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Le istruzioni di Paolo in materia di matrimonio

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Le istruzioni di Paolo in materia di matrimonio
Le istruzioni di Paolo in materia di matrimonio
Nel corso della presente esposizione non prenderò in considerazione l'intero epistolario
paolino, ma soltanto le lettere che la maggioranza degli studiosi ritiene essere state scritte da
Paolo in persona, e non da un seguace o continuatore. Di queste, quelle in cui l'apostolo tocca
l'argomento del matrimonio sono la prima lettera ai Tessalonicesi e la prima ai Corinzi,
composte ambedue attorno alla metà del primo secolo dell'era cristiana, a non molti anni di
distanza l'una dall'altra.
Della prima lettera ai Tessalonicesi riporto il passo pertinente secondo la più recente
edizione (2008) della versione curata dalla Conferenza Episcopale Italiana:
Questa è infatti volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall'impurità, che ciascuno
di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione,
come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio
fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Dio non
ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione. (1 Ts 4,3-7)
Nel passo così tradotto non si fa riferimento al matrimonio. E' enunciato un precetto
generale, la santificazione, seguito da altri tre che ne costituiscono l'esplicitazione: 1)
astenersi dall'impurità; 2) trattare il proprio corpo con santità e rispetto; 3) non offendere od
ingannare in questo campo il proprio fratello. Il tema unificante parrebbe la purità del corpo,
anche se non è per nulla evidente come in questo campo si possa offendere od ingannare un
fratello di comunità.
La versione sopra riportata è però discutibile, soprattutto per quanto concerne la frase
tradotta “trattare il proprio corpo”. Conviene dire subito che non vi è alcun consenso
esegetico su questa che a buona ragione può essere chiamata una crux interpretum. Il testo
greco dice tò heautoû skeûos ktâsthai; non vi sono difficoltà a tradurre skeûos (letteralmente
1
“vaso” o “utensile”) con “corpo”,1 ma ve ne sono di rilevanti, a mio giudizio, a tradurre
ktâsthai con “trattare”. Il verbo ktáomai, al tempo presente, significa infatti “acquisire”; i casi
in cui significa “possedere” sono molto rari. Che cosa potrebbe voler dire “acquisire il proprio
corpo”? Moulton e Milligan hanno suggerito: “gradually obtain the complete mastery of the
body”;2 acquisire non il corpo, ma il pieno controllo del corpo. Ai miei orecchi tale
interpretazione3 suona nettamente forzata.
La spiegazione alternativa, attestata nell'antichità ad esempio da Agostino,4 vede in
skeûos una designazione della moglie. Occorre subito dire che tale designazione non ha
assolutamente nulla di dispregiativo, non più di quanto l'abbiano gli appellativi di “cisterna” o
“cerbiatta” che troviamo nel libro dei Proverbi (5,15.19), che evocano la felicità che una
buona moglie sa dare al marito. In una composizione sapienziale, cui è stato dato il titolo
musar lemevin, trovata in stato frammentario nelle grotte di Qumran,5 compaiono sia il
termine kelî hêqekah che ’ēšet hêqekah, quest'ultimo attestato nell'Antico Testamento (Dt 13,7
e 28,54; Sir 9,1). B.G. Wold, che a questa opera ha dedicato la sua tesi di dottorato, ritiene
che i due termini abbiano senso equivalente: “vessel of your bosom” e “wife of your bosom”. 6
A suo parere, questo appellativo trae la sua origine dal racconto della Genesi in cui si dice che
la donna fu tratta dal corpo dell'uomo. Il fatto che in Dt 28,56 il marito sia detto ’îš hêqah
smentisce nettamente questa spiegazione: “del tuo petto” equivale a “che stringi al tuo petto”,
designando una forte relazione affettiva, sia da parte dell'uomo che della donna. Il fatto che in
un testo che risale alla stessa epoca in cui visse l'apostolo Paolo il termine kelî, l'equivalente
ebraico di skeûos, compaia come equivalente di “moglie” è ai miei occhi un forte argomento
1 E' stato proposto anche il senso più ristretto di “organo genitale”: cfr. S. Légasse, «Vas suum possidere (1 Th
4,4)», Filología neotestamentaria 10 (1997), 105-115; T. Elgvin, «To Master His Own Vessel. 1 Thessalonians
4:4 in Light on New Qumran Evidence», New Testament Studies 43 (1997), 604-619.
2 Cfr. Vocabulary of the Greek Testament, Illustrated from the Papyry and Other Non-Literary Sources, Londra
1930, sub voce.
3 Sostenuta nell'antichità da Giovanni Crisostomo (nella sua quinta omelia sulla prima lettera ai Tessalonicesi:
cfr. PG 62, 424).
4 Cfr. De nuptiis et concupiscentia, 1, 8.
5 Edita nel 1999 nella serie Discoveries in the Judaean Desert (vol. XXXIV).
6 Cfr. Women, Men and Angels. The Qumran Wisdom Document Musar leMevin and Its Allusions to Genesis
Creation Traditions, Tubinga 2005 (Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament 201), 202.
2
per pensare che lo skeûos di 1 Ts 4,4 designi appunto la moglie come oggetto di affetto (non
certamente platonico; affetto coniugale nella piena estensione della parola, comprendente le
relazioni fisiche). Mi chiedo anzi se l'uso del neutro skeûos al posto di guné, “moglie”, non
risponda allo scopo di comprendere anche il marito; skeûos andrebbe in questo caso tradotto,
o almeno spiegato, come “coniuge”. Il “ciascuno di voi” del v. 4 includerebbe le mogli,
conferendo alla parenesi paolina una portata più ampia.
Il problema è a questo punto come comprendere l'infinito ktâsthai. Acquisire la propria
moglie significa sposarsi; Paolo si rivolgerebbe quindi ai soli membri non sposati della
comunità di Tessalonica, ai quali dice che devono prendere moglie in santificazione ed onore,
non in passione di avidità. Ci si aspetterebbe però piuttosto l'aoristo ktésasthai anziché il
presente ktâsthai, dato che l'azione di prendere moglie ha carattere puntuale e non durativo. E'
vero però che ktâsthai dipende dall'altro infinito eidénai: non si tratta propriamente di
prendere moglie, ma di saperlo fare, cioè di sapere come Dio vuole7 che l'uomo prenda
moglie. Intesa in questo senso, l'ammonizione potrebbe comprendersi come indirizzata anche
alle persone sposate, esortate da un lato a verificare se il loro matrimonio è stato contratto in
santificazione ed onore, e dall'altro a preoccuparsi che il matrimonio dei loro figli si faccia
secondo tali criteri. Ciò che premerebbe all'apostolo sarebbe la regolarità del matrimonio,
ovvero la sua conformità con la legge divina. Ciò consentirebbe di comprendere la frase
precedente “astenersi dall'impurità” (in greco porneía, “fornicazione”) nello stesso senso che
in At 15,20.29, dove è intesa l'astensione da unioni illegittime.8 Paolo ricorderebbe quindi ai
Tessalonicesi l'importanza di osservare i divieti relativi al matrimonio tra consanguinei ed
affini, che nel mondo greco e romano avevano una discreta diffusione.9 In ciò, nel rispetto dei
limiti posti da Dio, consisterebbero essenzialmente la santificazione e l'onore, che l'apostolo
contrappone alla passione di avidità che spinge una persona a sposarsi seguendo unicamente
l'attrazione che in lui desta un'altra persona, senza tenere nessun conto di altri fattori.
7 Tra eidénai e ktâsthai bisognerebbe sottintendere un pôs deî, come in 2 Ts 3,7; Col 4,6 e 1 Tm 3,15.
8 Questa è la tesi di A. Tosato, esposta in un contributo apparso postumo: «I primi richiami di Paolo in tema
matrimoniale (1 Ts 4,3-8)», in Studi sul Vicino Oriente antico dedicati alla memoria di L. Cagni, a cura di S.
Graziani, Napoli 2000 (Istituto Universitario Orientale. Dipartimento di Studi Asiatici, Series minor 61), 1-25.
9 Tosato (cit.) ritiene che la porneía di cui parla l'apostolo includesse anche i matrimoni misti. Su questo punto
esito a seguirlo.
3
L'alternativa è di dare a ktâsthai non il valore dell'acquisizione giuridica, ma della presa
di possesso fisica mediante l'atto coniugale propriamente detto. In questa prospettiva
scomparirebbe la difficoltà posta dall'uso dell'infinito presente anziché aoristo. Agli sposati di
Tessalonica Paolo chiede la stessa cosa che chiederà a quelli di Corinto: che non si astengano
dall'uso del matrimonio. Tò heautoû skeûos di 1 Ts 4,4 corrisponderebbe a tèn heautoû
gunaîka e tòn ídion ándra di 1 Cor 7,2, e ktâsthai corrispettivamente ad échein. L'insistenza
cade sul possessivo: avere rapporti sessuali solo col proprio coniuge, e non altri. Qui starebbe
la santità che si oppone alla passione che spinge a unirsi con chiunque piaccia. 10
Il vantaggio di questa seconda esegesi è di connettere tematicamente i vv. 4-5 al v. 6,
dove Paolo raccomanda di non esercitare sopraffazione nei confronti del proprio fratello en tôi
prágmati, “nella faccenda” di cui si è appena detto, cioè nella presa di possesso del proprio
skeûos. E' assai probabile che con queste espressioni l'apostolo si riferisca all'adulterio, che si
configura appunto come usurpazione dei diritti di un marito sulla propria moglie. Giova a
questo proposito ricordare che in quel tempo l'adulterio era un costume molto diffuso nel
mondo dominato da Roma. Non stupisce pertanto che Paolo abbia sentito la necessità di
mettere in guardia i convertiti di Tessalonica da questo che non era soltanto allora un peccato,
ma un reato. 11
Ricapitoliamo questo primo punto della nostra esposizione. L'esegesi di 1 Ts 4,3-7
rimane controversa. La Bibbia CEI propone un'interpretazione sostenuta da non pochi
commentatori, antichi come recenti: Paolo richiama i fedeli a custodire la santità del proprio
corpo, evitando di lasciarsi andare ad ogni forma di libertinaggio. E' tuttavia possibile anche
un'altra interpretazione, ed io la ritengo più fondata, secondo la quale non si tratta di uso del
proprio corpo, ma di relazione col proprio coniuge. Paolo richiamerebbe i Tessalonicesi
10 M. Konradt invece ritiene che l'intenzione di Paolo sia di esortare ad una sobrietà nello scambio sessuale tra i
coniugi, non mirante alla sfrenata ricerca del piacere: cfr. «Eidénai hékaston humôn tò heautoû skeûos ktâsthai.
Zu Paulus sexualethiker Weisung in 1 Thess 4,4 f», Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft 92 (2001),
128-135.
11 Nel 18 a.C. Augusto aveva emanato la lex Iulia de adulteriis coercendis. Vedi in proposito l'ampio studio di
T.A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New York 2003, 140-248.
4
anzittutto all'osservanza delle prescrizioni levitiche in materia di matrimoni proibiti,12 e poi al
rispetto dei diritti del marito sulla moglie;13 è anche però possibile interpretare l'intera
pericope come un ammonimento ad evitare l'adulterio.
Passiamo ora a considerare la prima lettera ai Corinzi, un intero capitolo della quale (1
Cor 7) è dedicato al matrimonio, con istruzioni per le persone già sposate e per quelle non
ancora sposate. Ma conviene prima rivolgere l'attenzione ad un capitolo precedente, in cui
Paolo interviene in merito ad una situazione verificatasi a Corinto dopo la sua partenza. Un
membro della comunità aveva preso in moglie la sua matrigna,14 presumibilmente dopo la
morte del padre. Ignoriamo se questo legame era già in atto prima della sua entrata in
comunità, o se era iniziato in seguito, così come ignoriamo se la matrigna faceva anche lei
parte della comunità.15 Ciò che sappiamo è che Paolo decreta che questa persona16 sia espulsa
dalla comunità, della quale non ha diritto di fare parte chi intrattiene una relazione
matrimoniale irregolare. Fuori dalla comunità i cristiani possono avere rapporti con tutti,
fornicatori o idolatri che siano, dentro la comunità invece devono rompere i rapporti con un
fornicatore (in greco pórnos, “chi vive nell'immoralità” secondo la Bibbia CEI), come pure
con uno che pratica ancora l'idolatria o uno che vive di furti, e via dicendo. Vi sono
comportamenti incompatibili con il nome cristiano, sui quali non si possono accettare
compromessi. La comunità cristiana è infatti chiamata ad essere un'isola di santità nel mondo.
I cristiani non devono uscire dal mondo, come l'apostolo esplicitamente dichiara (cfr. 1 Cor
5,10), ma devono distinguersi dal mondo. Uno dei modi, e non il meno importante, in cui si
manifesta la loro diversità dal mondo è il rispetto della legge divina in materia di matrimonio.
12 I divieti elencati in Lv 18 non valgono solo per gli Israeliti di nascita, ma anche per i convertiti. Lv 18,26
dichiara infatti: “non farete nessuna di queste abominazioni, né il nativo né lo straniero che ha preso dimora in
mezzo a voi”. Nell'interpretazione ebraica tradizionale lo straniero che dimora in mezzo ad Israele è il proselita,
cioè colui che non è nato Ebreo ma si fa Ebreo.
13 Sembra di poter registrare la stessa connessione tematica nella lettera agli Ebrei: “onorato sia il matrimonio
in tutti e il letto sia senza macchia: pórnoi e adulteri infatti giudicherà Dio” (13,4). Gli adulteri sono quelli che
macchiano il talamo coniugale, i pórnoi quelli che disonorano il matrimonio, non astenendosi dalle unioni
illegittime. In Eb 12,16 è chiamato pórnos Esaù, il quale prese in moglie due donne ittite (cfr. Gen 26,34)
14 O viveva con lei more uxorio.
15 Dal fatto che Paolo parla solo di lui, alcuni deducono che lei non ne faceva parte.
16 Il cui nome è significativamente passato sotto silenzio, come di uomo non degno di essere nominato.
5
Nel capitolo seguente, dopo un intermezzo dedicato alla questione del ricorso ai
tribunali (1 Cor 6,1-11), Paolo torna a parlare della fornicazione (cfr. 1 Cor 6,12-20). E' mia
convinzione che l'apostolo non si riferisca qui alla frequentazione di prostitute, come ritiene la
maggior parte dei commentatori, ma all'unione illegittima di cui sopra. E' vero che il termine
greco porneía è aperto ad ambedue i significati, designando ogni rapporto sessuale al di fuori
del matrimonio legittimo. Il suo uso per designare l'unione con la propria matrigna ha
manifestamente intento cacofemistico: il matrimonio è una realtà santa,17 l'unione con una
donna che è proibito sposare non è differente dall'unione con una prostituta, e merita di essere
chiamata fornicazione.18 Corinto, città di mare, non soffriva sicuramente di mancanza di
prostitute, ed è perfettamente plausibile che Paolo, dopo avere fatto conoscere il suo giudizio
sul caso dell'uomo che conviveva con la matrigna, passi ad occuparsi di un altro abuso che si
commetteva nella comunità di Corinto, ovvero la frequentazione di prostitute.19 Io ritengo
tuttavia più probabile che l'apostolo torni sull'argomento precedentemente trattato, quello
dell'unione illegittima, per spiegare più compiutamente le ragioni biblico-teologiche della
decisione disciplinare da lui imposta alla comunità.
In ogni caso, che la porneía di 1 Cor 6 indichi la medesima o una diversa azione che
quella di 1 Cor 5, ciò che più conta è l'argomentazione che Paolo impiega per dissuadere i
suoi fedeli dal commetterla. Non potendo qui ripercorrerne analiticamente tutti i passaggi,
soffermiamoci su una sola affermazione, di importanza capitale:
I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi … Il corpo non è per l'impurità, ma per il Signore, e il
Signore è per il corpo. (1 Cor 6,13)
17 In lingua ebraica il matrimonio è denominato qiddušîn, santificazione o consacrazione.
18
Questo uso linguistico non è di conio paolino. Il matrimonio proibito è denominato zenût (l'equivalente
ebraico di porneía) in un'ampia area letteraria (ad esempio nel Documento di Damasco, che si ricollega alla setta
di Qumran).
19
B. Rosner pensa alle prostitute che offrivano i loro servizi nei templi: cf. «Temple Prostitution in 1
Corinthians 6:12-20», Novum Testamentum 40 (1988), 336-351; B. Winter invece alle prostitute che si
mettevano a disposizione degli invitati ai banchetti: cfr. After Paul Left Corinth, Grand Rapids 2001, 86-88.
6
La Bibbia CEI pone delle virgolette prima e dopo la frase sul ventre e i cibi, per fare
intendere al lettore che si tratta di una citazione. 20 Paolo riporterebbe qui una frase che veniva
spesso ripetuta a Corinto, a sostegno del principio che è lecito mangiare ogni genere di cibo,
senza distinzioni. Paolo la citerebbe per ribattere che il corpo al contrario non è per ogni
genere di rapporto sessuale, sibbene per il Signore. Ma che cosa vorrebbe precisamente dire
“il Signore è per il corpo”? Secondo J. Murphy-O'Connor, 21 questa frase ha “a purely formal
function”, quella di fare da pendant alla precedente “il corpo è per il Signore”. Non condivido
per nulla tale esegesi. Secondo me, Paolo vuole dire che il corpo e il Signore sono destinati
l'uno all'altro come lo sono nel loro ordine i cibi e il ventre. La reciproca destinazione di due
realtà naturali, come lo sono i cibi e il ventre, ambedue periture, serve a illustrare
analogicamente la reciproca destinazione di due realtà imperiture, una già risorta (il Signore)
e l'altra (il corpo) in attesa di risorgere.
Il problema è capire quale corpo. Se Paolo ha in mente il corpo del singolo individuo,
risulta indubbiamente difficile trovare un senso all'affermazione “il Signore è per il corpo”, ed
è in fondo logico considerarla vuota di senso, utile solo a bilanciare l'affermazione
precedente. Paolo potrebbe però avere in mente un altro corpo, non individuale ma
comunitario, quello di cui parla subito dopo: “non sapete che i vostri corpi sono membra di
Cristo?” (1 Cor 6,16). Chi dice membra dice corpo: “membra di Cristo” non è che una
brachilogia per “membra del corpo di Cristo”. E' a questo corpo che il Signore è destinato per
volontà di Dio ad unirsi. Non è individualmente che il corpo di un singolo cristiano appartiene
al Signore, ma in quanto membro di un corpo più grande. Il senso in cui questo più grande
corpo è di Cristo è bene spiegato da C.K. Barrett: “not the body which is Christ, of which
Christ consists, but the body that belongs to Christ and over which he rules”. 22
In che modo appartiene un corpo? Al tempo di Paolo i modi di appartenenza erano due.
Uno è l'acquisto, l'altro la consacrazione sponsale. Il primo è evocato più avanti, alla fine
della pericope: “voi non appartenete a voi stessi, infatti siete stati comprati a caro prezzo” (1
20 Questa è peraltro l'opinione della maggioranza dei commentatori. Io preferisco l'interpretazione di R.
Kirchoff (Die Sünde gegen den eigenen Leib, Gottinga 1994, 109).
21 Cfr. «Corinthians Slogans in 1 Cor 6:12-20», Catholic Biblical Quarterly 40 (1978), 395.
22 Commentary on the First Letter to the Corinthians, Londra 1968, 292.
7
Cor 6,20). Comprati va inteso nel senso di ricomprati, cioè riscattati. L'altro è la relazione
matrimoniale, che l'apostolo concepiva come reciproco possesso: “la moglie non è padrona
del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo il marito non è padrone del proprio
corpo, ma lo è la moglie” (1 Cor 7,4). Ha ragione perciò G. Baldanza, quando scrive: “non è
da escludere che Paolo già veda la relazione reciproca tra corpo e Signore e Signore e corpo
sotto l'angolazione di un'appartenenza sponsale”.23 Non solo non è da escludere, ma è
altamente probabile. I cristiani formano tutti insieme un corpo unico, riservato in esclusiva a
Cristo come il corpo della moglie è riservato in esclusiva al marito. La Chiesa è un corpo di
corpi, santo in quanto consacrato a Cristo. La santità del corpo totale non può non essere
anche santità dei singoli corpi che lo compongono. L'unione con una donna che non sia la
moglie legittima ha come effetto che colui che la compie cessa di essere membro del corpo
santo di Cristo. Il motivo ultimo per cui l'unione coniugale di due cristiani deve essere santa è
la santità dell'unione che lega Cristo alla Chiesa. La Chiesa è detta corpo perchè il corpo serve
ad appartenere; santità non è altro che consacrazione, appartenenza esclusiva. In 2 Cor 11,2
Paolo parla della comunità come di una vergine che deve mantenersi fedele allo sposo cui è
stata promessa. Sposa di Cristo dunque è la Chiesa; in quanto tale essa può essere anche detta
corpo di Cristo. Chi dice sposa dice infatti corpo: corpo consacrato, corpo appartenente.
La prima preoccupazione dell'apostolo Paolo in materia di matrimonio risulta dunque
essere la sua legittimità. Passiamo ora a considerare le sue istruzioni a proposito del
matrimonio legittimo, così come sono esposte in 1 Cor 7. Esse si presentano divise in due
parti, la prima (1 Cor 7,1-16) rivolta a coloro che sono già uniti in matrimonio,24 la seconda
(1 Cor 7,25-38) a coloro che non lo sono ancora.25 Tra le due l'apostolo inserisce quella che a
prima vista pare una digressione (1 Cor 7,17-24), mentre in realtà espone il principio che
unifica logicamente l'intera trattazione: “ciascuno rimanga nello stato in cui è stato chiamato”
(1 Cor 7,20), si intende chiamato alla fede. Ciò vale per lo stato di circonciso o incirconciso
come per lo stato di schiavo o libero, quindi anche per lo stato di sposato o non sposato. La
circoncisione non è di nessuna utilità per ottenere la salvezza, come non lo è il fatto di essere
giuridicamente libero, o di avere o non avere moglie. La salvezza è l'unico fine cui Paolo
23 «L'uso della metafora sponsale in 1 Cor 6,12-20. Riflessi sull'ecclesiologia», Rivista biblica 46 (1998), 323.
24 O lo sono stati in passato (cfr. 1 Cor 7,8-9; delle vedove si parla ancora alla fine, in 1 Cor 7,39-40).
25 In realtà ai loro genitori, o comunque a coloro che hanno la responsabilità di dare una ragazza in matrimonio.
8
vuole che i fedeli consacrino tutte le loro energie, senza dissiparle nel perseguire fini
secondari. Egli non disprezza certo la circoncisione o la libertà, e sicuramente neppure il
matrimonio, ma li valuta unicamente in ordine alla loro utilità in ordine all'ottenimento della
salvezza, 26 il che lo porta necessariamente ad equipararli.
A partire da questo principio di base appare perfettamente logica la regola pratica che
detta ai Corinzi: “Sei legato ad una donna? Non scioglierti. Sei sciolto da una donna? Non
cercare moglie” (1 Cor 7,27). Rimani come sei, non cambiare. C'è di che restare perplessi di
fronte a questa che sembra una consegna di immobilismo. Perché non cambiare? Che cosa c'è
di sbagliato nel cambiare? Io credo che la ragione della regola paolina stia nella convinzione
che la venuta di Cristo è vicina:
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d'ora innanzi, coloro che hanno moglie vivano
come se non l'avessero, coloro che piangono come se non piangessero, coloro che gioiscono come
se non gioissero, coloro che comprano come se non potessero conservare, coloro che usano del
mondo come se non ne potessero usare appieno; passa27 infatti la figura di questo mondo.
(1 Cor 7,29-31)
Il tempo (kairós) che secondo Paolo si è fatto breve28 è il tempo a disposizione per
ottenere la salvezza. Tale brevità ha una conseguenza sul modo di affrontare le circostanze e
sull'uso che si fa delle cose. Gioie e dolori non dureranno a lungo, come non durerà a lungo la
vita coniugale. Gli sposati vivano pertanto il loro presente nella consapevolezza che sta per
avere termine, vale a dire senza attribuirgli un'importanza più grande di quella che merita.
Paolo ha svalutato il matrimonio? Lo ha considerato una realtà a termine, il che non
credo che equivalga ad una svalutazione. Ci si può naturalmente domandare se l'apostolo
direbbe le stesse cose oggi, quando sono passati duemila anni e Cristo non è ancora venuto a
porre fine alla storia. Chiaramente noi non guardiamo a tale venuta nella stessa prospettiva
26 Illuminante a tale proposito è ciò che scrive alla comunità di Filippi: “ciò che era per me un guadagno lo
stimo una perdita a motivo di Cristo … tutto stimo come spazzatura per guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8).
27 In greco parágei. Secondo N. Baumert l'interpretazione corretta non è “passa”, ma “trae in inganno”; cfr.
Ehelosigkeit und Ehe im Herrn, Würzburg 1984 (Forschung zur Bibel), 453-478.
28 Quando scrive questa lettera è convinto che sarà ancora in vita alla venuta del Signore: “non tutti ci
addormenteremo” (1 Cor 15,51). Nella seconda ai Corinzi si mostrerà più dubitativo (cfr. 2 Cor 5,1-10).
9
cronologica della prima generazione cristiana. A me sembra tuttavia che l'osservazione sulla
brevità del kairós non abbia perduto il suo valore. Per un cristiano il matrimonio rimane pur
sempre, duemila anni dopo Paolo, nell'ordine dei fini penultimi, non ultimi.
La regola del non cambiamento di stato si applica sia ai già sposati che ai non ancora
sposati. Tutti coloro che erano già uniti in matrimonio nel momento in cui sono stati raggiunti
dalla chiamata ad aderire a Cristo continuino a vivere da sposati, senza astenersi dall'uso del
matrimonio, se non consensualmente e pròs kairòn (1 Cor 7,5).29 Paolo concorda col fatto che
l'astensione idealmente sarebbe conveniente,30 ma concretamente raccomanda il contrario. La
rinuncia ai rapporti coniugali per chi è sposato è infatti troppo gravosa, e lo espone al rischio
della fornicazione, a meno che uno non abbia il dono della continenza, il che non è di tutti.
Paolo era sposato? Vorremmo saperlo, ma non lo sappiamo. Lo sapevano coloro a cui
scriveva: “vorrei che tutti fossero come me” (1 Cor 7,7). Di un uomo che si dichiara “Fariseo
figlio di Farisei” (At 23,6), sapendo che i Farisei consideravano il matrimonio un obbligo
religioso, è difficile credere che non fosse mai stato sposato. Più facile che quando scrive la
prima lettera ai Corinzi Paolo fosse vedovo;31 ma non è da escludere che la moglie fosse
ancora vivente, ma lui non la portasse con sé nei suoi viaggi, per non gravare sulle comunità
in cui svolgeva il suo ministero (cfr. 1 Cor 9,5), e pure probabilmente per non esporla ai
disagi e ai pericoli che erano invece il suo pane quotidiano (cfr. 2 Cor 11,23-33).
In fatto di divorzio, Paolo lo proibisce, non di propria autorità, ma sull'autorità di Gesù.
La cosa non manca di colpire, considerando che era stato educato come Fariseo, ed i Farisei
ammettevano il divorzio, discutendo solo sui motivi che consentivano di divorziare. Paolo
faceva eccezioni al divieto di divorzio? Sembrerebbe di sì, dal momento che alla donna che
29 Per il tempo appropriato, secondo G. Scarpat, “Nisi forte ex consensu ad tempus. A proposito di pròs kairòn
di 1 Cor 7,5”, Rivista Biblica 48 (2000), 151-166; per breve tempo, secondo B. Prete, “Il significato della
formula pròs kairòn in 1 Cor 7,5”, Rivista Biblica 49 (2001), 417-437.
30 Molti commentatori comprendono la sentenza “è bene per l'uomo non toccare donna” (1 Cor 7,1) come
espressione non del pensiero dell'apostolo, ma di coloro che gli avevano scritto. L'ipotesi è perfettamente
accettabile, ma non cambia più di tanto l'esegesi del passo. L'apostolo infatti non contraddice affatto tale
affermazione a livello di principio, anche se avanza delle riserve sulla sua praticabilità.
31 Era questa l'opinione di J. Jeremias: cfr. “War Paulus Witwer?”, Zeitschrift für die neutestamentliche
Wissenschaft, 25 (1926), 310-312; 28 (1929), 321-323.
10
divorzia32 lascia l'opzione tra rimanere da sola e riconciliarsi col marito (cfr. 1 Cor 7,10),
vietandole quindi unicamente di andare in moglie ad un altro, il che farebbe di lei un'adultera.
Il divieto di divorzio si applica anche ai matrimoni in cui uno solo dei coniugi si è fatto
cristiano.33 A chi crede in Cristo Paolo non concede di divorziare;34 deve essere l'altro, quello
che non crede, a farlo, nel qual caso il credente si può ritenere libero.35 Se l'altro vuole invece
continuare a vivere insieme, il credente è obbligato a farlo. L'apostolo contava probabilmente
sulla possibilità che la continuazione della vita comune avesse come esito la conversione, e
quindi la salvezza, del coniuge non ancora credente: “Che sai tu, moglie, se salverai il marito?
Che sai tu, marito, se salverai la moglie?” (1 Cor 7,16).
Ai giovani non ancora sposati36 Paolo consiglia di rimanere come sono, usufruendo dei
vantaggi della loro condizione. Quali sono? Negativamente, l'assenza di “tribolazioni a causa
della carne” (1 Cor 7,28), dove carne non sembra dover essere intesa come sinonimo di corpo,
ma piuttosto come designazione della vita in questo mondo; positivamente, la possibilità di
“preoccuparsi delle cose del Signore” (1 Cor 7,32), anziché delle cose del mondo. L'idea di
fondo sembra essere una sola, espressa in negativo o in positivo: la condizione di non sposato
è oggettivamente favorevole, in quanto condizione di assenza di vincoli e di impegni, che
come tale favorisce la ricerca a tempo pieno della santità del corpo e dello spirito. Un
apprezzamento di questo genere non era certo in linea con la mentalità allora dominante, che
non vedeva di buon occhio sia l'uomo che la donna non sposati. 37
32 O è già divorziata. Il congiuntivo aoristo choristhê normalmente però non indica un'azione già compiuta.
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33 Qui Paolo ha cura di avvertire che la sua direttiva non viene direttamente da Gesù: “dico io, non il Signore” (1
Cor 7,12). L'apostolo ha coscienza di operare una estensione rispetto all'insegnamento di Gesù, che non aveva
lasciato detto niente sulla particolare situazione del matrimonio di religione mista.
34 Osserviamo tuttavia che nel secondo secolo d.C. ad una moglie cristiana era concesso di divorziare dal marito
pagano in ragione del suo comportamento immorale, come risulta dalla seconda Apologia di Giustino.
35 Il diritto canonico, sia latino che orientale, ha interpretato tale libertà come diritto a contrarre un nuovo
matrimonio: vedi il Codex Juris Canonici §§ 1143-1146 e il Codice dei canoni delle chiese orientali (§§ 854858). A mio parere, è molto dubbio che Paolo ammettesse tale diritto.
36 Pare abbastanza probabile che l'apostolo avesse in mente le ragazze promesse in matrimonio.
37 E' vero che lo stoico Epitteto (seconda metà del primo secolo d.C.) elogia colui che rinuncia alla famiglia per
dedicarsi al servizio di tutti, ma non era questa sicuramente l'opinione comune.
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Paolo ha cura tuttavia di sottolineare che il giovane o la giovane che si sposano non
fanno peccato (1 Cor 7,28). Ai nostri orecchi, abituati ad un'altra retorica, una dichiarazione
come questa suona riduttiva. Non lo era però per l'apostolo e per le persone da lui istruite, per
cui non fare peccato voleva dire mantenersi nella santità. Evitare il peccato perciò non è poco,
è molto. Chi si sposa non fa peccato perché il matrimonio, purchè legittimo, è cosa buona,
come è logico che sia una realtà istituita da Dio. Chi rinuncia a sposarsi38 fa ancora meglio, in
quanto si mantiene in una condizione di più grande libertà.
Rileviamo che Paolo non tira qui in ballo il pericolo dell'incontinenza, che aveva invece
evocato a proposito dei coniugati (1 Cor 7,5) e dei vedovi (1 Cor 7,9). Ciò probabilmente
dipende dal fatto che qui sta parlando non direttamente ai giovani, ma ai genitori, che suppone
in grado di controllare i figli. E' agli adulti che l'apostolo chiede l'autocontrollo, e a chi non ne
dispone raccomanda di sposarsi. Nel matrimonio Paolo non vede dunque niente altro che un
remedium concupiscentiae? Non condivido affatto tale giudizio. Non dobbiamo dimenticare
che era un ex-Fariseo, e i Farisei non erano sessuofobi, anche se concepivano il matrimonio
primariamente in funzione della procreazione, e non della soddisfazione di personali esigenze.
Paolo aveva una visione realistica della persona umana, e si rendeva conto che non è affatto
facile fare a meno del matrimonio. Per lui, da Fariseo prima e da cristiano poi, la cosa più
importante era evitare in ogni caso il peccato. Da apostolo egli non desiderava che qualcuno a
Corinto39 volesse imitare il suo modo di vivere senza averne la forza. Primum non peccare:
per inseguire il meglio non conviene mettere a rischio il bene.
38 O a risposarsi: 1 Cor 7,39-40.
39 Sugli orientamenti dei cristiani di Corinto sono state formulate varie ipotesi. C'è chi ha supposto tendenze di
tipo gnostico, chi di tipo spiritualistico o altro ancora. A mio modo di vedere, l'esegesi si deve concentrare su ciò
che Paolo ha scritto e sugli argomenti da lui svolti, più che su ciò che i Corinzi suppostamente pensavano. Il
procedimento induttivo ha i suoi limiti: da 1 Cor 6 sembrerebbe che i Corinzi fossero dei libertini che ritenevano
che tutto fosse permesso, da 1 Cor 7 che fossero invece dei rigoristi che predicavano l'astinenza sessuale anche
tra le persone sposate. Astrattamente è certo possibile che in una comunità (che non doveva comunque essere
numerosa) vi fossero gruppi e tendenze contrastanti, ma non è buona esegesi quella che si lascia andare alle
supposizioni. Nella prima lettera a Timoteo, che riflette una situazione molto diversa da quella di Corinto, si fa
menzione di “gente che vieta il matrimonio” (1 Tm 4,3); già nel primo secolo d.C. si avevano dunque le prime
manifestazioni di ciò che nel secolo successivo fu l'encratismo, il movimento che predicava l'astensione dai
rapporti sessuali, oltre che dal vino e dalla carne. Non vi è però ragione di ritenere che siffatte tendenze fossero
già presenti nella Corinto dell'apostolo Paolo.
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Ricapitoliamo questa seconda parte della nostra esposizione. Nella prima lettera ai
Corinzi l'apostolo Paolo parla del matrimonio anzittutto sotto il profilo della sua legittimità.
Ciò che più di ogni altra cosa gli preme in questa materia è che il matrimonio si faccia nel
rispetto dei limiti fissati da Dio. L'uomo che conviveva matrimonialmente con la sua matrigna
viene semplicemente espulso alla comunità di Corinto, della quale non ha diritto a fare parte.
Il matrimonio sta infatti sotto la volontà di Dio; non è qualcosa di cui uno possa fare ciò che
vuole. Gesù aveva citato Gen 2,24 per insegnare che nessuno ha l'autorità di separare ciò che
Dio ha unito (cfr. Mc 10,7-9 e Mt 19,5-6); Paolo cita lo stesso passo per insegnare che un
uomo non può unirsi con qualsiasi donna gli piaccia. L'unione tra l'uomo e la donna realizza
infatti una unità, che dei due fa un solo essere: la comunione tra i corpi è comunione tra le
persone. Il corpo non è una proprietà privata di cui uno possa fare quello che gli pare. Il corpo
è stato riscattato da Cristo per essere tempio dello Spirito: l'unione con una donna che non sia
la moglie legittima è pertanto una profanazione. L'insegnamento sul matrimonio è collocato
all'interno di una teologia del corpo, che è nello stesso tempo una teologia della persona e una
teologia della Chiesa. La Chiesa è un corpo di corpi; in quanto corpo di Cristo, è chiamata a
mantenersi santa, e non può farlo se non attraverso la santità dei corpi che la costituiscono.
Per quanto riguarda il matrimonio legittimo, le direttive dell'apostolo Paolo si ispirano
al principio del mantenimento dello status quo. Chi è sposato rimanga sposato e non pensi di
lasciare il coniuge, né temporaneamente né definitivamente. Ciò vale anche nel caso in cui
uno sia sposato a un non cristiano: deve essere quest'ultimo a rompere, mai il cristiano. Chi
non è ancora sposato o non è più sposato rimanga così come è, profittando della libertà che la
sua condizione gli concede. Se si sposa non commette alcun peccato, poichè il matrimonio è
una cosa in sè buona, ma è nel suo interesse rimanere libero da impegni di tipo matrimoniale.
Purchè naturalmente sia in grado di resistere alle tentazioni; altrimenti “meglio sposarsi che
bruciare” (1 Cor 7,9). La castità deve essere subordinata alla prudenza. Paolo non è affatto un
radicale, come è stato erroneamente supposto; è essenzialmente un prudente, come pensatore
e come pastore.
Abbiamo rilevato l'importanza del fattore cronologico (o kairologico, se mi si consente il
neologismo). Paolo aspettava la venuta del Signore Gesù entro un lasso di tempo breve, e
guardava di conseguenza al matrimonio come ad una realtà destinata a scomparire nel giro di
pochi anni. La sua regola del non cambiamento di stato si comprende benissimo in questa
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prospettiva: non è certo il momento di mettere su famiglia, quando il mondo sta per finire.
Una sola deve essere la preoccupazione del fedele: prepararsi all'incontro col Cristo che
viene.
Abbiamo voluto in questa relazione mantenerci all'interno di una parte sola dell'epistolario
paolino. In altre parti, ad esempio nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini, non si respira più
questo clima di attesa dell'imminente venuta di Cristo. E non è certo casuale che in queste
lettere (e ancora più marcatamente nelle lettere cosiddette pastorali) si parli del matrimonio in
un'ottica sensibilmente diversa, non più come di un'istituzione sul punto di finire, ma invece
come di un'istituzione destinata a durare. In queste lettere si danno infatti istruzioni sulle
relazioni che devono stabilirsi tra marito e moglie, come pure tra genitori e figli, e tra padroni
e schiavi. La spiegazione che a me appare più convincente di tale mutamento di prospettiva è
che queste altre lettere sono opera di successori e continuatori di Paolo, i quali, vedendo che il
Signore non veniva e il mondo non finiva, si sono resi conto che non si poteva più continuare
a dire solo che “quelli che hanno moglie vivano come se non l'avessero” (1 Cor 7,29), ma era
necessario dare ai coniugi cristiani delle linee direttive utili a orientare la loro vita comune. La
seconda generazione apostolica non si è limitata a ripetere i discorsi della prima, ma li ha
ripresi e sviluppati per rispondere a nuove necessità storiche. Questo è forse un insegnamento
utile anche per la Chiesa del tempo in cui stiamo vivendo.
dicembre 2008
Bruno Ognibeni
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