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“CRIMINI INTERNAZIONALI, IMMUNITÀ DELLO STATO
“CRIMINI INTERNAZIONALI, IMMUNITÀ DELLO STATO STRANIERO E ACCESSO ALLA GIUSTIZIA: RIFLESSIONI SULLA SENTENZA 238/2014 DELLA CORTE COSTITUZIONALE” 9 dicembre 2014, Siena – Aula Magna di Giurisprudenza Il 9 dicembre 2014 si è tenuto, presso l’Aula magna del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Siena, un seminario dal titolo “Crimini internazionali, immunità dello Stato straniero e accesso alla giustizia: riflessioni sulla sentenza 238/2014 della Corte costituzionale” cui hanno partecipato diversi professori di diritto internazionale, di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea. La sentenza 238/2014 costituisce una pronuncia molto importante della Corte costituzionale italiana, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra fonti interne e fonti internazionali e, più in generale, tra l’ordinamento statale e quello internazionale. Ha aperto il seminario il prof. Pustorino, che ha introdotto la discussione ripercorrendo la vicenda che ha portato la pronuncia della Corte. Nella sentenza 238/2014 si richiamano gli eccidi commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale nel territorio italiano nei confronti di cittadini italiani. La maggior parte delle situazioni giuridiche oggetto di questi eccidi sono state regolate da trattati bilaterali tra l'Italia e la Germania alla fine della guerra mondiale. Altre, invece, non sono state regolate e quindi sono oggetto di casi portati davanti ai giudici italiani. Nel 2004, la Corte di Cassazione stabilisce un principio importante, ossia quello secondo il quale la regola dell'immunità di uno Stato dalla giurisdizione soffre una deroga nel caso in cui lo Stato estero chiamato in giudizio sia accusato di aver commesso crimini internazionali e di aver violato le norme di jus cogens. Il principio in questione è stabilito dalla Cassazione sia in sede civile che penale. A questo punto nasce una controversia tra Italia e Germania sulla portata e contenuto della norma concernente l'immunità statale. Entrambe le parti decidono concordemente di risolvere la controversia sulla base di una Convenzione del 1957 sul regolamento pacifico delle controversie. Il suo primo articolo prevede il ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia come strumento di risoluzione delle stesse. Nel 2008, i ministri degli esteri dei due Paesi stabiliscono, con una dichiarazione congiunta, di essere d'accordo sul fatto che la specifica controversia sia portata all'attenzione della CIG. Si giunge, così, alla sentenza di quest'ultima emanata il 3 febbraio 2012 che da ragione alla Germania. La Corte afferma che non sussiste una deroga all'immunità dello Stato dalla giurisdizione civile nemmeno quando abbia commesso crimini internazionali o violato norme cogenti. Il ragionamento affrontato dalla CIG è stato sottoposto a critica dalla dottrina in più parti in quanto non ha preso in considerazione, in modo approfondito, alcune legislazioni nazionali e soprattutto non ha preso in esame il diniego di accesso alla giustizia nei confronti dei cittadini italiani (infatti questi non hanno avuto alcun accesso alla giustizia e nessun risarcimento). Ancora prima dell'emanazione di una 1egge nazionale riguardante l'obbligo di esecuzione di una sentenza della CIG, i giudici italiani decidono di conformarsi alla sentenza del 2012 applicando, pertanto, la regola sull'immunità. Successivamente, un giudice del Tribunale di Firenze decide di sollevare tre questioni di legittimità costituzionale dinnanzi alla Corte Costituzionale. Di queste tre, due sono dichiarate fondate e una non fondata. La prima questione riguarda l'art 3 della legge n.5 del 2013, legge adottata dall'Italia per ratificare ed eseguire nel nostro ordinamento la Convenzione delle Nazioni Unite del 2004 sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni. L'art.3 prevede l'obbligo di conformarsi alla sentenza della CIG, la quale dichiara l'insussistenza della giurisdizione italiana nel caso di controversie concernenti l'immunità. La seconda dichiarazione di illegittimità costituzionale riguarda l'art.1 della legge di ratifica ed esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, limitatamente alla parte in cui recepisce l'art. 94 dello Statuto che, al primo comma, prevede l'obbligo degli Stati membri delle Nazioni Unite di conformarsi alle sentenze della CIG. Pertanto, la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità della legge in questione in relazione all'art. 94, ma con specifico riguardo a quella determinata sentenza della Corte internazionale di Giustizia e non al complesso delle sue pronunce. L'ultima questione, invece, è dichiarata non fondata. Ha come oggetto il conflitto tra la norma interna di recepimento della norma consuetudinaria che riconosce ed applica l'immunità anche nel caso del compimento di crimini internazionali. Emerge un conflitto tra il recepimento della norma consuetudinaria internazionale ed i principi supremi della costituzione. Tale situazione deve essere spiegata alla luce del meccanismo di adattamento automatico, il c.d. trasformatore permanente disciplinato dall'art. 10, c. 1, secondo il quale l'ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute in maniera automatica. La Corte Costituzionale stabilisce che la norma interna di recepimento della norma consuetudinaria non si può formare nel nostro ordinamento proprio a causa del contrasto con i principi supremi della Costituzione, in particolare l'art. 2, ossia diritti inviolabili della persona, e l'art.24, ossia diritto di accesso alla giustizia. Ne consegue l'apertura di una serie di questioni di diritto costituzionale e la nascita di problemi che riguardano l'ordinamento interno ed i rapporti tra questo e l'ordinamento internazionale, affrontati dai successivi interventi. Il secondo intervento è stato quello del prof. Pisicchio. Egli parte dalla considerazione secondo la quale chi legge la sentenza per la prima volta è portato a pensare che essa non avrà alcun impatto sul diritto internazionale perché ha una impostazione fortemente dualistica, cioè caratterizzata dalla separazione netta tra diritto internazionale e diritto interno (soprattutto costituzionale). In particolar modo la Corte Costituzionale, ma anche il Tribunale di Firenze che ha emesso l'ordinanza di rinvio, non mette in discussione la norma internazionale sull'immunità degli Stati, non solleva il tema del conflitto tra la norma internazionale e i crimini internazionali, non mette in discussione la sentenza della CIG. Spetta unicamente a questa decidere qual è il contenuto della norma internazionale. Alla Corte Costituzionale interessa solo il fatto che la norma contrasta con i principi fondamentali della nostra Carta. Si tratta di un'impostazione chiaramente dualistica dei rapporti tra diritto internazionale ed interno che sembra porre dei limiti all'efficacia internazionale di tale pronuncia. La CIG ripete più volte che il diritto interno non può pregiudicare l'applicazione del diritto internazionale e quindi la pronuncia del giudice costituzionale non dovrebbe avere grandi effetti a livello internazionale. Tuttavia, il discorso è complicato per una serie di ragioni. Innanzitutto tale sentenza può anche essere seguita dai giudici interni di altri Stati; quindi, se anche loro sollevassero il problema del contrasto tra la norma sull'immunità ed i principi fondamentali delle Costituzioni, si verrebbe a creare una prassi che potrebbe incidere sul contenuto della norma internazionale inerente all'immunità degli Stati. Sicuramente ci vorrebbe molto tempo, ma la giurisprudenza interna potrebbe modificare il contenuto della norma internazionale. Tutto ciò sembra auspicabile secondo la Corte, la quale sostiene che in futuro si arriverà ad un ridimensionamento dell'immunità in una prospettiva di tutela dei diritti umani fondamentali. La sentenza suggerisce tre possibili soluzioni che potrebbero valere anche a livello internazionale per risolvere il problema del conflitto tra immunità da un lato e divieto dei crimini, accesso alla giustizia e diritto alla riparazione dall'altro. La prima soluzione è quella che si riferisce allo jus cogens. Questa stabilisce un legame funzionale necessario tra la violazione dei diritti sostanziali ed i rimedi processuali. Non esiste un diritto sostanziale senza un rimedio processuale. Stabilendo il nesso funzionale necessario tra i crimini internazionali, violazioni dei diritti fondamentali e diritto di accesso alla giustizia, la Corte Costituzionale assume una posizione molto critica nei confronti di quello che era stato l'argomento principale della CIG; questa aveva detto, tra le altre cose, che non ci può essere conflitto tra la norma sull'immunità degli Stati e la norma sul divieto dei crimini di guerra perché si tratta di norme che si applicano a due questioni diverse. La norma sull'immunità ha natura processuale, quindi preliminare, mentre la questione inerente al divieto dei crimini di guerra è sostanziale. Autorevole dottrina ha molto criticato l'argomento della CIG di evitare il conflitto tra la norma sull'immunità e quella sul divieto dei crimini perché si tratta di norme che si occupano di questioni diverse. La Corte Costituzionale è critica sul punto. Ciò potrebbe avere un effetto importante a livello internazionale dal momento che rafforzerebbe la tesi sostenuta anche dalla dottrina, che ritiene sussistente una norma internazionale consuetudinaria che prevede il diritto di accesso al giudice. Non vige soltanto l'art. 24 della Carta costituzionale, ma anche una norma internazionale consuetudinaria che prevede il diritto di accesso al giudice almeno per le gravi violazioni dei diritti umani fondamentali. Siccome la norma sul divieto dei crimini è di jus cogens, allora anche il diritto di accesso al giudice nel caso della commissione dei crimini deve essere necessariamente una norma di jus cogens e allora deve prevalere sulla norma riguardante l'immunità almeno quando l'accesso al giudice sia precluso totalmente da questa. Si deve trattare di un conflitto reale ed effettivo da verificarsi volta per volta. La seconda soluzione a cui ci si riferisce nell'intervento riguarda il principio del bilanciamento dei valori e degli interessi. Il riferimento al bilanciamento è in merito alla norma interna di adattamento della norma sull'immunità da un lato e gli artt.2 e 24 della Costituzione. La Corte ammette che il diritto ad un giudice possa trovare un limite nei rapporti tra gli Stati. Stabilisce che l'interesse pubblico può prevalere rispetto all'art. 24. Il giudice costituzionale, nel caso di specie, non ravvisa tale prevalenza. Il bilanciamento è ammissibile, tuttavia sussiste sproporzione se si sacrificano gli artt. 2 e 24. In definitiva, anche il bilanciamento dei valori porta a far prevalere i valori costituzionali. Tutto questo discorso può avere un'influenza anche a livello internazionale per risolvere i conflitti tra immunità da una parte e divieto di crimini e diritto di accesso al giudice dall'altra. In realtà esistono già tendenze in questo senso, ma soprattutto esistono le opinioni separate di tre giudici della CIG nella sentenza che riguarda il mandato di arresto, in cui si fa propriamente riferimento al principio del bilanciamento. Importante anche l'opinione dissidente del giudice Cançado Trindade nella sentenza Germania c. Italia della CIG che pone l'accento sul bilanciamento. Anche la Corte di Strasburgo, nel conflitto tra l'immunità, l'accesso al giudice ed i diritti umani fondamentali richiama il bilanciamento degli interessi. Terza ed ultima soluzione consiste nella tesi che i crimini non rientrano nell'attività normale e tipica di uno Stato. La Corte afferma che l'immunità di uno Stato straniero protegge la funzione ma non altri comportamenti che non attengono all'esercizio tipico della potestà di governo. Essa ritiene che il crimine di uno Stato non rientri tra gli atti statali iure imperii e quindi non ha diritto all'immunità. Tutto questo discorso richiama una tesi sostenuta in dottrina e nella prassi internazionale, cioè che l'immunità degli organi stranieri per gli atti ufficiali non vale per i crimini internazionali, in quanto non rientrando nel normale esercizio delle funzioni statali, non sono qualificabili come atti ufficiali e quindi non hanno diritto all'immunità. Anche tale tesi, seppur accennata in modo rapido dalla Corte, potrebbe valere a livello internazionale non solo per le immunità funzionali degli organi stranieri ma anche per le immunità degli Stati. Sussiste un accenno in tale senso anche nell'opinione dissenziente del giudice Cançado Trindade nella sentenza Germania c. Italia. Egli afferma esplicitamente che qui ci si trova dinnanzi a crimini di guerra internazionale ed i crimini sono crimini! Non sono né atti iure gestionis ne atti iure imperii di uno Stato. Anche tale tesi può innovare e modificare la tesi tradizionale sull'immunità degli Stati che distingue tra atti iure imperii e iure gestionis senza prevedere tale terzo genus di crimini. Sembra che la Corte Costituzionale renda un auspicio in tale senso dicendo che tale innovazione potrebbe ridimensionare l'immunità nella prospettiva di tutela dei diritti umani fondamentali. Quindi si tratta di tre spunti che, se ripresi e rafforzati a livello internazionale (Jus cogens legato al tema dell'accesso alla giustizia, il bilanciamento degli interessi ed il terzo genus di crimini che escono dalla classificazione comune) potrebbero incidere anche sul futuro del diritto internazionale. Il terzo intervento, del prof. Pisaneschi, si apre con la constatazione che nel percorso intrapreso dalla Corte sussistono alcuni salti logici rispetto al pensiero costituzionale tradizionale maturato sino ad oggi. Siamo nell'ambito del tema del sindacato di costituzionalità sulla consuetudine internazionale. Lo stato dell'arte, fino alla pronuncia in questione, si basava su alcuni punti chiave che non potevano essere messi in discussione. In primo luogo esiste nel nostro ordinamento l'art.10 della Costituzione (adattamento automatico), il quale ha la funzione di canale di immissione diretta di norme che provengono dall'ordinamento internazionale (tra cui la consuetudine internazionale). Tramite tale articolo, le norme sono immesse nell'ordinamento con forza costituzionale e costituiscono parametro per eventuali giudizi di legittimità di leggi interne che contrastino con esse. Inoltre, altra questione importante è data dal fatto che la Corte, dapprima nel 1979 (in tema di immunità diplomatica) e successivamente nel 2001, in un obiter dictum, ha affermato che le consuetudini di diritto internazionale devono rispettare i “controlimiti” e che le norme internazionali consuetudinarie, qualora contrastino con questi, non entrano nell'ordinamento italiano. La problematica che si pone è chi si occupa di giudicare se le norme internazionali consuetudinarie entrino o meno nell'ordinamento italiano qualora sussista un contrasto con il nucleo duro della Costituzione. Diverse posizioni esistevano sul punto, quelle degli internazionalisti da un lato e quelle dei costituzionalisti dall'altro. La tesi maggioritaria sostiene che sia di competenza dei giudici ordinari effettuare la verifica sull'immissione delle norme o meno. Altra questione complessa che si può evidenziare, riguarda il fatto che le consuetudini internazionali sono fonti fatto, in quanto si tratta di consuetudini ed in quanto provengono da un ordinamento esterno e la Corte costituzionale sindaca gli atti con forza di legge e non i fatti. Un altro punto controverso riguarda il tema dei “controlimiti”, in particolare la circostanza in base alla quale costituendo il nucleo duro della Carta fondamentale si pongono dei dubbi sul fatto che si possano bilanciare e ponderare rispetto ad altri valori costituzionali. La Corte Costituzionale individua alcune di queste questioni e nel farlo si imbatte in qualche salto logico. Innanzitutto, in riferimento alla problematica del controllo sull'ingresso o meno delle norme internazionali qualora contrastino con il nucleo duro della Costituzione, la Corte stabilisce che spetta al giudice costituzionale e non a quello ordinario, proprio per la presenza di un modello di sindacato accentrato. Tuttavia, come è possibile sindacare norme che non sono mai entrate e quindi non esistono nell'ordinamento interno? Probabilmente la soluzione più corretta sarebbe stata quella di dichiarare l'inammissibilità della questione e non l'infondatezza. La seconda forzatura riguarda la tematica atto-fatto. La consuetudine internazionale è un fatto per la sua natura di consuetudine e per la sua provenienza da un ordinamento esterno. Inoltre la Corte non rinnega l'impianto dualistico, ma lo appoggia fortemente e questo l'aveva portata a considerare i regolamenti comunitari come dei fatti. Pertanto fa specie la circostanza secondo la quale il giudice costituzionale ritenga un regolamento europeo come un fatto e non ritenga tale una consuetudine di diritto internazionale. Infine la Corte genera scontento tra i costituzionalisti non per il risultato ottenuto, ma per il modo in cui vi arriva. I “controlimiti” rappresentano il nucleo duro della Costituzione, non sottoponibile a revisione. Il bilanciamento può avvenire solo con altri elementi facenti parte di tale nucleo. La Corte invece, nella pronuncia in questione, ritiene si possano bilanciare con l'interesse pubblico. In realtà il “controlimite” è esattamente l'opposto dell'interesse pubblico. Bilanciandolo con quest'ultimo si rischia di vanificare la sua stessa natura. Successivamente afferma che non si ravvisa, nell'ambito dell'ordinamento costituzionale, un interesse pubblico tale da risultare preminente al punto da giustificare il sacrificio del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali e ritiene prevalente l'art.24 della Costituzione rispetto all'interesse pubblico. Viene rivolta una critica a questo modo di ragionare della Corte. Infatti, non sarebbe dovuto entrare in gioco il riferimento all'interesse pubblico, ma all'articolo 11 Cost., quale parametro di bilanciamento. L'intervento del prof. Pavoni si propone di analizzare una serie di aspetti. Innanzitutto si deve comprendere quale sia la portata della regola sull'immunità secondo la Corte Costituzionale. Questa ritiene necessarie due condizioni fondamentali: a)la fattispecie deve riguardare gravi violazioni dei diritti umani (non una qualsiasi violazione); b)non basta dire che la norma non ha avuto ingresso quando copre tali crimini, ma si deve ritenere che non sussiste altro mezzo di tutela alternativo per le vittime. L'unico mezzo è quello di rivolgersi al giudice dello stato del foro (nel nostro caso l'Italia). I parametri da invocare a livello costituzionale sono l'art. 2 e 24. Ciò che colpisce è l'ampiezza del principio affermato dalla Corte. Infatti, sorprende che essa non ponga alcun requisito di collegamento con il territorio italiano, cioè non si dice che esiste uno sbarramento all'ingresso della norma solo quando tali crimini sono stati compiuti almeno in parte nel nostro ordinamento. Si tratta di una questione estremamente interessante; basta leggere l'ordinanza del giudice di Firenze e si può notare che questo aveva dato molta importanza al fattore territoriale, cioè al fatto che questi crimini, almeno in parte, fossero commessi nel territorio italiano. Nella pronuncia della Corte non emerge alcuna esigenza di collegamento territoriale con l'Italia se non nella trattazione della terza questione sulla legge del 2013. Perché si da così rilevo a tale situazione del mancato collegamento territoriale? Perché è evidente che tale sentenza può dare il via ad azioni giudiziali intraprese nel nostro territorio da cittadini stranieri in relazione a fattispecie di crimini non commessi nel territorio italiano. Un altro aspetto rilevante consiste nel fatto di aver limitato la pronuncia solo alle gravi violazioni dei diritti umani ed ai crimini internazionali. Tutto questo non è privo di conseguenze. In tutte le altre fattispecie in cui lo Stato straniero si vede riconosciuto immune dalla giurisdizione italiana, pur in mancanza di mezzi alternativi di risoluzione della controversia, non vi è incompatibilità con la Costituzione. Tuttavia la questione di costituzionalità consistente nel conferire l'immunità agli Stati in queste controversie è ancora priva di una soluzione affidabile. Probabilmente la sentenza darà vita a problematiche di costituzionalità anche in altre fattispecie inerenti l'immunità che non riguardano nello specifico la commissione di crimini internazionali. Assume rilevanza sottolineare anche un'altra questione. La sentenza si riferisce all'immunità dalla giurisdizione di cognizione e non riguarda l'immunità degli Stati dalla giurisdizione di esecuzione, cioè l'esecuzione forzata. Il punto che qui emerge come problematico consiste nel domandarsi cosa succede se passa in giudicato una sentenza che accerta il risarcimento dei danni, lo quantifica e poi la Germania non onorerà la pronuncia. Ritornando brevemente sulla questione del collegamento territoriale, si può sostenere che la Corte fa confusione in riferimento alla risoluzione della terza questione. Infatti, il giudice costituzionale ripone notevole attenzione sull'importanza del collegamento territoriale. Come si può conciliare tale parte della sentenza con le altre due? Secondo una certa dottrina, la Corte, probabilmente, si è un po’ confusa. Nelle due questioni precedenti l'aspetto territoriale non è minimamente toccato, mentre nella terza lo sottolinea in riferimento alla legge del 2013. Il suo art. 3 deve essere dichiarato totalmente incostituzionale. Quest'ultimo sancisce che il giudice italiano davanti al quale pende una controversia deve dichiarare d'ufficio il difetto di giurisdizione. Secondo autorevole dottrina, da un punto di vista tecnico, qua doveva scaturire una pronuncia di parziale incostituzionalità della legge. La questione del nesso territoriale è di particolare importanza quando si vanno a sottolineare le implicazioni future della sentenza e si prevedono futuri interventi sia del giudice ordinario, sia costituzionale sul tema al fine di individuare un criterio che riesca a contenere il contenzioso che si è innestato a causa di questa pronuncia. L’ultimo intervento è stato tenuto dalla prof.ssa Groppi, la quale sottolinea che la Corte Costituzionale ha dovuto affrontare una serie di ostacoli prima di giungere alla sentenza 238/2014. Ci si chiede per quale motivo si sia sentita di dover adottare una decisione di questo tipo, quando si sarebbe potuta limitare a dichiarare inammissibile la questione e seguire l'orientamento dominante della Corte Internazionale di Giustizia e di altre Corti presenti nel mondo. L'oggetto del sindacato di costituzionalità è delimitato dall'art. 134 Cost., ossia si deve trattare di “leggi o atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni”. Siamo in questa categoria? Nel caso di specie si tratta di consuetudini internazionali. Si ricordi, comunque, che la Corte, nel corso del tempo, ha ampliato l'oggetto estendendolo a molte categorie di atti. Per quanto concerne i “controlimiti”, il giudice costituzionale più volte ha affermato la loro esistenza senza mai attivarli. Nella pronuncia vengono applicati per la prima volta. Sorprende la Corte quando afferma che essi vanno bilanciati con l'interesse pubblico. In realtà, se si legge attentamente la confusa motivazione, si capisce che si bilanciano con altri controlimiti e principi supremi, ad esempio l'obiettivo del mantenimento dei buoni rapporti internazionali ispirati ai principi di pace e giustizia. Siccome manca, nel caso di specie, tale aspetto (in quanto siamo nell'ambito di crimini internazionali) non può avvenire il bilanciamento. Inoltre la Corte si è trovata davanti ad ostacoli di interpretazione del suo oggetto e parametro ai sensi della Costituzione. Questi ostacoli sono rappresentati dalla sua giurisprudenza pregressa. Esiste il problema della sentenza 48/79 sulla possibilità di andare a sindacare norme di diritto internazionale consuetudinario precedenti all'entrata in vigore della Costituzione. E' richiamata anche la sentenza 1/56. Inoltre sussiste un altro aspetto in riferimento ai precedenti, ossia la tendenza degli ultimi dieci anni a trasferire buona parte dei compiti del controllo di costituzionalità ai giudici comuni (nonostante la vigenza di un sistema accentrato). Nella pronuncia, invece, la Corte si pone in contrasto con questa tendenza. Infatti afferma ripetutamente il carattere accentrato del sistema italiano di giustizia costituzionale (Cons. dir., par. 3.1) e la circostanza che spetta “in via esclusiva” alla Corte il compito di assicurare il rispetto della costituzione (Cons. dir., par. 3.3). È anche vero che la giurisprudenza sulla Cedu ci aveva mostrato che quando c'è di mezzo il diritto internazionale, il giudice costituzionale preferisce avere un ruolo di protagonista e lasciare poco spazio ai giudici comuni. Gli ostacoli derivano soprattutto da un quadro particolarmente ostile sul piano del diritto internazionale. Emerge un diritto internazionale in cui esiste una sentenza della CIG del 2012 (Germania c. Italia), in cui era stata affermata l'immunità degli stati per i crimini di guerra, con una maggioranza molto forte. Esiste un quadro di giurisprudenza di altri Tribunali Costituzionali distante da quello italiano. Negli stessi giorni si può individuare la pronuncia della Corte canadese che ha intrapreso una via diversa rispetto a quella italiana. Una corte tradizionalmente attivista come quella canadese ha optato per il rispetto della discrezionalità del legislatore, che ha scelto di dare ingresso nell’ordinamento canadese al principio della immunità anche nel caso di crimini internazionali. C'era un altro ostacolo, rappresentato dal quadro di politica internazionale molto difficile, nel quale la Germania è apparsa ben decisa nel difendere le sue posizioni, non solo di fronte alla CIG ma anche nei negoziati col governo italiano e lo stesso legislatore italiano ha dimostrato un'insolita sollecitudine nell'adempimento della sentenza della CIG attraverso la legge ordinaria. Infine è difficile che si possa intravedere la produzione di effetti concreti della sentenza, vista la scarsa possibilità di un risarcimento per le vittime e i loro eredi alla fine della vicenda. Chi si occupa della giustizia costituzionale sa bene che una delle principali preoccupazioni di un giudice costituzionale è proteggere la propria legittimazione (valore che viene messo ancora più in rilievo rispetto alla difesa della Costituzione). La Corte costituzionale ha spesso mostrato la propensione a cercare di sbarazzarsi dei casi più difficili, che possono minare la sua legittimazione, affidando le decisioni ai giudici comuni o alle Corti sovranazionali. Visto che le scappatoie sarebbero state molteplici, per quale motivo la Corte si è infilata in tale ginepraio? La risposta si rinviene nella motivazione. Vi è da premettere che la motivazione è complessa e non lineare, a volte inutilmente ripetitiva, a volte sovrabbondante, nel senso che si dipana in mille rivoli non sempre funzionali ad argomentare la soluzione scelta, in un susseguirsi di obiter dicta che rendono difficile individuare la ratio decidendi e gli argomenti a suo sostegno. Questa non è una novità nell’ambito della giustizia costituzionale italiana, che frequentemente ricorre a motivazioni discorsive o basate su due o più linee argomentative (c.d. “a più gambe”): questa è una conseguenza del fatto che le motivazioni provengono dal collegio e si devono considerare i diversi apporti di tutti i giudici, sia favorevoli che contrari ad una determinata decisione. L'argomento centrale della motivazione si rinviene nel par 3.4 Cons. dir, nel quale si afferma che l’immunità, se ha un senso logico, si deve collegare, nella sostanza e non solo nella forma, con l’esercizio della funzione sovrana dello Stato straniero. Questa funzione sovrana non può mai esplicarsi in atti come la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, atti riconosciuti come crimini contro l’umanità. Tali atti, nell’ambito dell’ordinamento interno, non possono giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti delle vittime: come è stato ben messo in rilievo, la Corte pare affermare che tali atti determinano “a breach in the domestic jus cogens” e pertanto non possono mai essere coperti da immunità. Secondo l'impostazione sostenuta dalla Corte il piano processuale (quello dell'immunità) ed il piano sostanziale non possono essere considerati come separati. Si tratta di un'impostazione che non ha finora ritenuto di seguire in altre materie, come quella dell’insindacabilità dei parlamentari, ove non ha fatto proprio, fin qui, l’approccio seguito dalla giurisprudenza costituzionale tedesca, secondo la quale le offese personali e gratuite non possono mai ritenersi coperte da insindacabilità. Soprattutto, risuona forte l'eco dell'opinione dissidente del giudice Cançado Trindade nella sentenza della CIG. Egli riteneva di non dover considerare le divergenze fondate sugli atti iure imperii da un lato e iure gestionis dall'altro in quanto ci si trovava dinnanzi a crimini commessi dagli Stati che non potevano mai essere protetti. Il giudice era mosso dal valore della ricerca della giustizia e riteneva che l’immunità dello Stato non fosse un diritto, ma una prerogativa o un privilegio e non potesse essere assicurata nel caso in cui avesse condotto ad una ingiustizia manifesta. Con la sentenza in questione, la Corte Costituzionale italiana ha deciso di chiamarsi fuori da tale “incongrua giurisprudenza”, su cui si appoggia la CIG. Ha voluto, infatti, dare un segno di tipo diverso, basato appunto su un valore di giustizia. Non è un caso che l'applicazione, per la prima volta, dei “controlimiti” avvenga attorno al tema “accesso alla giustizia”, ed in una vicenda che non riguarda una mera questione comunitaria, ma una vicenda fondante per il nostro ordinamento e per il sistema internazionale dei diritti umani. Spesso si ricorda come, tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, le Costituzioni degli Stati nazionali fondate sulla dignità dell’uomo e la Dichiarazione universale dei diritti umani della Nazioni Unite hanno cercato di aprire la strada verso un mondo nuovo. Come ha scritto Bobbio, un ideale come quello dei diritti dell’uomo rovescia completamente il senso del tempo, perché si proietta sui tempi lunghi, e solo alcuni “segni premonitori” possono farci presagire l’esito, secondo la kantiana visione profetica della storia. I tempi lunghi dei diritti dell'uomo sono fatti anche da piccoli segni, come l'opinione dissidente di un giudice della CIG e le sentenze isolate delle Corti Costituzionali dei Paesi periferici. In definitiva la risposta alla domanda “perché”, consiste nel fatto che a volte le Corti costituzionali riescono a leggere i segni dei tempi e a farsi esse stesse segno, comprendendo che se vogliono continuare ad essere “viva vox” delle loro costituzioni, debbono muoversi guidate da quei valori di giustizia in cui tali costituzioni affondano le radici. Al centro della preoccupazione della Corte sussiste, quindi, la sua legittimazione che si fonda nella storia dei tempi lunghi e nella proclamazione dei valori fondanti dell’ordinamento. L’operazione che la Corte costituzionale italiana ha voluto compiere è abbastanza chiara, le modalità con cui lo ha fatto sono aperte alla valutazione della comunità degli interpreti della Costituzione. Resoconto a cura della dott.ssa Ilenia Siccardi