di Gian Domenico Comporti (Professore ordinario di Diritto
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di Gian Domenico Comporti (Professore ordinario di Diritto
LA TUTELA RISARCITORIA ‘OLTRE’ IL CODICE* di Gian Domenico Comporti (Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università degli Studi di Siena) 29 dicembre 2010 Sommario: 1- Premessa: la dicotomia dentro-fuori. 2- Una questione preliminare: il codice come vincolo o come fonte a valore intermittente? 3- Dal dentro al fuori: viaggio alla periferia della tutela risarcitoria. 4- Il danno da inerzia o non tempestivo esame della pretesa. 5- Il danno da comportamento scorretto. 6- Il danno da irragionevole durata del processo: una tassa occula. 7- Concludendo: il risarcimento visto dai pennacchi di San Marco. 1) Premessa: la dicotomia dentro-fuori. Un Codice nato in attuazione di una delega sorta quasi per caso, nell’ambito di una manovra di stampo economico e per opera di “anonimi redattori” 1, e caratterizzato soprattutto dai tagli apportati da un “anonimo sforbiciatore” 2 operante presso il Ministero dell’economia, sta suscitando ampio interesse tra gli operatori e la dottrina. I primi commentatori appaiono sostanzialmente divisi in due schieramenti: da una parte vi è chi sostiene il carattere storico ed epocale della novità e dall’altra chi, più modestamente, pone in evidenza la continuità con la * Relazione al Convegno su “Il Codice del processo amministrativo. Prime riflessioni”, Nuoro, 29 e 30 ottobre 2010. 1 A. PAJNO, Il codice del processo amministrativo tra “cambio di paradigma” e paura della tutela, in Giornale dir. amm., 2010, 886. 2 F. MERUSI, In viaggio con Laband…, in Giornale dir. amm., 2010, 658. federalismi.it n. 24/2009 tradizione e la perdita di un’importante occasione di ammodernamento degli strumenti di giustizia ammonistrativa. La presente relazione non intende collocarsi in tale prospettiva di indagine, quanto interrogarsi, con specifico riferimento ad una tematica centrale quale quella del risarcimento, su ciò che sta dentro al codice e ciò che invece si può ipotizzare ne resti fuori. La dicotomia dentro-fuori, come tutte le coppie concettuali, appare infatti in grado di semplificare il discorso e si presta ad essere una utile bussola per il nostro cammino verso la comprensione dell’ambito di efficacia del nuovo quadro normativo e la possibile risoluzione di alcuni problemi applicativi. Una prospettiva “dal di fuori”, esclusa ogni valenza polemica o valoriale a tale opzione (come meglio si chiarirà infra), consente altresì di non incagliarsi nelle secche ideologiche che circondano il nuovo tessuto normativo e di guadagnare una capacità di analisi forse più laica e piana di certi segmenti di tutela. 2) Una questione preliminare: il codice come vincolo o come fonte a valore intermittente? Per procedere nella direzione indicata, occorre risolvere preliminarmente una questione di metodo e chiarire in che termini sia possibile oggi porsi oltre il codice. In proposito, si può notare la diffusione di un atteggiamento carico di ambivalenza. Da un lato, infatti, si mostra entusiastico compiacimento per un codice colto essenzialmente come strumento utile per mettere al riparo un modello domestico di tutela del cittadino verso il potere pubblico che non poteva più essere mantenuto attraverso le pure avanzate tecniche manutentive del concordato giurisprudenziale ed appariva ormai seriamente minacciato dalle Sezione Unite della Cassazione: in questa ottica, si tende ad apprezzare in termini positivi l’abbraccio con l’involucro rigido della legge. Dall’altro lato, però, si vorrebbe svincolarsi sul piano operativo dal contenuto assunto da tale involucro e guadagnare rispetto alla sua effettiva portatala la tradizionale elasticità e creatività ermeneutica. Si parla così di un testo “leggero” o a “maglie larghe”, “adatto ad una giurisdizione che a differenza di quella civile e di quella penale, è stata sinora priva di un codice del rito” 3. Una giurisdizione, aggiunge ancora il Presidente de Lise, che “con la sua giurisprudenza da sempre coglie – e in vari casi anticipa pretoriamente – le innovazioni che si producono nel diritto amministrativo e che elabora, e talvolta crea, istituti giuridici che accrescono le garanzie del cittadino nei confronti dell’amministrazione”. Ancora, si parla di punto di partenza non di arrivo; base solida, “ma al contempo flessibile e aperta per ulteriori conquiste della giurisprudenza”. 3 P. DE LISE, Insediamento del Presidente del Consiglio di Stato, Roma, 22 settembre 2010. www.federalismi.it 2 In questo modo, però, si corre il rischio di confondere due piani diversi, quali sono il potereprocedimento, da una parte, e il processo, dall’altra. Con riferimento al primo versante, si può ben dire che sindacare un potere funzionalizzato alla cura prospettica di situazioni e problematiche nuove implica inevitabilmente partecipare a quella dose di creatività tipica del potere sub iudice 4. Sul secondo versante, però, occorre fare della precisazioni e dire subito che appare riduttivo risolvere la portata del codice ad un valore soltanto simbolico, consistente nel dare al giudice amministrativo ed al suo processo la stessa dignità formale degli altri rami dell’ordinamento processuale 5 , oppure nel consacrare la definitiva emancipazione della giurisdizione amministrativa da una disciplina vecchia e farraginosa 6. Un’operazione del genere, infatti, per quanto risulti essere il frutto di una “dialettica essenzialmente interna al Consiglio di stato” 7, non ha un valore soltanto interno, riferito cioè al plesso giudiziario preso in considerazione, ma finisce per assumere un valore soprattutto esterno per cittadini ed operatori; un valore di tipo sì simbolico, nel senso di trasmettere l’idea di ordine, di completezza, prevedibilità, calcolabilità dei rimedi, in una parola di certezza degli stessi (la Relazione governativa al codice parla di “esigenze di unificazione, chiarificazione e coordinamento”), ma anche e soprattutto giuridico. Ciò significa che dal contesto occorre muovere al testo e verificare il suo valore giuridico. Sotto tale aspetto, per quanto il codice si inquadri nel modello delle discipline di settore che sono la cifra della modernità e del relativo sapere frazionario 8 e sono tipiche della <età della riforme> 9, è pur sempre vero che esso rappresenta comunque la forma di una volontà legislativa che disegna la fisionomia di un determinato settore. Il codice “non è altro che il processo quale si pratica in un dato tempo e in un dato luogo”, ed è il frutto di una 4 Si tratta di assunto comune quando si parla della giurisprudenza amministrativa, molto finemente teorizzato a cominciare dal Nigro degli anni ’70 (Il giudice amministrativo oggi, in Foro it., 1978, V, 164), per finire con F. MERUSI, Giurisdizione e amministrazione: ancora seperazione dopo il Codice sul processo amministrativo?, relazione al 56° Convegno di Varenna su “La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali”, 23-25 settembre 2010. 5 P. DE LISE, Insediamento, cit. 6 R. CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo. Commento a tutte le novità del giudizio amministrativo, Milano, 2010, XVII. 7 Come evidenziato da A TRAVI, Il codice del processo amministrativo. Presentazione, in Foro it., 2010, V, 206. 8 N. IRTI, Codici di settore: compimento della decodificazione, in Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, a cura di M. A. SANDULLI, Giuffrè, 2005, 20. Secondo E. FOLLIERI, La natura giuridica dell’articolato provvisorio denominato codice del processo amministrativo, il codice “non può ascriversi a nessuno dei modelli astratti e puri presi in considerazione, ma, come accade quando si vanno a calare nel concreto le idee, presenta aspetti e caratteri suoi propri e che… fanno propendere per qualificarlo come un codice di nuova generazione o di settore”. 9 S. PATTI, Codificazioni ed evoluzione del diritto privato, Roma-Bari, 1999, 50. www.federalismi.it 3 “fondamentale opzione” operata da suoi autori 10 . A tale disegno occorre dunque oggi attenersi perché esso, nolenti o volenti, riflette l’unico modello di tutela che è stato possibile realizzare per effetto della delega contenuta nell’art. 44 della legge n. 69/09. Come si legge infatti nel par. 5 della Relazione introduttiva generale al codice elaborata dal Governo: “Il codice va ben oltre l’opera di mera semplificazione formale, in quanto attua una sistemazione complessiva della materia…”, all’esito della quale risultano abrogate circa 50 fonti normative e circa 350 articoli. Del resto, la vicenda dell’assorbimento negli artt. 120 e seguenti delle disposizioni processuali in materia di appalti prima contenute negli artt. 7-12 del D. Lgs. n. 53/2010, con ciò che ne è conseguito in termini di ritocchi sostanziali nell’ottica di una disciplina più uniforme dei riti speciali 11, sta a dimostrare il valore attrattivo ed organizzativo che va assumendo il nuovo corpus normativo. La vera novità di carattere storico è pertanto rappresentata dalla sostituzione di una serie parziale e disorganica di norme con un nuovo corpo normativo tendenzialmente omogeneo e sistematico che non appare più facilmente suscettibile di eterointegrazione per via giurisprudenziale, stante anche il limite della riserva di legge di cui all’art. 111 Cost. 12. Più che ragionare su quel che poteva o doveva, secondo i vari punti di vista 13 , entrare nel codice ed eventualmente confidare ancora nella salvifica opera interpretativa di quella stessa giurisprudenza di cui è emanazione l’impianto generale, giova a questo punto riflettere su quello che resta fuori dal codice perché oggetto di differenti discipline di settore non coperte o non interamente coperte della disciplina codicistica. 3) Dal fuori al dentro: viaggio alla periferia della tutela risarcitoria L’art. 30 c.p.a. è una norma processuale a carattere misto. Per una parte essa ha natura ricognitiva di alcune delle possibili azioni risarcitorie offerte dall’ordinamento: così, il secondo comma si limita a segnalare la possibilità di chiedere la «condanna del risarcimento al danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria». Per il resto, essa regola in forma innovativa, nel tentativo di risolvere la vexata quaestio della pregiudizialità amministrativa, il coordinamento 10 S. SATTA, voce Codice di procedura civile, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 279. Come notato da M. LIPARI, La direttiva ricorsi nel codice del processo amministrativo: dal 16 settembre 2010 si cambia ancora?, in Foro amm., TAR, 2010, LXXIV. 12 Ha di recente insistito sul punto A. TRAVI, La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, relazione al citato 56° Convegno di Varenna. 13 Per una più ampia analisi di tale problematica, si rinvia a G. D. COMPORTI, Il codice del processo amministrativo e la tutela risarcitoria: la lezione di un’occasione mancata, in corso di pubblicazione. 11 www.federalismi.it 4 tra l’azione di risarcimento danni e quella di impugnazione del provvedimento asseritamente lesivo. Sotto questo aspetto, tale disciplina processuale può ritenersi applicabile all’ipotesi enunciata nel secondo comma dei danni da attività provvedimentale, ovvero a quelli che si può meglio definire come danni da disturbo provvedimentale, in quanto direttamente o indirettamente ricondubilili alla emanazione o tardiva emanazione di un provvedimento che dia illegittima regolazione ad un certo assetto di interessi. Benché la giurisprudenza dominante, mossa dalla necessità di distinguere le situazioni soggettive lese al fine di dislocare il problematico giudizio prognostico delineato dalla sentenza n. 500/99, riferisca la categoria dei c.d. danni da disturbo ai soli illeciti lesivi di interessi oppositivi, mentre i danni c.d. da ritardo sono collegati alla lesione degli interessi pretensivi (cfr. Cons. stato, VI, n. 1261/2004; V, n. 4237/2009; ma anche Cass., I, n. 2122/2010), nel sistema dell’art. 30 c.p.a. le due ipotesi sembrano unificarsi, in quanto assume rilevanza non tanto la situazione che si ritiene lesa quanto la riconducibilità o meno del danno, sul piano eziologico, alla decisione che definisce un procedimento amministrativo. In tale sistema, infatti, il risarcimento avviene normalmente in forma specifica essendo rimessa alla sequenza giudizio di impugnazione – giudizio di ottemperanza la finale ri-definizione dell’assetto di interessi in gioco. Di qui, l’importante norma di chiusura contenuta nell’art. 112, commi 3 e 4, c.p.a. che, valorizzando al massimo il collegamento con la valutazione degli esiti dell’attività conformativa svolta dall’amministrazione e superando precedenti incertezze della giurisprudenza, consente l’innesto nel giudizio di ottemperanza dell’azione di risarcimento anche in unico grado dinanzi al Consiglio di stato 14. In questa logica, danno e provvedimento appaiono dunque alternativi e un vero e proprio danno patrimoniale ha modo di manifestarsi solo come danno da ritardo, cioè da incertezza giuridica patita a seguito della illegittima regolazione della propria condizione e per il tempo necessario affinché il prefigurato meccanismo riparatorio consenta di giungere alla legittima conclusione della vicenda 15. 14 Dubbi sul doppio grado del giudizio, quale corollario implicito della conversione del giudizio nelle forme ordinarie, sono recentemente affrontati da M. LIPARI, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, relazione al 56° Convegno di Varenna, in www.federalismi.it, n. 18/2010, il quale comunque sottolinea la forte rilevanza sistematica della previsione: “la linea di demarcazione tra il rito di cognizione e l’ambito dell’ottemperanza diventa molto variabile e può essere agevolmente superata nella prospettiva della concentrazione delle forme di tutela”. 15 Una idea simile era stata illustrata da F. VOLPE, Nome di relazione, nome d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 409-410. Pure distinguendo il danno da ritardo (che “si associa al tempo trascorso tra la scadenza del termine e l’emanazione del provvedimento favorevole”) e danno da incertezza (che “lede l’interesse a conoscere la sorte dell’istanza”), F. TRIMARCHI BANFI, La responsabilità civile per l’esercizio www.federalismi.it 5 Anche la tutela risarcitoria negli appalti (art. 124 c.p.a.) guarda alla prospettiva finale e realizzativa avuta di mira dal ricorrente e, dunque, è succedanea all’ipotesi della mancata condanna all’aggiudicazione e mancata dichiarazione di inefficacia del contratto: anche qui le due misure sono alternative, caratterizzandosi il danno come equivalente ad una non pronunciata dichiarazione di inefficacia. Pertanto, in caso di dichiarazione di inefficacia, è ipotizzabile soltanto un danno da ritardo 16. Al di là di questi ambiti, la disposizione in esame non reca alcuna disciplina dei profili sostanziali degli illeciti né dei loro elementi costitutivi e probatori: aspetti per i quali occorre, dunque, tutt’ora rifarsi al diritto vivente che si è formato in questi anni per opera della giurisprudenza. Inoltre, oltre al catalogo limitato di cui al citato secondo comma, essa non offre neppure un quadro esaustivo delle figure di danno esistenti, né pretende sostituirsi alle stesse con effetto novativo o abrogativo. Di qui la scontata osservazione che permangono ancora nel nostro ordinamento ipotesi risarcitorie che restano fuori dalla disciplina del codice e si collocano oltre la particolare prospettiva di tutela ivi contemplata. Le principali sono le seguenti: a) Art. 2-bis, comma 1, L. n. 241/90: danno da inerzia o non tempestivo esame della propria condizione, che si pone cioè in prospettiva totalmente autonoma e diversa dall’interesse a vedere realizzata e definita una determinata pretesa finale 17. Il Codice non interviene su tale ipotesi. Infatti, il quarto comma dell’art. 30 non ne assorbe né ridefinisce la disciplina ma, nella migliore delle ipotesi, si limita soltanto a prevedere i termini per l’esercizio della relativa azione. Piuttosto, la menzionata disposizione, nella parte in cui parla di danno omettendo ogni riferimento alla ingiustizia (contenuto invece nell’art. 2-bis, così come nel terzo comma dell’art. 30), può semmai avere un valore di interpretazione autentica di come debba essere intesa la natura della responsabilità in questione, colta nell’ottica processuale della sua realizzazione. Ancora, l’art. 117, comma 6, c.p.a. si limita a prevedere la conversione del rito della funzione amministrativa. Questioni attuali, Torino, 2009, 50 ss., conviene che “l’interesse al termine non è separato dall’interesse all’utilità sostanziale”. 16 M. RENNA, Il risarcimento dei danni in materia di appalti pubblici dopo il receprimento della “direttiva ricorsi”, in www.giustamm.it, 9/2010. 17 Una ipotesi di specie, rispetto a quella di genere appena indicata, può essere considerata quella di cui all’art. 310, comma 1, del Codice dell’ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152), che legittima gli enti territoriale, le persone fisiche e giuridiche che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o vantino un interesse alla partecipazione ai procedimenti previsti per l’adozione delle misure di precauzione, prevenzione o ripristino, ad agire per l’annullamento degli atti adotatti nonché “avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’ambiente… e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione” delle indicate misure. www.federalismi.it 6 speciale sul silenzio in rito ordinario nel caso in cui l’azione di risarcimento di cui sopra sia proposta congiuntamente con il ricorso avverso il silenzio. b) Artt. 1337 e 1338 c.c., da cui discende il danno da comportamento scorretto per violazione dei principi generali di buona fede e tutela dell’affidamento. c) Art. 6, Par. I, CEDU e artt. 2 e 4 della legge Pinto n. 89/2001, che contemplano il danno da ritardata giustizia. Tali ipotesi non sono omogenee, in quanto le prime due riguardano illeciti che si sviluppano in seno all’agire procedimentale dell’amministrazione, mentre la terza si riferisce a pregiudizi relativi al corso dei processi giurisdizionali. Le stesse manifestano però, anche ad un primo esame, un significativo elemento comune: si tratta di figure che riguardano segmenti strumentali e non finali di funzioni pubbliche, nel senso che hanno ad oggetto la violazione delle aspettative di certezza, tempestività e correttezza del rapporto e non quelle che si formano in relazione ai possibili esiti dello stesso. Si tratta, dunque, di ipotesi del tutto autonome e non funzionalmente concorrenti con i mezzi di tutela in forma specifica che mirano alla realizzazione di un determinato assetto conclusivo di interessi. 4) Il danno da inerzia o non tempestivo esame della pretesa Prima dell’introduzione dell’art. 2-bis per opera della legge n. 69/2009, a fare data da Cons. stato, Ad. pl., n. 7/2005, la giurisprudenza amministrativa riteneva possibile il risarcimento del danno da ritardo solo a condizione che fosse giudizialmente accertata l’illegittimità del silenzio e fosse dimostrata la fondatezza della pretesa al bene della vita; quindi, soprattutto a fronte di attività discrezionali della PA, a condizione che fosse nuovamente esercitata in senso favorevole la funzione amministrativa; con la conseguenza che in tale ipotesi il danno risarcibile si riduceva al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento del bene (es. Cons. stato, IV, n. 248/2008, in caso di tardiva approvazione di un progetto di lottizzazione a scopo edificatorio presentato nel 1986 e poi impedito per effetto di variante che ha reso agricolo il fondo nel 1995-97; Cons. stato, V, n. 1162/2009, in tema di silenzio a fronte di domanda di autorizzazione per vendita di quotidiani e periodici, poi localizzata altrove perché il posto era stato impegnato da altra rivendita medio tempore autorizzata). Cons. stato, V, n. 1162/2009 chiariva bene gli elementi costitutivi di tale fattispecie illecita: a) l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del silenzio, unitamente a b) il nuovo esercizio della funzione amministrativa in senso favorevole all’interessato; parlava, quindi, di “pregiudizialità in senso logico prima ancora che in senso processuale, del giudizio di accertamento della illegittimità del silenzio, e conseguentemente (del)l’inesigibilità giuridica www.federalismi.it 7 (ostativa al decorso del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 2935 cod. civ.) della incardinazione dell’azione finalizzata alla riparazione del danno da ritardo prima della positiva conclusione di quella parentesi giurisdizionale”; precisava, di conseguenza, che il dies a quo di decorrenza della prescrizione fosse rappresentato dal passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato l’illegittimità del silenzio ed il correlativo obbligo di provvedere, anzichè dalla scadenza del termine legale fissato per l’adozione dell’atto o dalla scadenza del termine assegnato dalla diffida di parte. Su questa scia, Tar Lazio, II-bis, n. 2694/2009 giungeva perfino a ritenere che il danno da ritardato rilascio di una concessione edilizia fosse da farsi conseguire alla concreta esecuzione dell’opera, “non essendo di per sé sufficiente il riconoscimento tardivo del titolo di legittimazione edificatoria”; infatti, si aggiungeva, “l’assetto completo degli interessi non appare definito al momento dell’adozione del relativo titolo, per cui mancano i presupposti del risarcimento con riguardo al quantum”, essendo carente “la base di calcolo su cui liquidare il danno”. Ora, il nuovo art. 2-bis espunge dall’ordinamento rimedi di tipo indennitario e prevede un risarcimento che appare legato sotto il profilo causale unicamente all’inosservanza del termine di conclusione del procedimento: dunque, si guarda in modo ravvicinato ed oggettivo allo snodo dell’azione e non più ai suoi possibili esiti (satisfattivi o meno). La fattispecie abbraccia tanto l’ipotesi dell’inerzia vera e propria, cioè della mancata risposta, quanto quella della tardiva emanazione di un provvedimento di cui però non si contesti il contenuto (sia esso favorevole o meno), in quanto ritenuto legittimo, ma solo la non tempestività. Rientra invece nella figura generale del danno da provvedimento illegittimo ora disciplinata dal Codice l’ipotesi in cui si lamenti il ritardo subito per giungere alla correzione dell’esito del procedimento. L’illecito annovera già tra i suoi elementi costitutivi l’interesse alla tempestività dell’azione amministrativa ed al rispetto dei relativi termini, che viene elevato in via generale a valore fondamentale da tutelare, svincolando così l’interprete da delicate opere di bilanciamento degli altri valori in gioco. Ogni riferimento al modello aquiliano di cui all’art. 2043 c.c. appare dunque incongruo, perché viene meno ogni rilievo della prospettiva finale della meritevolezza/fondatezza della pretesa perseguita, e pertanto della correlata necessità di azionare i rimedi volti al relativo accertamento. La stessa Adunanza Plenaria n. 7/2005, del resto, legava la propria posizione ad un assetto normativo all’epoca vigente ed alla verifica di ineffettività del meccanismo indennitario di cui all’art. 17, comma 1, lett. f), della legge n. 59/1997 e giungeva pertanto ad osservare: “Su di un piano di astratta logica, può ammettersi che, in un ordinamento preoccupato di conseguire www.federalismi.it 8 un’azione amministrativa particolarmente sollecita, alla violazione dei termini di adempimento procedimentali possano riconnettersi conseguenze negative per l’amministrazione, anche di ordine patrimoniale”. Ebbene, il citato art. 2-bis impone a tutti di passare da un ragionamento condotto per astrazioni ad uno attento a rispettare la particolarità del dato normativo. Ciò nonostante, l’interpretazione tradizionale resiste in larga parte della dottrina ed anche nella prima giurisprudenza, soprattutto di primo grado. Per esempio, Tar Sicilia, I, n. 582/2010 sostiene che anche dopo l’art. 2-bis non si può “prescindere dalla spettanza del bene della vita per poter riconoscere una tutela risarcitoria al danno da ritardo”, e che tale disposizione normativa avrebbe valenza meramente ricognitoria della posizioni cui era già giunta la giurisprudenza e soprattutto Ad. pl. 7/2005. Tar Toscana, II, n. 5145/2010, ritiene che non basta “la sola violazione del termine di cui all’art. 2 l. 241/90 che di per sé non dimostra l’imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all’amministrazione escludere la sussistenza della colpa” (nel caso, si è dato rilievo alla complessità dell’istruttoria condotta mediante conferenze di servizi). Un passo avanti verso una più corretta interpretazione della novità normativa pare invece compiuto dal Consiglio di stato. Cons. stato, VI, n. 1913/2010, peraltro pronunciandosi su un giudizio di impugnazione per pretesa illegittimità per tardività di un provvedimento (trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale di un assistente capo di Polizia, a distanza di dieci mesi dall’avvio del procedimento), ha valorizzato la citata disposizione normativa per ribadire l’orientamento tradizionale secondo cui il ritardo non è un vizio di legittimità in sé dell’atto, ma “presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una possibile forma di responsabilità risarcitoria della amministrazione (peraltro soltanto dall’entrata in vigore della legge n. 69/09 che ha appunto tipizzato la controversa figura del danno da ritardo)”. Sembra, dunque, si cominci a prendere atto dell’esistenza di una dissociazione tra piano della responsabilità e piano della illegittimità e, pertanto, di una figura nuova di illecito integrata non dal vizio del provvedimento ma dalla sua ritardata o mancata emanazione, oltre al segnalato (ma non sviluppato) concorso di altre condizioni. Sulla possibile natura di tali condizioni getta luce, seppure indirettamente e si direbbe quasi incidentalmente, Cons. stato, IV, n. 1467/2010 che si è occupata di un singolare ed interessante caso di erroneo provvedimento favorevole (attribuzione di punteggio ai fini dell’ammissione alla Scuola di formazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, propedeutica www.federalismi.it 9 all’assunzione) poi rettificato a distanza di oltre quattro anni (e dopo che il destinatario si era nel frattempo dimesso dal precedente datore di lavoro privato). Per quanto la vicenda non riguardasse propriamente una ipotesi di inerzia provvedimentale, tuttavia il Consiglio di stato, nel considerare abnorme ed addirittura temerario il tentativo dell’Avvocatura di Stato di “ribaltare il carico oggettivo delle responsabilità, accollando al privato un onere di diligenza insussistente all’evidente fine di coprire un comportamento certamente gravemente colposo posto in essere dall’amministrazione”, ha valorizzato una “configurazione strumentale e procedimentale del diritto al risarcimento del danno” al fine di mettere in risalto la “specifica relazione tra P.A. e cittadino, preventiva rispetto al fatto o atto produttivo di danno e perciò distinta dalla pura e semplice responsabilità extracontrattuale”: relazione che, comunque la si voglia qualificare (la sentenza attinge alle denominazioni correnti di “contatto sociale qualificato” o di “responsabilità da contatto”) implica appunto “da parte della P.A. il corretto sviluppo dell’iter procedimentale secondo non solo le regole generali di diligenza, prudenza e perizia, ma anche e soprattutto di quelle specifiche del procedimento amministrativo, sulla base delle quali avviene la legittima emanazione del provvedimento finale”. Di qui due sviluppi importanti. Anzitutto, il richiamo alle più elementari regole di buona amministrazione: cioè “tempestività ed accuratezza” (o ex art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001: “economicità e celerità di espletamento”) nel disbrigo della pratica, con la conseguenza che, se da un lato il criterio della possibilità di verifica in qualsiasi momento “non fa perdere il potere della P.A. di procedere agli accertamenti sul possesso dei requisiti e dei titoli per il mero decorso del tempo, dall’altro non fa certo perdere al cittadino il diritto al risarcimento dei danni per l’abuso che della formula in qualsiasi momento l’amministrazione abbia compiuto”. Quindi, la precisazione che: “ove quelle regole non siano state rispettate, occorrerà ulteriormente valutarsi se il quadro delle norme rilevanti ai fini dell’adozione della situazione finale, la presenza di possibili incertezze interpretative…le condizioni particolarmente gravose e complesse del procedimento ed altre circostanze concrete possano escludere qualsiasi atteggiamento di colpa e configurare una causa esimente della responsabilità”. Dunque, proprio tale riferimento alle possibili esimenti della pubblica amministrazione pare attribuire senso alle altre condizioni evocate dalla sentenza sopra citata e pare, in definitiva, coniugarsi con il richiamo testuale alla inosservanza dolosa e colposa del termine procedimentale: la colpa sarebbe così sempre presunta in caso di violazione del termine, salva sempre la prova contraria di un errore scusabile che intregra un’ipotesi di esimente; ancora, la scusabilità farebbe venire meno l’ingiustizia dell’ipotetico danno. www.federalismi.it 10 L’azione è esperibile autonomamente, e cioè senza che sia necessaria la previa instaurazione del giudizio avverso il silenzio di cui all’art. 31, commi 1-3, c.p.a. e senza che ciò possa essere valutato in termini di concorso di colpa ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a. La relativa giurisdizione spetta in via esclusiva al giudice amministrativo (art. 30, comma 6, e art. 133, lett. a, n. 1, c.p.a.), perché si tratta pur sempre di rimedio relativo all’esercizio del potere il cui giudice naturale è ormai ritenuto quello amministrativo (cfr. da ultimo Cass. Sez. Unite, 25 marzo 2010 n. 7160, in materia di ritardato esercizio di un potere tariffario). Quanto al termine, la disciplina appare oggi confusa e contraddittoria 18 . L’ipotesi migliore dal punto di vista sistematico parrebbe quella di ritenere ancora vigente la prescrizione quinquennale (non ai sensi dell’art. 2-bis, comma 2, ormai abrogato per effetto dell’art. 4, n. 14, dell’all. 4 del Codice, ma ai sensi dell’art. 2947 c.c.), confinando la previsione di cui all’art. 30, comma 4, c.p.a. all’ipotesi dell’azione di danni inserita nel solco dell’impugnazione del silenzio (come pure lascerebbe intendere il rinvio del terzo comma al “fatto” come dies a quo, nonché il comune riferimento delle due azioni all’orizzonte temporale di un anno dalla scadenza del termine a provvedere); tesi che potrebbe anche giustificare il richiamo in questo caso alla figura della decadenza. Continuerebbe altresì a trovare coerente applicazione l’orientamento giurisprudenziale che, evocando la struttura dell’illecito permanente, riteneva che la relativa pretesa maturasse di giorno in giorno man mano che il danno si rinnovava con il protrarsi del comportamento omissivo dell’amministrazione, con la conseguenza della decorrenza della prescrizione al venir meno dell’inadempimento e, comunque, della prescrizione dei danni verificatisi oltre il quinquennio anteriore al primo atto interruttivo (es. Cons. stato, VI, n. 5995/2004; Tar Napoli, I, n. 17173/2010). In tale direzione si iscriveva la prima bozza di articolato (art. 41, comma 5) proposta dalla Commissione, poi variata nella versione finale inviata al Governo (art. 39, comma 5) e da questo approvata il 16 aprile 2010 (art. 30, comma 4), interpolando in modo problematico il termine di decadenza previsto in via generale con la regola del suo congelamento “fintanto che perdura l’inadempimento”. La stessa Relazione governativa al codice ha mantenuto fermo il principio, chiarendo che: “fintanto che perdura l’inadempimento non possa decorrere alcun termine per l’esercizio dell’azione risarcitoria, in quanto l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento costituisce un illecito di carattere permanente, in relazione al quale non vi è alcuna ragione di certezza delle posizioni giuridiche 18 Come notato anche da R. CHIEPPA, op. cit., 205. www.federalismi.it 11 che giustifichi il consolidamento di una (illecita) situazione di inerzia. Il termine di decadenza inizia a decorrere solo al momento in cui tale situazione di inadempimento viene meno”. Per altro verso, se si volesse invece valorizzare al massimo la portata coordinatrice (come da all. 4 al codice) della menzionata abrogazione, si dovrebbe ritenere che l’art. 30, comma, 4, la cui contraddittoria formulazione finale è dipesa dall’accoglimento di un’osservazione formulata dalla Commissione Giustizia del Senato nella seduta del 16 giugno 2010 19 , ha innovato tale orientamento e ha risolto alcune incertezze manifestate dalla giurisprudenza circa la individuazione del die a quo (es. Cons. stato, VI, n. 5995/2004, sosteneva che lo stesso decorresse da quando si verifica il silenzio-inadempimento, e quindi allo scadere del termine assegnato dalla legge o con diffida; altre sentenze, sulla base della tesi dell’Ad. pl. n. 7/2005 secondo cui il previo vittorioso esperimento del giudizio contro il silenzio era elemento costitutivo della fattispecie causativa del danno ingiusto, lo individuavano nella data di deposito della decisione di accoglimento del ricorso o comunque in quella del suo passaggio in giudicato, o ancora, in caso di permanenza di discrezionalità, dalla pronuncia della sentenza che ha definito il giudizio di ottemperanza: es. Tar Napoli, II, n. 9739/2007), al caro prezzo però di contraddire l’asserito carattere permanente dell’illecito. Il risarcimento è normalmente limitato ai soli danni patrimoniali, perché Cons. stato, V, n. 3397/2010 ritiene – sulla scia anche della lettura evolutiva dell’art. 2059 c.c. operata di recente dalla Corte di Cassazione - che il semplice ritardo di un’attività privata (nel caso attività economica di rivendita di giornali) cagionato dalla condotta amministrativa “non costituisca un fatto idoneo in quanto tale, in assenza dell’introduzione di ulteriori sostegni probatori, a far presumere il fatto ignoto della sussistenza di danni non patrimoniali qualificati sotto il profilo delle ripercussioni gravi sulla sfera personale ed esistenziale”. 5) Il danno da comportamento scorretto La responsabilità da contatto o precontrattuale ex art. 1337 c.c. è riconosciuta soprattutto nella fase dello svolgimento della procedura di evidenza pubblica che precede la stipulazione dei contratti (Tar Puglia, Bari, n. 1761/2001; Cons. stato, IV, n. 1457/2003). Ad. pl. n. 6/2005 ha ben chiarito i due distinti valori in gioco, sostenendo che: “nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente l’amministrazione è tenuta non soltanto 19 Il parere recitava sul punto: “si osserva che nella sua attuale formulazione il termine di centoventi giorni comincia a decorrere solo dal momento in cui l’inadempimento viene meno, il che comporta che non è configurabile alcun termine di prescrizione… Appare opportuno che il termine di proponibilità dell’azione cominci a decorrere o dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento, ovvero non oltre un anno dalla scadenza di quest’ultimo”. www.federalismi.it 12 a rispettare le regole dettate nell’interesse pubblico…ma anche le norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune”. Nel caso di specie, l’Adunanza plenaria ha sentenziato che la revoca dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura “è valsa a porre al riparo l’interesse pubblico della stipula di un contratto che l’amministrazione non avrebbe potuto fronteggiare per carenza delle risorse finanziarie occorenti. E’ restato però – dopo tale revoca…- il fatto incancellabile degli affidamenti suscitati nell’impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi”. Di recente il Tar Sardegna, I, n. 2167/2010, in un caso di mancata stipula del contratto a seguito dell’aggiudicazione per omessa verifica e vigilanza sulla sussistenza della relativa copertura finanziaria, ha precisato che l’art. 1337 c.c. “non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue, in linea generale, che la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto, in caso di conclusione di un contratto invalido o inefficace, e anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto”. Nella progressiva messa a fuoco della figura, Cons. stato, V, n. 122/2009 e n. 5245/2009, hanno poi chiaramente ammesso l’esistenza di tale forma di responsabilità sia in caso di annullamento o autoannullamento per illegittimità dell’aggiudicazione, sia in caso di sua validità ed efficacia, in tale modo riconoscendo l’esistenza di “un apprezzabile margine concettuale di autonomia e dunque di compatibilità fra la legittimità della procedura e l’illiceità del contegno precontrattuale della stazione appaltante”. Ancora più decisa in questo senso è stata la posizione assunta dal TAR Lazio, II-quater, n. 4175/2010, che ha ammesso la responsabilità precontrattuale in un caso di revoca legittima per riconsiderazione delle ragioni di pubblico interesse (non censurabili dal giudice amministrativo, trattandosi di valutazioni di merito) degli atti di una gara prima ancora della sua aggiudicazione provvisoria, con ciò estendendo la portata del principio dell’Ad. pl. n. 6/2005 (nel cui alveo si inquadra l’orientamento secondo cui la responsabilità precontrattuale presuppone che tra le parti siano intercorse trattative e, quindi, non è configurabile prima della scelta del contraente: es. Cons. stato, V, n. 3393/2010 e Tar Campania, I, n. 12676/2010, che addirittura la esclude prima www.federalismi.it 13 dell’aggiudicazione definitiva) e dando atto dell’esistenza di una “scissione fra la legittima determinazione di revocare… e il complessivo tenore del comportamento tenuto dalla medesima amministrazione nella sua veste di controparte negoziale, non informato alle generali regole di correttezza e buona fede che devono essere osservate anche nella fase precontrattuale”. Tar Puglia, Bari, I, n. 1698/2010 ricorda, infine, che nella specie non rileva la problematica della pregiudizialità e che “non costituisce ostacolo al riconoscimento della responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione l’eventuale reiezione della domanda di annullamento del provvedimento di revoca”. Dall’esame di tali sentenze, si evince dunque che l’azione risarcitoria qui guarda a pregiudizi differenti dalla mancata aggiudicazione di un bene della vita e, dislocandosi in una prospettiva che non è quella realizzativa e costitutiva della tutela in forma specifica, guadagna una propria autonomia dalla sequenza illegittimità-impugnazione-condanna e dall’azione di danni che si ponga in chiave complementare della stessa. La disvelata prospettiva dovrebbe consentire di evitare la pericolosa commistione tra profili indennitari e profili risarcitori che talvolta affiora nella giurisprudenza. Per esempio, in Consiglio di stato, VI, 17 marzo 2010 n. 1554 20, che ha ritenuto legittima la revoca disposta da Trenitalia dell’aggiudicazione provvisoria di una gara a procedura negoziata per la fornitura di carrozze revisionate ed altro materiale rotabile, ritenendo “assolutamente fisiologico che all’aggiudicazione provvisoria, naturalmente temporanea, possa non far seguito, in ragione della valutazione negativa sulla permanente utilità del contratto, l’affidamento definitivo del contratto”, si legge una alternativa delle tutele disponibili dopo l’introduzione dell’art. 21-quinques della legge n. 241/90 per effetto della legge n. 15/2005 che lascia perplessi: “1) il privato inciso dalla revoca (supposta illegittima) la contesta in sede giurisdizionale e chiede il risarcimento; 2) il privato non la contesta e chiede l’indennizzo (in tal caso non deve provare né illegittimità, né dolo né colpa)”. Si ammette così il cumulo delle azioni di risarcimento e di indennizzo per gli effetti della revoca nello stesso processo. Con la conseguenza che: “se il privato – come nella specie – contesta la legittimità della revoca e chiede il risarcimento, tuttavia può anche formulare, in 20 In Foro amm., C.d.S., 2010, 861, con nota di G. CREPALDI. www.federalismi.it 14 via subordinata, una domanda per l’indennizzo, in caso di infondatezza della domanda risarcitoria, avendo l’indennizzo natura residuale”. Simile dicotomia secca: illegittimità-risarcimento, legittimità- indennizzo, nel trascurare la possibilità intermedia sopra illustrata legittimità del provvedimento-risarcimento da comportamento scorretto (riconosciuta invece da C.S, V, n. 2244/2010), rischia di confondere indennizzo e risarcimento come entità in qualche misura fungibili. Con il risultato che i fattori di riduzione dell’indennizzo codificati dal decreto Bersani 21, che ne ha limitato l’ammontare al solo danno emergente, imponendo altresì di tenere conto dell’eventuale conoscenza o conoscibilità della contrarietà dell’atto all’interesse pubblico o dell’eventuale concorso all’erronea valutazione della compatibilità con lo stesso, possono fungere da impropri fattori di contenimento di un risarcimento che non rappresenta il corrispettivo per l’esercizio legittimo di un potere 22 quanto il ristoro di un danno ingiusto. Diversa pare invece, la posizione assunta in proposito da Consiglio di stato, V sezione, 21 aprile 2010 n. 2244 e, da ultimo, 6 ottobre 2010 n. 7334 (consultata su gentile indicazione di Natale Giallongo): sentenze che hanno escluso il risarcimento non in linea di principio, ma solo perché la relativa domanda era stata, nello specifico, fondata sul (non fondato) presupposto dell’illegittimità del provvedimento di autotutela. Dalle superiori considerazioni discendono le seguenti conseguenze: i) l’azione è soggetta al termine di prescrizione quinquennale che non decorre dall’eventuale giudicato di annullamento dell’atto che neghi all’impresa il bene della vita, ma dal diverso momento in cui l’amministrazione ha deliberato l’annullamento o la revoca dell’aggiudicazione (Tar Puglia cit.), o da quello in cui ha interrotto e non proseguito la procedura; ii) il pregiudizio risarcibile è, ai sensi dell’art. 1223 c.c., limitato all’interesse contrattuale negativo, comprensivo però delle spese inutilmente sostenute (danno emergente), purché adeguatamente documentate, necessarie in relazione alla specifica procedura e rispettose dei correnti prezzi di mercato (Cons. stato, V, n. 7334/2010), nonché della perdita di altre 21 Si tratta del nuovo comma 1-bis dell’art. 21-quinques della legge 241/90, introdotto dall’art. 12, comma 4, del decreto legge 31 gennaio 2007 n. 7, poi divenuto art. 13, comma 8-duodevicies in sede di conversione per effetto della legge 2 aprile 2007 n. 40. 22 Simile principio di “equilibrio economico” (G. FALCON, Lezioni di diritto amministrativo, I, L’attività, Padova, 2005, 177), a tutela dell’affidamento della controparte sulla durata del rapporto amministrativo (F. MERUSI, Buona fede e alternanza nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta all’”alternanza”, Milano, 2001, 1516) rappresenta il precipitato ultimo più convincente di quella eleborazione concettuale teorizzazione che era sorta tra Otto e Novecento all’insegna dell’incerta teoria della (non a caso definita “cosiddetta”) responsabilità per atti leciti dell’amministrazioni (sui cui sviluppi e limiti si veda l’analisi di G. MANFREDI, Indennità e principio indennitario in diritto amministrativo, Torino, 2003, 19 ss.). www.federalismi.it 15 favorevoli occasioni (lucro cessante) da comprovare in modo rigoroso ed assistite da un minimo di concretezza; in tale prospettiva, è ammesso anche il risarcimento di chance, da intendere non già in termini di buona probabilità di aggiudicazione (ipotesi da ritenere ora compresa nell’art. 124 c.p.a., che ha assorbito e novellato l’art. 245-quinques del D.Lgs. n. 163/2006 introdotto dall’art. 12 del D.Lgs. n. 53/2010, nella parte in cui si riconosceva il risarcimento al “solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione”) ma in termini di buona probabilità di conseguire altre occasioni lavorative (Cons. stato, VI, n. 20/2010). Non può invece essere ristorato l’interesse positivo, vale a dire l’utile che sarebbe derivato dal contratto non stipulato. 6) Il danno da irragionevole durata del processo: una tassa occulta Dati recenti forniti dal Ministero della Giustizia e pubblicati sul quotidiano Il Sole-24 Ore del 4 ottobre 2010 evidenziano una crescita media annua del 40% del contenzioso per ritardo della giustizia: dai circa 5 mila ricorsi del 2003 ai circa 34 mila del 2009, con liquidazione di danni che si aggirano intorno alla cifra complessiva del 150 milioni di euro ed accumulo di ulteriori debiti per 100 milioni di euro. La giustizia amministrativa non è esente dall’incidenza di tale problematica, come giustamente ha segnalato dal Presidente de Lise nel discorso di insediamento tenuto il 22 settembre 2010, parlando di “aumento esponenziale” dei danni da risarcire. Il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa ha parlato di condanne relative alla giurisdizione amministrativa che arrivano a 32 milioni di euro dal gennaio 2008 all’ottobre 2009 23. Ma di che tipologia di danni stiamo parlando ? Come già notato in un lavoro di cinque anni fa 24 , si tratta di danni che risultano dalla oggettiva violazione di una obbligazione ex lege avente ad oggetto la ragionevole durata dei processi: quel che genera il relativo diritto “è il protrarsi della durata del processo oltre il termine che, in rapporto alle caratteristiche specifiche del processo medesimo, appare ragionevole, indipendentemente dal fatto che ciò sia dipeso da comportamenti colposi dei singoli operatori del processo o da fattori organizzativi di ordine generale riconducibili all’attività o all’inerzia dei pubblici poteri deputati a far funzionare il servizio giurisdizionale” 25 . La vittima ha dunque diritto a chiedere il ristoro dei danni patrimoniali e non subiti, ancora prima della definizione della fase del giudizio di cui lamenta la eccessiva durata e, in ogni 23 I dati sono citati da A. TRAVI, Presentazione, cit., 205. Pregiudizialità amministrativa: natura e limiti di una figura a geometria variabile, in G. D. COMPORTI, a cura di, Verso un’amministrazione responsabile, Milano, 2005, 101. 25 Cass., I, 3 gennaio 2003 n. 8, in Foro it., 2003, I, 2399. 24 www.federalismi.it 16 caso, a prescindere dall’esito satisfattivo o meno della lite, con l’unico limite dell’abuso del processo ravvisabile nei casi di lite temeraria promossa cioé nella piena consapevolezza dell’infondatezza o inammissibilità della propria pretesa ed al solo fine di perseguire con tattiche processuali di varia natura il perfezionamento della fattispecie di cui alla citata legge Pinto (Cass., Sez. Un., n. 1339/2004; Sez. I., n. 8179/2010). Con specifico riferimento al processo amministrativo, può poi notarsi che è stata considerata ragionevole la durata di tre anni, secondo lo standard medio CEDU, con conseguente sanzione di ogni anno eccedente al valore di 750 € ad anno per i primi tre anni e 1.000 € per i successivi (Cass., Sez. I., n. 8179/2010). Quanto all’eventuale concorso di colpa del litigante, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., è stato ritenuto che il difetto di opportuni impulsi sollecitatori tesi ad ottenere una più spedita trattazione della causa (del tipo istanza di prelievo) non incida sul calcolo dei tempi del processo quanto sulla quantificazione e liquidazione dell’equa riparazione (Cass., Sez. I, n. 3347/2003). Tali parametri vanno applicati considerando come iter processuali autonomi sia dal punto di vista funzionale che strutturale il giudizio ordinario di cognizione ed il giudizio di ottemperanza, le cui durate non possono così sommarsi: con il risultato che solo dal momento delle decisioni definitive in ciascuno dei processi sarà possibile, per ognuno di essi, domandare nel termine semestrale previsto dall’art. 4 della legge n. 89/2001 l’equa riparazione per violazione dell’art. 6, par. I, della CEDU (Cass., Sez. I, n. 1732/2009, nonché Sez. Un., n. 27365/2009 26). Per un processo che, a dispetto dei principi di economia dei mezzi e sinteticità degli atti posti dagli artt. 2 e 3 c.p.a., tende a caricare di contenuti impropri certi snodi processuali (es. la camera di consiglio impiegata per esigenze istruttorie o di verifica dell’integrità del contraddittorio ex art. 55, comma 12, c.p.a.; o ancora come corsia preferenziale per una più veloce fissazione dell’udienza di discussione ex artt. 55, commi 10 e 11, nonché 119, comma 3, c.p.a.) o certe azioni (es. l’impugnazione del provvedimento o il ricorso contro il silenzio promosse ai soli fini risarcitori e per scongiurare l’esclusione del risarcimento ex art. 30, comma 3, c.p.a.), aggravandone così il naturale corso, si profila pertanto il rischio concreto che le condanne per danni escluse in linea di principio dal novero dei possibili esiti decisori si ripropongano con le vedute sembianze di sanzione di un meccanismo giudiziario che non assicuri in modo diretto e tempestivo la tutela che interessa. 7) Concludendo: il risarcimento visto dai pennacchi di San Marco 26 In Danno e resp., 2010, 709, con commento di R. CONTI. www.federalismi.it 17 L’analisi che precede ha mostrato l’esistenza di un sistema di tutele che accerchia il procedimento ed il processo in cui si celebra il rito della funzione pubblica e prescinde dalle consuete qualificazioni giuridiche (in specie quelle che ruotano intorno alla coppia: dirittiinteressi) che ne condizionano gli esiti. Esso attinge non tanto al serbatoio limitato e rigido delle situazioni giuridiche soggettive, quanto a quello elastico e mobile dei “rimedi”, che in luogo del principio di tipicità segue quello “dell’adeguatezza e della proporzionalità del mezzo di tutela rispetto alla violazione” 27. Il che sembra confermare quanto da tempo osservato da una nota linea di pensiero: cioé che il piano delle violazioni e quello delle irrealizzazioni non coincidono. Si possono, infatti, avere violazioni che valgono come occasioni, in quanto sono strumentalmente impiegate per attivare rimedi volti soddisfare in modo specifico pretese rimaste insoddisfatte, e violazioni colte invece in sé per fare valere autonome forme di sanzione e protezione. L’art. 30 c.p.a. riflette il primo modello. Come già accennato, alla sua base si trova la seguente idea di fondo: la riparazione di un pregiudizio sofferto dal titolare di una situazione soggettiva posta in relazione a situazioni soggettive terze, in quanto incisa da provvedimenti amministrativi, difficilmente può essere disgiunta da un preliminare momento di valutazione comparativa degli interessi in gioco, onde consentire un loro rinnovato assetto. L’illecito, cadendo entro un rapporto plurisoggettivo che tocca profili non confinabili entro i limiti della relazione bipolare vittima-danneggiante, rappresenta occasione per attivare gli strumenti (quali il potere di autotutela) ed i rimedi (che vanno da quelli interni al ben noto circuito: azione di impugnazione-effetti conformativi della sentenza-giudizio di ottemperanza, fino all’azione di condanna e/o adempimento) idonei ad incidere su precedenti decisioni distributive di beni e risorse ed attribuire a chi ne ha diritto l’utilità pretesa, rendendo percorribile solo in via sussidiaria e complementare la via della compensazione per equivalente. Questa assume una funzione minimale nell’economia dei rimedi esperibili, non già nel senso indicato dalla Corte di Cassazione, cioè in quanto “misura minima e perciò necessaria di tutela di un interesse” 28, ma in quella divisata dal Consiglio di Stato di misura residuale entro un sistema che consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando 27 A. DI MAJO, Linguaggio dei rimedi e tipologia dei danni, in Remedies in contract. The Common Rules for a European Law, a cura di G. VETTORI, Padova, 2008, 67. 28 In questi termini Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008 n. 30254, in Danno e resp., 2009, 722, con commento di M. CLARICH, chiariva che a tale forma di tutela può aggiungersi anche quella impugnatoria, che dunque assumerebbe natura accessiva a quella base di tipo risarcitorio, spettando comunque “al titolare della situazione protetta, in linea di principio, scegliere a quale fare ricorso in vista di ottenere ristoro al pregiudizio provocatogli dall’essere mancata la soddisfazione che è attesa attraverso la condotta altrui”. www.federalismi.it 18 l’interesse legittimo sia stato utilmente impiegato quale strumento di conformazione dell’attività amministrativa 29. Si tratta di una scelta che risente di tutti i limiti culturali insiti nella figura dell’interesse legittimo 30 e che, a tacere di altro, trascura quanto notato a più riprese, soprattutto nell’ultimo periodo di vita, dal cagliaritano Franco Ledda 31 , il quale chiarendo come fosse inutile invocare una riforma radicale della giustizia amministrativa se prima non fosse stata acquisita l’idea di processo “inteso nel senso più vero e più profondo” 32 , sottolineava che “l’autorità non entra e non può entrare nel giudizio”, perché la scena è dominata soltanto dalle dialettiche affermazioni giudiziali delle parti che attendono di essere verificate e controllate dal giudice. Si tratta in ogni caso di una scelta che, rimanendo condizionata alla visione passatista di un processo ancora incentrato sull’impugnazione delle manifestazioni della funzione e legando, di conseguenza, l’illecito tipizzato al provvedimento, nello svuotare sostanzialmente la prospettiva del rimedio risarcitorio finirà forse per contribuire meglio di tanti altri argomenti alla sua possibile rinascita. Se si pone mente alla strana parabola del rimedio in esame, infatti, e si considera che lo stesso è stato tanto dibattuto ed invocato quando non era ancora ammesso dalla giurisprudenza pietrificata, per poi finire praticamente nel nulla una volta introdotto sul finire degli anni ’90, con il paradossale risultato di rinforzare la portata della tutela di annullamento per sanare i limiti della quale era stato concepito, si comprende come 29 Parte della giurisprudenza amministrativa ha ritenuto di poter ricavare simili affermazioni dai principi costituzionali. Per esempio, Cons. stato, sez. IV, 29 aprile 2002 n. 2280, in Foro amm., C.d.S., 2002, 897, ha sostenuto che la “effettività della tutela del cittadino nei confronti dell’attività provvedimentale o materiale della pubblica amministrazione, predicata a livello costituzionale dagli articoli 24 e 113, impone di non considerare la tutela restitutoria o ripristinatoria come eventuale o eccezionale, limitata ad ipotesi residuale, ed anzi spinge a ritenere che proprio la tutela risarcitoria patrimoniale deve essere considerata sussidiaria rispetto alla prima, con la conseguenza che essa deve considerarsi praticabile solo quando quella restitutoria non possa essere conseguita con successo”. Altre volte si è richiamato il “doveroso contemperamento dei principi di civiltà giuridica conseguenti al riconoscimento della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi con quelli di doverosa tutela degli interessi anche patrimoniali dell’amministrazione” (Cons. stato, sez. IV, 22 marzo 2001 n. 1684, in Foro amm., 2001, 400); o si è fatto appello ai principi di coerenza dell’ordinamento e di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico. Simili prospettazioni hanno alimentato una linea di pensiero che è giunta almeno fino a Ad. pl., 22 ottobre 2007 n. 12, in Foro it., 2008, III, 1; Cons. stato, sez. VI, 3 febbraio 2009 n. 578, e Cons. stato, sez. VI, 21 aprile 2009 n. 2436, ivi, 2009, III, 536. Si legge infatti nella sentenza n. 12/2007 che il “coinvolgimento” dell’interesse del singolo nell’interesse della collettività spiega la priorità dell’azione impugnatoria, nel cui ambito soltanto è possibile “conformare l’azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo equilibrio tra l’uno e gli altri interessi”. La stessa Relazione all’atto del Governo n. 212, recante lo schema di decreto legislativo di attuazione della delega per il riordino del processo amministrativo, ha addotto “evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione” a giustificazione della previsione di termini decadenziali per l’esercizio dell’azione risarcitoria e del richiamo ai principi dell’art. 1227 c.c. 30 Cfr. da ultimo le amare considerazioni di G. VERDE, Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in Dir. proc. amm., 2010, 797. 31 Cfr. A. ROMANO TASSONE, In memoria di Franco Ledda (1926-2000), in Dir. amm., 2000, 357. 32 F. LEDDA, La giurisdizione amministrativa raccontata ai nipoti, in Jus, 1997, 334. www.federalismi.it 19 la via verso un suo possibile recupero passa proprio dal relativo confinamento nel vuoto pneumatico prefigurato dal codice. Perché, dunque, dalla giurisprudenza autocelebrativa delle parole 33 si passi a quella satisfattiva dei rimedi 34, come del resto auspicato dallo stesso Presidente de Lise segnalando il necessario passaggio “dalla pienezza alla satisfattività della tutela”, da compiere all’insegna della rinnovata stella polare “del servizio”, stante la sfiducia che chi scrive ha da tempo maturato nel salvifico intervento del legislatore o della Corte costituzionale o, ancora, in pretese virtù autocorrettive di un sistema che ha sinora mostrato di non sapersi attrezzare per gestire un processo avente ad oggetto pretese risarcitorie 35 , non resta che affidarsi al noto principio dell’eterogenesi dei fini o della serendipity 36. Al recupero per tale via di una tutela risarcitoria praticabile potranno verosimilmente contribuire le figure di confine appena passate in rassegna, se è vero che – come dimostrato dalla c.d. teoria dei pennacchi di San Marco di Stephen Gould 37 fino a quella dei c.d. cigni neri di Nassim Taleb – la ridondanza è un’assicurazione contro l’incertezza del futuro e ramificazioni ausiliarie di un organismo potrebbero attivare una “funzione potenziale dormiente” che probabilmente non faceva parte del pur illuminato “piano iniziale” 38 . Oggi, infatti, “non sappiamo di che cosa potrebbe esserci bisogno domani”, e “qualsiasi cosa abbia un uso secondario…presenterà un’opportunità extra qualora dovesse emergere un’applicazione fino a questo momento ignota o un nuovo ambiente dovesse fare la sua 33 Presa di mira ancora da F. LEDDA, nel Divertimento un poco amaro, Alla ricerca della lingua perduta del diritto, in Dir. pubbl., 1999, 1. 34 Osserva G. COSTANTINO, Note a prima lettura sul codice del processo amministrativo: Appio Claudio e l’apprendista stregone, in Foro it., 2010, V, 238: “il processo migliore è quello che fa meno parlare di sé e che consente di concentrare l’attenzione sul conflitto di interessi sostanziali”. 35 G. VERDE, op. cit., 807. 36 Termine che si riferisce alla ricerca di una cosa da cui scaturisce, in modo inintenzionale ed imprevisto, qualcosa di diverso, su cui si veda l’ampia ricerca di R. K. MERTON – E. G. BARBER, The Travels and Adventures of Serendipity. A Study in Historical Semantics and the Sociology of Science, trad. it. Viaggi e avvenure della Serendipity, Bologna, 2002. 37 S. J. GOULD – R. C. LEWONTIN, The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm, trad. it. I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss, Piccola Biblioteca on line Einaudi, Torino, 2001. Gli Autori, nel difendere un approccio evoluzionista di tipo pluralistico contro il diffuso programma adattazionista o panglossiano, che è basato sulla fade nel potere della selezione naturale come “agente ottimizzante” e causa di tutte le forme organiche, delle funzioni e dei comportamenti, hanno fatto riferimento ai pennacchi presenti nella cupoa di San Marco (triangoli allungati formati dall’intersezione di due archi posti ad angolo retto), quali “sottoprodotti architettonici” necessari a sorreggere una struttura inserita in archi tondi, per chiarire come un epifenomeno secondario possa generare un “uso fruttifero di parti disponibili” e, in generale, le limitazioni o costrizioni insite in un modello diventino più interessanti e più importanti nel segnare le linee evolutive dello stesso. 38 N. N. TALEB, On Robustness and Fragility, Deeper Philosophical and Empirical Reflections, trad. it. Robustezza e fragilità. Che fare? Il Cigno nero tre anni dopo, Milano, 2010, 27. www.federalismi.it 20 comparsa. L’organismo che dispone del massimo numero possibile di usi secondari è quello che guadagnerà di più dalla causalità ambientale e dall’opacità epistemica” 39. 39 Ibid., 29. www.federalismi.it 21