del Beauharnais, agevolate dalle scelte smodate di Andrea Appiani (1808-10 ca.) responsabili del più grande terremoto conservativo italiano dell'età moderna. Nel frattempo, strani sottilissimi fili ci conducevano ad individuare nella Pinacoteca di Ferrara una vicina copia, questa volta di Carlo Bononi, e all'incirca delle stesse date. Un'analogia di cammino, nulla di più: ma è singolare, ancora, che le cose più belle della giovinezza del Bononi siano proprio due tele nella cappella del Santo in San Paterniano di Fano (1612 ca.), altro luogo importante della cultura marchigiana. E che si collocassero, per temperie narrativa, proprio alle spalle della Cappella di San Nicola a Sassoferrato, che è del 1614. Cosa pensare, d'altronde, della ricca e tuttavia piuttosto sensitiva fantasia culturale e pittorica del giovane Guerrieri? Collocata sullo scenario che abbiamo appena disegnato, essa rivela perfino tratti di una duttilità e di una versatilità che - in altri tempi ed in altre, accademiche scuole - si chiameranno caratteristiche dell'eclettismo. E ovviamente, si tratta di intenderci. Il codice della poetica prima del Guerrieri è attraversato necessariamente dai segni di transizioni imponenti, ma poi è il mondo stesso che si sta facendo policentrico proprio sotto i suoi occhi di cittadino di una piccola comunità metaurense, e che sta cambiando pelle anche nell'arte, dopo quello che ha visto a Roma, e dopo le esperienze che forse avrà comunicato al padre in qualche lettera che nessuno ci ha mai, purtroppo, tramandato. La poetica concreta di un giovane, toccato dalla grazia del naturalismo drammatico e veritiero della Roma caravaggesca nel primo decennio del Seicento, si immerge in una serie naturale di contaminazioni: dove l'antico, che è traccia fisiologica, in un territorio come quello montefeltresco, si tramanda nel nuovo - o addirittura nell'inedito - vestendosene come per un ritratto comprensibile e chiaro. Di qui nascono, crediamo, le proposte di historia e di narratività anche sapiente di cui il Guerrieri è per tanti versi maestro. Ma di qui sgorgano anche le adesioni più intime, a cominciare da quella riservata a Orazio Gentileschi, sgorgano anche le adesioni più intime, a cominciare da quella riservata a Orazio Gentileschi, che fanno rifluire sull'attualità anche il prestigio del passato, in una nozione di tramando che accorpa anche taluni modelli del manierismo, così fitto e frequente, peraltro, da riempire chiese e palazzi d'ogni genere di pittura. Claudio Pizzorusso, un attento lettore della traiettoria marchigiana del Gentileschi, ha ricondotto sulla memoria storica del Guerrieri anche taluni precedenti narrativi come quelli di Simone de Magistris, dedicati alle storie benedettine di Fabriano. Personalmente, ritengo che l'immobile intensità sacrale, l'assoluto iperboreo della Crocifissione con i dolenti di Gentileschi, a Fabriano stessa, sia una vivente memoria del passato tridentino. Quanto al Guerrieri, la presenza in lui, e in quella sua costruzione liturgica didattica e persuasiva, di elementi tratti dal Pulzone e anche dal Valeriano, va in direzione di una efficiente dimostrazione di rettorica non umanistica, non letteraria o metaforica, quanto piuttosto immediata e perfino banale nella sua medietà. Il rapporto di Guerrieri col Gentileschi vive tutto, crediamo, entro l'efficace figura del toscano come mediatore, e rivendicatore di una intera tradizione storica. Nessuno, d'altronde, aveva mai potuto esibire così integra, così nitida entro la forma del nuovo linguaggio caravaggesco, una tradizionalità persistente, acuta, indeformabile. In Gentileschi si potevano leggere molte condizioni dell'arte del Cinquecento, poste quasi nella più esemplare trasparenza pur nel vortice della nuova rivoluzione. Quale condizione migliore per un giovane provinciale? La sua adesione al Gentileschi è discontinua nella forma, ma costante nell'atteggiamento. A Gentileschi il nostro riserva un posto magistrale, risolutivo, ma non ne segue la tempestività di stile e di cronologia. Si tratta insomma, per lui, di un modello ma non di un maestro. E il confronto lo fa sentire bene. Del resto, proprio la Maddalena orante che si trovava ancora in casa Cappellani a Fossombrone, e che portava la data ostentata e orgogliosa del 1611 (una specie di tirocinio del Guerrieri che dichiara di aver ventidue anni), mostrava d'essere il classico risultato di un esercizio di contrabbando della incomparabile Maddalena che Orazio Gentileschi aveva eseguito per la chiesetta della Maddalena a Fabriano, la cui datazione proprio il gesto deferente del fossombronese rendeva finalmente possibile anticipare a quell'anno stesso, o al precedente. Più che di un esercizio sul naturalismo, Guerrieri ci consegnò un exploit un po' muscolare e un po' manierista, che fa delle diafane ombrìe dell'originale, di quei semitoni gettati dai capelli disciolti sulle spalle, dei simboli stessi della solitudine e della penitenza abbandonati sul terreno, tanti motivi un po' affaticati da un pennello che, per essere naturale, non trova di meglio che gravare tocco e materia. E poiché si tratta, da questi anni fino alla morte, d'una materia oleosa che "rientra", si ossida, scurisce, sulla pelle di tele e di preparazioni polverose, povere, il risultato nel tempo è destinato ad aggravarsi. E incide, naturalmente, anche sulla leggibilità oggi, già resa un po' pericolante dal doppio livello della produzione, comprensibile in un artista, che vive in una provincia di economia modestamente agricola. Narrazione storica e natura morta Nel corso di quelle prime ricerche, incappai - nello studio di un notaio urbinate, fra cartoffie e lampadine da 30 candelein una Natura morta che mi venne anche troppo istintivo di riferire alla mano del Guerrieri e a quelle date. Innegabile la commozione di vedervi riprodotta la bottiglia e la trasparenza amatissima tratta da Caravaggio, un tempo di posa semplice e anche un po' banale, come sofferta da un lontano ammiratore, piuttosto che studiosamente osservato. Allora, l'entusiasmo mi tradì facendomi scrivere di una copia tratta da una "scomparsa natura morta di Caravaggio". In realtà, l'apparato della "natura in posa" è decisamente popolare. L'attribuzione al Guerrieri ha avuto però il suo seguito, forse addirittura eccessivamente fiducioso, e ha convinto - strada facendo - un mio valoroso amico bolognese ad acquistare tanti anni fa, a Pergola, una seconda Natura morta che forse avrebbe potuto coltivare relazioni con la prima, oggi nella Collezione Molinari Pradelli. Più tardi, da Spoleto - dietro suggerimento di Bruno Toscano era il professor Pompilj che collegava al gruppetto così formatosi altre due belle Nature morte, di cui oggi si può dare illustrazione. Forse il gruppetto, al quale sono state accostate da Luigi Salerno ancora due illustrazione. Forse il gruppetto, al quale sono state accostate da Luigi Salerno ancora due Nature morte, non brilla sempre per omogeneità e occorre riprenderne l'esame, tanto più che una di queste due ultime è siglata: "fg 1620". Ma si deve ricordare anche che l'opera del Guerrieri, soprattutto in questi anni iniziali, è fortemente discontinua; e che il ductus, la pennellata segnalano corsività e incertezze anche di vasta escursione. Naturalmente, per l'intero gruppo è sempre la Maddalena di casa Cappellani a dettar legge, con la sua organizzazione dello spazio un po' semplicistica, e gli oggetti in posa che non hanno nulla da dire -in quanto evento visivo -ma sembrano assoggettarsi al pennello un po' arido e faticoso. Una bella natura morta, molto più evoIuta, sarà quella destinata ad apparire sotto l'autorevole e personale Santa Rita della chiesa di Sant'Agata a Fossombrone, un piccolo capolavoro dove però il nuovo soggiorno romano, molto scaltrito intellettualmente nei lavori decorativi di Palazzo Borghese a Campomarzio, porta sotto i nostri occhi il Borgianni di Sezze Romano: quanto a dire, gli ocra, i bianchi, le terre bruciate più belle e "spagnole" del caravaggismo, dopo la morte del Caravaggio. Su un tema come questo, le novità non sono state molte in questi decenni. Il gruppetto centrale (Molinari Pradelli-Pompilj) è ancora ravvisabile in quel quadro un po' letterario nel quale ci sembrava giusto descriverlo nel 1958. "Si tratta di recuperare l'aspetto intimo della scarsa sensibilità del giovane di fronte all'evento misterioso e moderno espresso da una composizione di natura morta, quasi nell'incapacità sintomatica di poter intraprendere la silente descrizione di un mondo dove tono, passaggio, sfumatura e infine 'valore' siano i soli invisibili gesti con cui s'esprime una 'historia' narrata per poetiche analogie. Meglio vi riuscirà, è vero, rapportando vasti brani di natura morta alla più grande stesura di una 'historia' di uomini: qui lo aiuta, oltre tutto, il lungo tirocinio d'una tradizione manieristica, da tempo adusa ad assegnare a simili decorose invenzioni un posto, una luce ed un tono subordinati e aggiunti. Intorno al 1620 il Mancini, nel descrivere le 'Classi' o 'Scole' in che egli veniva dividendo gli artisti del tempo, nel muovere forse per la prima volta alla 'Classe' dei caravaggeschi il canonico appunto della carenza di 'Historia', veniva a riflettere in parole quello che fu un tipico tratto della cultura riformata subito dopo la morte del Caravaggio, e che non mancò certo di agitarsi in polemiche vive e serrate, prima di passare a infrigidire nelle accademie del Bellori: '...nella composition dell'Historia, et esplicar affetto prendendo questo dall'Immaginatione e non dall'osservanza della cosa per ritrar il vero che tengon sempre avanti non mi par che vi vaglino essendo Imposibil di metter in una stanza una moltitudine d'huomini che rappresentin l'Historia con quel lume d'una finestra sola, et haver un che rida , ò che pianga ò faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare e così poi le loro figure ancorché habbin forza mancano di moto di affetti e di gratia...'. Un lustro e più avanti le dichiarazioni del Mancini, il Guerrieri a Sassoferrato sembra preoccuparsi, con curiosa assonanza, di dar corpo alle revisioni che sul caravaggismo si venivano operando. Ognuno riconoscerà, credo, in questa singolare 'Historia' di come una canna, fra l'ammirazione dei presenti, può gettar acqua, proprio una attenzione rivolta ad ampliare la misura esterna e fin la partecipazione quantitativa delle 'persone' in un dialogo fino a quel momento univoco, al quale dovevan soccorrere moderne e capitali qualità di pittura; restando tuttavia nei termini di una limpida oggettività del frammento, condotto 'sur le motif', pur nel contesto di una legatura che palesemente mostra di rifarsi ad antichi, e sempre attuali fra i riformati, modelli toscani". Un modo per cominciare Ma da dove incominciare per dipanare la matassa dell'opera intera del Guerrieri, e dove cercare un bandolo da cui prendersi per riconoscibile discendenza di stile e di commessa, fino a tentarne una plausibile ricostruzione? Il tema veniva affrontato da Federico Zeri, e con quella preveggenza che, pur contraddetta più tardi dalle sue stesse diverse convinzioni, ha il merito di tracciare una via di metodo. Infatti nel suo catalogo della Galleria Spada, che è del 1954, egli affida va in ipotesi alla mano del giovane ventenne Guerrieri in Roma, sia la bella Madonna col Bambino della Galleria Spada stessa, che - pur ad una data più matura - la Madonna col Bambino della Galleria Spada stessa, che - pur ad una data più matura - la versione della Galleria Pitti di Firenze. A distanza di tanti anni, bisogna sottolineare che le due suggestioni, per quanto sottoposte ad un notevole fuoco di fila, hanno resistito abbastanza. La versione della Spada, accostata più volte a Caroselli, continua a nutrire ricordi vicini del manierismo: ricordi che possono seguitare a darci un'ipotesi almeno allusiva di quale fosse il temperamento del Guerrieri intorno al 1608-9. Quanto alla versione Palatina di Firenze, che proveniva da un'attribuzione all'ambito di Artemisia Gentileschi (Longhi 1943), essa fu abbracciata con particolare e maggiore affetto poiché in essa si poteva scorgere devo confessarlo - un profilo inferiore, una inflessione più corposa e popolaresca, una maneggio di materia più terrosa e pratica. Certo, sostenere ancora la paternità del Guerrieri non è facile, ma tra i nuovi nomi volenterosi convocati allo scopo ha finito per imporsi di nuovo quello più tradizionale e sperimentato, e cioè il nome di Artemisia Gentileschi. Si tratta di una riacquisizione preziosa, proposta anche da Roberto Contini e da Gianni Papi, due giovani che molto dibattito e opportune inchieste hanno rivolto a questi problemi. Ma io amavo la Vergine col Bambino di Pitti, e l'amavo anche più di quella romana della Spada, perché mi ero in realtà invaghito della fisionomia di un "pittore contadino". Tanto vale rivelarlo del tutto: perfino una certa grossolanità del Guerrieri, quando lavorava in casa propria e per parroci poveri, forniva pale d'altare e di devozione ai contadini di Mercatello, dell'Acqualagna o delle rive del Metauro; un certo tono di trasandata preoccupazione tesa al ritratto, alle vesti di povera taglia, ai dettagli della vita circostante; e quelle apparizioni di paesaggio riconoscibile, dove il campanile o la torre civica prendevano il posto che nei secoli andati era stato degli archetipi patronali; tutto questo mi gettava nella perfetta convinzione che il "pittore contadino" desse così il maggior compimento possibile e previsto ad un naturalismo annunciato, fin da quando, ritornato nella campagna da una Roma ormai attraversata da altri spiriti per lo più monumentali e decorativi, il Guerrieri aveva insomma deciso di ritirarsi nella povera, abbandonata patria roveresca. Sulla quale tirava ormai tetro il vento della devoluzione alla Chiesa. Questa interpretazione non era però soltanto fantasiosa e "oratoriana". In effetti il registro del nostro pittore era doppio - per non dire ancor di più: disinvolto a seconda dell'economia della committenza - tuttavia appariva soprattutto votato a una convinzione giovanile, acquisita nella stagione romana, e a dire di se stesso, con la propria pittura, una presenza che puntava alla moralità naturale, all'efficacia evangelica del "riconoscibile". Era insomma come se il caravaggismo, cacciato ormai da Roma, affrontasse la sua diaspora povera ed emarginata. Se il Guerrieri fu, come si diceva un tempo, un petit-maître , ciò avvenne soltanto nel senso dell'isolamento in cui egli talora fu costretto a calarsi, pur seguitando a dare di sé segnali di qualità forse alterni ma sempre interessanti. Ma questa caratteristica non invade la quantità della sua produzione; ché anzi egli fu, sotto questo profilo, intensamente efficiente, talora anche piuttosto concessivo, soprattutto nel lento, gravoso scorrere degli anni. La sua bottega, se pure esistette, non gli permise grandi aiuti, oltre a quello davvero poco più che affettivo della figlia Camilla. Il pittore delle parrocchie È noto come il fenomeno del naturalismo caravaggesco, dilatato alle diverse personalità dei suoi primi allievi, a cominciare dal Gentileschi dal Saraceni e dal Borgianni, investì specialmente l'Europa precocemente borghese e commerciale del Paesi Bassi, nonché la Francia e la Spagna. In Italia non è piccolo il numero degli artisti che, dimissionati dal rapido mutamento di gusto della capitale, affrontano il ritorno alla patria d'origine, alla lontana provincia, come il Musso in Piemonte, oppure Tanzio da Varallo; e poi il Manzoni in Romagna e il Riminaldi pisano. Fra Marche e Romagna, il Guerrieri - sempre sospinto dall'avvenuto passaggio del Gentileschi (Fabriano, Ancona) - istituisce di fatto un clima che poi vedremo crescere anche nel Pandolfi a Pesaro, toccare la bella attività più matura di Claudio Ridolfi, e risuonare nella prima formazione dei riminesi Centino e Cagnacci, e anche del cesenate Serra, e poi collocarsi in un vano di memoria lontana, forse un po' ingenua, ma del cesenate Serra, e poi collocarsi in un vano di memoria lontana, forse un po' ingenua, ma fondatamente esistenziale, quale alimentò la giovinezza di Simone Cantarini. Lentamente, la sua inflessione sempre più dialettale invade anche la più diretta, immediata provincia urbinate, là dove il linguaggio cortese, la sublime agghindatura baroccesca sembrava reggere, lei sola, l'araldica cortese ormai in dissoluzione. Ma ciò avvenne, ch'io sappia, soltanto intorno alla metà del Seicento, dopo vent'anni almeno che Urbano VIII s'era impossessato del Granducato, sradicandone ogni orma di antica indipendenza. Dagli scritti fondamentali di Jedin dedicati alla "riforma" cattolica, la critica d'arte e la sua storia hanno tratto vantaggio specialmente su di un fronte, che è quello della miglior comprensione - almeno quanto a volontà - delle dinamiche interne alle grandi, e talora meno grandi, partizioni diocesane quando non addirittura vicariali e parrocchiali. Non è il caso di tornare qui a rimuovere il problema che oscilla tra Riforma e Controriforma, rinviandolo semmai alle pagine fondamentali di Paolo Prodi (1962) e a quelle riepilogative di Maria Calì (1980), nelle quali ultime il grande tema viene assai bene messo a nudo. Si vorrebbe qui proporre un'attenzione migliore a riguardo, almeno, di quel nucleo intensamente presente e come fuoco liturgico e come istituzione amministrativa, che fu la parrocchia nell'ordito territoriale italiano. È evidente che occorrono grandi strumenti per un'indagine circa i modi e i flussi di una commessa polverizzata qual è stata quella promossa e condotta dai parroci, dentro una capacità gestionale che non raggiunge ovviamente quella dei grandi abati del medioevo. Nell'età tridentina, tuttavia, non manca di presentarsi spesso come connessa e legata alle istanze delle confraternite e delle comunità, queste frequentemente in grado anche di esprimere una loro volontà che giunge fino al nome dell'artista oltre che fino al dettato liturgico e iconografico desiderato. La dilatazione dell'opera pittorica del Guerrieri avverrà, prevalentemente, proprio nelle chiese parrocchiali comprese tra Foglia e Metauro, distendendosi anche sull'alto, profondo Montefeltro montano ed occupando, ai margini, posizioni solide verso la Romagna e verso la Marca di Ancona. Si tratta di un invaso dove già il repertorio del Vernarecci aveva suggerito strade possibili e dove l'ottima organizzazione di lavoro indirizzata a strutturare questo stesso libro, guidata e condotta da Franco Battistelli, ha scavato una vera e propria geografia minore della commessa e della messa in opera di pale d'altare e di dipinti in genere del Guerrieri fossombronese, per la loro gran parte dopo il 1618 e fino alla fine della sua vita (1657), senza affatto venir meno a quella specie di abbrivio che, anzi, la sua attività meglio sopporta proprio con il crescere degli anni. Probabilmente, il disegno di una stratigrafia topografica della committenza potrebbe illuminare molti problemi che, di norma, vengono rinviati ad altra futura occasione. Certo, il caso del Guerrieri dovrebbe poi essere paragonato all'intera dinamica dei flussi di commessa che, per tutto il primo Seicento, invadono le sedi chiesastiche e specialmente le parrocchie, in rapporto anche alla grande età delle canonizzazioni post-tridentine e all'emanazione delle norme, ovvero strategie di immagine, che in quei decenni vengono colmando il nostro spazio visivo e devozionale. Tra tutti, per citare il più corposo in Guerrieri stesso, emerge il caso di San Carlo Borromeo, per giunta caratterizzato da connotazioni fisionomiche precise; ma è poi tutta la sequenza dei Santi patroni riconfermati, dei Santi mendicanti rafforzati, dei Santi curatori o taumaturghi di nuovo identificati, che dobbiamo immaginare in movimento verso la devozione pubblica, verso i modelli ribaditi politicamente e ideologicamente della biblia pauperum . Guerrieri è pittore di parrocchia non solo perché la committenza prevalente nella sua età storica ed economica è appunto quella: ma perché, per converso, parrocchiale e cioè intensamente didattico, senza bisogno di ricorrere alla persuasione come strumento, è il suo codice espressivo. A cominciare dalla particolare ingegneria liturgica che, con gli anni, presiede alla formulazione degli spazi e dei rapporti di immagine, arricchendosi specialmente con i potenti contatti con l'arte bolognese; per finire con lo specifico linguaggio espressivo, nato a Roma e contaminato giorno dietro giorno con un senso diretto della realtà, paragonato in modo crescente con i diversi modelli che la piattaforma marchigiana era in grado di sottoporgli, dal Boscoli al Ridolfi; in Guerrieri si avverte pressoché esclusiva la formulazione di un prodotto artistico del tutto impegnato sul fronte di pressoché esclusiva la formulazione di un prodotto artistico del tutto impegnato sul fronte di quella società immobile che sta tra città e campagna, anzi tra campagna e città. In altri tempi, un forte accento letterario e populista ci sembrava descrivere evocativamente questo problema: "Non è raro che lo studioso, vagando per quella ideale provincia che s'allinea sotto il brullo scoscendere della Strega e del Catria, partendosi da Fabriano e giungendo, dopo aver toccato Sassoferrato, la Pergola e il Furlo, alle terre rosse di Fossombrone, s'imbatta, nell'interno di qualche remota pieve appenninica, in una tela sulla quale gli anni, la polvere e la secolare dimenticanza han fatto tale presa da nascondere, ormai, fin l'oggetto della pietà pubblica. Preci ordinarie, egli sente, biasciate e lente; santi quotidiani, domestici, deposta l'aureola, con la buona grazia di tutti i giorni dell'anno, vengono volentieri incontro a tante afflizioni familiari: un corredo già consunto e liso dai debiti, un bambino che non cresce; a una puerpera è 'rientrato' il latte. Il sole continua a nutrire, di fuori, un paesaggio devoto al Creatore, dove una fissità antica ha riempito gli occhi a Piero e a Raffaello. Questa terra è un brano della 'Marca'; quell'ignoto dipinto è di Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone [...] mai umana vicenda s'è tanto strettamente allacciata con le intenzioni di una pittura. Non un aggettivo, quotidiano e ricorrente, che non sia passato con la stessa inclinazione sentimentale con che venne usato nella vita, alla sostanza della realizzazione pittorica. Che è come parlare di una sincerità visiva, libera da strutture intellettuali, che non sorprende la semplice, realistica attesa dei committenti. Pratica quotidiana, talora artigianale; condotta pittorica di incastro rude e scarsamente cedevole, con quello che di serenamente, civilmente assettato questi stessi aggettivi contengono. Una civiltà memore, decorosa e devota. L'attenzione potrà talvolta far luogo alla diligenza, la cultura all'informazione; mai tuttavia l'obiettività, anche se sciolta discorsivamente, alla fantasia di 'maniera'. Ad ogni parroco, che chieda miracoli da mostrare ai poveracci, verrà corrisposto quel tanto di realtà che l'intenzione dello stesso committente comporta, confidente narrazione di una riconoscibile 'historia', dove 1'azione cresca suoi ritmi secondo doveri e regole della nuova cultura delle missioni borromeiane; o addirittura, eludendo queste ultime come le accademie polverose, trovi rifugio nel particolare, fino a rinvenirne quel tempo di posa denso di eventi spirituali che commenta dall'interno il vivere degli oggetti, delle cose di tutti i giorni". Una evocazione di questo genere, al limite dell'elzeviro, che non era ancora passato di moda, raffigura bene, in ogni caso, la necessità di indagare il pittore "parrocchiale" calato nella densità dei rapporti dovuti con la comunità e con le istituzioni che a questa per tanti diretti e immediati versi presiedevano. Di qui transita potentemente quel gusto culturale, che oscilla tra la forza della riforma naturalistica e il più quotidiano costume d'espressione e d'arte, e che si dilata dopo la fine delle avanguardie romane, dopo il 1610, entro la venatura fitta e capillare della chiesa minore. Le storie di San Nicola del 1614 Un punto d'arrivo nel costante progresso di questa via alla "metodica" naturalistica è di certo rappresentato dalle due tele che decorano la cappella di San Nicola da Tolentino nella chiesa di Santa Maria del Ponte del Piano a Sassoferrato. Commissionate da Vittorio Merolli, medico di Paolo V Borghese, esse sono citate anche nel "diario" del Guerrieri di cui - com'è noto - fa uso il preciso Vernarecci: "mi fu pagata [la cappella] scudi quattrocento di pavoli e tutte le spese di colori come del vitto per me et un servitore". La prima tela, quella che raffigura Il Miracolo della canna , è più esplicita: alla firma estesamente riferita, si aggiunge l'anno di vita, il ventiseiesimo dell'artista, e la data 1614. Fin da quando - per la prima volta - ebbi occasione di osservare da vicino le tele, un tempo assai mal ridotte, oggi invece restaurate, ebbi la sensazione che il Miracolo della canna ripetesse suggestioni dirette da quel Sant'Isidoro del Caravaggio che stava un tempo in San Filippo ad Ascoli, e che, disperso, ci è noto solo da una copia (Longhi 1943). noto solo da una copia (Longhi 1943). I due dipinti, così interessanti quanto ad assetto compositivo, adottano una versione in qualche modo classicizzata, o almeno staticizzata, del naturalismo. Probabilmente, come si è ricordato, preme su di loro la recente impresa del Domenichino a Grottaferrata, quella stessa curiosa espressività di gesti, di attenzioni di allusioni ben orientate e finalizzate. Enorme è la distanza, ad esempio, che separa questo modo di vedere e di raffigurare dall'altro modo, che è un vero e proprio "vuoto di eventi" che grava sulle narrazioni romane di Guido Reni, l'astro del momento: una specie di surplace, dal quale nasce una musicalità lievemente trascinata e insieme sublime. Qui, nelle due tele di Sassoferrato, anche il palcoscenico, che non è mai il cavallo di battaglia del Guerrieri, è volutamente attento, animato, prospetticamente solido. Il gruppo degli astanti al Miracolo della canna , fra i quali appare il Merolli - probabilmente l'amico marchigiano che tiene i contatti con la famiglia Borghese - è un brano, a suo modo, di antologia del ritrattismo "povero" e intenzionale del Seicento. La verità che vi affiora è quasi lombarda, la presa "diretta" sulle fisionomie sorprendente. Colui che guarda gli spettatori, un bruno olivastro con pizzetto e la trasparente età di venticinque anni, è certo il Guerrieri stesso. Per quanto ridotta a una funzionalità povera, nella materia, questo dipinto intreccia precisioni psicologiche mirabili e individue, muovendo - si direbbe - la sua mentalità evangelica e piana con un agio adattato ai luoghi della committenza, e alla cultura di questi luoghi. Non è vasta, ad esempio, la tavolozza del Guerrieri, si muove per lo più nel giro breve delle terre, degli ocra, dei verdi interi, con qualche cinabro che affiora - a queste date specialmente - con la parsimonia dei poveri. Su questa trama un po' polverosa, il corpo, lo spessore del colore, campeggiano espressivamente, il pennello evidenzia il suo ripetersi e sovrapporsi. Il chiaroscuro, che è assai tinto, assorbe molta della luce circostante, e così facendo crea nella solitudine rurale degli altari una gora d'ombra dalla quale emergono volti giudiziosi, atteggiamenti devoti, e anche decise espressioni, fierezze di una società che il neofeudalesimo ha precipitato fra rigorismo cattolico e violenza sociale. Una vecchia lettura sul posto "Forse non riusciremo mai a risarcire una sola opera del Guerrieri, e tanto meno queste di Sassoferrato, dai guasti e dalle alterazioni del tempo. Già il buon canonico Vernarecci lamentava l'abuso delle miscele oleose, sensibili agli anni. Ma è proprio nell'adozione di una particolare dimensione dell'ombreggiatura, o meglio dello 'scuro', che par di intravedere nell'artista provinciale l'aspirazione, purtroppo frustrata, ad un effetto della macchia di tipo gentileschiano, per il tramite cioè di quelle gradazioni della macchia che sono i 'valori'. La opalina, silente ombreggiatura gentileschiana, traspirante come un domestico interno che riceva luce da alberature primaverili, viene alterata dal tempo nel suo portato più nuovo, quello stesso che il Marchese Giustiniani farà legge sul '30, raccomandando che 'i sudici non sieno crudi, ma farli con dolcezza ed unione; distinte però le parti oscure, e le illuminate, in modo che l'occhio resti soddisfatto dell'unione del chiaro e scuro senza alterazione del proprio colore, e senza pregiudicare allo spirito che si deve alla pittura...'. Al modo che parrà 'Impossibil' al Mancini - ma non più tuttavia nella cruda oscurità della stanza caravaggesca - qui ci si industria di cogliere, con qualche eloquenza esteriore, il gesto del personaggio che accetta, con una sorta di fresca e antica ingenuità, di star fermo proprio 'per lasciarsi copiare'. Forse è lo stesso Vittorio Merolli, con tutti gli eredi, presenti al paese per la villeggiatura estiva, sgusciati giù dalla porta (e gli ultimi non han ben compreso ancora di che si tratta), che decise di rompere il cerchio di quelle discussioni sempre più oziose, col progredire degli anni, per mostrare finalmente 'un che rida, ò che pianga ò faccia atto di camminare' nel contesto di un'opera che dal caravaggismo tragga, nel temperamento, forza nuova, verso una 'naturale' dimensione del riproducibile. Lo stesso paesaggio, al di là dell'alta balconata, pur dipartendosi dalle tiepide molecole, misteriose e ronzanti come un evento stagionale, di che il verde si copre nelle boscaglie di Elsheimer e Gentileschi, nella foga di una scrittura più corsiva, punta tuttavia verso un tocco più 'gluant' che non avvenga nelle contemporanee redazioni riformate che del tocco caravaggesco danno i settatori provinciali; curando quasi, negli slungati filamenti che il caravaggesco danno i settatori provinciali; curando quasi, negli slungati filamenti che il pennello distende scendendo dall'alto verso il basso, che il bianco astringa potenziale di luce, raggrumando al vertice degli scrimoli teneri delle valli. Come, cioè, s'accentua intorno agli stessi anni nella pittura del Saraceni l'aprire verso una rapida intuizione a carpire, come già disse Roberto Longhi, il moto 'per carattere'; non senza che si renda opportuna anche la citazione di quelle interpretazioni che del paesaggio i bolognesi diedero a Roma, consegnando prototipi alla storia del classicismo. 'Ben ideate le composizioni - scrisse il Vernarecci, alludendo quasi certamente a queste tele di Sassoferrato - le figure ben poste, mai affollate... Il disegno poi sempre, o quasi sempre, in cima al pensiero'. E mi par fin lecito, pur sotto l'usualità di questa terminologia accademica, rinvenire un atto critico, intuitivo della disformità fra la serrata interezza del segno caravaggesco, e la rilassatezza di quello, spesso obliato o sottoposto alle sopraffazioni di maniera, in uso presso la pittura accademica. E infine l'acuta, metallica seduzione di quella natura morta, ci invita per un attimo a riconsiderare i problemi insiti nei rapporti tra forma e colore, fra segno e 'valore', così come si vengono configurando nella pittura destinata ad emigrare nei Paesi Bassi. Quella flemmatica cadenza lineare, fin troppo attenta a disegnarsi sul ruvido ammattonato; quell'ombreggiatura lunettata tutt'attorno con la trasparenza di una polvere di alluminio, ripetono con qualche altezza di risultati poetici le più moderne intenzioni di Orazio Gentileschi, sia pure accettando un posto, un vano ed una gerarchia assegnate loro dalla tradizione, e non creato ex nihilo dalla nuova visione naturalistica, nel contesto della narrazione come 'Historia'. Credo sia facile, ora, intendere come nella cultura dei primi riformati e specialmente in questo precoce isolamento provinciale del Guerrieri, potessero fare la loro sortita mire ed immagini di un metodo particolare. Come una fede saldamente acquisita, la gravida eredità del caravaggismo, pur se stemperata nelle tradizioni figurative regionali, vien conducendo per mano l'artista alla consultazione naturalistica del particolare, mentre il problema della connessione d'insieme resta più spesso affidato alla capacità di memoria storica, prossima o remota, che egli mostra, volta a volta, di saper possedere e interpretare. Da tale iniziale nucleo di diligenza obiettiva si dipartono problemi nuovi, che forse la carica umanamente profonda del Caravaggio rendeva, così come da lui risolti, inimitabili. È soltanto con l'adozione di metodi di assonanza storica, quasi di tecnica sperimentale, che progressivamente tali problemi verranno chiariti e talora elusi. Escogitando cioè per la prima volta, dopo il rapido fluire degli eventi del primo decennio, una palese metodica naturalistica che, variando il tema ed il legamento d'insieme, si prende tuttavia da un iniziale nucleo di osservazione del naturale, la più salda asserzione di quell'insegnamento. Chi ci saprà ridire in parole la trepida certezza con cui gli oggetti tornano, in questa prima accademia rozza e romantica, a scoprirsi alla luce? Chi l'impaccio delizioso della materia, così organicamente visibile e definita, quando serra negli incastri rudi e artigianali un attimo di riconquistata verità visiva, insieme alle scorie di un insegnamento tradizionale che stenta a morire? Ogni sorta di tramite allora par buono alla fabulazione che il sentimento, più che l'intelletto, inizia. Del lussuoso pretesto inventato dal Gentileschi per far sì che il pennello venga indugiando quanto più possibile a descrivere la luce discreta e rada, e in diaccia superficie e in tenera penombra, si fan mille variazioni, scovando fin in soffitta i più ornati abiti di casa, le collane da fiera e i pizzi campagnoli di rozzo cotone. Dell'aprire del tocco, e dell'allargare della composizione, che fa il Saraceni sul secondo decennio, si traggono spunti sempre buoni per una pennellata colata con delizia lunga e filata, nel gusto un po' gessoso dell'à plat cromatico, entro lo stampo della forma rinserrata. Delle ombre portate che dan senso di certezza a questa umanità, alla quale il lume universale aveva già tolto ogni pensiero di esistenziale concretezza, come una giornata di pallido sollustro, si giunge a proiettare ombra fin sulle nubi posticce che fan da trono di cartapesta alle giovani vergini. Questa è una storia affidata, quanto mai altra, alla freschezza dei sensi: e non occorre mortificarla con una valutazione che in altri tempi si sarebbe imposta, scorrendo tutti i gradi di una positivistica persuasione, oziosamente eclettica. Ma piuttosto comprendere di una positivistica persuasione, oziosamente eclettica. Ma piuttosto comprendere l'appassionato tentativo di tornare a far coincidere tempi nuovi e storia remota, nel gusto di una rievocazione romantica e quasi romanzesca della vera storia dei primi anni della nuova intuizione figurativa. La diafana e vitrea immagine degli stupendi affreschi della Cappella del Crocifisso in Fabriano, il punto più alto raggiunto dall'artista sulla strada dei 'valori', nella quale s'era specchiata tanta storia nata e presto dimenticata nella fretta degli anni carichi di vicende, aveva lasciato luogo, come a riscuotersi dopo un silente dramma, alle grandi tele borromeiane e 'borghesi', delle quali è espressione massima il quadro di Brera. Una interpretazione dell'intervento superno, del gesto di fede, che a furia di voler narrare l'ora, il luogo e la luce, finisce in una sorta di rappresentazione senza misteri, con un fiducioso possesso della realtà che non ha luogo in una fede di dubbi e rivelazioni, ma piuttosto discopre il primo accestire di una mente profondamente 'protestante'. È assai probabile, nonostante quell'altera interpretazione, che a questi dipinti potesse più facilmente rivolgersi l'attenzione del Guerrieri, dopo il secondo soggiorno romano; poiché in essi si veniva ricomponendo un tipo di pala chiesastica di dignitose proporzioni e di direttrici tradizionali; e fors'anche perché, dopo il bellissimo exploit della Madonna Rosei e degli affreschi del Crocifisso, il Gentileschi pare ricordarsi, soprattutto nella Cappella di San Carlo in San Benedetto, di qualche tratto di recente pittura romana, quale particolarmente s'era schierata in Roma, intorno al '14, nella chiesa di Sant'Adriano, e ad opera soprattutto di Orazio Borgianni. Nulla più, s'intende, che un lontano ricordo, una allusione spesso soltanto inventiva; e sovente più viva nelle parti che si son sempre ritenute di collaborazione; ma quel tanto che basta per tornare a tiro della serrata poetica del Guerrieri, attraverso la simpatia di materie meno elette, e non nei gesti silenziosi e abbreviati di una pittura senza tempo; per quella carica più organica della superficie cromatica, ed un tocco più romanzesco che non fossero quelle larve soffiate via dal tempo come per l'appannarsi di un cristallo al fiato. Su questi più corporei elementi poteva con antico agio tornare a industriarsi l'univoca vocazione del Guerrieri, salito al rango di accolito dalla gavetta, affezionato alla vita eroica dei tempi più difficili, patito della 'resistenza' contro le pallide insegne del manierismo nazionale, eternamente 'protestante' contro le fortunate divulgazioni, le inutili sperperazioni dei sentimenti della pittura chiesastica controriformistica. Tali, a nostro parere, le conseguenze non scarse di quella civiltà che, movendo dall'ambito caravaggesco e riformato, per la vicenda marchigiana di Orazio Gentileschi, mise salde radici nella regione. Piccola civiltà, per buona parte affidata all'ultima fortuna della borghesia locale, prima che la devoluzione del Ducato alla Chiesa doni nuovi orientamenti alle relazioni e al commercio, facendo di questa provincia una plaga appartata e intristita, viva soltanto nelle nuove cittadine costiere. Con gli ultimi anni del terzo decennio, in una col cadere delle ultime speranze di indipendenza, è un inerte precipitare di care tradizioni, una malinconica sera, un triste rezzo. Gli scrittori tramandano che accompagnasse quegli anni la diffusa uggia d'un cielo eternamente chiuso e piovoso. Sono, si sa, tempi terribili per tutta Italia: e le parole del buon canonico Vernarecci ci accompagnano, nel ricordo, quasi con un delicato sentimento manzoniano". Intelligenza e duttilità dell'artista Sono questi gli anni più forti e sorprendenti del Guerrieri. Nella stessa chiesa di Sassoferrato, un anno dopo, egli dipinge anche la pala della famiglia Volponi, dedicata alla ritrovata liturgia della 'cintura', il soccorso che la Vergine porge a Santa Monica e al figlio suo, Agostino d'Ippona. Si tratta - nel 1615 - di un dipinto esemplare nel quadro generale del naturalismo italiano. La composizione, che si impianta su di un paesaggio familiare e quotidiano, non esibisce che la severa presenza dei Santi e dei donatori, agevolmente coinvolti in questo essere "insieme" che dona fiduciosità ed emana certezza. La struttura pittorica è basata sui bruni e sulle terre rossastre; il senso del ritratto (penso alla giovane donna che tutti i giorni si osserva, tra i frequentatori della messa del mattino) è anche in questo caso psicologicamente forte, tranquillo, di una domestica vicinanza, di un affetto questo caso psicologicamente forte, tranquillo, di una domestica vicinanza, di un affetto accostabile e umanissimo. A fronte di dipinti come questo, collocato nel pieno silenzio di una chiesa contadina, è stato quasi necessario -in anni ormai lontani (quando il fervore degli studi era tutt'uno con il voler consistere di una visione sociale più animosa, o soltanto più fiduciosa) - credere che il valore salvifico, la dimensione evangelica ed illuminante del naturalismo di tradizione caravaggesca, abitasse proprio in un'Italia minore e sperduta, ricacciata entro le valli appenniniche ed inseguita fin nel profondo dell'emarginazione. La stessa che negli anni della nostra giovinezza - ormai invadeva i casolari solitari, i campi abbandonati, le chiese silenziose. Fu allora come divenisse possibile, alla nostra formazione intellettuale e anche politica e sociale, tracciare un immaginario museo di tutti coloro che avevano adottato schemi sentimentali e anche stilistici simili, o analoghi soltanto; di tutti coloro che, transfughi di una cultura aggredita e sbandita, avessero adottato - proprio come il miglior Guerrieri "contadino" - la sapiente familiarità del quotidiano, inteso però non come la cordialità dei bolognesi, quanto piuttosto con la ferma severità di chi arresti, o tenti di arrestare, un evento esistenziale unico: capace cioè di ripetersi ogni volta nei volti, nel paesaggio circostante, nei gesti pacati e ampi, senza mai divenire "tipicità" e accademia, sia pur del naturale. Se ripenso a quei mesi, rivedo, puntualmente, con gli occhi di un viaggiatore forse esigente, certo volenteroso, i dipinti abruzzesi nelle enclaves lombarde di Fara o di Pescocostanzo, la Circoncisione e la bella Madonna del Fuoco di Tanzio da Varallo. Penso di avvicinarmi alla Circoncisione di Orazio Gentileschi nel Gesù di Ancona, illuminare il Crocifisso con San Francesco di Nicolò Musso a Casale Monferrato; cercare la luce della Visione di San Francesco del Borgianni a Sezze Romano, oppure della sua Sacra Famiglia oggi a Palazzo Barberini; intimidirmi alla scoperta dell'Hontorst bellissimo dei Cappuccini di Albano, o del Saraceni del Suffragio di Cesena, e stupirmi della straordinaria realtà dei riminesi, del Centino e infine della Madonna con Santa Margherita e Santa Maria Maddalena di Guido Cagnaccio La quale, alla porta marchigiana di Rimini, verso la Colonnella distrutta dalle bombe, sembrava davvero voler riproporre al Cantarini, già più che avanzato nell'arte dietro l'incoraggiamento di Guido Reni, che la strada più vera era ancora quella della sua giovinezza, la realtà della vita e il succedersi degli eventi, generazione dietro generazione, senza metafore che non fossero il battere calmo e solenne della luce vera che discende da un cielo non metafisico. La commessa di Marcantonio Borghese Ho già ricordato il vero senso di disagio che, nel pieno di una stagione come quella che ho cercato di narrare, provocò in me il saggio puntuale, aggiornato e documentatissimo di Paola Della Pergola; più ancora l'esistenza stessa di un artista improvvisamente mondano ed elegante quale inopinatamente il Guerrieri volle mostrarsi dall'alto del fregio delle tre stanze decorate, fra il 1615 e il 1618, in Palazzo Borghese a Roma. Il disappunto fu in me consistente, tanto più che il volumetto che Francesco Carnevali, mitico direttore dell'Istituto Statale d'Arte di Urbino, mi aveva voluto affidare, sostava da un paio d'anni in bozze per qualche sventura amministrativa; e ci sarebbe rimasto fino al 1958. Per chi aveva concepito la ricerca marchigiana tutta fra l'estate del 1954 e l'intero 1955, sembrava, in certo modo, offuscarsi il volto terrestre e quella stessa dimen sione provinciale del Guerrieri che più voleva amare. E che era anche l'unico conoscibile, poiché - ripeto - le decorazioni di Palazzo Borghese erano e restano un episodio molto compatto e irripetuto se non per episodi parziali o minori. In quei tre anni il Guerrieri, che presumibilmente era protetto dal Merollo, il sentinate medico di Paolo V Borghese, diede sviluppo ad un saggio di pittura internazionale e di iconografia operante. I fregi raffiguranti il Parnaso, il Trionfo della Religione , il Trionfo delle Scienze e il Trionfo delle Virtù (tutti nella seconda sala) in modo del tutto speciale - ma poi anche le decorazioni della sala III al piano nobile - costituiscono un repertorio di straordinario interesse sotto il profilo dei contenuti allegorici e iconografici. "L'interesse che simile repertorio iconologico presenta - scriveva P. Della Pergola - e non solo per gli affreschi del repertorio iconologico presenta - scriveva P. Della Pergola - e non solo per gli affreschi del Guerrieri, ma per la cultura del primo Seicento, non può sfuggire ad alcuno. Il Guerrieri semplifica gli attributi dei simboli, anche perché le immagini non sono, per la sua decorazione, isolate ma vengono concatenate in un insieme che ha altro intento di glorificazione. Sono tutte cioè subordinate alla gloria più alta commessa da Marcantonio Borghese". Questi, principe di Sulmona, era il nipote eletto a rappresentare il primogenito della nuova potenza familiare. Nell'abbondante bagno culturale ed allegorico, se massicce sono le citazioni dal Ripa (il quale, come si ricorderà, ristampò a Siena nel '13 una seconda edizione di quella romana, ridotta e mutilata quando fu diffusa, e cioè nel 1603), altrettanto frequenti sono le immissioni figurative, così storiche che più recenti. L'ambito generale è certo quello gentileschiano, la cui chiarezza e trasparenza sono in fondo doti che consentono di allacciare il naturalismo chiaroscurato e deciso del caravaggismo alle dominanti "senz'ombra" ereditate dagli interminabili elenchi metaforici del manierismo. Ma affiorano concomitanze ancora da sceverare, tuttavia palesi, come quella che individua nell'invenzione e nell'esecuzione delle figure dello Studio una cadenza vicina al Maestro del Giudizio di Salomone; oppure, in altri luoghi, suggestioni dal Cigoli, dal Rosselli o dall'Empoli; nonché dai bolognesi romanizzati, come Domenichino - una passione già nota oppure certi aspetti donneschi di Guido Reni; per non dire infine del Cesari e del Baglione. Con questo scritto minuzioso, il Guerrieri entrò di colpo e inaspettatamente nel novero dei protagonisti del secondo decennio, aspirando addirittura ad altre illustri attribuzioni - per noi tuttora difficoltose - come quella del Lot con le figlie della Galleria Borghese. Ne uscirà però alla fine del 1618 per non rientrarvi mai più, confinato in una provincia solitaria di cui la storia politica scandisce con amarezza l'uscita di scena, con uno straordinario senso di dignità del passato storico. È la stessa dignità che animava le pagine di Bernardino Baldi e che ancor più intimamente si annidava entro l'identificazione cristologica di Federico Barocci e del suo paesaggio urbinate. Di tutto il resto della vita del Guerrieri parlerà oggi, come è giusto, soprattutto questo nuovo e più completo volume, che l'amicizia di Franco Battistelli ha ideato e agevolato in tanti modi. Essa è punteggiata con frequenza da opere e da citazioni documentarie, si lascia seguire come un complice itinerario sentimentale fra Marche e Romagna sulle paginette ingiallite del prezioso volumetto di don Augusto Vernarecci. La vita del Guerrieri si chiuderà - l'abbiamo appreso solo di recente, per merito di un altro ricercatore fossombronese, don Giuseppe Ceccarelli - il 3 settembre 1657 a Pesaro, dopo una penosa decadenza fisica. La sua scomparsa segna, in qualche modo, i confini delle mutazioni del gusto e della cultura figurativa della tarda età barocca nelle Marche. Giovan Francesco Guerrieri: dopo il 1618, la vita a Fossombrone Le lettere recentemente ritrovate negli Archivi Vaticani non hanno sottratto drammaticità ai giorni della morte di Caravaggio, ed anzi hanno caricato il modo di quella disperata ricerca delle opere trafugate e perdute. Non sappiamo se Guerrieri visse l'eco del dramma nelle strade di Roma, lui che a Roma era giunto proprio all'atto dell'esilio del Caravaggio e che dunque non aveva mai avuto la possibilità di vederlo. Anche se così insistentemente legato ai pittori della prima generazione, e specie al Gentileschi e a Borgianni, il Guerrieri appartiene alla seconda generazione e di essa, per l'intero secondo decennio, ne descrive temi e problemi. Il ritorno a casa, sul finire del 1618, dovette avere per molti versi l'aspetto di una liquidazione di età e di costume, quasi preannunciate in fondo dall'arcaica progettazione delle decorazioni di Palazzo Borghese e da quella loro immobile rievocazione di un tempo mitologico, iconologico e sapienziale ormai defunto. Per chi debba affrontare l'intero arco dell'esperienza del Guerrieri, la sua vita matura e più intensamente produttiva inizia proprio dagli anni Venti, e percorre più di tre decenni dentro una vicenda che non si può chiamare altro che feconda, perfino ammirevole. Se abbiamo insistito minuziosamente a riguardo delle prime esperienze romane e marchigiane, ciò è avvenuto soprattutto per l'importanza incisiva di quegli anni, e per il riflesso che quelle esperienze gettavano su di un pittore giunto giovanissimo dalla periferia italiana, così da provocarne reazioni e suscitare congiunzioni. Entrare nella piena luce del palcoscenico provocarne reazioni e suscitare congiunzioni. Entrare nella piena luce del palcoscenico romano del primo decennio, calcarne in qualche modo la scena, reggendo del resto molto dignitosamente la tensione, è già impresa forte. La versione romantica e drammatica scaturita dall'approccio al naturalismo, maturato anche attraverso altri modelli di cultura ed anzi incrociato tra i flussi che giungono da diverse componenti italiane, è decisamente importante: e per noi ha anche il significato di investire il territorio artistico marchigiano (e probabilmente anche romagnolo) di una voce narrativa,piana e forte, senza cantilene. Una voce che continueremo ad ascoltare per molto tempo e che risuonerà per giunta nella memoria stilistica più immediata, da Cantarini a Cagnacci e al Centino. Il repertorio delle opere, che in questo libro è stato disteso con qualche volontà didattica e che appare dunque abbastanza minuzioso, può render conto delle numerose varianti che si preparano ad irrompere nello studio del Guerrieri già al suo ritorno da Roma, alla fine del 1618. Ciò ci esime forse dal percorrere dipinto per dipinto questo lungo, ammirevole tratto di cammino. C'è di più: la personalità stilistica dell'artista, come già in altre occasioni abbiamo detto, ha caratteri di concreto, veloce assorbimento stilistico, ma non testimonia sempre di una coerente velocità o sollecitudine di reazione. Anzi, affiorano ora dipinti che hanno la fortuna di conservare una datazione positiva, una firma o un documento, in grado così di collocarsi a ridosso di altre opere che però non ne condividono sempre le costanti. Così, si potrebbe scambiare per bolognese o addirittura guercinesco, come è già accaduto in altri tempi, quel San Michele Arcangelo della Pinacoteca di Fossombrone, che invece rivela ad una migliore attenzione - una data precocissima, il 1624; segno evidente che quel disegno fluido e quel cromatismo trasparente sono forse sintomi di una non ancora cessata influenza gentileschiana. Ciò non toglie però che la sorpresa sia consistente e che il timore di qualche altra chigane sia verisimile. Si direbbe che l'intero terzo decennio sia dominato dalla necessità di dare più elevata risposta alla fortuna che, dal nord padano, si impone a Fano soprattutto, con la forza indiscutibile di artisti come Domenichino, Bononi, Tiarini e Guido Reni: per non dire della qualità assoluta delle opere di costoro, della tempestività dell'occasione di cultura. Un quadro come l'Estasi di San Paterniano di Bononi, e a quelle date, è impressionante sull'orizzonte nazionale. La pala con i Santi Orso ed Eusebio della Cattedrale di Fano, che Ludovico Carracci firma nel 1612, defluisce lentamente, e però riconoscibilmente, dentro la struttura organica della natura del Guerrieri, quasi portando a maturazione quei sintomi di più strutturata organizzazione del disegno e del panneggio, che peraltro l'imitazione del Domenichino aveva già messo a dimora nel 1614, a Sassoferrato. Intorno al 1622 o poco oltre, il Guerrieri mostra segni di consistente evoluzione, come nella Santa Caterina da Siena , di Fossombrone; e più tardi, nella bella e inedita pala di casa Anselmi ad Arcevia, il cammino mostra di essersi aperto nel frattempo anche in un confronto con Lanfranco. È un peccato che il pittore marchigiano non sia più a Roma, avrebbe potuto soggiornare anche lui con il Guercino, questo giovane talento vivente, e con il Cagnacci ed il Serra, magari anche lui in casa di Simon Vouet. E tuttavia, anche senza questi impulsi, il Guerrieri non abdica a conseguenze di stile tali da far supporre che le sue informazioni non fossero davvero quello che noi ameremmo riconoscere servendoci di un moderno concetto di provincia, ma che anzi mantenessero legami e rapporti durevoli. Così, l'intera decorazione della cappella di San Carlo in San Pietro in Valle a Fano, che vorremmo collocare proprio intorno al 1630, o giù di lì, con quel suo ritorno di gusto cromatico, con quel suo disegno più attento e rifinito, non può mancare di rinviare a Carlo Saraceni e alla sua perdurante attività. La revisione del catalogo che questo libro ha reso possibile, ci ha messo dinanzi dipinti e pale d'altare che un tempo erano, per noi, affidati soltanto ad un'occhiata partecipe, ma frettolosa, come quella di chi è stretto nei tempi precari di sopralluoghi difficili e condotti senza mezzi. La statura del Guerrieri ne esce oggi molto esaltata, il rilievo e l'autorevolezza che il pittore fossombronese ne consegue sono davvero consistenti. Quel che più è possibile notare, ed è insieme utile per altri sviluppi non imprevedibili, ci riconduce in ogni modo dalla parte di un artista che ha costruito il suo mondo sfiorando ai suoi giorni migliori la novità caravaggesca, e traendone comunque una mondo sfiorando ai suoi giorni migliori la novità caravaggesca, e traendone comunque una sua bellezza artigiana del naturalismo, mettendo cioè in luce incastri e à plat cromatici, fino a denudarne l'onesta meccanica combinatoria. Era il naturalismo dei poveri, solo tangente all'onda d'urto del sussulto del Caravaggio, misurato con un'economia e anche con una poetica parrocchiali, di devozione e di liturgia intimamente moderne, e dunque proprio per questo pronte a chiedere un prodotto riconoscibile, intellettuale, umano. Tutta la lunga attività matura del Guerrieri declina su questa prima adesione il suo successivo linguaggio, motivandola comunque con ricchezza di apporti e anche di personali diverse esperienze. Difficile dire che cosa sia, fuori dai centri del potere economico, l'effettiva autonomia della cultura artistica già nel Seicento avanzato, e cioè nella fase discendente di quella transizione che cominciò intorno al 1580, e nelle Marche ancor più esattamente - nel 1579, l'anno straordinario di quella Deposizione di Cristo nel sepolcro che Federico Barocci aveva eseguito per la chiesa di Santa Croce a Senigallia. Giovan Francesco Guerrieri sembra rispondere oggi, dalla più folta sequenza dei suoi dipinti, che questa autonomia certo si era lentamente, progressivamente annullata; ma che però anche la nozione incerta di periferia urbano-rurale, nuovamente motivata peraltro da condizioni culturali e di liturgia, poteva alimentare una vita di alta dignità e soprattutto di spesso straordinaria cultura. Pur nella mobilità interattiva ed anche intima, Guerrieri conserva la salda moralità dell'artista nato al lavoro in quei primi anni del secolo, quasi una rivelazione giovanile per un linguaggio rude e comprensibile. Allineato negli anni e nei decenni, contraddistinto anche da un consistente codice di recuperi e di precedimenti, di memorie e di intuizioni, la lunga carriera pittorica del nostro continua a saldare la propria complessa immagine su quella altrettanto difficile di un paesaggio sociale e culturale in crisi. Il livello di restituzione è molto alto, proprio perché elevato è il grado di evocazione, potente la sua natura poetica, sensibile il suo sentimento del luogo. "Quanto potrà ancora durare la libertà mentale di Giovan Francesco Guerrieri, ora che anche il trapasso da una indipendenza, sia pur solo formale, al dichiarato dominio della Chiesa, ha sancito l'abbandono di quel paese intristito; ora che sempre meno si costruiscono chiese, si decorano altari; ora che anche Urbino è vuota, scomparsa la dotta e antiquaria cultura di Francesco Maria II, evacuati gli innumeri capolavori del Rinascimento attraverso i boscosi valichi di Toscana; e poche orme risuonano a lungo nell'enorme Palazzo, non è facile dire. Esigenze familiari si fan sempre più vive; cresce il numero, già tanto alto, dei figli: pochi acquistano quadri, e son cosette da far controvoglia, pensando ai bei tempi, con un gusto contrito e acre. Fino al 1636, a giudicare dalla paletta con la Madonna che porge il Bambino a San Francesco , oggi nella Passionei di Fossombrone, perdurano i tratti di una antica parsimonia... Il risultato che ne deriva potrebbe essere veritieramente fissato con le parole del Lanzi, scritte per il Sassoferrato, che forse di questa nuova dimensione conseguita 'per difetto' è il testimone più diretto e interessato: 'Il suo dipingere è di pennello pieno, vago di colorito, rilevato di bel chiaroscuro: ma nelle tinte locali un po' duretto'. [...] A questo punto, in verità, termina la vera storia della carriera poetica di Giovan Francesco Guerrieri. Ma nell'appartata solitudine del suo tardo operare, nel tentativo di riportarsi alla luce dei fatti artistici più importanti della regione, almeno una fiduciosa moralità, seppure toccata dalle sventure, continua a durare. Come fosse una diligenza antica di secoli, una pulitezza mentale spontanea, a risospingerlo al lavoro, ogni mattina, sempre per gli stessi committenti, parroci malvestiti e assai poveri delle pievi del forese. E, in fondo a tutto, ancora quelle poche oneste letture, il 'Leggendario dei Santi' e i 'Reali di Francia'. Qualche pensiero di più, non che fossero ambizioni; ma, come il sarto manzoniano, se mai avesse potuto studiare, chissà...?". Abbiamo riprodotto qui, in finale di scheda bio-bibliografica, e di narrazione del problema critico, la "scena" finale del nostro vecchio scritto del 1954-55, edito nel 1958, proprio per far constatare con mano quanto diverse fossero le conoscenze storiche del problema, e animosa l'interpretazione di valore sociale che se ne dava. L'accertata continuità di lavoro del Guerrieri fin oltre il 1650 e la maturità ulteriore che egli rivela nelle opere terminali, dipingono una diversa vecchiaia, in opposizione - in fondo - anche con i documenti dipingono una diversa vecchiaia, in opposizione - in fondo - anche con i documenti biografici superstiti. Ciò che tuttavia può resistere nel tempo è, una volta ancora, la forte capacità che il Guerrieri ha di portare con sé, dentro la propria opera pittorica, la condizione intera di un paesaggio di crisi. Fonte: Andrea Emiliani , 'Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone', Catalogo delle opere, 1997, Elemond Editori Associati per la Fondazione Cassa di Risparmio di Fano.