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lezione di diritto penale 2
 LEZIONE DI DIRITTO PENALE 2
PRINCIPIO DI LEGALITÀ (II PARTE)
PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ E REATI DI PERICOLO
a cura di Massimiliano Di Pirro
Sommario
1. Il principio di legalità
1.1. Il principio di “legalità giurisprudenziale”: l’art. 7 Cedu alle prese con il tentativo di
rapina impropria.
1.2. I labili confini della tassatività nell’aggravante dell’ingente quantità di stupefacente ex
art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990.
1.3. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo e il recente “spacchettamento” del
delitto di concussione.
2. Offensività e reati di pericolo
2.1. Il principio di offensività.
2.2. Reati di pericolo concreto e presunto (o astratto).
3. Delitti contro la pubblica incolumità
3.1. Profili generali.
3.2. Crollo di edifici e altri disastri colposi.
3.3. Disastro ferroviario colposo.
3.4. Disastro aviatorio colposo.
Dispensa giurisprudenziale
Concussione e induzione indebita (L. 190/2012): i tratti distintivi (Cass. pen., sez. VI, 9-52013, n. 20430)
******
1. Il principio di legalità
1.1. Il principio di “legalità giurisprudenziale”: l’art. 7 Cedu alle prese con il tentativo
di rapina impropria
In questo paragrafo ci soffermeremo su una tematica di scottante attualità, ovvero se sia
configurabile il tentativo di rapina impropria o se, invece, debba ritenersi il concorso tra
furto tentato con un reato di violenza o minaccia nel caso in cui l’agente, dopo aver
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compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento
per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti
cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità.
Secondo l’orientamento maggioritario della Cassazione, è configurabile il tentativo di rapina
impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti
all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla
propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità (tra le altre, Cass.
pen. 6479/2011, 44365/2010, 25100/2009). Tale orientamento si basa su una serie di
argomentazioni:
- una lettura logico-sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, co. 2, c.p., che
descrive la condotta tipica della rapina impropria, permette di individuare la forma tentata
del reato in questione quando l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi,
fattispecie che ricorre specificamente nell’ipotesi di colui che adopera violenza o minaccia
per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver compiuto atti idonei, diretti in modo
non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, senza essere riuscito nell’intento a causa di
fattori sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia nella forma propria
che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile di arrestarsi allo
stadio del tentativo qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto, se un tentativo di furto
sfocia in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, deve concludersi che,
anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in
atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria;
- le fattispecie che compongono la figura complessa della rapina impropria (sottrazione e
violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, sicché l’unitarietà della
rapina resta tale anche quando tali condotte si arrestino sulla soglia del tentativo. In
altri termini, non è consentito procedere, proprio per l’unità della figura delittuosa, a una
considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati
fra tentato furto e fatti contro la persona. Nel caso in cui un tentativo di furto sfoci in
violenza o minaccia finalizzate all’impunità non può dividersi l’azione in due tronconi,
l’uno configurante un delitto consumato contro la persona (lesioni, minaccia o altro) e l’altro
un delitto tentato contro il patrimonio (furto), tanto più quando ci si trovi davanti a un reato
complesso come la rapina, ma deve pervenirsi ad una valutazione unitaria, la quale non
può non portare a concludere che è stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e
quindi un tentativo di rapina impropria, anche se non si è conseguita la sottrazione del bene
altrui;
- sotto il profilo della ratio legis, con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare
con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla
minaccia, sicché non è logico ritenere che il legislatore abbia voluto sottrarre al medesimo
trattamento colui che, usando pur sempre violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e
non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà.
L’orientamento minoritario prende le mosse dalla sentenza Jovanovic (Cass. pen.
3796/1999), che per la prima volta nega l’ipotizzabilità del tentativo di rapina aggravata in
mancanza del presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa, dovendosi configurare, nel
caso in cui l’agente, sorpreso prima di aver effettuato la sottrazione, usi violenza o minaccia
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al solo fine di fuggire o di procurarsi altrimenti l’impunità, un tentato furto in aggiunta ad
altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.
Rimasta inizialmente del tutto isolata, questa tesi è stata, successivamente, seguita anche da
Cass. pen. 32551/2007, 43773/2008 e 16952/2009.
Tale orientamento si basa sull’elemento letterale, affermando che “il capoverso dell’articolo
628 cod. pen. impone che la sottrazione della cosa preceda l’esplicazione di violenza o
minaccia ("... adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione ...") sicché
l’agente, qualora - sorpreso prima di aver compiuto la sottrazione - usi violenza o minaccia
al solo fine di fuggire o procurarsi altrimenti l’impunità, risponde non di tentata rapina ma di
tentato furto, eventualmente in concorso con altro reato avente come elemento costitutivo la
violenza o la minaccia ... . Nella formazione progressiva della fattispecie, l’imprescindibile
nesso temporale tra "sottrazione" e violenza/minaccia finalizzata rappresenta l’essenza
caratterizzante della rapina impropria, nel senso che il secondo comportamento, qualora
rimanga avulso dal primo (venuto a mancare), può solo assumere rilevanza autonoma (reato
di lesioni e/o minaccia). Allo stesso modo, l’idoneità degli atti volti all’impossessa mento
(che non raggiungano, tuttavia, la soglia della "sottrazione") consente ancora la
configurabilità del tentativo di furto, ma perde ogni significato in relazione alla rapina
impropria. In definitiva, la mancanza di "sottrazione della cosa" impedisce che la violenza
successiva possa assurgere anche solo al rango di "atto idoneo diretto in modo non
equivoco" alla commissione di una rapina impropria” (Cass. pen. 3796/1999).
Le Sezioni Unite hanno ribadito il primo dei suesposti indirizzi, recependone le
argomentazioni e soffermandosi su un profilo ulteriore.
La dottrina prevalente ritiene che il tenore letterale del capoverso dell’art. 628 c.p. è tale che
la configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in esame contrasterebbe con il
principio di legalità e con il divieto di analogia. Sul punto, Cass. S.U. 1235/2010 chiarisce
che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7
Cedu (oltre che nell’articolo 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art.
49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus
comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Nella
giurisprudenza della Cedu al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità
(accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione,
accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla previsione astratta ma alla norma
vivente quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici, secondo un
principio di legalità che potremmo definire “giurisprudenziale”, poiché la giurisprudenza
assume un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del
precetto penale.
Il dato decisivo da cui è possibile dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo
la Corte europea dei diritti dell’uomo, è dunque la prevedibilità del risultato interpretativo
cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura
normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta
interpretazione (Corte europea 2-11-2006, Milazzo c. Italia; Grande Camera, 17-2-2004,
Maestri c. Italia).
Con riferimento alla fattispecie in esame, secondo Cass. S.U. 34952/2012 tali valori sono
senz’altro presenti a fronte di una giurisprudenza assolutamente maggioritaria, solo
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sporadicamente contraddetta, che ritiene configurabile il tentativo della rapina impropria
anche in mancanza di impossessamento della cosa.
Le Sezioni Unite forniscono, così, un’interpretazione estensiva del principio di legalità, di
cui finisce con il legittimare la sostanziale violazione quando sostiene che questo sarebbe
rispettato in presenza di una giurisprudenza consolidata pur se in palese contrasto con la
lettera della legge. Se si può ammettere la valenza dell’interpretazione giurisprudenziale per
fondare l’ignoranza incolpevole della legge (art. 5 c.p.), non si può seguire il ragionamento
delle Sezioni Unite laddove finisce con l’attribuire alla giurisprudenza, nella costruzione
delle fattispecie incriminatrici, un ruolo integrativo, se non addirittura sostitutivo, di quello
del legislatore (AMATO).
Questa interpretazione estensiva, nonostante l’evidente contraddizione che contiene, è
tuttora sostenuta dalla giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la
quale la chiarezza della legge si valuta con riguardo non solo al tenore della disposizione
rilevante, ma anche alle precisazioni apportate da una giurisprudenza costante e pubblicata;
tale principio si applica, secondo la corte europea, sia al precetto sia alla sanzione. Così
interpretato, però, il principio di legalità, consacrato nell’art. 7 Cedu, non esige l’esatta
delimitazione delle norme incriminatrici, tale da rendere prevedibili con assoluta certezza le
sanzioni derivanti dalla loro violazione, ma ritiene sufficiente anche l’utilizzo di espressioni
indeterminate, che potranno poi essere precisate dalla giurisprudenza.
1.2. I labili confini della tassatività nell’aggravante dell’ingente quantità di
stupefacente ex art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990. Il principio di tassatività è uno dei
corollari-santuario del principio di legalità, e impone al legislatore di descrivere la
fattispecie penale incriminatrice in maniera sufficientemente precisa, affinché attraverso
l’attività interpretativa si possano ricavare il precetto e la sanzione, senza sconfinare
nell’analogia (vietata, se in malam partem).
Capita spesso, però, che le norme contengano elementi descrittivi elastici o addirittura vaghi.
È ciò che accade, ad esempio, per l'aggravante dell’ingente quantità di sostanze stupefacenti
di cui all'art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990, che, secondo Cass. S.U. 36258/2012, è di norma
configurabile in caso di superamento per 2.000 volte del valore massimo in milligrammi
(c.d. valore-soglia) previsto per ciascuna delle sostanze indicate nella tabella allegata al
D.M. salute 11-4-2006, salva, in ogni caso, la valutazione discrezionale del giudice.
La pronuncia delle Sezioni Unite, però, ha di fatto usurpato il ruolo del legislatore. Vediamo
perché.
Com’è noto, il principio di tassatività-determinatezza della fattispecie è funzionale sia al
principio della separazione dei poteri, quanto a quello della riserva di legge in materia
penale (evitando che il giudice assuma un ruolo creativo nell’individuare il confine tra ciò
che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione
individuale, perché consente al destinatario della norma penale di conoscere le conseguenze
(giuridico-penali, appunto) del proprio agire.
Ciò peraltro non impedisce al legislatore di utilizzare, nella formula descrittiva dell’illecito
penale, espressioni sommarie, vocaboli polisensi, clausole generali e concetti elastici (Corte
cost. 395/2005).
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Il compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà
fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma apparentemente indeterminate e ciò
va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nell’interpretazione
giurisprudenziale.
A questo proposito la dottrina ha assunto una posizione di non netta chiusura, pretendendo
una rigida determinatezza della norma descrittiva della condotta penalmente vietata e
concedendo, però, una qualche possibilità di formulazione più elastica quando si tratti di
attenuare la dimensione offensiva o mitigare le conseguenze sanzionatorie.
Altri autori hanno mostrato ancora maggiore apertura, attribuendo al giudice il poteredovere di specificare la portata della norma, quando il dato letterale faccia riferimento a una
realtà quantitativa o temporale non predeterminabile in termini di certezza, ma comunque
sufficientemente circoscrivibile sulla base delle conoscenze condivise e delle massime di
esperienza (si fa l’esempio del danno patrimoniale di rilevante gravità, di cui all’art. 61, n. 7,
c.p., o di speciale tenuità, di cui all’art. 62, n. 4, c.p.).
Calando queste osservazioni nell’ambito della disciplina sugli stupefacenti, occorre
ricordare che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle. La prima
comprende le sostanze, indipendentemente dalla distinzione tra stupefacenti e sostanze
psicotrope, con potere drogante; nella seconda sono inserite le sostanze che hanno funzione
farmacologica e pertanto sono usate a scopo terapeutico. Si tratta, appunto, di farmaci. Le
tabelle sono aggiornate quando si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di
variarne la collocazione o di provvedere a eventuali cancellazioni. L’aggiornamento pertanto
interviene (con decreto ministeriale) tutte le volte in cui una nuova sostanza diventa oggetto
di abuso o quando qualche nuova droga viene messa in circolazione sul mercato clandestino
o, ancora, quando viene messo a punto un nuovo farmaco ad azione stupefacente o
psicotropa.
Naturalmente una stessa sostanza (es. la morfina) può trovarsi in entrambe le tabelle, perché,
pur essendo un farmaco utile per lenire il dolore, essa è idonea a provocare
tossicodipendenza.
Le tabelle in questione, poi (ed è ciò che in questa sede rileva), indicano i c.d. «limitisoglia», cioè i limiti quantitativi massimi oltre i quali le condotte descritte nell’art. 73, co.
1bis, d.P.R. 309/1990 sono penalmente rilevanti e assoggettate al trattamento sanzionatorio
previsto dal comma 1 del medesimo articolo (reclusione da 6 a 20 anni e multa da 26.000 a
260.000 euro).
Tali limiti, dunque, costituiscono il discrimine tendenziale fra uso personale, che non
comporta sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente represse.
Va peraltro precisato che tanto il possesso quanto l’uso di droghe costituiscono, comunque,
condotte vietate dall’ordinamento, il quale, tuttavia non sempre reagisce con la minaccia e
l’applicazione di sanzione penale.
In sintesi, la tabella acquista rilievo dirimente, indicando le «soglie» al di sotto delle quali il
possesso delle sostanze si presume per uso esclusivamente personale (sempre che, per altre
circostanze sintomatiche, quali le modalità di presentazione, il confezionamento frazionato o
altro, la presunzione sia ritenuta non operativa).
In scala di crescente gravità, viene in considerazione l’ipotesi della lieve entità, di cui al
comma 5 dell’art. 73; le ipotesi «ordinarie» sono quelle residuali di cui all’art. 73, mentre la
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risposta repressiva più forte è riservata alle ipotesi aggravate di cui ai quattro commi dell’art.
80.
I criteri tabellari attribuiscono un ruolo primario al dato quantitativo, in relazione alle dosi
ricavabili, e proprio dalla rilevanza che il sistema tabellare ha nel sistema si deve trarre la
conclusione che è necessario individuare un parametro numerico anche per la
determinazione del concetto di ingente quantità. Infatti, se il legislatore ha determinato la
soglia quantitativa di punibilità, l’interprete ha il compito di individuare una soglia al di
sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze
stupefacenti, non possa parlarsi di ingente quantità.
Dunque, il dato quantitativo è determinante sia per stabilire (ai sensi del comma 1 bis, lett. a,
dell’art. 73) la soglia al di sotto della quale si presume l’uso personale, sia per
l’individuazione dell’ipotesi lieve di cui al comma 5 dell’art. 73 (unitamente ad altri dati,
parimenti valutabili da parte del giudice), sia per la configurabilità dell’ipotesi aggravata di
cui al comma 2 dell’art. 80.
I valori numerici, in quanto «misuratori di grandezza», costituiscono necessariamente
l’oggetto dell’attività valutativa del giudice che sia chiamato a pronunciarsi sulla conformità
di tali grandezze rispetto ad (elastici) parametri normativi, cui deve dare concretezza.
Prendendo, allora, come riferimento e punto di partenza il valore-soglia previsto dalle
predette tabelle (in quanto «unità di misura» rapportabile al singolo cliente-consumatore), le
Sezioni Unite, con la sentenza n. 36258/2012, hanno stabilito, sulla base dei casi sottoposti
all’attenzione della Cassazione negli ultimi anni in materia di traffico di sostanze
stupefacenti, una soglia al di sotto della quale non può parlarsi di quantità «ingente».
Secondo le Sezioni Unite non si tratta di usurpare la funzione normativa ma di compiere
un’operazione puramente ricognitiva che, sulla base dei dati concretamente disponibili e
avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari, individui una soglia al di sopra
della quale possa essere ravvisata l’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 80 d.P.R.
309/1990.
Sviluppando questa intuizione le Sezioni Unite hanno affermato che non può ritenersi
“ingente” un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2.000 volte il valoresoglia espresso in milligrammi nella tabella. Si tratta di un «moltiplicatore» desumibile dalla
casistica del massimario della Cassazione.
La sentenza delle Sezioni Unite è caratterizzata da una componente creativa evidente, che ha
rimediato al vuoto normativo sostituendosi al legislatore e fornendo così ai giudici di merito
un criterio interpretativo di natura empirica e piuttosto rudimentale. Sarebbe stato
sicuramente più corretto, da parte delle Sezioni Unite, sollecitare l’intervento della Corte
costituzionale, che avrebbe risolto in radice l’incertezza interpretativa. Le sentenze delle
Sezioni Unite, infatti, non hanno forza vincolante ma soltanto “persuasiva”, con la
conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità
costituzionale, la decisione delle Sezioni Unite può essere disattesa in qualunque tempo e da
qualunque giudice di merito, sia pure con l’onere di un’adeguata motivazione.
1.3. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo e il recente “spacchettamento” del
delitto di concussione. La disciplina della successione di leggi penali nel tempo è contenuta
nell’art. 2 c.p.
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Per comprendere il fenomeno occorre tenere ben distinti l’abolitio criminis dalla successione
di leggi penali meramente modificativa.
L’abolitio criminis si verifica quando una legge successiva abroga una precedente
fattispecie incriminatrice. L’art. 2, co. 2, c.p. prevede che non possono essere puniti coloro
che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice abrogata,
e se c’è stata una sentenza di condanna, anche definitiva, ne cessano l’esecuzione e gli effetti
penali (ad es., le pene accessorie). La ratio della disposizione è evidente: non avrebbe senso
continuare a punire un soggetto per un fatto che non è più considerato reato dal legislatore, il
cui disvalore penale, cioè, è venuto meno.
Il comma 4 dell’art. 2 c.p. si occupa, invece, della diversa fattispecie della successione
modificativa di leggi penali: il fatto era considerato reato dalla legge precedente ed è
ancora considerato tale da quella successiva, ma la disciplina è diversa. In questo caso il
giudice deve applicare la legge più favorevole al reo.
Il problema consiste nel distinguere l’abolitio criminis dalla successione modificativa: qual è
il criterio utilizzabile? La tesi prevalente adotta il criterio della continuità del tipo di
illecito (o “continuità normativa”), di matrice tedesca: se dal raffronto strutturale tra le due
fattispecie persiste lo stesso “nucleo essenziale” per effetto di un nesso di continuità ed
omogeneità del bene giuridico tutelato e delle condotte incriminate, siamo in presenza di una
successione modificativa. Se, infatti, la nuova norma insiste su un disvalore giuridico-penale
prossimo a quello della norma abrogata, non c’è motivo per cui i fatti pregressi,
riconducibili anche sotto la nuova norma, debbano andare impuniti (ROMANO).
Il problema si è posto con forza, nell’ultimo anno, in materia di concussione.
Com’è noto, l’art. 317 c.p. (prima della L. 190/2012) puniva, a titolo di concussione, “il
pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei
suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo
denaro o altra utilità”.
L’attuale art. 317 c.p, modificato dalla L. 190/2012, mantiene la dizione di “concussione”
ma punisce, con una pena maggiore nel minimo di quella precedente (oggi da “sei a dodici
anni di reclusione”; ieri da quattro a dodici anni di reclusione”) “il pubblico ufficiale che,
abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità”.
La condotta di induzione, invece, è finita nell’appena introdotto art. 319quater, co. 1, c.p. la
cui rubrica recita “induzione indebita a dare o promettere utilità”, che sanziona, con una
pena inferiore rispetto all’attuale e alla pregressa concussione (reclusione da “tre ad otto
anni”) “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua
qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo
denaro o altra utilità”.
L’innovazione essenziale consiste in quello che è stato definito come “spacchettamento”
della concussione nelle due figure della concussione (art. 317 c.p.) e della induzione indebita
a dare o promettere utilità (art. 319quater c.p.). Conseguentemente, mentre il previgente art.
317 c.p. considerava in alternativa di pari valenza le condotte della costrizione e
dell’induzione a dare o promettere indebitamente a sé o a un terzo, con abuso della qualità o
dei poteri, la nuova disciplina ha mantenuto nell’art. 317 c.p. la sola condotta di costrizione,
creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione; tale fattispecie si caratterizza, in
particolare, per la previsione del carattere residuale della norma ("salvo che il fatto
costituisca più grave reato") e per la punibilità di colui che dà o promette denaro o altra
utilità (capoverso dell’art. 319quater c.p.).
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Le condotte hanno formato oggetto di un diverso apprezzamento legislativo in ordine alla
rispettiva gravità, non già di una radicale rivalutazione in termini di rilevanza o irrilevanza
penale della condotta dell’autore, riconducibile alle nozioni di costrizione o induzione.
Nè la previsione dell’incriminabilità di chi, vittima di induzione a dare o promettere
indebitamente al pubblico ufficiale che abusa del proprio potere o della propria qualità,
“ceda” o “non resista” all’induzione, ha effetti sulla rilevanza penale della condotta di
induzione dell’autore del reato proprio, rispondendo questa nuova e ulteriore incriminazione
ad autonome e diverse ragioni della discrezionalità legislativa, che nulla operano sul piano
della permanente rilevanza penale della condotta di chi “induce”.
In definitiva, la successione normativa tra il previgente testo dell’articolo 317 c.p., quello
introdotto dalla legge 190/2012 e quello del nuovo autonomo articolo 319 quater c.p., si
colloca all’interno del fenomeno della successione di leggi penali disciplinato dall’art. 2,
co. 4, c.p. (Cass. pen. 21701/2013).
2. Offensività e reati di pericolo
2.1. Il principio di offensività. Ogni precetto penale deve essere inteso nell’ottica della c.d.
«concezione realistica» del reato, la quale espunge dalla fattispecie punibile - ancorché
astrattamente rispondente alla figura edittale - qualsiasi condotta che manchi di qualsiasi
idoneità a recare pregiudizio o pericolo di pregiudizio all’interesse protetto.
L’idoneità offensiva può consistere anche nella concreta esposizione a pericolo di un bene.
La Corte costituzionale, infatti, ha ribadito la compatibilità costituzionale di forme di tutela
avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice
esposizione a pericolo, ricordando che le soluzioni individuate dal legislatore devono
comunque misurarsi con l’esigenza di rispettare il principio di necessaria offensività del
reato. Alla Corte spetta procedere alla verifica dell’offensività “in astratto”, accertando se la
fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo (esigenza che,
nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione
legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma
risponda all’id quod plerumque accidit). Al giudice ordinario, invece, resta affidato il
compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza
applicativa ed evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte
prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva (Corte cost. 205/2008).
Le Sezioni unite della Cassazione, dal canto loro, hanno aderito integralmente
all’impostazione del giudice delle leggi, precisando che in ossequio al principio di
offensività inteso nella sua accezione concreta, spetta al giudice verificare se la condotta, di
volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a
repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. La condotta è
inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado
minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa) (Cass. S.U. 28605/2008).
2.2. Reati di pericolo concreto e presunto (o astratto). L’offensività del reato si atteggia
diversamente nei reati di danno e reati di pericolo. Nei reati idi danno il reato produce una
lesione all’interesse tutelato dalla legge, mentre nei reati di pericolo esso pone soltanto in
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pericolo tale interesse. Reato di danno, ad es., è l’omicidio (art. 575 c.p.), mentre un tipico
reato di pericolo è l’attentato all’integrità dello Stato (art. 241 c.p.).
I reati di pericolo si distinguono, a loro volta, in reati di pericolo concreto e reati di pericolo
presunto (o astratto).
Nei reati di pericolo concreto occorre che il bene protetto sia stato effettivamente messo in
pericolo. Ad es., nei reati contro la pubblica incolumità, che costituiscono la gran parte dei
reati di pericolo, il fatto tipico è solitamente descritto richiedendosi che sia stata posta in
pericolo la pubblica incolumità, come accade nel delitto di strage (art. 422 c.p.) e di disastro
(art. 434 c.p.); in altre ipotesi il pericolo può riguardare beni specifici, ma di natura analoga:
nel danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) occorre che si verifichi il pericolo di
incendio, nelle ipotesi previste dagli artt. 429 e 431 c.p. che si verifichi il pericolo di
naufragio o di disastro ferroviario. In tutte queste ipotesi il giudice deve accertare che la
pubblica incolumità (o altro bene protetto) sia stata concretamente messa in pericolo (chi
mette una bomba sotto l’auto del suo ex fidanzato risponde anche di strage se si tratta di un
luogo densamente abitato).
La concretezza del pericolo può derivare anche dalle modalità della condotta, come nel caso
dell’art. 445 c.p., che punisce la somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la
salute pubblica.
Nei reati di pericolo astratto o presunto, invece, non è necessario che la pubblica
incolumità (o altro bene protetto) sia stata concretamente messa in pericolo, ma è sufficiente
che si realizzi la fattispecie tipica del fatto descritto nella norma (incendio: art. 421, co. 1,
c.p.; inondazione, frana o valanga: art. 426 c.p.; disastro ferroviario: art. 430 c.p.).
Talune fattispecie di pericolo astratto possono trasformarsi, in alcuni casi, in reati di pericolo
concreto: ad es., se l’incendio — reato di pericolo astratto — riguarda la cosa propria (art.
421, co. 2, c.p.) diventa un reato di pericolo concreto perché richiede il verificarsi del
pericolo per la pubblica incolumità; e così per i reati di naufragio, sommersione o caduta di
aeromobile (art. 428, co. 3, c.p.) quando la nave o l’aeromobile siano di proprietà
dell’agente.
Una parte della dottrina (MANTOVANI) distingue i reati di pericolo astratto dai reati di
pericolo presunto: nei primi il pericolo non è un requisito tipico, ma è dato dalla legge
come insito nella stessa condotta, perché ritenuta pericolosa, e il giudice si limita a
riscontrare la conformità di essa al tipo legale, mentre nei secondi il pericolo non è
necessariamente insito nella stessa condotta, poiché al momento di essa è possibile
controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il probabile verificarsi dell’evento lesivo,
ma esso viene presunto iuris et de iure, per cui non è ammessa neppure prova contraria della
sua concreta inesistenza.
ANTOLISEI rifiuta in radice il concetto di «pericolo astratto», sul rilievo che «se il
pericolo è probabilità di un evento temuto, non si può concepire una species in cui questa
probabilità manchi. Ne deriva che, nei casi in cui si ravvisa un pericolo astratto, in realtà non
si ha una forma di pericolo ma una presunzione di pericolo, la quale non ammette prova
contraria».
3. Delitti contro la pubblica incolumità
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Vol. 502/ST – Edizione III
3.1. Profili generali. I reati contro l’incolumità pubblica sono finalizzati a tutelare la sfera
superindividuale di beni primari quali la vita, l’integrità fisica e la salute.
La tecnica di conformazione delle incriminazioni è assai variegata e frutto di precise e
tecnicamente dosate scelte di politica criminale.
Il nucleo centrale di tale categoria di illeciti è costituita, nell’ambito dei reati dolosi, dalle
fattispecie di disastro, ordinariamente configurate come reati di pericolo astratto. Vi
compare un definito evento, contrassegnato da tipica pericolosità in relazione ai beni primari
cautelati: un evento di pericolo, appunto.
Si tratta di figure come l’incendio, l’inondazione, la frana, la valanga, il disastro
ferroviario e il naufragio, nelle quali al giudice non è affidata la concreta valutazione ex
post della pericolosità della condotta, ma è la norma che descrive alcune situazioni
tipicamente caratterizzate, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante
possibilità di danno alla vita o all’incolumità personale.
L’evocazione di tali drammatiche contingenze tipiche, storicamente ben note alla
legislazione penale, chiama in causa l’idea di indeterminatezza del danno che caratterizza i
reati di comune pericolo. Si è infatti in presenza di eventi dotati di forza dirompente e,
quindi, in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente
definibile o calcolabile.
Rispetto a tali eventi non è richiesta l’analisi a posteriori di specifici decorsi causali che è
invece propria degli illeciti che coinvolgono una o più persone determinate. Al contrario, ciò
che caratterizza il pericolo per la pubblica incolumità è la possibilità che le persone si
trovino coinvolte nella sfera d’azione dell’evento disastroso descritto dalla fattispecie,
esposte alla sua forza distruttiva. Di qui l’idea di indeterminatezza.
La struttura delle fattispecie, come accennato, è normalmente astratta, per cui il giudice
deve soltanto verificare l’esistenza di un fatto conforme al modello tipico. Per tale
ragione, i reati in esame si trovano in un rapporto di tensione con il principio
costituzionale di offensività: non può, infatti, escludersi che l’evento di pericolo conforme
al tipo non sia concretamente minaccioso per il bene tutelato.
Tale rischio può essere arginato:
- in via interpretativa, attribuendo alle espressioni utilizzate dal legislatore per descrivere gli
eventi in questione un significato che esprima l’idea di accadimenti macroscopici,
dirompenti e quindi potenzialmente lesivi nella dimensione indeterminata e superindividuale
cui si è già sopra fatto cenno;
- nella fase giudiziale, accertando se il caso concreto presenti le caratteristiche di tipica
offensività insite nella fattispecie astratta.
Tale itinerario interpretativo è segnato anche da Corte cost. 286/1974. La Corte, investita
della questione di costituzionalità degli artt. 423 e 428 c.p., l’ha ritenuta infondata “tenendo
anche conto che per la sussistenza dei reati di naufragio e di incendio di cosa altrui è
necessario che si verifichi un evento che possa qualificarsi, appunto, naufragio o incendio,
cioè un evento tale che sia potenzialmente idoneo, seppure non concretamente, a creare la
situazione di pencolo per la pubblica incolumità (per l’incendio sono richieste la vastità, la
violenza, la capacità distruttiva, la diffusibilità del fuoco)”.
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Vol. 502/ST – Edizione III
Tale pronuncia, sebbene riferita a due specifiche categorie di disastri, contiene principi di
carattere generale che definiscono il disastro come un evento macroscopico tipicamente
pericoloso.
Il legislatore, tuttavia, ha diversificato la disciplina:
- in qualche caso, nell’ambito degli illeciti dolosi, ha anticipato ulteriormente la tutela
rispetto all’evento di pericolo. Ad esempio, nel danneggiamento seguito da incendio di cui
all’art. 424 c.p. si punisce la condotta di chi appicca il fuoco se dal fatto sorge pericolo di un
incendio. Una tecnica analoga si riscontra nel danneggiamento seguito da naufragio di cui
all’art. 429 c.p. e in quella di pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento di
cui all’art. 431 c.p.;
- in altri casi il tipo comprende la verificazione di un pericolo concreto. Ad esempio,
nell’ambito della fattispecie di naufragio o sommersione di natante ovvero di caduta di un
aeromobile di proprietà dell’agente (art. 428, co. 3, c.p.), è richiesto non solo che l’evento
disastroso sia potenzialmente, astrattamente idoneo a creare la situazione di pericolo, ma
anche che dal fatto derivi un pericolo concreto per la pubblica incolumità.
3.2. Crollo di edifici e altri disastri colposi. Analizzando le singole fattispecie prendiamo
le mosse dall’art. 434 c.p., che disciplina due condotte, entrambe punite soltanto se deriva un
pericolo per l’incolumità pubblica:
a) il compimento di un fatto diretto a cagionare il crollo di un edificio o di una parte di esso;
questa fattispecie intende tutelare l’incolumità di coloro che si trovino all’interno
dell’edificio cadente o che si trovino a passare nelle sue vicinanze. Dal crollo dell’edificio
deve derivare un pericolo per la vita o l’incolumità di una serie indeterminata di
persone (anche se appartenenti a categorie predeterminate di soggetti), con valutazione ex
ante che prescinde dal verificarsi dei medesimi (Cass. 15-12-2011);
b) il compimento di un fatto diretto a cagionare un disastro diverso (c.d. disastro
innominato) da quelli descritti negli articoli precedenti (incendio, inondazione, valanga,
frana, ecc.). Il disastro innominato:
- è ispirato all’esigenza di colmare eventuali lacune che si possono verificare nella
previsione degli eventi disastrosi illeciti per effetto dell’evoluzione della tecnica;
- è un reato di pericolo astratto (Cass. 18977/2009);
- richiede il verificarsi di un avvenimento grave, con caratteristiche diffusive e con
conseguente pericolo per la vita o l’incolumità di persone indeterminate, anche se
appartenenti a categorie determinate di soggetti;
- non richiede l’effettivo verificarsi degli eventi lesivi nei confronti delle persone tutelate,
essendo sufficiente la compromissione delle caratteristiche di sicurezza e di tutela della
salute conseguente all’esposizione prolungata a sostanze nocive. Ad es., Cass.
18678/2012 ha escluso il disastro innominato nella fuoriuscita da uno stabilimento di dieci
tonnellate di arsenico poiché non era stata provata la diffusione dell’arsenico all’interno
della comunità dei lavoratori;
- può avere le caratteristiche di un evento disastroso immediatamente percepibile ma
anche di un evento che si realizza in un arco di tempo prolungato, purché idoneo a
pregiudicare, per la sua efficacia diffusiva, la pubblica incolumità. Il macro evento
disastroso non necessariamente deve avere caratteristiche di concentrazione temporale,
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potendo trattarsi di un processo che si prolunga nel tempo. Su questa scia si collocano le
sentenze che, pur non avendo esaminato specificamente il tema, hanno ritenuto
configurabile il disastro ambientale, colposo o doloso, in tutti i casi di inquinamento
progressivo, durato anni, di vaste aree, per lo più agricole, con l’immissione incontrollata di
rifiuti pericolosi (Cass. 14-7-2011, 16-1-2008, Agizza).
Di tale fattispecie si è occupata Corte cost. 327/2008, chiamata a valutare il dubbio di
illegittimità costituzionale alla luce del principio di determinatezza. La Corte, nel dichiarare
non fondata la questione, ha proposto alcune riflessioni:
- il principio di determinatezza è volto a evitare che il giudice assuma un ruolo creativo,
individuando i confini tra il lecito e l’illecito e a garantire la libera autodeterminazione
individuale, consentendo al destinatario della norma penale di apprezzare le conseguenze
giuridiche della propria condotta;
- l’espressione “disastro” utilizzata nella norma è una formula sommaria capace di
assumere, nel linguaggio comune, un’ampia gamma di significati. Tuttavia, la valenza del
termine è illuminata dalla finalità dell’incriminazione e dalla sua collocazione nel sistema
dei delitti contro la pubblica incolumità. Si tratta di un evento diverso ma comunque
omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai disastri contemplati nei delitti
di comune pericolo mediante violenza, caratterizzato dai tratti distintivi delle fattispecie di
disastro tipiche, costituite da un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se
non necessariamente immani, idoneo a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed
estesi, con conseguente pericolo per la vita e per l’integralità fisica di un numero
indeterminato di persone.
3.3. Disastro ferroviario colposo. Il reato di disastro ferroviario colposo previsto dagli artt.
430 e 449 c.p., non diversamente dal disastro innominato colposo disciplinato dagli artt. 434
e 449 c.p., ha natura di delitto di evento che richiede che si verifichi l’evento di pericolo per
la pubblica incolumità, costituito da un accadimento macroscopico, dirompente e
potenzialmente lesivo nei confronti di un numero indeterminato di persone. Si tratta di
una fattispecie di pericolo astratto che non richiede che la pubblica incolumità sia stata
posta concretamente in pericolo.
Cass. 15444/2012, ad es., ha ritenuto realizzata la fattispecie tipica del disastro ferroviario in
un caso nel quale un convoglio ferroviario, composto di quattro carrozze e privo di
conducente, si era messo in movimento per l’inidoneo bloccaggio percorrendo oltre quattro
chilometri, raggiungendo una velocità di circa ottanta km orari, attraversando due passaggi a
livello rimasti aperti e invadendo due carreggiate stradali fino a schiantarsi sul greto di un
fiume senza che venissero provocati danni alle persone.
3.4. Disastro aviatorio colposo. L’art. 428 c.p. distingue l’ipotesi della caduta di un aereo
di proprietà altrui (comma 1) da quella della caduta di un aereo di proprietà dell’autore del
reato (comma 3).
Il reato si perfeziona anche senza il verificarsi di una situazione di pericolo concreto. Del
resto, la norma prevede anche altre fattispecie, quali il naufragio e la sommersione, a
integrare le quali basta che l’evento colpisca anche una barca autorizzata al trasporto di
qualche persona, compresa la barca a remi (Cass. pen. 9029/1981). Ancora più radicalmente
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si è rilevato che il legislatore, in via presuntiva, ma anche ragionevolmente, ha ritenuto che
ogni qualvolta un aeromobile si abbatta al suolo si verifica, o si può verificare, una
situazione di particolare gravità e complessità e viene suscitato un certo allarme nella
comunità. Il delitto di cui si discute, pertanto, rientra nella categoria dei reati di pericolo
presunto: il delitto di caduta di aeromobile previsto dall’art. 428 c.p., nella forma dolosa, e
dall’art. 449 c.p. in quella colposa, è un reato di pericolo presunto e consiste nel causare la
caduta di un velivolo militare o adibito al trasporto di persone. Il giudice, pertanto, non è
chiamato ad appurare se vi sia stato pericolo per l’incolumità pubblica, dovendosi limitare
ad accertare che il fatto sia conforme al tipo.
La classificazione del reato di disastro aviatorio tra i reati di pericolo presunto deve essere
però correttamente perimetrata. La categoria del pericolo presunto è stata raggiunta, come
accennato, da severe censure per la sua asserita incompatibilità con il principio di offensività
e, correlativamente, con il principio di colpevolezza. Anche sulla scorta di una serie di prese
di posizione della Corte costituzionale si afferma concordemente che nel tessuto normativo
del reato di pericolo occorre individuare elementi che consentano di dare concreta attitudine
offensiva alla condotta. Così, ad esempio, in materia di incendio l’opera interpretativa si è
soffermata sul significato da attribuire a tale termine, definito in modo da espungere quelle
classi di ipotesi prive di una concreta attitudine offensiva, sia pure solo potenziale, per
l’incolumità pubblica: incendio non è quindi un qualsiasi fuoco sia pure esteso, ma è solo
quel fuoco che presenta caratteri di tale diffusività e capacità distruttiva da porre in pericolo
l’incolumità pubblica (Cass. pen. 43126/2008, Commetto).
Attraverso operazioni di questo genere si tende a sostituire il pericolo presunto con il
pericolo astratto: il pericolo non può essere insindacabilmente ritenuto sussistente solo
perché si realizza il fatto conforme al tipo, ma è conforme al tipo solo il fatto che esprima
davvero una potenzialità offensiva dei beni tutelati. Quando questa potenzialità offensiva
non sia rinvenibile nella fattispecie definita dal legislatore si apre la strada della censura
costituzionale.
Se però la fattispecie astratta non propone profili di incompatibilità con il canone di
offensività, dovrà essere il giudice ordinario a garantire che il fatto concreto esprima almeno
una minima offensività. Talvolta la giurisprudenza non sembra incline a condurre l’indagine
sul campo della concreta offensività. Si sostiene, ad esempio, che non è necessario accertare
- nell’ipotesi del reato di incendio di cui all’art. 423, co. 1, c.p. - il verificarsi di un concreto
pericolo per la pubblica incolumità, poiché “l’altruità sia pur parziale del bene incendiato
rende inconferente il rilievo difensivo in merito all’assenza di un pericolo concreto per la
pubblica incolumità, che si presume invece in modo assoluto" (Cass. 28843/2009).
Nel caso di disastro aviatorio, per caduta si intende il contatto del veicolo con qualsiasi
superficie, acquea o terrestre, che avvenga senza il completo controllo della traiettoria
dell’assetto di volo da parte del pilota.
Un’accezione di caduta che la identifichi con l’abbandono inerte alla forza di gravità, con
esclusione quindi dell’atterraggio o dell’ammaraggio di fortuna – e quindi di una presa di
contatto con la superficie nella persistenza di una relativa ma insufficiente capacità di
governo dell’aeromobile da parte del pilota – è irricevibile, dal momento che il concetto di
caduta rimanda a una perdita di quota che non è controllata per intero. Pertanto anche la
tradizionale esemplificazione del pilota che, prima di lanciarsi con il paracadute dal veicolo
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in avaria, operi sulla strumentazione di bordo perché l’aereo cada in una zona disabitata
piuttosto che sul centro cittadino, rimanda a un’ipotesi di caduta, secondo l’accezione di cui
all’articolo 428 c.p.
Parte della dottrina esclude dall’ambito di applicazione della norma eventi verificatisi in fase
di atterraggio o di decollo o per collisione con ostacoli fissi o immobili durante il volo.
Quel che sembra certo è che la locuzione “caduta di aeromobile” non sembra si presti più di
tanto a operazioni interpretative di maggiorazione del tasso di offensività della fattispecie,
rispetto a quanto non rechi naturalmente con sé l’ipotesi della precipitazione di un velivolo.
La necessità di operare una verifica dell’offensività in concreto dell’evento “caduta” ha
sollecitato la dottrina a segnalare che la fattispecie di disastro aviatorio va interpretata alla
luce del criterio della contestualizzazione dell’evento (in modo non dissimile da altri reati
di pericolo astratto). In ragione di esso, non integra il reato qualsiasi precipitare a terra
governato dalla sola forza di gravità ma va accertato, alla luce degli elementi concretamente
determinatisi, quali le dimensioni del mezzo, il numero dei passeggeri che può essere
trasportato, il luogo effettivo di caduta, l’espansività e la potenza del danno materiale, se il
fatto era in grado di esporre a pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di
persone.
Siffatto giudizio va condotto secondo una prospettiva ex ante, ovvero verificando se, alla
luce dei fattori conosciuti e conoscibili (giudizio ontologico a base totale) da parte
dell’agente od omittente al momento del compiersi della condotta (se trattasi di reato di
mera condotta) o a quello del verificarsi dell’evento (nel caso di reati di evento),
quest’ultimo si presentava, se realizzato, come in grado di esporre a pericolo la
pubblica incolumità.
Quel giudizio, per utilizzare le parole della dottrina, è condotto dalla “visuale di un
osservatore avveduto, posto nella stessa situazione materiale dell’agente, che giudica il
decorso fattuale secondo un parametro probabilistico, suscettibile di assumere connotati
diversi in dipendenza del contesto di riferimento”. Ciò conduce a precisare che, quando si
tratti di disastri che coinvolgono mezzi di trasporto, “trattandosi di situazioni già connotate
in sé da una pregnante osmosi tra danno materiale e pericolo pluripersonale, il carattere
della diffusività è, per così dire, connaturato all’oggetto materiale ..., cosicché ad
assumere rilievo in chiave prognostica, è, semmai, il solo dato dell’indeterminatezza delle
vittime” (GARGANI).
In sostanza, rispetto al delitto di disastro aviatorio colposo, il pericolo astratto comporta un
giudizio di verosimiglianza della presenza di un numero indeterminato di persone nella
sfera di esplicazione del fatto.
L’indeterminatezza di cui si parla non può essere identificata con l’idea di un pericolo per
un numero potenzialmente sterminato di persone, e neppure con l’impossibilità di
identificare le stesse persone potenzialmente esposte al pericolo, con la conseguenza che non
rileva il pericolo corso da congiunti o amici. Tenuto conto che il legislatore ha preso in
considerazione eventi dotati di forza dirompente e quindi in grado di coinvolgere numerose
persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile, ciò che caratterizza il
pericolo per la pubblica incolumità è semplicemente la possibilità che le persone si trovino
coinvolte nella sfera d’azione dell’evento disastroso descritto dalla fattispecie, esposte
alla sua forza distruttiva (Cass. 36639/2012, 13893/2009).
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Dispensa giurisprudenziale
Concussione e induzione indebita (L. 190/2012): i tratti distintivi
Cass. pen., sez. VI, 9-5-2013, n. 20430
[....]
DIRITTO
Come noto, la L. n. 190 del 2012, nel novellare la disciplina dei reati contro la pubblica
amministrazione, ha sostituito l’art. 317 c.p., con l’introduzione di una “diversa”
fattispecie di “concussione”, ed ha introdotto l’art. 319quater c.p., riguardante
l’innovativo reato della “induzione indebita a dare o promettere utilità”, figura
sostanzialmente intermedia tra quella residua della condotta concussiva sopraffattrice e
quella dell’accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dall’art. 318 c.p. o dall’art.
319 c.p. (anch’essi modificati dalla stessa legge).
Pure allo scopo di uniformare la normativa interna ai principi della Convenzione contro
la corruzione di Merida del 2003, approvata in ambito ONU, e della Convenzione
penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999, approvata in ambito di Consiglio
d’Europa – convenzioni ratificate in Italia rispettivamente con le L. n. 116 del 2009 e L.
n. 110 del 2012 – il legislatore nazionale, come si è accennato, ha “spacchettato”
l’originaria ipotesi delittuosa della concussione (che, nel testo previgente dell’art. 317
c.p., parificava le condotte di costrizione e di induzione), creando due nuove fattispecie
di reato.
La prima, che resta disciplinata dall’art. 317 c.p. e prevede la punizione del “pubblico
ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o
promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”, conserva i
precedenti caratteri ed elementi costitutivi della fattispecie della concussione per
costrizione, limitandosi ad incrementare il limite edittale minimo della pena detentiva
(portata da quattro a sei anni di reclusione) e lasciando come soggetto attivo il solo
pubblico ufficiale, con esclusione, dunque, della figura di incaricato di pubblico servizio.
La seconda fattispecie di reato, “scorporata” dal previgente art. 317 c.p. e ora regolata
dall’art. 319quater c.p., recante in rubrica la nuova denominazione di induzione indebita
a dare o promettere utilità, è configurabile, “salvo che il fatto non costituisca più grave
reato”, laddove “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della
sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o
a un terzo, denaro o altra utilità”: delitto, dunque, che può essere commesso sia dal
pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio, sanzionato con la più mite
pena della reclusione da tre ad otto anni, e che ha una struttura, con riferimento alla
condotta del pubblico agente (comma 1), nella quale sono stati riproposti gli stessi
elementi qualificanti la “vecchia” figura della concussione per induzione. Rappresenta,
invece, dato di assoluta novità la previsione, nel cit. art. 319 quater, comma 2, della
punizione anche dell’indotto, cioè del soggetto che “da o promette denaro o altra utilità”,
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il quale, da persona offesa nell’originaria ipotesi di concussione per induzione di cui al
previgente art. 317 c.p., diventa coautore nella nuova figura dell’induzione indebita.
Nel tentativo di verificare quali siano i criteri che permettono di distinguere la figura
della concussione, prevista dal “nuovo” art. 317 c.p., da quella della induzione indebita
a dare o promettere utilità, di cui all’introdotto art. 319 quater, nella giurisprudenza di
questa Corte si sono delineati tre differenti indirizzi interpretativi.
Per un primo filone giurisprudenziale, la circostanza che le figure criminose descritte
nei nuovi artt. 317 e 319 quater c.p. siano state create mediante una mera operazione
di “sdoppiamento” dell’unica figura di concussione prevista dal previgente art. 317,
senza l’aggiunta di ulteriori elementi descrittivi, induce a ritenere che il legislatore non
ha inteso abbandonare l’impostazione che, in passato, la giurisprudenza di
legittimità aveva proposto per distinguere le due “vecchie” ipotesi di
concussione per costrizione o per induzione.
Recuperando, così, gli approdi cui era pervenuta la Cassazione nell’esegesi della
disposizione poi modificata, questa Corte ha avuto modo di sottolineare che la
induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., così
come introdotto dalla L. n. 190 del 2012, non è diversa, sotto il profilo strutturale, da
quella che già integrava una delle due possibili condotte del previgente delitto di
concussione di cui all’art. 317 c.p. e consiste, quindi, nella condotta del pubblico
ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando delle funzioni o della
qualità, attraverso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita,
o di atti ingannatori, determini taluno, consapevole dell’indebita pretesa, a dare o
promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità. [....]
Per un secondo filone giurisprudenziale, la costrizione, che costituisce l’elemento
oggettivo della fattispecie di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modificata
dalla L. n. 190 del 2012, implica l’impiego da parte del pubblico ufficiale della sola
violenza morale, che consiste in una minaccia, esplicita o implicita, di un male
ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimoniale o non patrimoniale; al contrario,
l’induzione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art.
319quater c.p., è concetto che va definito “per sottrazione”, sicché deve ritenersi
sussistente quando, in assenza di qualsivoglia minaccia, vengano prospettate, da parte
del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, conseguenze sfavorevoli
derivanti dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la promessa indebita
di denaro o altra utilità: l’esclusione dal concetto di induzione di qualsiasi tipo di
minaccia giustifica sia il minor grave trattamento sanzionatorio rispetto alla
concussione, sia la punizione di chi aderisce alla violazione della legge, ricevendone un
suo tornaconto. [....]
Vi è, infine, un terzo filone giurisprudenziale, per così dire intermedio, che, partendo
dalle premesse formulate dal primo degli appena indicati indirizzi, finisce per proporre
una soluzione interpretativa che si avvicina a quella formulata dal secondo
orientamento.
Seguendo questa diversa ottica, si è asserito che l’induzione, richiesta per la
realizzazione del delitto previsto dall’art. 319quater c.p. (così come introdotto dalla L. n.
190 del 2012), necessita di una pressione psichica posta in essere dal pubblico ufficiale
o dall’incaricato di pubblico servizio che si caratterizza, a differenza della costrizione,
che integra il delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., per la conservazione, da
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parte del destinatario di essa, di un significativo margine di autodeterminazione,
o perché la pretesa gli è stata rivolta con un’aggressione più tenue e/o in maniera solo
suggestiva o perché egli è interessato a soddisfare la pretesa del pubblico ufficiale, per
conseguire un indebito beneficio. [....]
E però, “bisogna riconoscere come la distinzione tra i concetti di costrizione e di
induzione basata esclusivamente sull’intensità della pressione ovvero sul maggiore o
minore grado di coartazione morale nel destinatario della pretesa, ha creato in passato
non poche difficoltà interpretative – talvolta tradottesi in una tendenza a dilatare la
portata applicativa della previgente disposizione codicistica della concussione, a
scapito della complementare fattispecie di corruzione – che hanno portato la dottrina a
dubitare della legittimità costituzionale di una norma, quella contenuta nel precedente
art. 317 c.p., apparentemente carente dei requisiti di tassatività nella descrizione
della condotta. Ancora oggi, in un contesto normativo mutato con la previsione della
punibilità dell’indotto e con la esclusione della sanzionabilità del concusso, può risultare
difficoltoso distinguere una condotta di costrizione da una di induzione laddove la
pretesa sia fatta valere con modalità subdole o larvate (ovvero sia formulata con
contenuti artatamente imprecisati), tanto da sembrare una forma di blanda pressione
psichica, ma capace di integrare una situazione di sostanziale costrizione implicita. In
altri termini, non sempre è possibile differenziare nettamente una induzione da una
costrizione in base all’intensità della pressione esercitata dal pubblico agente ed al
grado di condizionamento dell’interlocutore, in quanto vi sono situazioni “al limite” nelle
quali è difficile distinguere il caso del privato che, anche in ragione della prospettazione
di un male ingiusto, si trova nello stato psicologico di chi è conscio di soccombere ad
un sopruso, da quello del privato che, destinatario di una pretesa avanzata in forma
indeterminata, semmai caricata di significati da supposizioni personali dell’interessato,
paventa solamente di poter patire un possibile futuro sopruso. [.…]
Sussiste, dunque, un contrasto giurisprudenziale che, ai sensi dell’art. 618 c.p.p..,
giustifica la rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite, chiamata a decidere la seguente
questione: “quali siano i presupposti di applicabilità degli artt. 317 e 319 quater c.p.
(come rispettivamente sostituito ed introdotto dalla L. 6 novembre 2012, n. 190,
contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della
illegalità nella pubblica amministrazione”) e quali gli elementi di distinzione delle relative
fattispecie incriminatrici”.
È di tutta evidenza, peraltro, come privilegiare una o l’altra delle tre indicate opzioni
esegetiche potrebbe influire sulla definizione della connessa questione di diritto
intertemporale, se, a seguito della entrata in vigore della novella del 2012 sia
ipotizzabile, con riferimento alle norme dei due appena considerati articoli, una qualche
forma di abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, co. 2, c.p., ovvero un mero fenomeno di
successione di leggi penali nel tempo regolato dall’art. 2, co. 4, c.p. Questione
che, fatta eccezione che per le perplessità manifestate in alcune pronunce, al momento
la giurisprudenza di legittimità pare orientata a risolvere nel senso della esistenza di
una continuità normativa tra la previgente e la nuova disciplina codicistica.
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Codice Penale - Leggi complementari - Codice Zanardelli
Vol. 502/ST – Edizione III
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