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Verso il voto Perché l`Europa serve più forte Servizi e interviste L

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Verso il voto Perché l`Europa serve più forte Servizi e interviste L
N°6 Gennaio Febbraio 2014
Verso il voto
Perché l’Europa serve più forte
Servizi e interviste
L’Italia e le riforme
Intervista a Cesare Mirabelli
Paolo Veronese, “il ratto di Europa”
Supermercati, all’estero più
attenzione per gli anziani
Papa Francesco
un anno dopo
Sommario
Gian Guido Folloni è un politico e giornalista italiano, già Ministro della
Repubblica per i Rapporti con il Parlamento.
E’ stato direttore del quotidiano cattolico Avvenire dal 1983 al 1990.
Successivamente ha lavorato alla Rai.
Dal 2008 è Presidente di Isiamed (Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo).
3 La Fnp per un’Europa politica, democratica e sociale (Attilio Rimoldi)
4 Hanno scritto per noi
5 La Lettera
6 La posta del direttore
8 La memoria come fattore strategico (Giobbe)
POLTICA
9 Verso il voto di primavera. Quale Europa? (Guido Bossa)
12 Alberto Martinelli, attenzione all’anti-Europeismo (Mimmo Sacco)
14 La “necessità dell’Europa” (Gianfranco Varvesi)
16 La vera riforma? (Gian Guido Folloni incontra Cesare Mirabelli)
ATTUALITA’ E SOCIETA’
18 Storie di origami (Elettra)
20 Anteas, il grande volontariato dal “cuore”Cisl
22 Rapporto Bankitalia (Marco Pederzoli)
23 Agenda per l’Italia, il lavoro è la priorità (Marco Iasevoli)
24 Quando lo Stato diventa retroattivo (Gianfranco Garancini)
28 Supermercati, all’estero più attenzione per gli anziani (Marco Pederzoli)
CULTURA
30 Giuseppina Arista, oggi con il canto posso lenire il dolore (Cristina Petrachi)
32 Papa Francesco, un anno dopo (Aldo Maria Valli)
34 I 60 anni di mamma Rai (Stefano Della Casa)
36 Federal Reserve, la crisi dei 100 anni (Paolo Raimondi)
38 Il significato dello spread (Mario Lettieri)
40 Chissà che queste parole... (Il racconto di Giorgio Torelli)
SALUTE
42 Ascoltare il cuore (dr. Alberto Costantini)
44 Antiaging, tutti segreti per invecchiare in salute (dr.ssa Monalisa Ferrari)
46 Il trainer elettronico, l’APP al polso (Pier Domenico Garrone)
MAPPAMONDO
47 Ago, filo, stoffe (Umberto Folena)
49 Libri e Web (Marco Pederzoli)
51 Vagabolario (Dino Basili)
2
memoria, attualità, futuro
In copertina:
il “Ratto d’Europa”
di Paolo Veronese, opera
del 1530 oggi al Palazzo
Ducale di Venezia.
Secondo la mitologia
classica, Europa, figlia del
re di Tiro, Agenore, fu rapita
da Zeus, trasformatosi per
l’occasione in un toro.
Sulla groppa del toro –
Zeus, Europa fu condotta
fino a Creta. Da lei Zeus
ebbe tre figli: Minosse,
Sarpedonte e Radamanto.
Minosse divenne re di
Creta e diede vita alla civiltà
cretese, culla della civiltà
europea. Il nome Europa,
da quel momento, indicò le
terre poste a nord del Mar
Mediterraneo.
Postatarget Magazine
- tariffa pagata -DCB
Centrale/PT Magazine ed/
aut.n.50/2004 - valida dal
07/04/2004
Contromano Magazine
N°6 Febbraio 2014
Aut. Trib. Roma n 40 del 18/02/2013
Prezzo di copertina € 1,80
Abbonamento annuale € 9,048
Direttore responsabile:
Gian Guido Folloni
Proprietà: Federpensionati S.r.l.
sede legale:
Via Giovanni Nicotera 29
00195 Roma
Editore delegato:
Edizioni Della Casa S.r.l.
Via Emilia Ovest 1014
41123 Modena
Stampa: tipografia ARBE s.p.a
Via Emilia Ovest 1014 Modena
Redazione Coordinamento grafico:
Edizioni Della Casa
ArtWork: M. Barbieri
Postproduzione immagini:
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Comitato di redazione:
Matteo De Gennaro
Dino Della Casa
Questo numero è stato chiuso il
15/02/2014
A norma dell’art.7 della legge
n.196/2003
il destinatario può avere accesso
ai suoi dati chiedendone la modifica
o la cancellazione oppure opporsi
al loro utilizzo scivendo a:
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Via Castelfidardo, 47
00185 Roma
L’editore delegato è pronto a
riconoscere eventuali diritti sul
materiale fotografico di cui non è
stato possibile risalire all’autore
Nel prossimo mese di maggio, sembra in un assordante silenzio, si terranno in tutta Europa le elezioni del
Parlamento Europeo. La crisi economica ha rafforzato o fatto nascere partiti e movimenti, di protesta,
populisti nazionalisti e anti europei, che propongono
vari modelli di distruzione dei vincoli di solidarietà e
di collaborazione costruiti in 60 anni di storia. Anche
in Italia non mancano le proposte di uscire dall’Euro
o di rivedere i trattati anche attraverso referendum
popolari. L’Italia, ma soprattutto le classi popolari,
hanno invece bisogno dell’Europa, perché il nostro
Paese, con tutte le debolezze economiche, sociali e
istituzionali che ha accumulato negli ultimi 20 anni,
da solo, nei mercati globalizzati, sarebbe facilmente
stritolato dalla spietata speculazione finanziaria internazionale, forte di masse di danaro che superano
i bilanci di molti stati e con un potere talmente forte
da portare rapidamente al “fallimento” dello Stato
italiano. Ciò colpirebbe drammaticamente tutti ma
in particolare i lavoratori, i pensionati e i ceti popolari più poveri. Uscire dall’Euro sarebbe pertanto un
suicidio. E’ comprensibile, tuttavia, che le sirene degli anti europeisti trovino ascoltatori e cresca in Europa e in Italia lo scetticismo per l’ambigua responsabilità delle leadership nazionali ed europee mostrata
nella crisi economica, gestita, fin qui, a colpi di rigore
e sacrifici e senza prospettive di sviluppo. Per combattere questo pericolo è necessaria una mobilitazione popolare, che discuta e contribuisca a creare
una maggioranza di forze che perseguano un futuro
federale dell’Unione. Un obiettivo che fin dalla sua
nascita è stato un punto fermo della CISL. I veri sostenitori dell’Europa sono quelli che la vogliono più
vicina ai cittadini, legittimata da elezioni democratiche, meno burocratica e tecnocratica, meno spostata
verso le questioni di bilancio monetarie e finanziarie,
più rivolta allo sviluppo economico e occupazionale,
alla difesa dei diritti sociali e a combattere la crescente povertà, rilanciando, anche in Italia, una chiara
politica di economia sociale di mercato secondo la
tradizione democratica europea. Di questi tre termini, peraltro fortemente interdipendenti, il sociale è
Editoriale
La Fnp per un’Europa politica,
democratica e sociale
quello che viene più ignorato, se non per sacrificarlo
alle esigenze di un’economia del risparmio, della rigidità dei bilanci pubblici e della logica del più forte.
E’ emblematica la vicenda dell’iniziativa di ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) promossa dalla FERPA
che avrebbe ottenuto il sostegno di milioni di firme
raccolte in diversi paesi europei, per ottenere dalla
Commissione Europea una direttiva che potesse servire da riferimento legislativo uniforme sulle Cure a
Lungo Termine per tutti gli Stati. La Commissione
ha respinto l’ICE burocraticamente, affermando che
non era sua competenza, nonostante fosse riferita
ad un chiaro principio della “Carta dei Diritti fondamentali dell’Europa” e soprattutto all’art. 23 (2°
capoverso, lettera b) della Carta dei diritti sociali,
la quale afferma il diritto delle persone anziane ad
avere garantite “le cure medico-sanitarie e i servizi
eventualmente richiesti dal loro stato”. Altri principi della Carta sociale non hanno subito nel passato
la stessa sorte presso la Commissione. E’ necessario
pertanto un rilancio dello spirito originario della costruzione dell’Europa, basata su democrazia, solidarietà, sviluppo e coesione, che renda comuni tutte le
politiche essenziali, che istituisca una vera e propria
politica economica comune favorevole alla crescita e
creatrice di lavoro, garantisca la coesione economica
sociale e territoriale, si proponga una gestione unitaria e solidale delle migrazioni ed infine elimini il voto
all’unanimità del Consiglio. I pensionati saranno determinanti per selezionare i rappresentanti italiani
nel Parlamento, a condizione che siano informati e
consapevoli che nelle prossime elezioni si gioca il nostro futuro e quello dell’Europa.
Attilio Rimoldi
Seduta del Parlamento Europeo a Strasburgo
3
Hanno scritto per noi
4
Attilio Rimoldi
Segretario nazionale Fnp
Cisl, Dipartimento politiche
socio-sanitarie, famiglia,
economia sociale, fisco,
prezzi, tariffe e politiche
migratorie
Guido Bossa
Giornalista
professionista.Presidente
dell’Unione nazionale
giornalisti pensionati
Mimmo Sacco
Giornalista RAI TV.
Condirettore de
Il Domani d’Italia,
mensile di politica
e cultura.
Gianfranco Varvesi
Diplomatico, ha ricoperto
incarichi in Italia e
all’estero. Ha prestato
servizio nell’ufficio stampa
del Quirinale.
Marco Iasevoli
inviato del
quotidiano
L’Avvenire
Marco Pederzoli
Giornalista e
collaboratore di diverse
testate. Scrive per La
Gazzetta di Modena, Il
Sole 24 ore.
Gianfranco Garancini
professore di storia del
diritto Italiano all’Università
di Milano.Consigliere
dell’Unione Giuristi Cattolici
Italiani.
Cristina Petrachi
Giornalistapubblicista. Public
Relations Officer
presso l’Istituto
Italiano per l’Asia ed
il Mediterraneo.
Aldo Maria Valli
Giornalista e
scrittore, dal 2007 è
vaticanista per il TG1
Stefano Della Casa
Giornalista
Freelance e Direttore
della rivista
Jag Generation
Paolo Raimondi
Economista
Scrittore
Mario Lettieri
Sottosegretario
all’Economia nel
Governo Prodi.
Giorgio Torelli
per 40 anni inviato
speciale dei più
importanti quotidiani
e settimanali italiani.
Fondatore con Indro
Montanelli de “Il
Giornale”
Alberto Costantini
Cardiologo.Ex
medico cardiologo
della Camera dei
Deputati.
Monalisa Ferrari
Specializzata in
chirurgia
pedriatica e in
medicina
anti invecchiamento
Pier Domenico
Garrone
Professionista Fe.R.P.I.
Responsabile
comunicazione de Il
Comunicatore Italiano
Umberto Folena
Editorialista del
quotidiano L’Avvenire.
Consulente della CEI
Dino Basili
Giornalista e scrittore,
Direttore di Rai 2 e
Capo ufficio Stampa
del Senato
Tutti addosso al
povero pensionato
Egregio direttore,
avrei dovuto, e forse dovrei, scrivere questa
lettera a chi, per il pubblico ufficio che ricopre, ne
è il naturale destinatario: al nostro presidente del
Consiglio dei Ministri, ai titolari di alcuni dei suoi più
importanti dicasteri, a chi siede in Parlamento quale
rappresentante dell’intera nazione e, almeno per
conoscenza, certamente alla signora Fornero.
Non ne ho avuto la forza, lo confesso. Ero pronto a farlo.
Al dunque, mi ha trattenuto solo un pensiero. Quel che
sto per scrivere è così noto e ovvio che tutte le autorevoli
persone che avrei dovuto mettere in indirizzo conoscono
già il mio disagio. Sanno già tutto e fanno spallucce.
Così, mi sono detto: a che servirebbe far arrivare sulla
loro scrivania la voce di uno dei milioni di italiani
pensionati che potrebbero con me firmare queste
parole?
Scrivo invece a lei, nella certezza che almeno non
sarà archiviata con tanto di numero di protocollo
da un solerte collaboratore che sa sempre dove far
finire la carta che arriva ogni giorno. Scrivo a lei per
condividere, anche attraverso “Contromano” il non più
tollerabile senso di sopraffazione – sì, di sopraffazione –
che vedo montare verso la nostra categoria.
Ma perché, caro direttore, tanto accanimento verso
i pensionati? Perché lo Stato ci considera poco più di
uno zerbino silenzioso? Ho esagerato: dovevo dire un
vecchio salvadanaio (se non un bancomat) da cui trarre,
ad ogni necessità, quel tanto di liquidità che serve?
Perché le pensioni di chi ha lavorato una vita sono, al
pari delle sigarette, la scorciatoia d’ogni raschiatura
di barile? Perché tutto si rivaluta, ma le pensioni
no? Perché l’inflazione che punge tutti, punge di
più i pensionati? Come tutti essi pagano il prezzo
dell’aumento del costo della vita, ma in aggiunta
fanno i conti sull’ulteriore erosione del potere di
acquisto del loro assegno per il mancato, nemmeno
parziale, adeguamento.
la Lettera
Non parlo ovviamente di quelle cosiddette pensioni
d’oro. Quello è un mondo che i milioni di miei colleghi
che viaggiano nella media del poco più di mille euro
al mese (facciamo mille e cinquecento) ignora. Ed è
da me così lontano che nemmeno voglio entrarci, e
ragionarne.
Le sembra che si debba accettare il battere cassa ogni
volta al nostro portafoglio, che da tempo ormai si
vuota ben prima che arrivi la mensilità successiva?
Che nel rapporto Stato – cittadini i pensionati,
sottoposti a questa limatura perpetua, possano
conservare fiducia e senso d’appartenenza verso la
Comunità nazionale? O che invece, al contrario, lo
Stato guardi a noi come a un peso di cui sgravarsi?
Un puro costo? La buccia di un limone spremuto da
cui, peraltro, per anni s’è estratto il succo? Esagero?
Il pensionato da millecinquecento euro è uno che alla
comunità ha dato gli anni più vigorosi della sua vita.
C’è chi ha i calli alle mani e chi no, ma gran parte di
loro già timbravano il cartellino quando esplodeva
l’Italia del boom economico.
Perché, caro direttore, prendersela con i pensionati?
Perché considerarli un fardello improduttivo? Hanno
prodotto, eccome! E con maggiore intelligenza si
potrebbe (anzi si dovrebbe!) considerali una risorsa.
Nella tirata di cinghia che la crisi chiede a tutti, non è
giusto, non è equo e non serve nemmeno all’Italia che
venga chiesto ai pensionati di stringere un buco più
degli altri.
Mariolina Gregori
5
la posta del Direttore
Dalla nuova “geopolitica” ai conti
in rosso dell’Inps, dalle elezioni
della Regione Piemonte al tema
dell’indulto, fino al maltempo
che ha sconvolto tante aree
della Penisola, sono diverse le
sollecitazioni che anche in questo
numero sono pervenute dai lettori
di “Contromano”. A tale
scopo, si ricorda che le proprie
“lettere al direttore”, contenenti
considerazioni su temi politici o
d’attualità, possono essere inviate
o via mail all’indirizzo info@
studiodellacasa.it, specificando
nell’oggetto “Contromano lettere al
Direttore”, o via fax al numero 059
8396082, o per posta ordinaria
all’indirizzo della casa editrice
di Contromano: “Edizioni Della
Casa, via Emilia Ovest 1014,
41123 Modena”. Si ricorda che,
per esigenze di archiviazione,
l’eventuale materiale inviato non
sarà restituito.
6
Se l’INPS va in rosso non è colpa dei
pensionati
Caro direttore,
dopo un anno di Contromano, desidero ringraziare lei e la FNP per l’iniziativa. Il magazine è diventato un strumento utile di approfondimento.
Anche se è bimestrale tiene il passo con l’evolversi
dei problemi italiani. Apprezzabili, in particolare,
sono gli approfondimenti sulle politiche sociali,
non solo degli anziani. Ho trovato interessanti anche i servizi dedicati ai cambiamenti della geopolitica, causa di tante difficoltà per il lavoro italiano.
Ho letto che l’Unione europea ha criticato l’Italia
per la pensioni minime inadeguate. Ma è un po’
tutta la politica del governo verso i pensionati a essere carente. L’INPS va in rosso per la cassa integrazione e non per l’erogazione pensionistica. Uno
stato serio dovrebbe cercare soluzioni al problema
senza caricare su chi ha lavorato l’onere materiale
e morale delle difficoltà produttive della nazione.
Ulderico Valenti – Napoli
Possiamo sapere prima se le urne
sono valide?
Due recenti sentenze della Magistratura mettono
in evidenza una stortura grave del nostro sistema
istituzionale. La prima è l’annullamento delle elezioni per la Regione Piemonte, con un verdetto arrivato a quattro anni dal voto.
La seconda è al sentenza della Corte che ha dichiarato anticostituzionale la legge elettorale,
abrogandola in parte. Peccato che per ben due legislature quella legge sia stata usata per eleggere
i membri della Camera dei Deputati: dal 2005 al
2014, insomma, abbiamo avuto elezioni costituzionalmente irregolari. Nella vita di una nazione
nove anni non sono poca cosa. A sentenza emessa,
tra l’altro, il Parlamento fuori legge è stato (non
poteva essere diversamente) conservato in carica.
Nell’uno e nell’altro caso siamo stati obbligati a
constatare che si corre, secondo un antico detto,
a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
Ora il Porcellum, così fu definita la legge per le elezioni politiche, sta per essere cambiato con l’Italicum. E’ troppo chiedere che i cittadini possano
sapere prima del prossimo voto se quella nuova è
costituzionale o no? Per non essere gabbati un’altra volta.
Pierfranco Moi - Padova
L’indulto è la giusta soluzione?
Gentile Direttore,
negli ultimi giorni ho sentito che si ritorna a parlare di indulto per i carcerati. Non le nascondo che
questa proposta mi trova nettamente contrario,
perché il messaggio che viene lanciato all’esterno
è molto chiaro: il sistema giudiziario italiano è a
pezzi e, se commetti un crimine in Italia, difficilmente sconterai non solo tutta la pena prevista per
quel determinato crimine, ma molto spesso nemmeno la metà. E più uno la fa grossa, più sembra
che la Giustizia (una parola ormai da fare seguire
da un grande punto interrogativo) applichi clemenza e comprensione. Mi spiego meglio, con un
ni che ha provocato il maltempo in diverse regioni
esempio assai recente: ho letto alcuni giorni fa del
caso di Francesco Salerno, 55enne pluriomicida
d’Italia. Mi riferisco in particolare all’Emilia, dove
condannato in contumacia a quattro ergastoli pernei pressi di Modena è esondato il fiume Secchia
ché in Uruguay. Il suo rientro in Italia, da quanto
facendo rimanere sott’acqua diversi centri abitaho appreso, è stato condizionato alla concessione
ti, ma anche al Veneto, alla Toscana, alla stessa
da parte del Ministero della Giustizia di un formacapitale, alla Campania e alla Sicilia. Non dimenle impegno a non applicare la condanna al carcere
tichiamoci mai, inoltre, di quanto avvenuto rea vita. Così, intanto si dovrà fare un nuovo procescentemente in Sardegna. In altri termini, l’inverso, i 4 ergastoli sono stati annullati e il rischio per
no 2013/2014 passerà probabilmente agli annali
l’impuntato sono al massimo 30 anni di carcere.
come uno tra i più piovosi e più difficili da gestire,
Intanto, il pluriomicida è a piede libero con il solo
visti appunto i danni che ha provocato in mezza
obbligo di firma. E questo è solo uno dei macroscoItalia. A questo punto, mi pongo una domanda che
pici esempi di mala giustizia che si possono citare.
tanti altri milioni di italiani probabilmente si stanIo credo che con un po’ di buona volontà e investino ponendo, ma che non ha ancora trovato una
menti anche contenuti, il modo per aumentare i
risposta adeguata a livello istituzionale. Questo
posti in carcere esista. Non posso pensare che stati
stato cronico di emergenza in cui si trova il nostro
molto meno ricchi e sviluppati dell’Italia mandino
Paese è evitabile? Se sì, come? Il primo concetto
comunque all’esterno il messaggio che la certezza
che mi viene in mente è quello della prevenzione,
della pena c’è e che la giustizia è uguale per tutti.
invocata ed evocata da tanti. Ma secondo me non
Il primo esempio che mi viene in mente a tal risi tratta solo di prevenzione, né tanto meno solo di
guardo? Non è certamente dei più eclatanti, ma è
mancanza di fondi. Certo, questi sono fattori imparadigmatico. Mi riferisco alla carcerazione per
prescindibili per evitare di vivere in una situazioalcuni giorni dei tifosi laziali durante una trasferta
ne di continua emergenza; tuttavia, io credo che a
della loro squadra in Polonia. Ebbene, il messagtutto ciò vada associato anche il concetto di “capagio che ha mandato questo Paese, recentemente
cità”. Chi presiede i cosiddetti “organi competenunitosi all’Europa, è stato chiaro: qui, chi sbaglia
ti”, dovrebbe essere davvero “competente”, ovvero
paga. Perché in Italia non può essere lo stesso?
in grado di capire e/o interpretare una potenziale
situazione di pericolo con largo anticipo. E’ vero
Bruno Micheli, Viterbo
che il clima della Terra è mutato, ma è altrettanto
vero che spesso, secondo me, mancano le competenze necessarie per fronteggiare situazioni potenzialmente pericolose. La mia intima speranza,
Un territorio in continua emergenza
ovviamente, è di essermi sbagliato.
Egregio Direttore,
Ernesto Biagini - Parma
nei giorni scorsi ho avuto modo di vedere alla televisione e di leggere sui quotidiani riguardo ai dan7
La memoria come fattore strategico
Il fatto: nella trasmissione televisiva “L’eredità”
erano state poste a quattro giovani alcune facili domande su date relative a vicende riguardanti Hitler
e Mussolini.
La facilità delle domande consisteva nel fatto che le
date proposte consentivano ai concorrenti risposte
sostanzialmente sicure, in quanto alcune superavano
largamente la cronologia della morte dei due personaggi, permettendo di escludere soluzioni decisamente sbagliate.
Invece non è stato così.
Le opinioni. Le risposte sbagliate dei quattro giovani,
dai 20 ai 30 anni, di fatto rappresentativi di una categoria, dimostrano che le date proposte si collocavano
in un vero e proprio “appiattimento del passato”, in
contrasto con la memoria dei tempi e con il potenziale di informazioni che è possibile rintracciare su
Internet.
Umberto Eco, nella sua bustina di Minerva, sostiene
che questa “malattia generazionale”, basata sull’assenza di memoria, che colpisce soprattutto i giovani,
ha delle cause che concorrono alla sua determinazione: le carenze della scuola, della famiglia, dei vari
centri educativi che, nel loro insieme, non si curano
della memoria.
Eugenio Scalfari, nel suo vetro soffiato, condividendo
l’analisi di Eco, precisa che la conoscenza del passato
di molti giovani si è contratta in un “eterno presente” anche a causa dell’indebolirsi della memoria che
non viene più esercitata obbligatoriamente come un
tempo, tenendo in esercizio le mappe cerebrali dove
la memoria meccanica ha la sua sede.
A questo punto però le analisi dei due autorevoli scrittori si divaricano. Eco considera la memoria
artificiale, affidata alla tecnologia di Internet, una
risorsa per stimolare i giovani (e secondo noi anche
gli anziani), mettendo a loro disposizione una massa
enorme di informazioni. A suo parere si può usare
benissimo Internet, abituandosi a farne un uso criti8
Nella foto: “Notte dei cristalli” 9-10 novembre 1938
co, e coltivare, nel contempo, la memoria, cercando
persino di ricordare quanto si è appreso da Internet
stesso, ragionando con la propria testa e costituendo
una propria memoria personale.
Scalfari esprime una linea di larvato pessimismo e
sottolinea come la tecnologia della memoria artificiale sia la causa prima, o almeno la causa principale, dell’appiattimento sul presente, perché esonera i
frequentatori della Rete da ogni responsabilità. Anzi
sarà la stessa Rete, con l’illusione di inserire i fruitori
in una folla di contatti e di compagnie, che confinerà
gli stessi nella solitudine.
Del resto, molti utenti della Rete hanno smesso di
attivare e coltivare i rapporti di prossimità e stanno
ritirati in casa a “navigare” sulle onde della nuova
tecnologia.
Conclusione. Coloro che seguono l’andamento dei
processi di senescenza hanno un’attenzione tutta
particolare per la questione della memoria, nei suoi
molteplici aspetti, e si impegnano a superare tendenzialmente il gap digitale che caratterizza il rapporto
intergenerazionale.
L’utilizzo razionale del web, nel consentire il ritrovato gusto del rapporto e del confronto fra persone,
impone, tuttavia, di evitare la deriva dei “dannati
della Rete”, attratti dal fascino solitario e fascinatorio dello schermo, anche per sottrarsi a una di quelle
forme degenerative a cui ogni società deve responsabilmente fare fronte.
Del resto l’espansione esponenziale dell’uso della
Rete tende a incidere sul pensiero (ricordiamo i pericoli del pensiero unico) e a ridurre al minimo la parola scritta, a leggere giornali e libri, con effetti nefasti
sulla capacità di elaborazione, sul linguaggio e, quindi, sulla memoria.
La patologia generale che ne deriva, pertanto, va oltre l’ipotesi riduttiva di una malattia generazionale.
Giobbe
Andremo alle urne tra
il 22 e il 25 maggio.
Sarà il primo
Parlamento (751
deputati) con poteri
sulla scelta dei vertici
della Commissione.
Occorre riprendere
il dinamismo della
costruzione comune.
di Guido Bossa
Verso il voto di primavera.
Quale Europa?
Le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo
che si terranno fra il 22 e il 25 maggio nei 28 Paesi
dell’Unione (in Italia domenica 25) sono il primo
di una serie di appuntamenti cruciali per i governi
e i popoli del Vecchio Continente, e precisamente
quello in cui più direttamene saranno chiamati in
causa i cittadini, che dovranno esprimersi su un
interrogativo di fondo: quale Europa vogliono per
sé e per i loro figli? Non si tratterà, infatti, solo di
eleggere, con modalità diverse da stato a stato (e
questo è già un limite cui bisognerebbe porre rimedio), i 751 eurodeputati che andranno a sedere
sugli scranni di Bruxelles-Strasburgo, ma di avviare un percorso che entro la fine dell’anno vedrà
completamente rinnovate – nei leader e nei programmi – le principali istituzioni comunitarie, che
troveranno in maniera diretta o indiretta la loro
legittimazione nel consenso dell’unico organismo
eletto col voto popolare, appunto il Parlamento.
La sequenza delle scadenze è serrata: il mandato
del Presidente della Commissione, il portoghese
Josè Manuel Barroso, si conclude il 31 ottobre, e
con lui dovranno essere sostituiti i 27 Commissari (ministri), tra i quali bisognerà trovare il nuovo
9
UE e Svizzera ai ferri corti
LA LEGA VOTA A BERNA
A meno di quattro mesi dalle elezioni europee,
il referendum svizzero che ha ripristinato il contingentamento dell’immigrazione nella Confederazione Elvetica, ripristinando tetti e quote di
ingresso, ha fatto suonare un campanello d’allarme in tutte le cancellerie e a Bruxelles. Non
solo perché ora si renderà necessario aprire un
complesso negoziato con Berna per riformare
i trattati sulla libera circolazione delle persone
(ci sono tre anni di tempo), ma soprattutto perché si teme che l’effetto moltiplicatore del voto
gonfi le vele dei partiti xenofobi ed antieuropei
che già puntavano a raccogliere un buon successo alle europee ed ora si avvicinano all’appuntamento ancor più galvanizzati. Al giubilo
dei nazionalisti francesi, inglesi e tedeschi, si è
aggiunto quello dei leghisti italiani, incuranti del
fatto che la chiusura delle frontiere elvetiche
potrà danneggiare anche i loro elettori delle
province di Como, Sondrio e Varese. Matteo
Salvini vota a Berna.
gb
10
I parlamentari europei che nel 2007 siglarono il Trattato di Lisbona
capo della diplomazia comunitaria (sia l’uscente
Ashton, sia lo stesso Barroso lasciano un’eredità
tutt’altro che fulgida); a novembre, poi, si libera il
posto del belga Herman van Rompuy, presidente
permanente del Consiglio europeo; per non parlare di altre nomine di minore importanza che
dovranno riempire le caselle di organismi vecchi
e nuovi di zecca, moltiplicatisi nel tempo grazie
all’inesauribile fantasia istituzionale degli euroburocrati e anche all’esigenza di non lasciare nessuno stato membro senza una poltrona da occupare.
Dal punto di vista della legittimazione democratica, la novità di quest’anno sarà l’obbligo – che
deriva dal Trattato di Lisbona (2007) per la prima
volta attuato su questo punto – di tener conto del
voto espresso dagli elettori dell’Unione nella designazione del nuovo presidente della Commissione e dei suoi commissari, i quali, tutti, dovranno
poi ottenere il voto di fiducia dell’assemblea parlamentare. Novità non da poco, anche se è scontato che i governi non mancheranno di far valere
le proprie ragioni. Il Presidente del Consiglio europeo, invece, sarà scelto all’unanimità dai capi di
stato e di governo, in un bilanciamento di cariche
nel quale devono adeguatamente essere rappresentati i popoli (parlamento), l’Europa (commissione) e, appunto, i governi degli stati membri.
Architettura complicata, insomma, nella quale si
rischia di perdere di vista l’obiettivo e di smarrire
il senso di marcia di un’Europa da costruire insieme, al di là di differenze e di specificità regionali
che hanno sempre minor senso in un mondo che si
sta globalizzando a una velocità molto più elevata
– lo abbiamo visto proprio negli ultimi anni – di
quella del nostro processo d’integrazione. Un percorso che era iniziato con grande slancio e grandi
ambizioni quasi sessant’anni fa (Trattati di Roma,
1957). Esso si è arrestato e quasi ripiegato su se
stesso dal momento in cui, con il varo della moneta unica (1999-2002) e il rapido allargamento,
prima a 22 poi a 25 e infine a 28 soci, che segnava
la fine della secolare divisione geopolitica dell’Europa, l’obiettivo di un’unione politica prefigurato
dalla Conferenza intergovernativa (Roma, 1990)
sembrava quasi a portata di mano.
Ora, l’appuntamento di questa primavera deve essere l’occasione non solo, com’è ovvio, per misurare le forze in campo, ma anche, e forse ancor di
più, per riflettere sui successi (che non mancano)
e sui limiti dell’Europa che c’è e di quella che resta
da costruire, nella consapevolezza che la domanda
“quale Europa?” riguarda tutti.
Uno sguardo retrospettivo è indispensabile se non
altro per misurare il cammino percorso e assume-
re la consapevolezza delle difficoltà da affrontare
oggi. E allora non si può non rilevare che il primo
obiettivo che i Padri fondatori avevano indicato
a se stessi e ai loro popoli è stato raggiunto: l’Europa, nata su quella frontiera franco-tedesca che
aveva conosciuto decenni di guerre sanguinose, è
oggi un continente di pace, e la pace le ha consentito uno sviluppo economico impressionante e un
allargamento soddisfacente della sfera dei diritti
e del campo della democrazia politica. Vedremo
subito che proprio su questo terreno l’Europa comunitaria ha registrato una pesante battuta d’arresto, ma intanto rileviamo che è stata l’attrazione
esercitata dallo sviluppo economico e democratico
del cosiddetto “campo occidentale” a rompere la
frontiera innalzata dai regimi totalitari che aveva
diviso in due il continente subito dopo la sconfitta
del nazifascismo.
Un successo dell’Europa, dunque: è innegabile;
ma di questo successo è figlio anche il ripiegamento successivo con il conseguente appannamento
degli ideali. Il raggiungimento del traguardo più
ambizioso – l’Euro – è avvenuto a scapito dell’altro obiettivo: l’integrazione politica, la marcia verso il federalismo europeo. Il processo costituente
iniziato alla fine del secolo scorso e affidato alla
Convenzione europea presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, è stato azzoppato dal risorgere degli egoismi nazionali; il deficit di democrazia che il
fallimento ha lasciato dietro di sé ha prodotto un
deficit di legittimità, di partecipazione e di fiducia;
e così, quando la crisi economico-finanziaria nata
oltre oceano si è trasferita in Europa, la risposta
è stata all’insegna della rinazionalizzazione dei
problemi e delle soluzioni. E poiché, soprattutto
in periodi di crisi, il nazionalismo produce il populismo con un determinismo perverso che la storia europea ben conosce, ecco che ora la minaccia
dei partiti della destra nazionalista uniti a quelli
dell’ultrasinistra incombe sulle prossime elezioni.
Non a caso l’“Economist” ha dedicato la sua prima
copertina del nuovo anno alla nascita dei “tea parties” europei.
Questa è dunque la sfida democratica delle elezioni di primavera: riprendere il dinamismo della
costruzione comune, conciliare rigore economico,
crescita, solidarietà sociale, convergenza fiscale
(il caso Electrolux è una sconfitta dell’Europa);
smentire con i fatti i numerosi detrattori e le cassandre che purtroppo non mancano mai.
La sede del Parlamento Europeo di Strasburgo
Gli europei al
voto
Saranno oltre 500 milioni i cittadini europei che, alla
fine di maggio, verranno chiamati a rinnovare i seggi
del Parlamento europeo. In Italia si voterà domenica
25 maggio. Ognuno dei 28 stati membri avrà il diritto
di eleggere un numero determinato di deputati, sulla base del principio della “proporzionalità degressiva”. Ovvero, i paesi con una popolazione più elevata
avranno più seggi rispetto ai paesi di dimensioni minori. Tuttavia, questi ultimi otterranno un numero di
seggi superiore a quello che avrebbero sotto il profilo
strettamente proporzionale. In particolare, si andrà da
un minimo di 6 deputati espressi da stati come Malta, Lussemburgo, Cipro ed Estonia, ad un massimo
di 96 deputati espressi dalla Germania. L’Italia esprimerà 73 deputati, lo stesso numero del Regno Unito.
Complessivamente, saranno eletti 751 deputati e, per
la prima volta, parteciperanno alle elezioni europee anche i cittadini croati. Quella della prossima primavera,
sarà l’ottava volta che i cittadini europei sono chiamati
al voto per rinnovare il Parlamento europeo. La prima
volta fu nel 1979. Con l’entrata in vigore del trattato di
Lisbona (1° dicembre 2009) il Parlamento europeo è
diventato un potente colegislatore e svolge un ruolo
determinante nel definire le politiche europee. Per ogni
cittadino, votare alle elezioni europee significa quindi
avere l’opportunità di influire sulla composizione del
Parlamento e sulle decisioni che adotterà nel corso dei
cinque anni della sua legislatura. Potranno votare tutti
i cittadini europei che abbiano compiuto il 18° anno
di età.
11
Europa e populismi, crisi della
democrazia e un nazionalismo
che può ostacolare la
convivenza tra i popoli. Ne
abbiamo parlato con Alberto
Martinelli, professore emerito
di Scienze Politiche e di
Sociologia presso l’Università
degli studi di Milano, tra i
maggiori studiosi italiani e
stranieri di queste tematiche.
di Mimmo Sacco
Alberto Martinelli
12
Attenzione all’anti-europeismo,
il futuro è nell’Unione
Sacco: Professore, l’edificio europeo mostra preoccupanti lesioni: fuori di metafora, un forte vento di
euroscetticismo con conseguente deriva populista
sta investendo vari Paesi del nostro continente (in
Francia con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, e
ancora in Austria, Olanda, Finlandia e Ungheria). E
anche noi non ne siamo indenni. Quali le cause?
Martinelli: Nella recessione economica si va alla
ricerca di comodi capri espiatori: l’euro e le istituzioni europee sono ritenute responsabili della crisi,
mentre le cose non stanno esattamente così. I processi di globalizzazione hanno prodotto un’erosione
di sovranità nazionale e messo in difficoltà le politiche sociali. La crisi, poi, ha ulteriormente accentuato
questo. Le persone, quindi, si trovano ad avere gravi
problemi di occupazione, più timori sul loro futuro e
trovano anche, a volte, dei Governi che sono limitati
nella loro azione. Da qui, l’insorgere di fenomeni di
tipo nazional-populista. Un esempio è quello che è
stato definito lo sciovinismo del welfare state, e cioè
la richiesta che la protezione sociale sia limitata ai cittadini: è un tipico esempio che riflette queste paure,
ed è una nuova forma di egoismo. La globalizzazione
in generale e la recessione economica in particolare
alimentano queste tendenze nazional-populiste. Nel
momento in cui ci sono timori e incertezze, allora l’identità nazionale diventa un elemento importante.
Sacco: Deriva populista e “mal di nazione” (per mutuare una sua felice intuizione) non sono due aspetti
dello stesso fenomeno negativo?
Martinelli: Direi di sì. Riconosco ovviamente che
l’ideologia nazionalista abbia avuto i suoi meriti
quando ha favorito processi di unificazione nazionale, come nel caso dell’Italia e della Germania. Peraltro, indubbiamente, il nazionalismo ha fatto anche
gravissimi danni. E oggi veder riaffiorare tendenze
nazionalistiche con una retorica, con un linguaggio,
con un modo di fare di tipo populista è preoccupante, anche perché nel mio libro “Mal di nazione” cerco
di dimostrare che il nazionalismo e il populismo finiscono di trovare un punto di coagulo, s’incontrano
proprio sul terreno dell’antieuropeismo.
Sacco: Tra i guasti del populismo non c’è anche il
rifiuto della democrazia rappresentativa che può sfociare in spinte autoritarie?
Martinelli: Senza dubbio. Da un lato i movimenti
populisti affermano di essere autentici interpreti della democrazia, ma intendono la democrazia cosiddetta “diretta”. Cioè non rispettano e sono contro gli
istituti della democrazia rappresentativa, siano essi
il Parlamento oppure quegli strumenti fondamentali
di ogni democrazia contemporanea che sono i partiti
politici. Inoltre non sono assolutamente liberali, cioè
non rispettano lo Stato di diritto e le garanzie costituzionali, perché ritengono che il voto della maggioranza possa decidere quello che vuole.
Sacco: La disaffezione, e ancor più lo spirito antieuropeista, che si notano anche in Italia, possono
trovare un humus favorevole nella critica verso una
certa fredda burocrazia e tecnocrazia di Bruxelles e
Francoforte?
Martinelli: Sicuramente, perché obiettivamente, a
volte, si ha l’impressione che le decisioni importanti
per la nostra vita vengano prese da gruppi ristretti,
per carità competenti, però ristretti. Sono gruppi tecnocratici o sono gli esperti di finanza, di economia
monetaria, etc… o Banca centrale di Francoforte. O
ancora sono le Commissioni: quella europea di Bruxelles o altro, e questo naturalmente fa pensare che i
cittadini siano impotenti di fronte al potere di queste
élites. Ma non ci rendiamo conto dell’importanza di
queste elezioni e soprattutto quello che mi dispiace è il constatare che sono molto attivi i movimenti
anti-europeisti. Al contrario partiti e movimenti europeisti sono abbastanza silenziosi. Come europeisti
avremmo ottimi argomenti da contrapporre a chi cri-
tica l’Europa.
Sacco: Uscendo dai nostri confini, il ruolo egemone
che la Germania tende ad attribuirsi non rende, di
fatto, ancora più difficile la strada dell’integrazione
europea?
Martinelli: Non direi che la Germania tende ad
attribuirsi un ruolo, questa è una conseguenza del
fatto che abbiamo un’unione monetaria incompleta,
in cui ci sono Paesi che hanno una produttività diversa. Quindi è necessario completare, andare avanti
su questa strada affiancando all’unione monetaria
l’unione bancaria, che è già in atto, e poi anche un
governo dell’economia europea. Comunque ritengo
che i tedeschi più avvertiti sappiano benissimo che
una Germania forte nel mondo non può che esistere
all’interno di un contenitore più ampio, perché la lezione della storia è molto chiara al riguardo.
Sacco: Mentre in alcune zone europee la sirena del
populismo (come si è detto) sta creando un clima di
sfiducia, nell’Est un grande Paese, l’Ucraina, con una
drammatica “rivoluzione”, bussa alla porta dell’Europa. Che lezione per gli euroscettici, non le pare?
Martinelli: Sono senz’altro d’accordo. Se mettiamo
a confronto non solo la qualità della vita ma anche il
rispetto dei diritti umani, civili e fondamentali (tra
questi in maniera prioritaria la libertà e il rispetto
EURO PIÙ FORTE, EUROPA PIÙ VERA
Abbandonare l’euro e tornare alla nostra vecchia lira non è la soluzione per uscire dalle persistenti difficoltà della nostra economia. Oltretutto, non sarebbe né semplice né utile. I costi economici e politici sarebbero enormi. Siamo in
un’economia globalizzata e le vecchie pratiche delle svalutazioni competitive non sarebbero più consentite. Perciò, di
fronte alla crisi finanziaria, si reagisce meglio con l’euro, che è una moneta forte utilizzata da oltre trecentocinquanta
milioni di cittadini europei. Se il valore della moneta è lo specchio della salute dell’economia, quella europea è sicuramente un’economia solida. Ma non lo è, purtroppo, in tutto il suo territorio.
L’attacco speculativo all’euro ha pesantemente colpito i Paesi più deboli del Sud-Europa, compresa l’Italia. La politica
di rigore e di austerità decisa in sede europea non ha favorito la ripresa economica ed industriale e ha accentuato il
malessere sociale nei Paesi in questione. Ciò ha determinato la messa in discussione della permanenza nell’euro e
nella stessa Unione Europea. Sarebbe una iattura. Occorrono, invece, una maggiore solidarietà e politiche di sviluppo
verso i Paesi più deboli. Comunque, la risposta vera non può che essere l’accelerazione della governance unitaria
dell’economia europea. Abbinandola auspicabilmente ad una comune politica estera e di difesa in modo da poter
giocare come Europa un ruolo da protagonisti nel mutato scenario mondiale.
Mario Lettieri
Marine Le Pen
dei principi democratici), è abbastanza evidente che
in questo Paese dell’Est la maggioranza degli ucraini
vorrebbe avvicinarsi e anzi far parte della nostra area
occidentale. E questo ci fa riflettere, perché vuol dire
che, a volte, noi diamo un po’ troppo per scontato il
fatto di essere stati fortunati a vivere in questa parte
di Europa rispetto all’altra. Quello che sta avvenendo
in Ucraina è anche un terreno di prova della politica
estera europea, che purtroppo non è ancora unitaria
ma dovrebbe diventarla al più presto.
Sacco: Dopo il sintetico quadro delineato guardiamo al futuro. Da varie parti si sostiene che l’edificio
comunitario ha bisogno di essere ammodernato (e
questa è anche la sua posizione). Quali le basi del
nuovo architrave?
Martinelli: Più che ammodernare l’edificio europeo
bisogna completarlo, ridistribuendo il potere tra Parlamento e Commissione, avere un bilancio europeo
con entrate fiscali proprie che devono sostituire una
parte di quelle dei singoli governi nazionali. E ancora creare un esercito unico europeo accanto ad una
politica estera unica. Non bastano però solo le innovazioni istituzionali: è necessario anche sviluppare
il sentimento di appartenenza all’Europa. In questo
contesto, la mia proposta (la faccio da molti anni) di
un breve servizio civile di ragazze e ragazzi in un Paese diverso dal loro dell’Unione, serve a sviluppare
una vera identità europea. Il prossimo Parlamento
dovrà discutere di una nuova Costituzione europea
e proporre una modifica dei trattati (un problema
complesso) per procedere sulla strada di una maggiore integrazione politica.
13
La “necessità” dell’Europa
Qualche decennio fa era un mito,
ora in tanti vorrebbero farne
a meno; ma l’Unione tra gli stati
europei resta fondamentale
per varie ragioni.
di Gianfranco Varvesi*
Appartengo alla generazione cresciuta nel mito
dell’Europa, degli ideali di pace e di prosperità che
hanno unito i paesi un tempo nemici: generazione
profondamente orgogliosa dei progressi compiuti dal
nostro Paese. Per meglio illustrare questo sentimento
basti pensare a due date simboliche. Nell’agosto del
1946 De Gasperi fu accolto alla conferenza della pace
dai suoi stessi nuovi alleati con tanta freddezza da
fargli esordire così: “Prendendo la parola in questo
consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra
personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la
mia qualifica di ex nemico”; nel marzo 1957 si firmarono proprio a Roma i trattati che hanno istituito la
Comunità economica europea e la Comunità europea
dell’energia atomica.
L’Europa era un ideale e un progetto, e al più si discuteva se optare per una federazione o una confederazione europea. Oggi invece si sentono forti polemiche
antieuropee.
E’ inevitabile, a questo punto, porsi la domanda su
come e perché ci troviamo ad affrontare quest’ondata di euro-scetticismo, se veramente sia penalizzante
continuare a restare nell’Europa unita e se non con14
venga ritornare ai nostri confini politici, economici e
culturali.
Per rispondere a questi quesiti esistenziali per il futuro del nostro Paese dovremmo riflettere in primo
luogo sulle cause del mutato sentimento verso Bruxelles.
Confidando sui forti sentimenti degli italiani in favore dell’Europa, spesso i nostri Governi hanno imputato a Bruxelles le misure impopolari da loro adottate. “Bruxelles ce lo impone” è stato lo slogan per
Herman Van Rompuy Presidente del Consiglio europeo dal 2009
giustificare la necessità di rimettere in ordine i bilanci statali. Tralasciando le presentazioni politiche
delle restrizioni che ci sono state imposte, occorre
riconoscere che in realtà la causa di quelle misure risiedeva nella cattiva gestione dei fondi pubblici e, nel
2001, nel passaggio dalla lira all’euro. Il cambio della
moneta è stato da molti sfruttato per realizzare rialzi
del tutto ingiustificati dei prezzi; quello che costava
mille lire, all’improvviso ci è stato venduto a un euro,
cioè quasi al doppio.
La crisi, che da cinque anni ha colpito l’economia
mondiale, si è ripercossa sul nostro fragile sistema
con particolare virulenza, mettendo in luce i “buchi
di bilancio” delle nostre finanze.
E’ vero d’altro canto che il rigore che abbiamo subito
ci sta svenando ed esasperando. Ma, in questo caso,
paragonerei l’Unione Europea a un condominio; se
un condomino è moroso, non è giusto che siano gli
altri a far fronte alle spese comuni. Vi può essere una
certa tolleranza, ma poi lo si mette di fronte alle proprie responsabilità. E così è giunto il momento in cui
ci è stato presentato il conto, pretendendo però un
drastico pagamento degli arretrati.
In questi ultimi anni l’onere fiscale è diventato insostenibile, migliaia d’imprese sono fallite, sono aumentati la disoccupazione e il precariato, colpendo in
modo particolare i giovani e la fascia di lavoratori più
anziani, ma non ancora in età pensionabile. L’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale ci
hanno obbligato a intraprendere politiche di risanamento dell’economia che hanno ostacolato l’obiettivo
della ripresa economica. Un paradosso che ha avuto
un prezzo altissimo.
Nel ricordare che le politiche fiscali sono di competenza nazionale e nel riconoscere i nostri errori, dobbiamo con altrettanta obiettività evidenziare quelli
delle strutture comunitarie. Arroganza nella gestione
finanziaria della crisi e nell’imporre draconiane misure, una burocrazia auto-referente, con una visione
ristretta rispetto ai grandi obiettivi dell’Unione Europea. Tutto ciò sta favorendo la crescita del populismo
anti europeo in Italia e in tanti altri Paesi.
Le prossime elezioni per il Parlamento europeo (24
e 25 maggio) ci offrono l’occasione di far sentire la
nostra voce e di pronunciarci per le future scelte da
adottare. Semplificando di molto, direi che le diverse
forze politiche ci offrono o di sostenere le strutture
comunitarie, o di contestarle. Nell’incertezza, parte
dell’elettorato tende per l’astensione.
I più agguerriti critici dell’Europa sostengono che
occorre recuperare l’autonomia nazionale e uscire
dall’euro, la qual cosa però comporterebbe automaticamente uno stato d’insolvenza con alcune catastrofiche conseguenze. I detentori dei titoli di stato
perderebbero praticamente tutto, non potendo più
il Tesoro far fronte ai suoi debiti. L’inflazione ritornerebbe a due cifre, con disastrose conseguenze
sui salari e sulle pensioni, mentre i tassi d’interesse
bancari salirebbero alle stelle. La svalutazione della
nuova moneta rispetto alle valute internazionali più
solide (dollari, euro, yen giapponese e lo yuan cinese)
comporterebbe un aumento del prezzo del petrolio e
delle materie prime che importiamo. Chi addirittura
propugna l’uscita dall’Unione Europea sottovaluta
le conseguenze politiche, che si aggiungerebbero a
quelle finanziarie.
In Italia, alla crisi economica, con disoccupazione e
precariato, si è aggiunto un profondo senso di sfiducia nella politica, dovuto all’inadeguatezza e alla
disonestà di alcuni politicanti. Stiamo affrontando, insieme alla crisi economica, un vuoto di valori
politici. La combinazione di questi due fenomeni
è alla base della sfiducia dei cittadini europei (non
solo italiani) verso le istituzioni e favorisce tendenze nazionalistiche, già bocciate dalla storia e dall’economia. All’antieuropeismo spicciolo, alimentato
dal tentativo di eludere alcuni specifici problemi
nazionali, occorre contrapporre la riappropriazione
delle istituzioni europee attraverso un rafforzamento del Parlamento che eleggeremo a maggio. Occorre
prendere coscienza che nel mondo globale i singoli
Stati saranno sopraffatti, mentre è solo nell’UE che
possono salvare la loro identità nazionale, culturale,
sociale ed economica. Inoltre, in questo nuovo quadro geopolitico, solo l’Europa unita potrà trovare la
forza per farsi rispettare, giocando ad armi pari con
i grandi del pianeta. Occorre quindi passare dall’Europa burocratica-contabile a quella che permetta di
essere nel 21° secolo una potenza mondiale, in grado
di difendere gli interessi politici ed economici di tutti
i suoi membri.
Se vi è dunque un momento dell’Unione, questo è
quello!
* Già ambasciatore in rappresentanza dell’Italia presso l’OSCE
Rete autostradale nei paesi Ue
Anno 2010 (a) (km per 1.000 km2 di superficie territoriale)
25,4
14
12
70
10
60
50
8
40
6
30
20
4
Ue27
2
10
0
0
Rete a binario doppio elettrificato
Rete totale
Le reti di comunicazione in Europa
Come comunica l’Europa? E, soprattutto, quali sono i Paesi in
cui le comunicazioni sono più facilitate? Nella speciale classifica
Istat che analizza la situazione delle reti autostradali europee, sul
podio salgono nell’ordine Paesi Bassi, Lussemburgo e Belgio,
che vantano rispettivamente 63,3, 58,8 e 57,8 chilometri di autostrade ogni 1.000 chilometri quadrati di superficie territoriale. L’Italia si colloca al decimo posto, con 22,1 chilometri di autostrade
ogni 1.000 chilometri quadrati. In particolare il Belpaese, con i
suoi 6.629 chilometri di autostrade, rappresenta il 9,2% della rete
autostradale europea.
Diversa è invece la situazione riguardante il numero di autovetture
ogni 1.000 abitanti, un dato che, se da un lato è un indicatore
della qualità di vita di un paese, dall’altro consente di misurare
l’impatto negativo sulla congestione del sistema viario. Ebbene,
il tasso di motorizzazione in Italia è secondo a livello europeo
(prima c’è solo il Lussemburgo) ed è passato da circa 501 autovetture ogni 1.000 abitanti nel 1991 a circa 610/1000 nel 2011,
con un incremento medio annuo pari all’1,0 per cento.
Sul fronte delle reti ferroviarie, è il Lussemburgo a fare la parte del leone, con 25,4 chilometri di ferrovie ogni 100 chilometri
quadrati. La medaglia d’argento va invece alla Repubblica Ceca
(12,1 chilometri ogni 100 kmq), mentre il “bronzo” è del Belgio
(11,7 chilometri). L’Italia, con 5,5 chilometri di rete ferroviaria
per 100 chilometri quadrati di superficie territoriale, si colloca in
ambito europeo in una posizione intermedia, calcolando che la
media complessiva dei Paesi Ue è di 4,9 chilometri. Se tuttavia
si considera lo sviluppo tecnologico della rete, la situazione relativa dell’Italia è migliore: in tal caso il Belpaese si pone in quinta
posizione, preceduto da Belgio, Paesi Bassi, Germania e Polonia
per chilometri di rete a binario doppio elettrificato in rapporto alla
superficie.
A livello marittimo, la tendenza in atto è quella di fare diventare i
porti le principali interfacce delle reti di trasporto terrestri, in particolare quella ferroviaria, migliorando i collegamenti intermodali
per diventare luoghi di scambio commerciale a forte potenzialità
di crescita. Nel 2010, l’Italia è il quinto paese europeo per volume
del traffico container via mare (8,5 milioni di Teu, mentre al primo
posto c’è la Germania) e il primo per trasporto di passeggeri, con
oltre 87,6 milioni di passeggeri.
Non da ultimo, va considerato il traffico aereo. Il principale aeroporto dell’Unione europea, per passeggeri, è Londra Heathrow
(69,4 milioni secondo l’Istat – dati 2011), mentre per le merci primeggia Francoforte (quasi 2,3 milioni di tonnellate – Istat 2011).
Rapportando i passeggeri alla popolazione emergono due paesi:
Cipro (8,5 passeggeri per residente) e Malta (8,4), risultati che è
possibile spiegare in base all’insularità del paese (Irlanda e Regno
Unito sono in terza e ottava posizione) e all’elevata vocazione
turistica. L’Italia, con 1,9 passeggeri per residente, si situa al di
sotto della media europea (2,3).
15
Costituzione e legge elettorale al cambiamento
La vera riforma?
Chiarire i compiti di Stato e Regioni
La Sanità va resa
efficiente in ogni
territorio. Tasse: sapere
chi le raccoglie e che
uso ne fa. Presidente
eletto? Il Parlamento
deve avere poteri
di controllo. Legge
elettorale non solo per
convenienza di parte.
Servono partiti veri,
non comitati elettorali.
Gian Guido Folloni
incontra Cesare Mirabelli
Giurista di chiara fama universalmente
apprezzato, Cesare Mirabelli è presidente
emerito della Corte Costituzionale e, oggi,
membro della Commissione per le Riforme
Costituzionali. Lo incontriamo per riflettere
sui cambiamenti – in parte già avvenuti, in
parte in procinto di essere messi in atto –
nell’architettura del nostro Stato.
16
Folloni: Professor Mirabelli, perché cambiare la
Costituzione? Ne vale la pena? In che cosa il cambiamento può migliorare la nostra democrazia? Quali
parti della Costituzione s’intendono cambiare?
Mirabelli: Cambiamenti ci sono già stati nella Costituzione, come la stessa modifica del Titolo V e anche altri. Il più recente è l’articolo 81 per quel che
riguarda l’aspetto finanziario. Cambiare la Costituzione? La seconda parte, quella che disegna l’artico-
lazione di parlamento, governo e istituzioni può essere oggetto di una revisione. La prima davvero no.
Tutto quel che riguarda i diritti fondamentali non è
suscettibile di variazioni.
Folloni: Il bicameralismo “perfetto” è forse il maggior imputato per la lentezza dei procedimenti legislativi. Verso quale nuovo sistema camerale orientarsi?
Mirabelli: C’è un giudizio spesso negativo sul bicameralismo, ma non è sempre giusto. Talvolta la
doppia lettura – Camera e Senato – ha consentito di
rivedere alcuni errori commessi. Del resto altre volte, quando vi è stata necessità di una decisione molto
rapida, in assai breve tempo sia Camera sia Senato
si sono pronunciati. Tuttavia questo è un punto sul
quale si ritiene opportuno intervenire. Molti ritengono che la crisi stia nell’aver attribuito a entrambi
i rami del Parlamento la possibilità di esprimere la
fiducia al Governo.
Folloni: Per il Senato si parla di abolizione. In realtà
si tratta di decidere sia il modo della sua composizione, sia i suoi compiti…
Mirabelli: Bisogna partire dalla funzione, dai compiti. In alcuni ordinamenti, per esempio nella Repubblica federale tedesca, quello che da noi sarebbe
il Senato è il luogo di rappresentanza dei Lander, che
da noi sarebbero le Regioni. Perciò, se si vogliono valorizzare le autonomie, il Senato diviene il luogo di
collegamento con lo Stato centrale.
Folloni: L’abolizione delle Province, previste in
Costituzione, è il primo atto di una riorganizzazione
degli enti territoriali fissati nel Titolo V. Si parla anche di ripensare le materie di competenza nazionale
e regionale, con un orientamento a riportare in sede
nazionale alcune importanti funzioni. E’ così?
Mirabelli: Sono due aspetti distinti. Vediamo il rapporto con le Regioni, l’unico ente al quale è attribuita,
oltre che allo Stato centrale, la funzione legislativa.
Qui la passata riforma del Titolo V ha dato luogo a
controversie infinite e conflitti di legittimità costituzionale tra Stato e Regioni. Si tratta allora di superare
il riparto di compiti oggi presente nel Titolo V e attri-
buire in maniera più chiara le materie statali e quelle
regionali. Spesso si tratta di decisioni di rilievo: le
reti di grande comunicazione, di trasmissione di dati,
di erogazione di servizi.
Secondo aspetto: le Province. Anche qui la logica va
capovolta. Bisogna vedere quali sono le funzioni e a
quale ente possono essere attribuite. La soppressione può rischiare di trasformarsi solo in un cambio
di nome: enti con denominazione diversa ma egualmente esistenti. Meno costosi? Forse. La vera riforma è quella del disegno delle funzioni e dell’attribuzione dei compiti.
Folloni: Si è molto criticato il fatto che la Sanità affidata alle Regioni ha generato, nel tempo una spesa
fuori controllo.
Mirabelli: Qui bisogna porre attenzione a come
rendere efficiente il servizio. In fondo, sulla Sanità
italiana il giudizio non è negativo. La vita media nel
Paese è cresciuta: è la più elevata in Europa. Anche la
spesa del settore in percentuale rispetto al PIL non è
superiore. Ci sono però molte differenze tra i diversi
luoghi, in fatto di efficienza. Occorre un faticoso lavoro di rivisitazione e di riorganizzazione complessiva.
Folloni: Gestione e spesa da una parte, raccolta delle risorse dall’altra: da qualche anno il contenzioso
tra chi tassa e chi spende si è fatto duro. E’ possibile
mettere ordine? E come prevedere la solidarietà e perequare le aree a diverso sviluppo?
Mirabelli: Come principio occorrerebbe unificare
potere della raccolta di risorse e responsabilità. Bisogna poi evitare gli appesantimenti burocratici, costosi e spesso infruttuosi. C’è l’esigenza di diminuire la
pressione fiscale, ma c’è anche quella di uso efficiente
delle risorse raccolte. E’ possibile mettere ordine? Sì,
con una grande semplificazione. Gli adempimenti fiscali sono una miriade.
Folloni: La raccolta va concentrata in un punto
solo?
Mirabelli: I modelli possono essere diversi. Ci sono
ordinamenti a struttura fiscale semplice ma con decentramento accentuato: un’imposta sul reddito, sulle risorse (il reddito che il patrimonio procura) e sulle
imprese. Oppure, si può accentuare la tassazione indiretta. In ogni caso serve coerenza di sistema: deve
essere evidente chi esige le imposte e quale uso ne fa.
Folloni: L’intero impianto della nostra Costituzione
è a base parlamentare. Ma si parla di riformare la forma di Governo. In che senso?
Mirabelli: Attenzione a non immaginare di risolvere problemi politici con disegni istituzionali. Ci sono
sistemi parlamentari che funzionano perfettamente.
E’ il caso della Repubblica federale tedesca: il sistema
è parlamentare, però il cancellierato è forte e il gover-
no è stabile. Pensiamo a sistemi semi presidenziali,
come qualcuno auspica: ma anche lì, però, diversità tra maggioranza parlamentare e capo del governo
creano dei problemi. In Costituzione credo che la
base parlamentare possa e debba essere mantenuta.
Questo non esclude un rafforzamento del governo,
ad esempio attraverso la sfiducia costruttiva: il go-
verno non cade se non è proposta una diversa soluzione. E attraverso un sistema elettorale che tenda ad
aggregare le forze in campo e una responsabilizzazione delle forze politiche.
Folloni: Ogni sistema democratico prevede meccanismi di bilanciamento del potere. In caso, contrario
si scivola verso forme autoritarie. Se la forma di governo va verso il presidenzialismo, qual è il suo contrappeso?
Mirabelli: Presidenzialismo significa che il Presidente è eletto direttamente ed è titolare dell’esecutivo senza aver bisogno d’investitura parlamentare.
Però tutto questo potere va equilibrato da un Parlamento che controlli le risorse finanziarie, di bilancio.
Folloni: E’ il caso degli USA…
Mirabelli: Esattamente. Proprio lì il Presidente ha
faticato non poco per introdurre la riforma sanitaria.
Folloni: Ma, allora, il voto presidenziale e quello per
il Parlamento devono essere separati…
Mirabelli: Sì. Non può immaginarsi un sistema in
cui l’esecutivo ha il dominio del Parlamento.
Folloni: Dopo i decenni a sistema proporzionale,
continuano le modifiche della legge elettorale. L’impressione è che i cambiamenti siano effimeri, fatti più
per un interesse contingente che per dare un nuovo
e duraturo strumento che garantisca la sovranità ai
cittadini.
Mirabelli: La legge elettorale dovrebbe essere di sistema, non di convenienza. Spesso l’ottica delle forze
politiche che contribuiscono alla modifica è piuttosto
di convenienza. Ma i risultati sono spesso diversi da
quelli prefigurati. Il bipolarismo immaginato si è tradotto in almeno tre grandi raggruppamenti. Attenzione anche alle aggregazioni forzose. Possono essere
elemento di comportamenti opportunistici: si fa l’unione per lucrare il premio di maggioranza, salvo dividersi dopo il voto. Non ci sono scorciatoie tecniche.
Solo i processi politici danno sostanza alle cose. E i
partiti devono riprendere la funzione di collegamento tra società e istituzioni: non più partiti ideologici,
ma nemmeno partiti come mero comitato elettorale.
17
Da padre a figlio
Il caso “Personal Factory”, azienda fondata dopo
oltre 25 anni di esperienza nelle miscele in polvere
18
Nel sistema imprenditoriale italiano il 90% delle imprese è a conduzione familiare, il 43% degli
imprenditori ha un’età superiore ai 60 anni e ogni
anno sono oltre 60 mila gli imprenditori coinvolti
nel passaggio generazionale. Meno di un terzo delle imprese familiari sopravvive al ricambio generazionale e meno di un quinto riesce a superare la
seconda generazione. Invece, ecco una storia fatta
di “vecchia esperienza” e “nuova tecnologia”.
Parliamo di Personal Factory di Francesco Tassone, 33 anni, e di suo fratello Luigi, appena 27. Cosa
hanno inventato di così straordinario? La fabbrica
tascabile. Un nuovo modo di fare edilizia più pulito, digitale, intelligente. Quali sono i loro prodotti?
Malte, le polveri che usiamo per fare intonaci, rivestimenti e quant’ altro.
Nel 2006 Francesco, laureatosi in ingegneria, osserva le peripezie del padre nella fabbrichetta di
prodotti per l’edilizia che aveva aperto nel 1982. I
prodotti che l’azienda familiare produceva erano
“estremi” perché specialistici in lavori tecnicamente al limite dell’impossibile. Il padre inventore,
quotidianamente lottava con le difficoltà logistiche
per il trasporto delle malte. “A Simbario – spiega
Francesco - le strade sono poche e brutte, mio padre perdeva tempo e denaro per gli spostamenti.
Allora mi sono detto: perché non abolire del tutto la logistica e permettere a chi lavora nel settore
edile di prodursi la malta da sé?”. L’intuizione di
Francesco Tassone, nel 2006, è tutta qui. Decide
di costruire il primo prototipo della sua fabbrica
tascabile e la chiama Origami, “perché come da
un foglio puoi inventare mille figure, così da una
piccola macchina puoi farti centinaia di prodotti
diversi”. Un robot muratore. E qui inizia l’ avventura. Ma dopo non poche difficoltà economiche e
finanziarie (partecipa ad una competizione europea per Start up), da allora per Personal Factory
sono stati solo successi e riconoscimenti.
Dall’Expo di Shanghai 2010 fino all’aumento di
capitale chiuso con il coinvolgimento anche del
gruppo Intesa San Paolo, con questa operazione i
fratelli Tassone rilevano la fabbrica del papà (“era
diventato il nostro primo concorrente, è stato giusto così”). Hanno realizzato in Calabria una meravigliosa sede. In una terra devastata dal cemento
abusivo, hanno fatto un edificio meraviglioso, tra
gli alberi, con un sofisticato impianto che unisce
geotermia, pannelli solari e altre soluzioni tecnologiche che fanno sì che la sede abbia un esubero
di energia prodotta di 14 mila kilowattora/anno.
Francesco, fin da quando aveva 13 anni, ha sempre lavorato in azienda durante i periodi estivi. Ha
fatto l’operaio e il grafico, oltre che occuparsi delle
fatture e dell’amministrazione. Ha sempre pensato che il suo futuro professionale fosse nell’azienda
creata da suo padre. I suoi studi sono stati rivolti
proprio al raggiungimento di una meta, in cui l’unica certezza era data dall’esperienza molto solida
e dagli oltre 25 anni di lavoro del padre.
E’ stato semplice gestire il passaggio generazionale, anche se è meglio parlare, in questo caso, di integrazione tra il lavoro del genitore e la rivoluzione
non solo tecnologica portata dai figli.
Il saper fare di un 68enne ha ancora un senso
in una realtà fatta di tecnologia web e di sistemi
cloud computering? Giuseppe, il padre, segue regolarmente le attività di Personal Factory. “Non
potrebbe essere diversamente - afferma Francesco - il digital divide esiste, c’è ed è enorme, ma
la nostra impresa è essenzialmente manifatturiera
ed il peso e il valore del saper fare manuale è molto
forte. Nessun computer potrà spiegare come applicare uno stucco alla veneziana!”
Quando le aziende manifatturiere chiudono è difficile che riaprano. La conseguenza più tragica è
che si perde un piccolo e prezioso know how. Questo è un patrimonio che non si può più ricostruire, è un sapere non formalizzato che non si potrà
trovare in nessuna pubblicazione o programma
elettronico.
Conoscenza, esperienza e passione; è questa la
base di partenza? “Siamo una start up – conclude
Francesco - con 30 anni di esperienza tecnica”
Francesco e Luigi hanno avuto la capacità, l’attenzione e la dedizione nel proseguire e valorizzare il
lavoro del padre, subentrando alla guida operativa
e strategica dell’impresa e garantendone il successo e la continuità.
Elettra
19
Anteas, il grande
volontariato dal “cuore” Cisl
“Il dono di cui
oggi c’è maggiore
bisogno,
è quello della
presenza, che
pone l’individuo a
servizio dell’altro”.
Don Enzo Bianchi, priore della
comunità monastica di Bose (BI)
La sua giovane età (18 anni non ancora compiuti)
non deve ingannare: è una delle più grandi associazioni di volontariato d’Italia ed è presente con proprie sezioni in tutte le province della Penisola. Le
attività delle quali si occupa coprono i settori più diversi e i suoi numeri sono quasi da capogiro, a signi-
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ficare l’impegno quotidiano delle migliaia di persone
(13.500 volontari e 72.000 soci, per l’esattezza) che
fanno parte dei suoi iscritti: 580 mila ore di volontariato per attività ricreative e culturali, 100 mila ore
di trasporto sociale, 100 mila ore di ambulatorio sociale per anziani, infermi, indigenti, bambini, ragazzi
e disabili, 58 mila ore di attività intergenerazionali,
332 mila ore di ascolto e sostegno a malati e anziani,
537 mila ore di guardiania e vigilanza, 60 mila ore di
formazione.
Naturalmente, si tratta di Anteas (www.anteasnazionale.it), Associazione Nazionale Tutte le Età Attive
per la Solidarietà, una realtà fondata nel 1996 proprio grazie alla Fnp-Cisl e oggi guidata dal presidente
Arnaldo Chianese, già attivo all’interno della Cisl con
importanti incarichi e già segretario nazionale organizzativo della Fnp-Cisl.
“Come Anteas – precisa Chianese – noi non intendiamo sostituirci alle istituzioni, ma essere sussidiari
ad esse. Contestualmente, riscopriamo e facciamo
riscoprire il ruolo della gratuità, del dono, essendo
una grande realtà del volontariato. Del resto, la situazione che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti:
è di triste attualità la povertà in cui versano oltre 8
milioni di persone, di cui 3 milioni in condizioni di
povertà assoluta. E’ di attualità un forte ridimensionamento del welfare. E’ di attualità il disagio. Non
può quindi che non essere di attualità e preso nella
massima considerazione il volontariato nel “sistema
Paese”. Possiamo affermare che il volontariato è una
delle espressioni propulsive della società italiana, è
ampiamente riconosciuto quale promotore di società
civile e fattore di crescita della coesione sociale. Sta
dando risposte concrete ad una società che cambia. E
lo sta dando in tutti i settori con atti gratuiti. Secondo dati Istat, che si riferiscono ad uno studio che lo
stesso Istituto ha svolto nel 2012 (con riferimento al
2011), il numero totale dei volontari in Italia risulta
essere di 4.758.622 unità e registra una crescita del
43,5% in dieci anni. Il lavoro volontario rappresenta peraltro la quota principale (83,3%) delle risorse
umane nel campo del no-profit. Se traduciamo l’impegno di questi volontari, che sono il 7% della popolazione, in un valore economico, arriviamo a 8 miliardi di euro. A questi risultati vanno aggiunte tre
brevi sottolineature: la prima, che queste attività abbracciano molti settori del no-profit; la seconda, che
queste attività sono svolte anche da un buon numero
di giovani, alcuni dei quali operano in modo saltuario, ma molti altri svolgono attività di volontariato in
modo continuativo; per ultimo, vogliamo ricordare
che il risultato del sondaggio dell’Eurispes attraverso il “rapporto Italia 2013” registra che l’80% degli
intervistati riconoscono nel volontariato e nelle forze
dell’ordine punti certi di riferimento, perché danno
sicurezza, aiuto e solidarietà nei momenti difficili”.
Tuttavia, secondo lo stesso presidente Chianese, per
permettere al volontariato di continuare a lavorare
anche in futuro con efficacia, occorrono alcune importanti azioni.
“Oggi – spiega Chianese – non è più possibile essere
delle isole di gratuità e fare volontariato nel tempo
libero. Per questo sono necessarie apposite strutture.
Sono poi cambiate le risposte al disagio, ma il volontariato non deve supplire allo Stato, bensì fare azione
sussidiaria rispetto alle istituzioni. Per fare ciò, occorre uno sforzo culturale, che permetta agli adulti di
fare avvicinare ai valori del volontariato i più giovani.
In altri termini, occorre un patto intergenerazionale
tra giovani e anziani, che intersechi i due mondi. Devono essere recuperati, in sostanza, i valori della Costituzione, e deve essere attribuito il giusto equilibrio
a una società dalle molte disuguaglianze”.
Ultimo ma non per importanza, Chianese chiede anche che sia rilanciato il welfare dei diritti, passando
anche attraverso una revisione della fiscalità vigente.
“A un Governo che sembra non essere troppo attento
alle esigenze del volontariato – dichiara Chianese –
occorre chiedere che il 5 per mille vada stabilizzato
con una legge definitiva, perché con le risorse della
comunità si possono dare risposte concrete”
Arnaldo Chianese
21
Rapporto Bankitalia, la ricchezza è
sempre più concentrata
Intanto,
oggi come non mai i pensionati sono
chiamati a sostenere figli e nipoti
Anche in Italia, come nel resto del mondo, la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di poche. Ad
affermarlo è “L’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2012” della Banca d’Italia, che rileva come
nelle mani del 10% delle famiglie più ricche risieda il
46,6% della ricchezza netta familiare totale (nel 2010
era al 45,7%).
Secondo il rapporto di Bankitalia, la metà delle famiglie vive con meno di 2.000 euro al mese, solo la
metà ha un reddito annuo superiore ai 24.590 euro
annui, mentre un 20% conta su un reddito addirittura inferiore ai 14.457 euro. Il 10% delle famiglie a più
alto reddito, invece, percepisce più di 55.211 euro. Il
risultato è che la povertà quasi totale (ovvero le famiglie di due persone che vivono sotto la soglia di 7.678
euro annui, o 15.300 euro annui per i nuclei di 3 persone) è salita di due punti percentuale tra il 2010 e il
2012, ovvero dal 14 al 16%.
In tale contesto, non certo roseo e confortante, a “salvarsi” sono per così dire i pensionati. Recita infatti
il rapporto: “Nel 2012 il reddito familiare annuo, al
netto delle imposte sul reddito e dei contributi sociali, è stato in media pari a 30.338 euro, circa 2.500
euro al mese. Il reddito familiare è più elevato della
media per le famiglie con capofamiglia laureato, lavoratore indipendente o dirigente, di età compresa
22
tra i 45 e i 64 anni, e inferiore per le famiglie residenti al Sud e Isole e per quelle con capofamiglia nato
all’estero”. Tra il 1991 e il 2012, secondo il rapporto,
“i pensionati hanno migliorato significativamente la
loro posizione relativa, passando dal 95% al 114%
della media generale. Anche la posizione relativa dei
lavoratori indipendenti ha avuto un miglioramento
nel periodo, nonostante la flessione nell’ultimo biennio; la posizione dei lavoratori dipendenti è invece
complessivamente peggiorata”.
In ogni caso, rimane anche vero che un pensionato
su due è spesso obbligato a posticipare i pagamenti,
e allo stesso tempo è costretto a mantenere figli che
sono stati espulsi dal mercato del lavoro e i nipoti che
non riescono ancora ad entrarci. Del resto, le situazioni peggiori si registrano infatti tra i giovani: negli
ultimi 20 anni il reddito equivalente è calato del 15%
nella fascia 19 - 35 anni e di circa il 12% in quella 35 44. Ed è tra le famiglie sotto i 34 anni che nel 2012 si
registra la diminuzione più marcata di ricchezza netta familiare. Resta contenuta la diffusione dell’indebitamento, legato per lo più a mutui per l’acquisto o
la ristrutturazione della casa: risulta al 26,1%, in calo
rispetto al 27,7% del 2010, con un ammontare medio
del debito di poco superiore ai 51mila euro. Cresce
invece la vulnerabilità finanziaria, che nel 2012 riguardava il 2,6% delle famiglie (+0,4% rispetto alla
rilevazione precedente), ovvero circa il 13,2% dei nuclei indebitati (+3,1%).
Tuttavia, anche l’ex ministro dell’Economia, Fabrizio
Saccomanni, si è sempre mostrato ottimista. All’indomani dell’uscita dei dati diffusi da Bankitalia ha
infatti commentato: “L’uscita dalla crisi vuol dire che
c’è ripresa dell’attività economica e che si esce dalla recessione; non si può negare che l’economia si è
stabilizzata nel terzo trimestre 2013, ha cominciato
a crescere nel quarto trimestre e crescerà anche nel
2014”.
I mutui calano ancora
Continua anche il trend negativo dei mutui, che sono
in calo del 20% con punte del 30% tra i giovani. Ovvero, le banche prestano molto meno denaro rispetto
al passato perché ravvisano rischi troppo elevati per
il rientro della liquidità. Secondo quanto riferisce il
Sole 24Ore, “in quattro anni, dal 2008 al 2011, il numero di mutui concessi dalle banche per l’acquisto
di abitazioni è diminuito di oltre il 20% rispetto al
quadriennio 2004-2007. Il fenomeno ha interessato
soprattutto i mutuatari più giovani e gli extracomunitari, mentre non ha toccato chi ha redditi elevati....
Secondo uno studio della Cgia, inoltre, gli istituti
bancari italiani hanno ridotto i prestiti a famiglie e
imprese di 9,2 miliardi ma è boom per l’acquisto di
titoli di Stato: +92,89 miliardi...Dal 2008 al 2011 il
numero dei nuovi mutui concessi si è ridotto mediamente del 9,1% ogni anno, a fronte di un aumento
medio dell’8,5% nei tre anni precedenti. La riduzione, prosegue lo studio, è stata particolarmente accentuata per le famiglie più giovani e quelle originarie
di Paesi non appartenenti all’Unione Europea, che
avrebbero quindi risentito maggiormente sia della fase negativa del ciclo economico, caratterizzata
dall’aumento del tasso di disoccupazione e dal calo
sostenuto dei redditi delle famiglie, sia delle politiche
di affidamento più selettive da parte degli intermediari”.
Differenti in tutto, Letta e Renzi (i due protagonisti
della fase politica arrivata al cambio di passo dopo
una agitata direzione del PD) si somigliano (loro
malgrado) quando sono stati e sono chiamati a dare
l’unica risposta che conta. “Avete tutti i miliardi che
servono per rimettere in moto il sistema produttivo”,
dicono sindacati e imprese. Nonostante ogni buona
volontà tutti sanno che i miliardi necessari non ci
sono. E Berlusconi sospira, perché l’onere della risposta negativa, stavolta, non tocca a lui.
Dunque, il nuovo governo che ci aspetta (nel momento in cui scriviamo il cambio di inquilino a Palazzo Chigi è avviato ma non è ancora concluso nei
suoi approdi), il 2014 sarà l’anno in cui, sul tema più
importante, quello del lavoro, ci si dovrà limitare ad
iniziative che, per quanto significative, potranno creare qualche sussulto o poco più. Sostanzialmente, ci
si muoverà lungo quattro linee d’azione.
La “Garanzia giovani”. Grazie agli 1,5 miliardi
in due anni concessi dall’Europa (cui si aggiungono,
dove ci sono, risorse regionali), l’Italia ha la possibilità di sperimentare una misura ambiziosa: offrire un simil-impiego ad un giovane entro 4 mesi dal
diploma o dalla laurea (stage, tirocinio, corso di formazione…). In più, con questi soldi, si potrà provare
a rimettere in sesto la malandata rete dei Centri per
l’impiego. Il piano è già attivo, ed entro qualche mese
dovremmo vedere i primi risultati.
Il cuneo fiscale. La legge di stabilità ha dato meno
di quanto ci si attendeva, ma ha lasciato una speranza: un Fondo che sarà implementato di volta in volta
con le risorse della spending review non utilizzate per
tamponare il debito e con il gettito dei soldi che rientrano dall’estero su base volontaria. Una volta rassicurata Bruxelles sul deficit, inoltre, anche alcune
tranche di privatizzazioni e il gettito dell’operazione
Bankitalia potrebbero entrare nella partita. L’obiettivo, stavolta, è un’azione sull’Irap.
Jobs act. Più volte illustrato da Matteo Renzi per
sommi capi, già in diverse occasioni è stato rinviato
il suo varo nella direzione Pd. Una parte del provvedimento riguarda la semplificazione delle norme e
Ecco
l’agenda
per l’Italia
Jobs act per
facilitare il
lavoro, politiche
per i giovani,
cuneo fiscale,
infrastrutture e
flessibilità.
di Marco Iasevoli
della burocrazia. Un’altra parte la sperimentazione
del contratto d’inserimento (a tempo indeterminato
ma con tutele escluse nei primi anni) e di un sussidio
universale di sostegno alla disoccupazione. Un’altra
parte ancora, forse la più difficile da realizzare, propone piani differenziati (e investimenti mirati) per
quei 6-7 settori chiave del made in Italy.
Infrastrutture e “flessibilità Ue”. L’Italia anche
per il 2014 dovrebbe beneficiare di un margine di
flessibilità sul deficit. Se, ad esempio, si attesterà sul
2,6%, avrà uno 0,3 da spendere come “premio”. L’opportunità, nel 2013, è stata colta per restituire alle
imprese parte dei debiti accumulati dalle pubbliche
amministrazioni committenti. Nell’anno in corso si
dovrebbero sbloccare alcuni cantieri cofinanziati da
Bruxelles e Roma, con ovvio indotto occupazionale.
Il ministero del Lavoro è da mesi in “lotta” con Bruxelles perché tra le misure da finanziare con il “premio europeo” ci siano anche quelle legate allo stimolo dell’occupazione (decontribuzione e simili…).
Attendersi altro, allo stato, è più un gesto di fiducia
che di realismo. Dalla riprogrammazione dei fondi
europei non utilizzati stanno venendo fuori somme
interessanti per ricerca e innovazione. Tuttavia, i segnali di ripresa non sono accompagnati dall’elemento più importante, un ritorno significativo di investimenti sul sistema-Italia. Investimenti che purtroppo
attendono il varo di riforme significative su pubblica
amministrazione e giustizia civile (chissà perché delle raccomandazione Ue viene presa sempre la parte
peggiore, e mai quella migliore).
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Lo Stato “retroattivo”
Esigenze di cassa e diritti acquisiti
di Gianfranco Garancini
La non retroattività delle leggi è un principio generalissimo dell’ordinamento giuridico: non solo per le leggi,
ma anche – e soprattutto – per gli atti amministrativi, tanto che generalmente si dice che l’ammissibilità di
atti amministrativi retroattivi è generalmente esclusa, in giurisprudenza e in dottrina, nel rispetto dei principi
di legalità e certezza dei rapporti giuridici.
Sono le stesse norme premesse al Codice civile
(che, familiarmente, chiamiamo “preleggi”) a ricordarci, all’art. 11, che “la legge non dispone che
per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”.
Tanto più, allora, non possono avere effetto retroattivo gli atti amministrativi, che alla legge sono
soggetti.
Anzi: il divieto di retroattività della legge – che
comporta che la legge nuova non può essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima
della sua entrata in vigore, a quelli sorti prima ed
ancora in vita – viene considerato una caratteristica fondamentale della nostra civiltà giuridica,
espressione dell’esigenza di garantire la certezza
dei rapporti, e altresì espressione del principio di
legalità. Si vieta, cioè, di incidere unilateralmente sulle situazioni soggettive, sui diritti e sugli interessi legittimi, quando siano sorti prima della
nuova legge.
Tuttavia – come accade spesso nel diritto – i principi generali o generalissimi trovano poi un temperamento, un restringimento nelle applicazioni
pratiche: è così che sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno elaborato un’interpretazione del di-
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vieto di retroattività della legge secondo la quale
esso, pur costituendo un valore fondamentale di
civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento una
tutela assoluta: il legislatore, secondo tale orientamento, può emanare disposizioni retroattive,
anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo
costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” (così scrive,
per es., la Corte Costituzionale nella sentenza n.
264 del 2012 che richiama non solo altre sentenze
della stessa Corte, ma anche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo).
Eppure, come abbiamo visto, soprattutto per l’attività amministrativa dello Stato e della pubblica
amministrazione, il tempo delle leggi e il tempo
degli atti amministrativi deve essere un tempo
certo, perché il tempo – come dicono i giuristi – è
un “bene della vita” e con esso non si può giocare. E’ soltanto in forza di una espressa previsione
normativa, oppure di un bilanciamento degli interessi in gioco che veda prevalere interessi generali
su interessi particolari, che si può pensare di fare
ritornare indietro nel tempo gli effetti di un certo
atto giuridico.
Insomma, per dirla con le parole del Consiglio di
Stato, “il legislatore ordinario ben può emanare
norme retroattive, purché adeguatamente giustificate sul piano della ragionevolezza (cioè del rispetto del principio di uguaglianza) e non in con-
trasto con singoli valori ed interessi costituzionali
protetti, così da non incidere arbitrariamente sulle
situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, non potendosi escludere norme retroattive anche quando incidenti su diritti di natura
economica”.
Qui si apre tutto il campo del bilanciamento fra i
diversi diritti a protezione costituzionale: penso
soltanto, per fare un esempio, al diritto alla pensione, tutelato dall’art. 38, secondo comma, della
Costituzione, che afferma che i lavoratori hanno
diritto che siano preveduti ed assicurati con mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita anche in caso di
vecchiaia. E’ un tipico caso di diritto costituzionalmente protetto che, se limitato retroattivamente
con una norma nuova, ben può reagire in un necessario bilanciamento degli interessi.
Ma allora il discorso si sposta. Se una delle motivazioni generali (e pesanti) per cui il legislatore
può derogare al generale divieto di retroattività
delle leggi riguarda solo il caso in cui prevalgano
(o si pensa che prevalgano) valori e interessi generali, cioè “più generali” rispetto ai diritti dei singoli, il discorso si sposta, infatti, alla domanda su
quale sia quell’“interesse generale” che riesca a far
prevalere determinati obiettivi sugli interessi e sui
diritti delle persone singole (che, non lo dimentichiamo, sono comunque le chiavi di volta della
nostra architettura costituzionale).
Questo però (come si dice) è un discorso “politico”.
Ma si illudono e, anzi, sbagliano profondamente
tutti quelli che pensano che il discorso giuridico
non sia un discorso politico. Lo “Stato retroattivo”
– cioè lo Stato che per riuscire a tener dietro agli
obiettivi politici, di politica economica generale, o
per riuscire ad “obbedire” ai diktat delle banche
e delle istituzioni internazionali, o “alle minacce”
delle agenzie internazionali di valutazione, passa
il suo tempo a cercar soldi, e a pensare da chi li
possa spremere – va sempre a interpellare, pur-
troppo, le fasce più deboli della popolazione, quelli
che non possono rifiutarsi, quelli che hanno poca
(o comunque inferiore rispetto ad altri) “forza
contrattuale”. Succede così che, non di rado, per
“far cassa” si ricorra anche a prefigurare interventi
retroattivi sui diritti e sugli interessi di questa o
quell’altra categoria. Come per i pensionati.
Il divieto di retroattività delle leggi allora diventa
uno strumento importantissimo e vivo: nel senso
che occorre sempre più individuare quale sia il
vero “bene della vita” da difendere, perché è già di
per sé difeso e tutelato dallo scudo costituzionale,
come (o di più) è difeso e tutelato, per esempio,
lo sviluppo economico del Paese, o il rispetto delle
regole di appartenenza alle istituzioni internazionali o sopranazionali. In questo caso è la stessa interpretazione della dottrina e della giurisprudenza
che insegna che occorre operare un sano, rigoroso,
rispettoso bilanciamento dei diritti e degli interessi in campo. E il diritto dei lavoratori a vedersi assicurati adeguati mezzi per le loro esigenze di vita
non è certo un diritto che possa così facilmente
recedere rispetto ad altri “interessi generali”, fino
al punto da lasciarsi incidere o addirittura limitare
da norme o provvedimenti che intervengano anche sul passato.
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27
Qual è il rapporto tra Grande
Distribuzione e popolazione
anziana? In altri termini,
cosa fanno le grandi catene
per venire incontro alle
esigenze della popolazione
anziana? “Contromano” ha
interpellato alcuni esponenti
della Grande Distribuzione e
ha curiosato tra le iniziative
in atto per la terza età.
Supermercati,
all’estero più
attenzione per
gli anziani
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Claudio Gamberini, responsabile nazionale di Conad per l’ortofrutta, spiega: “Viviamo in un periodo in cui gli anziani, spesso, non fanno soltanto la
spesa per loro stessi, ma danno una mano anche
figli e nipoti, data la difficile congiuntura economica. Basti soltanto pensare che abbiamo rilevato
come molte persone anziane, negli ultimi tempi,
abbiano acquistato diversi pannolini per bambini.
Cerchiamo quindi di fidelizzare quest’ampia fascia
di consumatori, anche attraverso le nostre carte
fedeltà”.
Nadia Caraffi di Coop Centrale Adriatica ha aggiunto: “Ci sono diverse categorie alle quali Coop
Centrale Adriatica presta attenzione. Gli anziani
sono senz’altro una componente rilevante e, inoltre, va tenuto conto che Coop ha al suo attivo diverse iniziative proprio per la tutela delle categorie
più deboli, compresi gli anziani”.
Del resto, non è un segreto che molte, per non dire
tutte le catene della Grande Distribuzione, stiano pensando a servizi ad hoc per gli anziani. “Nel
2050 – rileva un servizio di Mark Up, vero e pro-
prio osservatorio sul marketing e il dettaglio - ci
saranno nel mondo più di due miliardi di persone
sopra i 65 anni. In Italia, già oggi, sono 11.273.000
gli over 65 e, anche se molti sono ancora in forma,
c’è da mettere in conto che prima o poi avranno
bisogno di una mano....Nel 2004 il gruppo tedesco
Edeka, che gestisce la catena di supermarket Adeg
in Austria, ha aperto a Salisburgo il primo grande
magazzino pensato per chi ha più di 50 anni. Si
chiama Adeg Aktiv Markt 50+ e, per semplificare
la spesa, è stato dotato di un allestimento particolare. Ci sono grandi cartelli che segnalano i prodotti, i percorsi tra gli scaffali sono più spaziosi,
l’illuminazione è più intensa, il pavimento è realizzato con materiali antiscivolo e la disposizione
dei prodotti è studiata per renderli più accessibili.
Ci sono le panchine per chi ha bisogno di una sosta
e i commessi hanno tutti più di 50 anni. Il gruppo Edeka è stato tra i primi a investire in punti di
vendita progettati per consumatori senior, e altri
hanno iniziato a muoversi nella stessa direzione.
Ad agosto del 2008 Tesco ha inviato un gruppo di
over 65 a visitare il supermercato Kaiser a Berlino,
uno dei primi realizzati in Germania sul modello
dell’austriaco Adeg e che in tre anni ha aumentato
le vendite del 25%. La loro “visita esplorativa” è
stata determinante per dare il via libera alla costruzione di uno store di 18.000 metri quadri a
Nel complesso, tuttavia, gli attuali punti di vendita
italiani della grande distribuzione non contemplano ancora soluzioni progettuali efficaci che favoriscano l’attività di spesa dei consumatori anziani.
Tra i vari fattori che andrebbero considerati vi è
tra l’altro l’accessibilità dei prodotti, che andrebbe
senz’altro rivalutata per essere più adeguata alla
popolazione anziana.
Gli anziani italiani sono i meno
“spreconi”
Newcastle, accanto all’Institute for Ageing and
Health. Il punto di vendita ha porte scorrevoli
automatiche, musica classica diffusa, carrelli più
leggeri, voci elettroniche per peso e prezzo dei
prodotti alle bilance, tasti per la richiesta di assistenza al personale e anche una stanza relax. L’assortimento è stato studiato ad hoc, anche grazie ai
dati che Tesco ha raccolto negli anni con le fidelity
card, dati che hanno guidato la progettazione del
nuovo format”.
Il tema delle fidelity card è stato replicato con successo anche in Italia, tanto che catene come Carrefour e Auchan hanno lanciato nei mesi scorsi vere
e proprie card specifiche per gli anziani, con l’intento di applicare sconti appositi per gli “over 65”.
Durante la recente Giornata Nazionale contro gli
sprechi alimentari, Panasonic, in collaborazione
con ICM, ha condotto una ricerca sulle abitudini
alimentari degli italiani, prendendo in considerazione un campione di 5000 persone in 5 Paesi Europei (Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania). Dai dati raccolti è emerso che gli italiani
si distinguono per parsimonia. Ben il 42% della
popolazione non butta via cibo, riconoscendo alla
propria spesa il valore dovuto. Le donne italiane sono le più frugali rispetto a quelle degli altri
quattro Paesi interpellati. Il 44% non spreca nulla,
rispetto al 39% degli uomini. Gli anziani italiani
sono i più attenti e non sprecano mai cibo fresco.
In generale, però, sebbene il 94% degli europei acquisti alimenti freschi ogni settimana, il 58% ammette di gettare quasi tutto.
29
Giuseppina Arista da dieci anni direttrice
del Coro di S. Maria in Trastevere
“Oggi con il canto
posso lenire il dolore”
Nel 1965 vince il
concorso verdiano.
Poi la vita nei teatri
più famosi.
Oggi con la musica
raccoglie fondi per
la ricerca contro la
distrofia muscolare
Duchenne – Becker,
una rara malattia
che colpisce i
bambini.
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Vitalità. È questa la prima cosa che colpisce di
Giuseppina Arista, mezzo soprano contralto, una
vita passata nel coro di Santa Cecilia ed oggi direttrice del coro di Santa Maria in Trastevere nonché
attivista della Duchenne Parent Project onlus. Una
vitalità contagiosa e divertente che a settantuno
anni le fa dire con simpatia e al contempo sdegno:
“Ma che pensione! Oggi ho più da fare di quando
lavoravo”. E non si ha difficoltà a crederlo.
Mi accoglie a casa sua, il tè e i biscotti già preparati
e la nipotina di tre anni e mezzo che dorme nella
stanza accanto. Mentre iniziamo a parlare, mi mostra alcune foto narranti la sua lunga e soddisfacente carriera di cantante lirica che l’ha portata ad
esibirsi in Italia e all’estero. Figlia d’arte, nel 1965
a soli 23 anni vince il “Concorso per voci verdiane
di Busseto e di Parma” e da lì inizia a lavorare nei
più prestigiosi teatri italiani: il San Carlo di Napoli, La Scala di Milano, il Carlo Felice di Genova,
il Massimo di Palermo, il Comunale di Firenze ed
il Teatro dell’Opera di Roma. Una carriera artistica portata avanti, contemporaneamente, sia da
solista sia da cantante del Coro di Santa Cecilia
(opportunità offerta a pochi artisti), al fianco di
grandi maestri quali Giuseppe Sinopoli, Vladimir
Spivakov, Leonard Bernstein, Riccardo Muti, Nor-
bert Balatsch, Yuri Temerkanov. Diversi i generi
affrontati nel corso della sua lunga carriera che
spaziano dalla musica sinfonica ed ecclesiastica
all’opera, quest’ultima scelta progressivamente
di meno nel corso degli anni per motivi di tempo.
“Con due bambini a casa, era complicato assentarsi per periodi troppo lunghi legati alle prove e alla
tournée”, mi spiega.
Una vita intera circondata dalla musica che da
passione è diventata prima professione e adesso
anche impegno sociale.
Terminato il lavoro al Santa Cecilia (di pensione
proprio non vuol sentir parlare!), infatti, la Arista ha iniziato a dirigere il Coro di Santa Maria in
Trastevere, nato come coro di voci femminili circa
una decina di anni fa e che oggi vede la partecipazione costante di non meno di quindici persone, non solo donne. Un’esperienza interessante
all’interno dello storico rione romano che ha ancora oggi caratteri popolari e di mescolanza tra
persone di provenienze diverse, ma accomunate
dalla passione per il canto e la musica. Un microcosmo composto da italiani ed immigrati, donne e
uomini che nel concreto sperimentano il percorso
dell’integrazione mediante quello straordinario
strumento comunicativo che è la musica che non
conosce confini, lingue o alfabeti. Un’esperienza
che quest’anno dovrebbe condurre anche all’allestimento di uno spettacolo teatrale - musicale
presso il carcere di Regina Coeli.
Ma è forse l’attività portata avanti per l’organizzazione internazionale Parent Project quella a darle
le maggiori soddisfazioni. In Italia l’associazione
ha forma di onlus e si occupa di dare sostegno ai
genitori di bambini affetti dalla sindrome di Duchenne e Becker, informando e raccogliendo fondi
per la ricerca scientifica su questa rara malattia.
Questa forma di distrofia muscolare, infatti, colpisce 1 su 3.500 maschi nati vivi e si stima che in
Italia ci siano 5.000 persone affette, “anche se non
esistono dati ufficiali in quanto mancano ancora
un protocollo, centri di riferimento, diagnosi e
cura e un database dedicato”.
Tra le numerose attività promosse ci sono anche
iniziative di raccolta fondi tra le quali diversi spettacoli teatrali in giro per l’Italia. A Roma, il più importante è forse il Concerto di Natale, un evento
musicale promosso in collaborazione con gli Ufficiali Giudiziari della Corte d’Appello di Roma ed
ospitato presso il Teatro Palladium nel mese di
dicembre. La Arista, assieme agli altri volontari,
si occupa della realizzazione del musical, forte della sua pluridecennale esperienza nel settore. Un
impegno che nel 2013 le è valso anche il “Premio
Claudio Bimbo” indetto dall’omonimo fondo esistente all’interno dell’Associazione Parent Project
con “la finalità di contribuire fattivamente alle attività di ricerca”.
Un riconoscimento importante non solo per la tematica affrontata e l’attività premiata, ma anche
per il simbolo più ampio che esso rappresenta: la
possibilità concreta di incidere in modo positivo
nella vita della propria collettività. Nell’alveo della
società civile, infatti, sono presenti innumerevoli
opportunità di attivismo, declinato in vari modi
e con tonalità diverse. La possibilità, quindi, di
prendere tra le mani quello straordinario bagaglio
di esperienze, di vita, di composite professionalità e metterlo al servizio della comunità è un gesto
non solo praticabile ma anche auspicabile, soprattutto in un paese come l’Italia caratterizzato da
percentuali sempre più elevate di anziani.
E allora il Coro di Santa Maria in Trastevere, con
il suo microcosmo di composita integrazione, la
raccolta fondi per la ricerca contro la distrofia
muscolare, attività ricreative condotte in luoghi
di sofferenza come le carceri e ancora l’insegnamento, il rapporto con il prossimo, sono esempi
di una generazione che, lungi dall’aver concluso il
proprio cammino nella società e nella collettività,
rivendica a diritto ed a gran voce il proprio ruolo
attivo e benefico. Un ruolo ancora più significativo se collegato alle nuove generazioni, siano esse
bambini o giovani adulti, e che sfocia naturalmente nell’insegnamento inteso come trasmissione di
saperi. Una staffetta generazionale che arricchisce
la società rendendola al contempo più coesa al
proprio interno perché più incline a comprendere problematiche di fasce sociali differenti, anche
solo per l’età anagrafica.
Dinamismo, entusiasmo e voglia di non fermarsi sono gli ingredienti che permettono a persone
come Arista di continuare a lavorare nella società,
di realizzarsi pienamente mettendo a disposizione
della collettività la propria professionalità proveniente dagli anni di carriera, qualunque essa sia.
E allora ha proprio ragione lei: di pensione meglio
non parlare affatto!
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Papa Francesco un anno dopo
Le parole e la testimonianza
Misericordia, missione,
uscire. Da “odore delle
pecore” a “balconear”: il
gergo e i gesti sorprendenti
che rimettono in moto la
Chiesa. I poveri e i nonni
sempre presenti. Tra i suoi
strali la “dittatura del
denaro” e la “teologia del tè”.
di Aldo Maria Valli
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Nell’insegnamento di Papa Francesco c’è una parola
che svetta su tutte: misericordia. Il pontefice arrivato dall’altre parte del mondo ne ha fatto una stella
polare. Al primo posto c’è l’annuncio della speranza
cristiana, che ha un nome preciso, Gesù di Nazareth,
e si concretizza nell’abbraccio di un Padre buono,
sempre pronto ad accogliere e a perdonare. Tutti
siamo peccatori. Tutti, proprio per questo, abbiamo
bisogno di essere perdonati, e il Padre è sempre il primo a perdonare. Ecco perché Francesco non addita
tanto il peccatore quanto il corrotto, cioè colui che,
non avendo l’umiltà di riconoscersi peccatore, persevera nell’errore senza nemmeno sentire il bisogno di
ricorrere al Padre.
Questa Chiesa misericordiosa, oltre a essere una
Chiesa «povera e per i poveri», è necessariamente
una Chiesa missionaria. Francesco lo dice chiaramente, soprattutto nella Evangelii gaudium: occorre
“una conversione pastorale e missionaria, che non
può lasciare le cose come stanno”, e una riforma delle
strutture ecclesiali perché “diventino tutte più mis-
sionarie”.
Ecco così, accanto a misericordia e a missione, una
terza parola centrale, anzi un verbo: uscire. Le chiese
abbiano ovunque “le porte aperte” perché tutti coloro
che sono in ricerca non incontrino “la freddezza di
una porta chiusa”. Nemmeno le porte dei sacramenti
si dovrebbero mai chiudere. L’eucaristia stessa “non
è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e
un alimento per i deboli”. Il che determina “anche
conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia”. Molto meglio una
Chiesa ferita e sporca, uscita per le strade, piuttosto
che una Chiesa prigioniera di se stessa.
Francesco lo chiede a ogni credente, a partire dai
pastori, che non devono accontentarsi di “pettinare”
la pecorella che sta nell’ovile, ma hanno il dovere di
mettersi alla ricerca delle novantanove che oggi stanno fuori e non sentono più il richiamo del Padre.
Papa Bergoglio si mette in gioco in prima persona.
Pensa, infatti, anche a “una conversione del papato”
perché sia “più fedele al significato che Gesù Cristo
intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”.
Tutti i consacrati devono portare addosso l’“odore
delle pecore”, e questa Chiesa missionaria è vista da
Francesco come un ospedale da campo dopo una battaglia, dove i medici non sono chiamati a occuparsi
di questioni di poco conto, come il colesterolo un po’
alto, ma di ferite gravi e mortali, da curare proprio
con la medicina della misericordia.
Nella Evangelii gaudium Francesco entra anche nei
dettagli, come quando chiede che le omelie non siano
noiose e segnate da una visione negativa del mondo,
ma comunichino la gioia del Vangelo e la bellezza del
messaggio di salvezza.
È la “rivoluzione della tenerezza”. Che non va presa
per buonismo o sentimentalismo. È adesione al Vangelo, è fedeltà all’esempio di Gesù.
Quando si rivolge ai giovani, Papa Francesco chiede
loro di andare controcorrente e di non stare al balcone. Usa, in proposito, una parola del dialetto di Buenos Aires: balconear. È l’atteggiamento di chi osserva
con distacco, senza coinvolgersi, per paura o pigrizia.
No, il cristiano non stia mai al balcone, ma scenda in
campo, per dare testimonianza e combattere le tante
ingiustizie che ancora segnano il nostro mondo. Un
giovane che non si impegna e che se ne sta in disparte, un giovane triste e rassegnato, “io lo mando dallo
psichiatra”. Ha detto proprio così Francesco!
A proposito di ingiustizie, il Papa non ha remore
quando denuncia la dittatura del dio denaro, al quale
tutto si sottomette, a partire dalla dignità umana. È
questa dittatura a stravolgere le regole, a causare l’uso strumentale della persona.
Tornando alla vita della Chiesa, il Papa non nasconde
il dissenso verso quanti “si sentono superiori agli altri” perché “irremovibilmente fedeli ad un certo stile
cattolico proprio del passato” e “invece di evangelizzare classificano gli altri”. Netto è il giudizio verso i
sepolcri imbiancati e quei cristiani “troppo tranquilli
che parlano di cose teologiche mentre prendono il
tè”. Idem per quanto riguarda tutti quelli che hanno
una “cura ostentata della liturgia, della dottrina e del
prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo” nei bisogni della gente.
“Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi
spirituali o pastorali!”.
Le comunità ecclesiali si guardino da invidie e gelosie. Soprattutto mettano al bando le “chiacchiere”,
che fanno tanto male e possono arrivare a uccidere
l’altro. “Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?”.
La Chiesa sia consapevole della fede profonda espressa dal popolo e non sottovaluti l’azione del demonio.
Le Scritture, in proposito, vanno prese sul serio. Non
dimentichiamo che “la presenza del demonio è nella
prima pagina della Bibbia e la Bibbia finisce anche
con la presenza del demonio, con la vittoria di Dio
sul demonio”.
Misericordia, missione, uscire, tenerezza. Ecco l’alfabeto di Francesco. Ma, prima di chiudere, ricordando
l’affetto di Bergoglio per la nonna Rosa, una citazione è d’obbligo. È per la parola “nonni”. Durante una
messa del mattino a Santa Marta il Papa ha detto:
“Noi viviamo in un tempo nel quale gli anziani non
contano. È brutto dirlo, ma si scartano, perché danno
fastidio”. Invece “gli anziani sono quelli che ci portano la storia, che ci portano la dottrina, che ci portano
la fede e ce la danno in eredità. Sono quelli che, come
il buon vino invecchiato, hanno questa forza dentro
per darci un’eredità nobile”.
Molti si chiedono quale sia il segreto di Francesco e
della simpatia che suscita in tanti. Le parole da lui
pronunciate sono importanti, ma ancora di più lo
sono i gesti. La sua sollecitudine verso i piccoli e i
sofferenti, la disponibilità all’ascolto, la semplicità
unita all’umiltà: ecco ciò che conquista. Significativo
il messaggio rivolto ai giovani dell’Umbria, durante
la visita ad Assisi: “Sapete che cosa ha detto Francesco una volta ai suoi fratelli? Predicate sempre il
Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole!
Ma, come? Si può predicare il Vangelo senza le parole? Sì! Con la testimonianza! Prima la testimonianza,
dopo le parole!”.
eventi più significati nel
1° anno del pontificato
La sua prima apparizione, alla loggia
delle benedizioni della basilica vaticana, il 13 marzo 2013
L’incontro con i giornalisti nell’aula
Paolo VI in Vaticano, 16 marzo 2013
L’abbraccio con Benedetto XVI a Castel
Gandolfo, 23 marzo 2013
La veglia di Pentecoste in piazza San
Pietro con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni
laicali, 18 maggio 2013
La visita a Lampedusa, 8 luglio 2013
La Gmg di Rio de Janeiro, 22 – 29
luglio 2013
La veglia di preghiera per la pace in
piazza San Pietro, 7 settembre 2013
La visita a Cagliari, il 22 settembre
2013
La visita ad Assisi, il 4 ottobre 2013
La “pubblicità” alla Misericordina,
Angelus del 17 novembre 2013
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I 60 anni di
mamma RAI
di Stefano Della Casa
Il primo cinescopio della Rai
Era il 3 gennaio
del 1954 quando
l’allora Radio
Audizioni Italiane
S.p.A. inaugurava le
trasmissioni del canale
televisivo nazionale.
Nasceva così la prima
televisione in Italia.
Da sinistra: Raffaele Pisu, Sandra Mondaini e Corrado Mantoni
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Di strada, in sessant’anni, la RAI ne ha fatta parecchia, accompagnando, contribuendo e raccontando
la storia dell’Italia politica, culturale e sportiva. Più
di mezzo secolo scandito da ricordi indelebili formati
da volti, programmi televisivi, eventi che hanno accompagnato la vita di tutti gli italiani, ad esclusione
delle fasce di età più giovani che, a differenza nostra,
sono cresciute con l’avvento delle tv private e a pagamento, e pensano che la televisione abbia sempre
offerto mille canali e 24 ore di trasmissione al giorno
365 giorni l’anno, beata gioventù.
Ma nell’Italia post-bellica, che usciva distrutta dalla
II guerra mondiale e che si affacciava all’era indu-
Fabio Fazio e Luciana Litizzetto al festival di Sanremo 2013
striale, l’avvento della televisione ha veramente cambiato la percezione delle cose, contribuendo a quel
progresso, se di progresso vogliamo parlare, che ha
traghettato la nostra nazione fino al ventunesimo secolo.
La RAI ha scritto pagine importanti della nostra
storia; non dimenticheremo mai gli assembramenti
davanti ai cinema, nei bar o nelle case dei pochi che
potevano permettersi un televisore. Allora si radunavano tutte le famiglie del condominio quando, il
giovedì sera, veniva trasmesso il primo quiz televisivo, “Lascia o raddoppia”, condotto da uno dei volti più noti ed amati della televisione italiana, Mike
Bongiorno. Poi si può citare la trasmissione “Non è
mai troppo tardi”, dove il maestro Alberto Manzi insegnava a classi di adulti analfabeti (il livello di analfabetismo nell’Italia del dopoguerra era altissimo) a
Mike Bongiorno a “Lascia o raddoppia?”
leggere e scrivere. E il 20 luglio 1969? Indimenticabile quando il popolare cronista Tito Stagno commentò
lo sbarco sulla luna in una diretta notturna che tenne
incollati al televisore milioni di italiani. Ecco poi la
Domenica Sportiva, la trasmissione che ogni domenica ci accompagna fin dalla nascita della RAI. Si potrebbe continuare per pagine intere, con personaggi
e programmi, storie e aneddoti, momenti luminosi e
bui. Ma nella storia dell’Italia degli ultimi 30 anni,
fatta di scandali, corruzione e rabbia popolare, la Radiotelevisione Italiana ha perso molte delle qualità
che l’hanno resa così importante, per ridursi ad essere considerata ormai un carrozzone mangiasoldi, utilizzata principalmente per scopi politici e portatrice
della tassa “più odiata dagli italiani”: il canone RAI.
Le cause che ne hanno decretato un declino lento
ma continuo possono essere attribuite a vari fattori,
Alberto Manzi a “Non è mai troppo tardi”
primo fra tutti quello di una scelta della classe dirigente più per meriti “politici” che professionali, con
la conseguenza di nomine pilotate, inopportune e
poco capaci nella gestione manageriale, con una conseguente, continua perdita economica a fronte di un
abbassamento della qualità dei programmi, contrapposta all’epoca d’oro delle televisioni private.
Anche la presentazione dei format televisivi ha subito
una riduzione qualitativa, così appuntamenti storici
come il Festival di Sanremo o Miss Italia, peraltro già
esclusa dalla programmazione, risultano oggi essere
vetusti, per non dire anacronistici e troppo costosi.
Anche lo sport, che era prerogativa della RAI fino
ai primi Anni Novanta, oggi è quasi monopolizzato
dalle tv private e a pagamento. Si salva solo il calcio
italiano, mentre quello europeo è, per chi non possiede un decoder Sky o Mediaset Premium, un lontano
ricordo.
Ultimi tasselli, l’informazione e la cultura. Il TG1 che
ha visto calare il proprio share fino ad essere tallonato e, varie volte, sorpassato dal TG5. Gli appuntamenti culturali si sono ridotti sistematicamente.
Quale potrà essere il futuro della RAI? Se la classe
dirigente saprà anteporre la qualità del servizio alle
schermaglie politiche che ne hanno caratterizzato
l’operato degli ultimi anni, la tv di Stato potrà mantenere una posizione di primo piano, senza rischiare
di disperdere quel patrimonio professionale ed artistico dato dalle persone di ieri e di oggi che vi hanno
lavorato con passione e competenza. Un augurio che
accomuna tutta l’Italia.
Il giornalista Tito Stagno durante la cronaca del primo allunaggio
35
Federal Reserve: la crisi dei cent’anni
di Paolo Raimondi
Alla vigilia del
passato Natale, la
Federal Reserve
ha compiuto cento
anni! Ha “navigato”
attraverso due guerre
mondiali e nella
Grande Depressione
del ’29, arrivando però
al suo centenario in
condizioni difficili e con
una profonda crisi di
identità.
Janet Yellen
Thomas Woodrow Wilson
La sede della Federal Reserve a Washington
36
Per la prima volta nella storia ha completamente
stravolto la sua missione: da controllore dell’inflazione e attore nella politica contro la disoccupazione, è diventata la fucina di liquidità illimitata con
un bilancio distorto fuori misura, pari a circa un
quarto del Pil americano.
Tale propensione era stata iniziata negli Anni Novanta dal governatore Alan Greenspan e proseguita nel 2006 da Ben Bernanke, che divenne subito
famoso come “elicottero Ben” per il suo programma di “buttare dollari dall’elicottero” se fosse stato
necessario per sostenere artificialmente la finanza
e l’economia degli Stati Uniti.
Prima del 2007 La Fed non solo ha ignorato tutte
le avvisaglie del crollo finanziario incombente ma,
Ben Bernanke
quel che è più grave, ha assecondato i comportamenti più speculativi e rischiosi della grande finanza. Poi ha salvato dal fallimento molte banche
cosiddette “too big to fail”, lasciando di fatto che
continuassero ad operare come prima.
Da settembre 2012 essa ha iniziato la politica del
“quantitative easing” (QE), cioè di immissione di
nuova liquidità pari a 85 miliardi di dollari ogni
mese. In questo modo si sta drogando l’economia
americana prospettando una tanto rosea quanto
irreale fine della crisi economica e bancaria. Anche la Banca del Giappone e la Bank of England
stanno percorrendo la stessa strada della “politica
monetaria accomodante”.
Forse per dimostrare che la Fed tiene in mano ancora il timone della finanza, Bernanke, prima di
passare la mano al suo successore, la signora Janet Yellen, ha annunciato che, a partire da gennaio 2014, la banca centrale diminuirà il QE mensile
di 10 miliardi: acquisterà 35 miliardi di dollari di
bond del Tesoro invece di 40 e 40 miliardi di titoli derivati speculativi asset backed security invece
dei soliti 45.
Bernanke ha voluto anche assicurare le banche
che il tasso di interesse zero rimarrà almeno fino al
2015 se non fino al 2016 e che la Fed continuerà a
comprare titoli in quantità rilevanti. Ha garantito
in particolare che nel suo bilancio saranno mantenute le centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici già acquistati e quelli che saranno comprati in
futuro.
Di questo passo il bilancio della Fed a fine 2014
sarà di circa 5.000 miliardi di dollari con un rapporto leva di 100 a 1 rispetto al suo capitale di
base. Molti cominciano a temere che la Fed stia
diventando sempre più una “bad bank”.
Ma la vera sfida per la Fed è di carattere geoeconomico e geopolitico. Vuole continuare a mantenere
il dollaro come valuta centrale delle riserve monetarie mondiali o intende trasformare la moneta
americana in qualcosa che si può stampare come e
quanto si vuole, col metodo che gli americani chiamano “fiat money”?
Una cosa è certa: le due politiche non si possono
mantenere insieme e a lungo. Anche se il dollaro
è protetto dalla forza politica, più che economica,
del governo di Washington, la sua credibilità e di
conseguenza il suo valore intrinseco vanno via via
scemando in rapporto inverso alla sua crescente
quantità in circolazione.
Prima o poi si arriverà ad una situazione di rottura. Già vi sono segnali in Cina. Nonostante Pechino sembri limitarsi a mere dichiarazioni di fastidio
per le politiche della Fed, i pagamenti in yuan per
le sue importazioni sono già il doppio di quelle regolate in euro. In un anno l’intero commercio cinese con il resto del mondo fatto in yuan è passato
dal 12 al 20%.
A breve l’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait e il
Bahrein creeranno una moneta comune, anche se
per il momento rimarrà ancorata al dollaro. Anche un certo numero di Paesi africani sembrano
vogliano fare lo stesso.
Possono ritenersi iniziative marginali sulla scacchiera del sistema monetario internazionale, ma
sono chiari segnali di insofferenza verso un dollaro di cui non si conosce più il vero valore. Sono
mosse che potrebbero andare verso un sistema alternativo, verso un nuovo paniere di monete.
37
Non passa giorno che
i mass media non ci
bersaglino con rapporti
sull’andamento del
cosiddetto spread. Oggi
è tornato sotto i 200
punti e i responsabili del
nostro bilancio pubblico
si sentono più tranquilli.
Quando aveva superato
i 500 punti si parlava di
catastrofe e di rischio
fallimento.
38
Il significato dello spread
di Paolo Raimondi
Il termine spread sta a significare il differenziale, cioè la forbice di differenza tra il rendimento
(il tasso di interesse) del Btp (Buono del Tesoro
Poliennale) a 10 anni e del suo omologo tedesco,
il Bund. Dopo il 2008, il tasso di interesse pagato
per un’obbligazione sul debito pubblico della Germania è diventato il punto di riferimento con cui
paragonare i tassi dei titoli di altri Paesi europei.
Essendo l’economia tedesca la più stabile, di conseguenza lo spread indica il sovrapprezzo che altri
pagano per il loro “rischio Paese”.
Nel calcolo dello spread bisogna in ogni caso tenere presente che il tasso di interesse del Bund è
sceso dal 4,2% del giugno 2008 all’attuale 1,8%.
Se il bond decennale italiano paga un rendimento
del 4% e quello tedesco del 2%, lo spread è pari
a 200 punti base. In altre parole, 100 punti base
equivalgono all’1% del tasso di interesse. Ma cosa
vuol dire in concreto?
Oggi il debito pubblico italiano è di oltre 2.100 miliardi di euro (circa 35.000 euro pro capite), pari
al 133% del Pil. Di questo ammontare, circa 1.800
miliardi sono titoli di Stato, cioè obbligazioni. La
loro composizione varia sia nelle forme (Bot, Btp,
Cct, con piccole differenti caratteristiche di emissione e di uso), sia nella durata (di breve periodo,
per esempio tre mesi, e di medio/lungo periodo,
fino a 10 anni e oltre). A fine 2013 la vita media di
tutti i titoli di Stato era di 6,43 anni.
Sui suddetti titoli di debito pubblico, di cui il 44%
è collocato all’estero, lo Stato italiano paga da
sempre un prezzo elevatissimo sotto forma di interessi passivi: 78 miliardi nel 2011, 89 nel 2012,
95 nel 2013. I 100 miliardi di euro in interessi passivi si toccheranno nel 2015, se non prima. All’asta pubblica del 13 gennaio 2014 i Btp decennali
sono stati comprati al tasso di interesse del 3,90%.
Lo stesso giorno il Bund tedesco valeva 1,82%. Lo
spread quel giorno era di 208 punti.
Lo spread, dunque, non è un valore statico ma
dinamico. Esso cambia di minuto in minuto a seconda delle variazioni di prezzo che i due titoli di
riferimento hanno nel corso della seduta di Borsa.
Nel 2007, prima della crisi finanziaria globale, era
di 24 punti. In altri termini, i tassi di interesse per
i titoli di Stato italiani e tedeschi erano pressoché
uguali. Allora i titoli italiani costavano meno di
quelli inglesi e di quelli americani. Dopo la crisi
del 2008 molto è cambiato. In primo luogo la speculazione nei confronti dell’euro e del debito pubblico europeo è esplosa. Nel contesto della grave
mancanza di unità d’azione da parte dell’Ue, i Paesi, come l’Italia, con un debito pubblico più alto,
con una debolezza economico-industriale maggiore e con minore stabilità e credibilità politica
hanno dovuto pagare alti tassi di interesse per collocare nuovo debito pubblico e rifinanziare quello
in scadenza. Ciò veniva appunto evidenziato dalla
crescita dello spread. In Italia lo spread era di 160
punti nel 2010, per salire, a cominciare dal luglio
2011, fino ai 552 punti (per qualche ora fino a 574)
del 9 novembre 2011. Il tasso di interesse passivo
Il ministro Grilli alla presentazione del Btp Italia
era del 7,24%. Il governo tecnico di Mario Monti venne chiamato a fronteggiare l’emergenza e a
riconquistare una certa credibilità politica internazionale. Il vero cambiamento avvenne quando
il governatore della Bce, Mario Draghi, tagliò le
unghie agli speculatori annunciando che la Banca Centrale Europea era pronta a comprare tutti
i titoli di Stato necessari a garantire una stabilità finanziaria dell’Europa. Di conseguenza il 23
aprile 2013 lo spread scese a 268 punti. Il tasso di
interesse passivo sui titoli a 10 anni si stabilizzò
intorno al 3,94%.
Per calcolare approssimativamente l’effetto
dell’andamento dello spread, ipotizziamo di avere un debito pubblico di 2.000 miliardi di euro da
finanziare in titoli di Stato con scadenza decennale e che il cambiamento del tasso di interesse ab-
bia effetto sull’intero montante (nella realtà non
è così in quanto i titoli hanno differente durata e
differenti scadenze. Ma nel caso Italia non ci si discosta molto dal vero). Un aumento di 100 punti
dello spread equivale ad un 1% in più del tasso di
interesse e, di conseguenza, a 2 miliardi di euro in
più da pagare all’anno. 550 punti equivalgono ad
una maggiorazione annua di 11 miliardi di interessi passivi. Oggi, con 200 punti di spread e un tasso
passivo del 4,00% circa pagheremmo 80 miliardi
di euro in interessi all’anno, cioè 40 miliardi in più
se i 2.000 miliardi di titoli fossero in Bund tedeschi.
Tale enorme sperequazione, a confronto per
esempio con le spese di bilancio della Germania,
penalizza l’economia e la società italiana in forme
inaccettabili. Si rischia anche di perdere il contatto
con la più veloce locomotiva tedesca. Ecco perché,
per abbassare il tasso debito pubblico/Pil, occorre
sostenere soprattutto la crescita del denominatore
della frazione con investimenti nelle infrastrutture, nelle tecnologie, nella modernizzazione e
nel sociale. Abbattendo nel contempo certe spese
inutili e non produttive che vanno ad aumentare il
numeratore, cioè il debito pubblico.
Una simulazione sullo spread
Simulazione che considera lo spread valido tutto
l’anno e applicabile sull’intero debito pubblico senza alcuna distinzione di durata, scadenza, tipo, etc.
Lo spread indica i miliardi da aggiungere se tutto il
debito pubblico italiano avesse un tasso di interesse passivo come i Bund tedeschi.
2007
Pil: 1535 miliardi
Debito pubblico: 1600 miliardi
Spread: 24 punti
Interessi dovuti allo spread: 3,84 miliardi di euro
2010
Pil: 1552 miliardi
Debito pubblico: 1815 miliardi
Spread: 160 punti
Interessi dovuti allo spread: 29 miliardi
2011
Pil: 1589 miliardi
Debito pubblico: 1907 miliardi
Spread: 500 punti
Interessi dovuti allo spread: 95,3 miliardi
2012
Pil: 1567 miliardi
Debito pubblico: 1990 miliardi
Spread: 250 punti
Interessi dovuti allo spread: 49,7 miliardi
Pil
Debito pubblico
Spread
Interessi dovuti allo spread
2013
Pil: 1570 miliardi
Debito pubblico: 2100 miliardi
Spread: 200 punti
Interessi dovuti allo spread: 42 miliardi
39
CHISSÀ CHE QUESTE PAROLE
(più un rimpianto che un racconto dal vero)
NON SIANO DA MEDITARE
di Giorgio Torelli
40
Ogni giorno di cronache sovrapposte e inclementi,
mi pongo questa domanda e la replico: che cosa
mai di misterioso, d’indicibile e di non facilmente catalogabile starà succedendo agl’Italiani per
aver perduto - lo vediamo tutti i giorni - e per aver
soprattutto dissipata, svilita, dispersa, talora neanche relegata in un angolo della memoria quella spinta vigorosa e salutare che li distinse (che ci
distinse) quand’eravamo espropriati d’ogni alzata
d’ingegno da cinque eterni anni di guerra? Fu allora che (1945 e seguenti) gl’Italiani superstiti, ergendosi come un fiore ardente sulle macerie, sulle
pene trascorse, sulle sofferenze e le angosce, sugli
ancora prolungati sospiri per la tragica traversata
degli anni di privazioni, di paure, di crocifissioni
pubbliche e private, di spari, di lacerazioni del vivere, di speranze squarciate, di bombe, di sangue,
di affetti perduti, di umiliazioni e fame di tutto, di
pane, di giustizia, di concordia, fu allora - riprendo - che gl’Italiani vollero, fortissimamente vollero, dar fuoco alla miccia della riscossa. Che cosa
dunque ci è accaduto - ripropongo - per non essere
più quelli assolutamente memorabili dei mesi e
degli anni di ricostruzione a furor di formiche d’ogni struttura morale, civile, pubblica e privata? Io
non so comprendere con certezza perché un languore generale abbia potuto stemperare la grinta
che storicamente ci distinse e ci segnalò al mondo
quando questo nostro popolo affranto prendesse
a cimentarsi di getto lungo le asperità del tornar
vivi, dei propositi concitati, addirittura con la
cupidigia morale di rifarsi: vita, sostanze, case,
lavoro, sortendo insieme dagli stracci e dall’umi-
liazione dei tetti devastati, mentre tantissimi cuori
erano ancora prigionieri nel reticolo spinato delle
attese, delle ansie per chi tardava a tornare da una
prigionia, da un calvario con o senza le stellette,
dalla somma di giorni rovinosi e magari dal buio
assoluto di qualche brutale chissaddove.
So molte cose perché c’ero. E avevo diciassette
anni, quando le jeep americane entrarono d’impeto nella mia piccola città di pianura. E i crucchi
tentavano, con ogni tremebonda sortita, di guadare in armi il fluire ostile del Po per ridirigersi verso
la Germania in tocchi. Tutto era ancora sparatoria,
morti ammazzati, feriti sbrindellati, razzie, vendette, sangue fresco e bordate virulente dell’ultimo
peggio. Ma - al contempo - prendeva forma e slancio l’ideale risorgimento dei più, il respiro lungo e
liberato, l’ansia di fare, di ripristinarsi, di mutar
volto e destino, cominciando a reinventare tutto.
Ecco la frase giusta: reinventare tutto. Pareva, nel
frenetico e intenso ansimare dei giorni e dei mesi,
che una folgore buona ci avesse rianimato. Ciascuno, come ape operosa, come fabbro armonioso,
come costruttore di pace, sagomava a suo modo
uno spicchio di futuro, rinnovando in se stesso le
forze e l’immaginazione per mutar sorte e assumere un ruolo nella spinta ormai generale verso quel
meglio di cui principiare le fondamenta.
Ripercorro con commossa memoria quell’Aprile
1945 e via di seguito, stagione dopo stagione. Ogni
e diverso scantinato di città e di paese diventava
un piccolo opificio per produrre, escogitare, rimettersi in gioco, rendersi partecipi attivi nel mosaico
dell’inventiva, prima in germoglio, poi in boccio
e, in fine, in esaltante fioritura. E ricordo come
ciascuno, non solo nella segreta fucina del cuore,
accelerasse i tempi del fare e far bene, del progettare e mandare a segno perché quell’Italia delle
brutture, degli stupri manu militari e dell’antologia degli orrori perpetrati, richiamasse ogni forza,
ogni rovello di riscatto per drizzarsi in piedi senza
vacillare né mai perdersi d’animo. E così tornando invitta per virtù di lavoro e delle menti che lo
suscitavano, di braccia mai stanche e di audacie
nello spericolarsi - senza tema - sulle strade nuove
e nuovissime della creatività industriale, artigiana
e contadina.
Ditelo voi, se lo sapete: perché, oggi, non siamo
più parenti intimi di quegl’impeti civili? Perché
balbettiamo sul da farsi, senza che un qualche ardore (un fuoco al culo, direbbero dalle mie parti)
ci rianimi giorno e notte? Dal fiammeggiare di
quei miei diciassette anni (sempre 1945 e via vivendo), guardavo gl’Italiani a me circostanti, convocati da loro stessi all’edificazione del domani,
ciascuno protagonista del suo proprio cogitare e
dell’impegnarsi nella nuova reputazione senza più
requie, tutti (fatemelo dire) tarantolati dalla voglia
di avvalorarsi. Non soltanto per se stessi, ma per
un nuovo, ben più alto e spontaneo intendimento della parola patria, del nome Italia e dell’essere i nuovi Italiani, redivivi e perciò insonni nella
tornitura delle idee, nuove e vincenti. Dilagava
l’ambizione di manifestarsi attori nelle avventure
produttive, dentro un’Italia ancora tumefatta e
tuttavia interprete di vigorosa identità dopo essersi sfigurata sotto tutti i talloni: gli stivali del regi-
me, gli stivalazzi uncinati degl’invasori con l’elmo
d’acciaio, gli anfibi dei liberatori e tanti, ma tanti
cingoli di Panzer coi cannoni bislunghi. Avevamo
dovuto imparare - da soli - a respirare profondamente con forze che non sospettavamo più di possedere e che, invece, sarebbero rifiorite. Io vivevo
in una piccola strada di una piccola città emiliana.
E, nel disegnarsi del 1946, vedevo mio padre, artigiano odontotecnico, offrire tutti i suoi risparmi,
firmando anche le inevitabili cambiali, a un mio
cugino. Era un giovane, reduce da otto anni di vita
militare, anche come autiere di camion d’esplosivi
e rifornimenti nell’avanti e indietro di avanzate e
ritirate lungo la mitragliatissima via Balbia, l’asse portante delle battaglie in Africa Settentrionale
fino a El Alamein e poi indietro. Quel mio tosto cugino - stavo dicendo -, esperto di motori com’era
di fatto, osò aprire un negozio di ricambi per auto,
maturando la sicura intuizione che le macchine
sarebbero diventate bene comune e circolante su
autostrade tutte ancora da sognare. Lo si poteva
definire spiantato e reduce dalle umiliazioni delle
stellette (una volta, vedendolo nella calura di Libia
a torso nudo, braghe alla coscia, bustina grigioverde in bilico nel dar di manovella a un Lancia 3 RO
impaniato nella sabbia, un azzimato colonnello
gridò ai suoi ufficiali in sahariana: “E chi è quell’animale?”). Proprio lui, il mio cugino e amico divenne ricco, agiato, energico possidente di case e beni,
non avendo sbagliato mira e perseguendo da par
suo lo sviluppo delle automobili e dei relativi ricambi. Era l’ultimo figlio di una guardia comunale
ciclista, avendo fatto - addio alla scuola - il ragazzo di bottega dentro un magazzino di carburatori
e balestre. E, adesso, il suo aver saputo emergere
dal quasi niente coinvolgeva decine di collaboratori, aiutanti, commessi e operai di restauro delle utilitarie che nel lievitare degli anni Cinquanta gl’Italiani andavano prima vagheggiando e poi
possedendo a ruote multiple. Mio padre era stato
rimborsato e tenuto nella massima considerazione: aveva creduto in un giovane intraprendente
e partecipato, con lui, alla spinta corale dei nuovi
giorni. E ancora, citando a caso: un nostro vicino
faceva il ferroviere, proprio quello che vidima il biglietto sui vagoni. Basta coi treni, s’era prescritto,
perché un’idea lo assillava e doveva assolutamente
perseguirla: mettere in linea degli aggiornatissimi
camion-.frigoriferi per trasportare derrate lungo
la Penisola. Ma come? Con quali soldi? Con quale
grinta duratura? Con quale fede inattaccabile dalle
tarme? Trovò tutto quel che poteva servirgli. S’indebitò. Non conobbe più sosta né riposo. E divenne - lo garantisco - il più avanzato trasportatore
del ramo, fino a lanciare un’ammirabile flotta di
autocarri del gelo, con il suo nome di ferroviere
scritto in maiuscole blu. Quanti esempi di coraggio civile potrei aggiungere. Ma è qui che chiudo il
mio dire perché chi mi legge metta in campo - se
vorrà - le sue considerazioni. Incombe il tempo di
fare e rifare il punto-nave sui perché di noi stessi,
così come siamo e ci vediamo a occhio nudo. Voglio dire noi stessi, quelli di adesso, sotto l’inconcludersi di cieli dalle grigie inclemenze.
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ASCOLTARE IL CUORE
di Alberto Costantini
Il nostro cuore ci invia spesso
i suoi messaggi e noi ci
abituiamo a riconoscerli, a
giudicarli, e quindi a conviverci:
può trattarsi di una semplice
palpitazione, in seguito ad
una emozione o ad uno sforzo
fisico, o magari in seguito ad
una cena un po’ abbondante
che ci ritarda il sonno.
42
Ma a volte può trattarsi di un disturbo ben più importante.
Sappiamo infatti che le malattie cardiovascolari
sono ancora al primo posto come causa di mortalità. Chi ha, tra i suoi familiari, persone con diabete, ipertensione, obesità, malattie coronariche quali
angina pectoris, infarto, etc., deve prestare molta
attenzione ai segnali che gli potrebbero giungere dal
suo cuore.
Il cuore svolge, in modo silenzioso e discreto, un
immenso lavoro: si contrae ben centomila volte al
giorno, pompa ben cinque litri di sangue al minuto
durante il riposo, e addirittura può arrivare a venti litri
ed oltre durante lo sforzo.
Il disturbo cardiaco più frequente, con l’avanzare dell’età, è la fibrillazione atriale, che si associa
spesso ad ipertensione arteriosa, ed è un’aritmia
con battiti molto frequenti ed irregolari. Compare
improvvisamente, sia a riposo sia in movimento, e
può avere una durata anche breve, che a volte non
si fa in tempo a documentare subito; allora si ricorre all’Holter, piccolo apparecchio a batteria, il quale
registra continuamente, per ventiquattro – quarantotto ore, i battiti cardiaci, e dà una diagnosi sicura.
Accertata la diagnosi, si prescrive la terapia.
Una prima terapia, però, non sempre può dare i risultati sperati e allora viene in nostro aiuto un altro
piccolo apparecchio: un computer palmare, che sia
appoggia sul torace, registra la regolarità o meno
dei battiti, e la invia, per via telematica, ad un centro
cardiologico collegato; da questo centro, in tempo
reale, l’assistito riceve eventuali nuove istruzioni o
eventuali nuove indicazioni terapeutiche.
Ancora, dal nostro cuore può arrivarci un altro messaggio importante, che spesso, inizialmente, non
sappiamo valutare: è un breve sbandamento-vertigine che si presenta improvvisamente, sia a riposo
sia in movimento, che tende a ripetersi sempre con
maggior frequenza ed intensità, fino a costringerci
ad appoggiarci per non cadere, spesso accompagnato da sudorazione fredda.
Questo disturbo è causato da un improvviso ed
importante rallentamento del battito cardiaco, rallentamento dovuto ad un blocco dello stimolo nervoso che impedisce al cuore di contrarsi e quindi di
portare il sangue al cervello. In genere la diagnosi si
presenta abbastanza facile ed il disturbo si “guarisce” applicando un pace-maker.
I pace-maker sono apparecchi dotati di particolari
sensori, che entrano immediatamente in funzione
quando avvertono che il cuore tende a fermarsi; poi,
automaticamente, si spengono appena “sentono”
che il cuore ha ripreso a battere per proprio conto;
vengono posizionati sotto cute, per via transvenosa,
con dei sottili fili che si appoggiano dentro al cuore;
sono in grado di correggere sia la tachicardia sia la
bradicardia; funzionano con una batteria, facilmente sostituibile, che dura molti anni. Recentemente si
stanno diffondendo modelli anche senza fili (riservati
però a pazienti selezionati) così piccoli che si possono addirittura appoggiare dentro il cuore. Il segnale
cardiaco più diffuso è senz’altro il dolore al torace, i
cui sintomi, non sempre facilmente interpretabili, ci
fanno venire tanti dubbi: è un dolore del torace o un
dolore delle coronarie?
Di questo ne parleremo nel prossimo numero.
La frutta secca?
Fa tanto bene
al cuore
Ci sono alimenti che per molto tempo hanno subito ingiuste e troppo affrettate condanne. In questa
categoria rientra senz’altro la frutta secca, ovvero noci, nocciole, pistacchi, etc., che negli ultimi
tempi è stata completamente rivalutata da scienziati e nutrizionisti. Diversi studi condotti ultimamente sulla frutta in guscio hanno infatti dimostrato che essa può apportare sostanziali benefici
nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e
del diabete. Naturalmente, anche in questo caso
vale la vecchia regola: la frutta secca fa bene, ma
come in tutte le cose non bisogna esagerare. Ebbene, il quantitativo ideale è stato da più esperti
individuato in 20 – 30 grammi al giorno.
Noci, mandorle, nocciole e affini avrebbero queste
proprietà benefiche perché contengono un elevato
contenuto di grassi insaturi, che si metabolizzano
molto velocemente e apportano numerosi benefici all’organismo. Inoltre, questi alimenti sono ricchi di proteine, fibre, vitamine, acidi grassi essenziali omega 3. Tra i più recenti studi a riguardo, si
possono citare quello condotto dalla Loma Linda
University in California e pubblicato sulla rivista
scientifica Plos One e quello pubblicato sul New
England Journal of Medicine, secondo il quale inserire nella nostra dieta giornaliera una moderata
quantità di frutta secca allunga la vita, riducendo
mediamente del 20% il rischio di morte per qualunque causa.
43
Anti-Aging, tutti i segreti per
invecchiare in salute
“Non est vivere, sed valere
vita est”
“La vita non è vivere, ma
vivere in buona salute”
Marziale
44
Se da un lato è vero che non esiste la fonte dell’eterna giovinezza, dall’altro è altrettanto vero che
la medicina negli ultimi tempi ha compiuto passi da gigante, arrivando ad introdurre il concetto
di “Anti Aging”, ovvero “Anti Invecchiamento”.
Fondamentali, in questo senso, sono stati peraltro
i viaggi spaziali. Gli studiosi hanno infatti notato che l’invecchiamento dell’uomo nello spazio è
molto più accelerato rispetto a quello che un or-
ganismo subisce sulla Terra. Ciò avviene perché
senza la gravità che stimoli muscoli ed ossa, senza aria fresca che aiuti la detossificazione, senza
luce solare che generi vitamina D, senza equilibrio
vita privata-lavoro che contenga lo stress, senza
cibo fresco che nutra adeguatamente l’organismo
e senza atmosfera che protegga da radiazioni e
stress ossidativo, il corpo umano accelera notevolmente il proprio invecchiamento. In altri termini
un astronauta, durante una missione di 6 mesi,
perde la stessa quantità di osso che si perde a terra
nei 10 anni che intercorrono tra i 50 e 60 anni di
età. Grazie alle numerose ricerche condotte dagli
scienziati per cercare di limitare tale fenomeno, è
stato quindi possibile arrivare a sviluppare protocolli di intervento molto specifici, applicabili naturalmente anche sul pianeta Terra, con risultati
molto incoraggianti e, soprattutto, evidenti.
Si è così costituita anche l’Accademia Italiana di
Medicina Anti Aging, che mira a posticipare e a
rallentare il naturale processo di invecchiamento
dell’organismo, prevenendo inoltre l’insorgenza
delle patologie che più comunemente lo caratterizzano.
Una delle maggiori esponenti di questa disciplina
è la Dr.ssa Monalisa Ferrari, che riceve presso il
Poliambulatorio Agresti di Bologna ([email protected]).
“Per comprendere la filosofia dell’Anti Aging –
spiega la Dr.ssa Ferrari – possiamo partire da una
considerazione di base: invecchiare bene è meglio
che vivere a lungo. In altri termini, sappiamo tutti
che, specialmente in Occidente, l’età media della
vita si è notevolmente alzata. Tuttavia, spesso ciò
non corrisponde a una buona qualità di vita, nel
senso che per qualche anno in più, spesso sono necessari numerosi interventi e tanti farmaci. E’ un
buon vivere questo? Penso di no. In tale contesto
si colloca allora l’Anti Aging, una disciplina medica che mira a controllare lo stress, a combattere
i radicali liberi, a mantenere efficienti il cervello
e le difese immunitarie, a controllare il peso, a
preservare l’elasticità della pelle, a rinvigorire la
libido, a rigenerare le cellule. Il tutto, attaccando
l’invecchiamento delle cellule a livello molecola-
La dottoressa Monalisa Ferrari durante una visita
re. Del resto – prosegue la Dr.ssa Ferrari – sono
molteplici i fattori che influenzano il processo di
invecchiamento e delle patologie ad esso correlate,
come le malattie cardiovascolari, il cancro, il diabete, l’artrosi, l’osteoporosi, l’obesità e il morbo di
Alzheimer. Molto spesso, su queste patologie intervengono fattori genetici, sociali, culturali, ambientali, dipendenti dallo stile di vita. L’Anti Aging
va ad intervenire proprio su questi fattori, posticipando il processo di invecchiamento e prevenendo
quindi l’insorgenza delle patologie che lo caratterizzano. Dobbiamo del resto liberarci dal concetto
che l’invecchiamento sia un processo irreversibile,
uguale per tutti e da accettare passivamente. Non
a caso, l’esperienza personale di tutti noi ci mette
in contatto pressoché quotidianamente con individui che sembrano di alcuni anni più giovani o
più vecchi rispetto a quanto possa indicare l’età
anagrafica. Ebbene, recentemente la scienza ha
dimostrato quello che l’esperienza e la tradizione
ci avevano fatto intuire: l’età anagrafica ha solo
un valore burocratico, mentre l’età più veritiera è
rappresentata dall’età biologica. Quest’ultima, è la
conseguenza di come invecchiano primariamente
i tre sistemi cardine del nostro organismo: il sistema nervoso, il sistema endocrino e quello immunitario, che sono intimamente correlati tra loro.
Si può insomma fare molto per invecchiare bene,
cominciando già dai 40 anni a seguire corretti stili
di vita, in merito all’alimentazione e agli abusi in
genere. Di supporto all’Anti Aging sono peraltro
alcune discipline orientali, che molto meglio dello
stile di vita occidentale rispondono a quell’esigenza di equilibrio che richiede il nostro organismo.
Va inoltre precisato – prosegue la Dr.ssa Ferrari
– che l’Anti Aging non è contrario agli interventi
di chirurgia estetica, quando essi siano necessari,
ma chiaramente anche in tal caso si pone contro
agli abusi che se ne possono fare”.
Dunque, l’Anti Aging può davvero essere il segreto
per un elisir di lunga vita? Anche in questo caso
la Dr.ssa Ferrari è molto chiara: “Non parliamo
– dice – di elisir di lunga vita. Lasciamo queste
considerazioni ai film di fantascienza. Tuttavia,
attraverso l’Anti Aging abbiamo la certezza che
possiamo contrastare e rallentare i processi d’invecchiamento fisici e mentali. Prevediamo che
entro il 2030 l’età media delle donne supererà i
90 anni e quella degli uomini gli 80, senza accanimenti terapeutici o abuso di farmaci”.
Gustav Klimt: “Le tre età della donna”
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Bracciale e cellulare ti monitorano
tutto il giorno
Arriva il
trainer
elettronico
Cuore, polmoni, temperatura
del corpo e sonno sempre sotto
controllo. I dati archiviati sul
telefono possono essere inviati al
medico.
di Pier Domenico Garrone
46
2001: in Italia tutto nasce con la prima rete di telefonia mobile che consente di effettuare videochiamate
e inviare immagini, integrando la telefonia classica
assicurata dal vecchio doppino di rame, il quale, con
il fax prima e internet poi, sembrava dominare la comunicazioni tra le persone, le persone e le macchine,
le macchine fra loro.
Dall’UMTS, questo l’acronimo che sta per Universal
Mobile Telecommunications System, meglio noto
come 3G, così come appare sui nostri cellulari, nasce
la ricerca di applicazioni utili, facilmente consumabili, economiche.
Dopo 13 anni, oltre 900.000 applicazioni sull’Apple
Store dimostrano l’esistenza di un mercato esigente,
universalmente integrato, che trova soddisfazione in
un’applicazione, capace di sostituirsi all’andare in
edicola, andare al cinema, andare in farmacia, andare
in banca e soprattutto andare a controllare la salute.
Un telefono cellulare e un tablet, oggi sono in grado
di registrare la nostra vita biologica e trasformarla
in dati elaborati per produrre anamnesi a distanza,
analisi, suggerire comportamenti di vita sociale, dare
alert psicofisici, integrare diete, misurare la qualità
di vita.
Gli sviluppatori hanno “congiunto” tecnologia, conoscenza medica ed esperienza, generando software
che alloggiati in braccialetti, occhiali, anelli o sotto ai
piedi, distinguono e qualificano movimenti, misurano la capacità respiratoria, registrano i dati del cuore
e dell’ossigenazione del sangue, la temperatura corporea, la durata e la qualità del nostro sonno, la qualità e la capacità cerebrale. Questi e altri dati diventano una facile banca dati in grado di ordinare e tenere
sotto controllo la nostra vita sociale, consigliando il
minimo sindacale necessario per dormire, la durata
e il ritmo delle passeggiate, le calorie da smaltire, la
ginnastica oculare.
L’enorme vantaggio è che questa diagnostica, di fatto,
viene prodotta senza invadere la nostra vita normale,
anzi assecondandola. Tutto viene sincronizzato e archiviato automaticamente sul telefono o sul tablet e
può essere inviato per e-mail o consultato in remoto.
Oggi, il meno esperto di internet e di telefoni cellulari o computer può accedere a questi servizi che sono
intuitivi e sofisticati solo nei risultati. Molti di questi
servizi sono peraltro gratuiti, come ad esempio l’applicazione per registrare il battito cardiaco, misurato
attraverso l’obiettivo fotografico del cellulare o del
tablet.
Mentre l’Italia precipitava agli ultimi posti del mondo civilizzato per la banda larga, è cresciuta la cultura digitale degli italiani e anche le nuove professioni
sanitarie ne hanno avuto un grosso vantaggio. Ad
esempio, la chirurgia “social” vede il chirurgo operare ed in contemporanea essere connesso con suoi colleghi di altri continenti in grado di suggerire durante
l’intervento o di acquisire esperienza. Le “anamnesi
/ indagini collettive” sinora fatte con quesiti, oggi si
realizzano proprio con questi prodotti tecnologici associati ad applicazioni specializzate, con un abbattimento dei costi per le indagini del 60 - 80%.
Il popolo italiano, inventore primario di tecnologie,
è in Europa tra i primi consumatori di informazione,
soprattutto al di fuori dei palinsesti televisivi, radiofonici o della carta stampata, con un +6% rispetto
alla media europea. La fascia di età compresa tra gli
11 e i 74 anni è connessa per oltre il 70%! Un ponte
generazionale in crescita esponenziale che significa
ancoraggio e trasferimento della cultura e dell’esperienza, ma soprattutto partecipazione crescente delle
fasce della terza e quarta età . 8 italiani su 10 verificano le informazioni sanitarie su internet, che diventa il canale domestico più interessante per la nuova
educazione sanitaria, proprio perché porta alla diretta e personalizzata partecipazione. La partecipazione
permessa dalla comunicazione digitale accresce la
web reputation della sanità e la sicurezza di trovare
la risposta migliore universalmente testata, esportabile, tracciata e condivisibile.
Ago, filo, stoffe.
Il ricamo, un’arte
da riscoprire
di Umberto Folena
Schiena dritta, gambe unite, testa china. Il ricamo si svolgeva nel silenzio totale. Era questione
di tecnica. Ma innanzitutto di pazienza: prima di
puntare l’ago bisognava contare più volte. Era la
ricamatrice ad adattarsi al disegno, quasi a voler
ricordare che sarebbe stato così anche nella vita.
Poi la costanza: quante volte la mano si muoveva
sul telaio prima che il disegno prendesse forma. E
ancora, l’umiltà: poteva accadere, e accadeva, che
il lavoro di qualche ora si dovesse disfare, riprendendo dal punto in cui la ricamatrice si era distratta. L’ago passava veloce sotto la stoffa, senza che
la mano lo seguisse. Doveva restare sempre ben
visibile e con la punta rivolta verso la ricamatrice,
mai verso le altre compagne di lavoro.
Il ricamo. E l’eterno, in fondo vano dibattito se si
tratti di artigianato o arte, come se il confine fosse
netto, e non sfumatissimo e indecifrabile. Un’arte­
diciamolo ­antica come il mondo. Si ricamava già
nell’antico Egitto e nei secoli successivi, anche se
la deperibilità delle stoffe non ci ha lasciato nulla
da toccare e studiare. In Italia pare che il ricamo
sia arrivato con i saraceni… Sarà vero? In effetti, la
prima scuola è segnalata a Palermo attorno all’anno Mille. Ma dal XII secolo l’arte esplode in tutta
Europa, varca fiumi e montagne. I nobili adornano
i loro abiti di pizzi e merletti sicuramente dal XIV
secolo. Un documento descrive minuziosamente i dettagli degli abiti degli invitati allo sfarzoso
matrimonio tra Giustina Borromeo e il Marchese
Stanga, in Toscana, il 21 marzo 1493. La scuola più
famosa era quella delle monache delle Murate in
via Ghibellina, a Firenze. Nel Sette e Ottocento il
ricamo diventa un obbligo per le fanciulle. Alcune
ne fanno un mestiere. Le fanciulle povere devono
saper usare ago e filo perché, in un’economia di
sussistenza, nulla si butta ma tutto si rattoppa. Le
fanciulle d’alto rango possono dedicarsi al ricamo
come passatempo raffinato. Si insegna ricamo dalle monache e negli orfanotrofi, l’”educazione don-
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nesca” mette al centro ago, filo e stoffe. E poi…
E poi l’arte sembra perdersi, sulla soglia del XXI
secolo. Signore cinquantenni, alla scomparsa della
cara mamma, sospirano: perché non ho imparato da lei a ricamare? A venti, trent’anni il ricamo
sembra forse un orpello legato a un passato fatto
di sottomissione: una donna ha ben altro da fare.
Più avanti, invece, ti accorgi che ha un profondo
valore culturale. E così si recupera, chiedendo consiglio a chi ancora ricorda il punto erba e il punto
croce, il punto antico o toscano e il mezzo punto, il
punto reale o punto piatto e il punto Assisi, e il raffinatissimo filet… «I punti sono praticamente infiniti» spiega Marinella Spolverato, anni 70, voce
esile e calma, una voce che ricama. Marinella vive
a Montebelluna, in provincia di Treviso, e insegna
ricamo all’Università del tempo libero di Cornuda.
Una delle tante, sconosciute ma preziose ricamatrici che, lontano dai riflettori, affida e tramanda
l’arte. «I corsi durano tre mesi per due ore alla
settimana ­spiega ­i gruppi sono di venti persone
al massimo, e a Cornuda siamo in due insegnanti.
Vengono signore, di media, tra i 65 e i 75 anni. Alcune vogliono imparare meglio, altre sono già abili
ma amano ricamare in compagnia».
Un tempo le donne si trovavano in cortile, mettevano le seggiole in cerchio e cominciavano. Oggi,
anche se nessuno se ne accorge, scelgono i salotti
di casa. «E pensare ­sorride Marinella ­che per mia
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madre non ero portata… Mi insegnava a ricamare la nonna, che abitava in campagna e andavo a
trovare da Treviso. Amo soprattutto le sfilature, i
punti a giorno, il punto a pittura».
Ma perché? Perché le signore, tutte in pensione,
non lanciano una “sfida” alle nuove generazioni?
Perché non si offrono per tramandare la loro arte?
Forse le stesse sedi della Cisl potrebbero ospitare gruppi di ricamatrici. Gli oratori. O chi ha un
salotto accogliente… Passaparola, volantini, internet… No, l’arte del ricamo è troppo preziosa per
andare perduta. E il suo valore culturale ed educativo è perfettamente adeguato ai tempi. Pazienza,
costanza e umiltà. In un tempo di impazienza, di
tutto-e-subito; di incostante frenesia; di arrogante
presunzione. Il ricamo è un ottimo antidoto a tanti
difetti dei nostri tempi. È attività anti-consumistica per eccellenza, perché dura e non ha praticamente valore; chi ricama è un produttore, non un
consumatore; chi ricama crea, non distrugge.
E non è solo per le donne… «Mi ricordo bene quel
ragazzino ­racconta Marinella ­avrà avuto al massimo 14 anni. Voleva imparare a tutti i costi. Ricamò un ornitorinco!». Non solo pulcini e paperelle,
dunque. Sul bavaglino di un maschietto può ben
starci un tosto ornitorinco. A punto pittura, naturalmente.
Le scuole di
ricamo in Italia
Sul territorio nazionale sono presenti diverse
scuole di ricamo. A titolo di esempio, di seguito
se ne citano tre. A Gemona del Friuli, in provincia di Udine, si trova il “Laboratorio Scuola
A Jour Maria Pia Gaiart” (www.scuolaricamogaiart.it). Questa struttura è sede di corsi con
frequenza settimanale ed è anche il punto di
riferimento per poter visionare i campionari di
opere realizzate su misura (tendaggi, tovagliati,
complementi d’arredo e capi di abbigliamento,
etc.).
L’associazione bolognese “La Prilletta”, senza
fini di lucro, è nata per riscoprire e far conoscere il ricamo classico eseguito a telaio. Periodicamente, questa associazione organizza
proprio nella città felsinea dei corsi di ricamo a
telaio, una tecnica che tra la fine dell’Ottocento
e i primi decenni del Novecento, in pieno periodo Liberty, conobbe proprio nel capoluogo
emiliano uno dei centri di massimo splendore.
A Roma, in viale Battista Bardanzellu 77, si
trova la scuola di arti manuali “Lace Project”
(www.laceproject.it), la prima scuola a Roma
dove viene insegnata l’autentica arte merlettaia
di Cantù. Nella stessa sede sono svolti, oltre al
tradizionale corso di Tombolo di Cantù, anche
corsi di ricamo, filet a modano, corsi a tema e/o
scambi culturali con altre scuole d’Italia.
Come di consueto, prosegue la rubrica dedicata alle novità editoriali disponibili
in libreria e ai nuovi siti internet che sono stati aperti sul web.
Andrea Camilleri
“La creatura del desiderio”
2013, Skira editore.
Nel 1912, un anno dopo la morte di Mahler, la sua
giovane vedova, considerata la più bella ragazza di
Vienna e allora poco più che trentenne, incontra il
pittore Oskar Kokoschka. Inizia una storia d’amore fatta di eros e sensualità, che sfocerà ben presto
in una passione tanto sfrenata quanto tumultuosa.
Viaggi, fughe, lettere, gelosie e possessività scandiscono i successivi due anni, durante i quali l’artista
crea alcune fra le sue opere più importanti, su tutte
“La sposa del vento”. Ma la giovane donna è irrequieta e interrompe brutalmente la relazione. Kokoschka parte per la guerra con la morte nel cuore. Al suo
rientro in patria, traumatizzato dal conflitto e ancora ossessionato dall’amore perduto, decide di farsi
confezionare una bambola al naturale con le fattezze
dell’amata. Questa è la sua storia.
Vittorino Andreoli
“L’educazione (im)possibile.
Orientarsi in una società
senza padri”
2014, Rizzoli editore.
Maleducati. Trasgressivi. Immaturi. Le ricette salva
figli sono ormai diventate argomento quotidiano di
discussione. C’è chi grida alla sconfitta dell’antiautoritarismo. Chi invoca un ritorno alla disciplina
tra le mura domestiche. Chi accusa la scuola di aver
abbandonato il suo ruolo pedagogico. Per Vittorino
Andreoli, da sempre attento osservatore del disagio
psicologico degli adolescenti e dei loro compagni più
adulti, il fallimento educativo è invece un malessere
profondo che riguarda tutti, genitori e no, e che può
essere risolto solo con uno sforzo comune. Il primo
sintomo va ricercato senz’altro nella morte della famiglia tradizionale. I bambini avrebbero bisogno di
un’unica figura che si occupi di loro: la madre. L’aumento delle figure di riferimento (necessario, per
molte ragioni, nella nostra società) crea un disaccordo educativo, ed è la vera causa della loro inquietudine e disobbedienza. Cosa dovrebbero fare, allora, i
genitori per far crescere meglio i loro figli? Dovrebbero ritrovare un punto d’unione con tutte le figure
che li affiancano: i nonni, le babysitter, le insegnanti
dei nidi e delle scuole per l’infanzia...
Patrick Fogli
“Dovrei essere fumo”
2014, Piemme Editore.
Alberto ha cambiato vita. Il suo passato nei servizi
segreti è ormai alle spalle, per quanto possa esserlo
un’esistenza di quel tipo. Perché lui è il migliore, e
qualcuno se n’è accorto, tanto da offrirgli un incarico
inatteso: la sorveglianza notturna, in una clinica, di
un uomo molto anziano e molto ricco. La sua vita è
in pericolo, e non solo per il cancro che lo sta consumando. Inverno 1939. Emile, nato a Parigi nel 1921,
ebreo da chissà quante generazioni. Non ricorda il
giorno in cui ha iniziato ad avere paura, ma sa che da
quel giorno non ha più smesso. A unire le due vicende, un quaderno azzurro cui è affidata una verità che
non tutti hanno il coraggio di guardare in faccia. La
storia di un’ossessione. Un romanzo sulla vendetta e
sul perdono. Che non sempre sono agli estremi opposti della bilancia.
Antonio Golini e
Alessandro Rosina
“Il secolo degli anziani.
Come cambierà l’Italia”
2011, Il Mulino editore
(coll. Prismi).
L’invecchiamento della popolazione trasformerà la
società in cui viviamo: un cambiamento più profondo di quanto siamo portati a credere, probabilmente
più rapido della nostra capacità di metabolizzarlo e
adattarci ad esso. E’ un processo che può essere sintetizzato con tre “i”: inedito, incisivo, irreversibile.
Inedito, perché nuovo nella storia dell’umanità: tra
gli abitanti del pianeta gli ultrasessantenni non sono
mai stati più di uno su venti, entro il 2050 saranno
uno su cinque. Incisivo, perché destinato ad agire
marcatamente in tutti i paesi del mondo, in tutte le
classi sociali, in tutte le dimensioni della vita umana.
Irreversibile, perché conseguenza del fatto che si vive
progressivamente più a lungo e si fanno meno figli
rispetto al passato. L’Italia è uno dei paesi precursori
di questo processo, per cui da noi le sue conseguenze
saranno più precoci e accentuate. Che cosa dobbiamo
attenderci? Ce lo dicono in questo illuminante volume demografi, sociologi, economisti.
49
Ozpetek Ferzan
“Rosso Istanbul”
2013, Mondadori.
Tutto comincia una sera, quando un regista turco
che vive a Roma decide di prendere un aereo per
Istanbul, dov’è nato e cresciuto. L’improvviso ritorno a casa accende a uno a uno i ricordi: della madre,
donna bellissima e malinconica; del padre, misteriosamente scomparso e altrettanto misteriosamente
ricomparso dieci anni dopo; della nonna, raffinata
“principessa ottomana”; delle “zie”, amiche della madre, assetate di vita e di passioni; della fedele
domestica Diamante. Del primo aquilone, del primo
film, dei primi baci rubati. E, ovviamente, del primo
amore, proibito, struggente e perduto. Ma Istanbul
sa cogliere ancora una volta il protagonista di sorpresa e, proprio qui, accadrà qualcosa che cambierà per
sempre la sua vita. Tra caffé e hamam, amori irrisolti
e tradimenti svelati, nostalgia e voluttà, i destini del
regista e di una donna inesorabilmente si sfiorano e,
alla fine, convergono.
Dicker Joël
“La verità sul caso
Harry Quebert”
2013, Bompiani editore.
Nell’estate del 1975 scompare misteriosamente una
ragazzina di 15 anni, Nola Kellergan, in una cittadina del New Hampshire. Nessuno ne sa più nulla. La
scena di colpo passa a New York, 2008. Un giovane scrittore di successo, Marcus Goldman, non ri-
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esce più ad avere idee per nuovi romanzi. In piena
crisi, e pressato dall’editore che esige il manoscritto
in tempi brevi, si rifugia a casa del suo professore e
amico Harry Quebert, scrittore a sua volta. Ma ecco
l’imprevisto: nel giardino della villa dello scrittore,
a Goose Cove, viene rinvenuto il cadavere della ragazzina scomparsa più di trent’anni prima. E con il
ritrovamento arriva anche l’accusa di omicidio per
il professore Harry Quebert. Convinto della sua innocenza, Marcus Goldman abbandonerà tutto per
indagare sulla verità: dopo trent’anni dovrà arrivare
a scoprire chi davvero uccise Nola Kellergan. E dovrà
anche riuscire a scrivere un altro romanzo di successo, pena il fallimento totale.
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contropelo alle parole di “moda”
di Dino Basili
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