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LA RIPRESA DELLA QUESTIONE ABITATIVA il senso di una

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LA RIPRESA DELLA QUESTIONE ABITATIVA il senso di una
LA RIPRESA DELLA QUESTIONE ABITATIVA
il senso di una domanda
Gabriele Rabaiotti
“La cosiddetta penuria delle abitazioni, di cui si occupa oggi tanto la
stampa, non consiste nel fatto che la classe operaia vive in generale in
case brutte, sovrappopolate, malsane. Questa penuria di abitazioni non
è qualche cosa di particolare dell’epoca presente, né è un male
particolare del moderno proletariato, che lo contraddistingua da tutte le
classi oppresse che lo hanno preceduto; al contrario, essa ha colpito
tutte le classi oppresse di tutti i tempi in maniera piuttosto uniforme”
(Engels 1887)
0. Rientrare a casa
Il tema della casa, ed in particolare il problema abitativo che interessa le aree
deboli della domanda sociale, sembra essere tornato, dopo anni di silenzio e di
scarsa attenzione, nella discussione pubblica.
Si tratta di un ritorno non ciclico che trascina con sé profondi cambiamenti.
Cambiamenti che costituiscono una premessa imprescindibile sia per la
costruzione di quadri di comprensione appropriati che per la progettazione di
percorsi di trattamento efficaci: un nuovo campo e nuove regole, mentre
rendono superati i modelli di risposta utilizzati in precedenza, aprono a
possibili e necessari nuovi giochi.
1. Ripresa rispetto a cosa e ripresa perché?
La questione abitativa entra nell’agenda pubblica tra la fine del 1800 e l’inizio
del secolo ventesimo come aspetto non marginale da affrontare per restituire
alla città dignità, decoro, igiene. Dal 1860 al 1902 Milano passa da 186.000
abitanti a 442.000.
La trasmissione di malattie e di pestilenze, il rischio di contagio e di
diffusione di infezioni rendono gli insediamenti fatti di baracche, gli
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accampamenti provvisori e autocostruiti, le strutture abitate in stato di
abbandono focolai pericolosi e insalubri, una minaccia da eliminare e
comunque da evitare. Il modo in cui la questione abitativa si presenta ed è
costruita all’inizio del Novecento porta a tenere insieme interessi pubblici e
privati: lo IACP viene costituito nel 1908 con Regio Decreto, dopo
approvazione del Consiglio Comunale e dietro istanza presentata dal Sindaco,
come organismo “i cui scopi e fondamenti risultano essere quelli di un ente
morale prevalentemente di indole sociale e di assistenza pubblica, esulando
completamente il concetto del profitto con l’obiettivo di dare alle classi
popolari alloggi quanto più possibile sani e comodi a prezzi quanto più
possibile limitati” (Guerrieri 2000).
Partecipano alla fondazione del nuovo Ente il Comune di Milano con denaro
liquido e attraverso l’apporto di aree e immobili, la Cassa di Risparmio, il
Monte di Pietà, la Banca Popolare, la Banca Commerciale, la Banca
Cooperativa Milanese. L’Istituto, nel 1920 arriva a coinvolgere Pirelli e
Breda per la costruzione di villaggi operai. Ospita inoltre il ‘consiglio degli
inquilini’, organo di rappresentanza degli abitanti della case pubbliche e
parte integrante dell’assetto organizzativo-istituzionale dell’ente.
Nel 1923 l’Istituto viene commissariato dal Prefetto; un nuovo regime si
profila per l’Istituto (e non solo per l’Istituto) che fino all’inizio degli anni
Trenta procede instancabilmente nell’opera di realizzazione di nuovi alloggi:
tra il 1926 e il 1929 sorgono venti nuovi quartieri: i vani passano dai 13.100
per circa 6.000 famiglie circa a 30.850 vani per 13.500 famiglie (Broglio
1929).
Si tratta di una seconda fase della storia della casa popolare che vede negli
anni venti e trenta un periodo importante di crescita e di diversificazione
tipologica (alla casa popolare si affianca la casa economica, gli alloggi
ultrapopolari definite anche case per gli sfrattati, le ‘case minime’ dei
quartieri Trecca, Baggio, Bruzzano e Vialba).
Il riordino delle strutture deputate alla realizzazione e alla gestione delle case
pubbliche porterà ad una articolazione ‘provinciale’ degli Istituti e alla
creazione di un organismo che andava a centralizzare l’attività dei diversi
Istituti (non più così autonomi): il Consorzio nazionale a carattere
obbligatorio fra gli istituti autonomi per le case popolari, ente intermedio fra
le articolazioni periferiche e il Ministero dei Lavori Pubblici.
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Spinto anche dalla retorica fascista antiurbana e dall’intenzione mussoliniana
di sviluppare una politica di bonifica sociale e di contenimento
dell’espansione urbana l’attività dell’Istituto milanese si sposta decisamente
nei comuni dell’hinterland e delle aree semirurali (Lodi, Legnano, Monza,
Sesto San Giovanni, Legnano, Lainate).
La terza fase si apre con la stagione della ricostruzione postbellica e del
rilancio socio-economico di un paese piegato dalla povertà.
Nel 1951 a Milano risiedono 1.243.000 abitanti, 160.000 sistemati in alloggi
di fortuna, 20.000 i baraccati, 50.000 le famiglie che vivono in coabitazione.
Gli immigrati, nello stesso anno, risultano essere 17.000.
Nel 1949 il ‘Piano Fanfani’ rilancia l’attività di costruzione utilizzata come
leva per avviare il processo di ripresa economica e occupazionale in Italia.
L’attività di costruzione di ‘case per i lavoratori’ viene potenziata al massimo.
Nasce l’INA-Casa come struttura centrale di gestione dei finanziamenti
finalizzati all’edilizia pubblica in locazione o a riscatto.
I nuovi piani di investimento e le nuove leggi portano l’Istituto, in particolare
nella città di Milano, considerata nodo strategico nella geografia della rete che
guida la crescita economica dell’intero paese, a trasformarsi in agente inserito
a pieno titolo nel processo di costruzione e attuazione delle politiche di
sviluppo urbano e considerato sempre meno per la sua funzione sociale e
assistenziale. Lo Iacp è attore centrale nella definizione degli indirizzi di
piano e avvia la realizzazione di interi quartieri; un modello di azione e un
ruolo che porterà l’ente all’idea dei quartieri autosufficienti nei quali si
provvederà a realizzare non solo le case ma anche strutture di servizio, il
commercio, lo spazio pubblico, le infrastrutture di collegamento (quartiere
Comasina, Mangiagalli, Varesina, Harar, …).
Tra gli anni ’50 e ’60 la nuova legislazione e le disponibilità finanziarie
determinano una articolazione e una diversificazione dei soggetti incaricati di
aumentare il patrimonio abitativo pubblico: l’Incis, l’Ina-Casa, l’Unra-Casa,
l’Ente edilizio per i mutilati, case per ferrovieri, per i postelegrafonici, per i
senza tetto, per i profughi, il Fondo per l’incremento edilizio, le Cooperative
di dipendenti statali, gli Istituti per case popolari aziendali.
Un sistema che viene a complicarsi progressivamente e che porta, dentro ad
un quadro normativo in continua trasformazione, in un clima sociale teso e
fortemente conflittuale, all’interno di un rapporto non chiarito tra
amministrazioni Comunali e governo centrale, dentro ad un gioco di forze in
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cui sempre più consistenti appaiono gli interessi che spingono verso l’edilizia
economica (agevolata e convenzionata) per l’accesso alla proprietà, alla
paralisi del sistema pubblico di produzione di abitazioni popolari.
Nel 1960, a Milano, vengono realizzati 9.000 alloggi di edilizia popolare;
nell’intera provincia, tra il 1978 e il 1995, vengono realizzati in media 620
alloggi all’anno.
Dal 1981 al 2001 le famiglie che abitano in affitto (pubblico e privato) nei
Comuni capoluogo della Lombardia passano dal 58% al 22%.
Mentre si chiude la stagione gloriosa dell’edilizia pubblica in locazione i cui
alloggi prodotti nel tempo vengono progressivamente alienati e stralciati per
tentare di colmare il deficit di bilancio degli Istituti (nel 1985 a Milano lo
IACP è costretto a vendere le case per poter pagare lo stipendio ai suoi
dipendenti) determinando una perdita consistente di patrimonio pubblico, si
vengono a delineare le coordinate che definiscono il sistema della domanda
abitativa vecchia e nuova e il meccanismo deputato a governare e organizzare
il meccanismo di produzione dell’offerta pubblica.
2. Qualcosa è cambiato
Le trasformazioni riguardano tanto le condizioni di contesto - la
configurazione della domanda e il tipo di bisogno espresso (chi domanda
cosa), l’emergere di aree di esclusione, il blocco e la scomparsa dei canali
tradizionali di finanziamento pubblico - quanto le prospettive di intervento e
le dinamiche che regolano i processi di costruzione delle risposte – il
trasferimento alle Regioni delle competenze in materia abitativa chiamate a
definire gli indirizzi delle politiche pubbliche e a programmare la spesa
(riferimento al PRERP 2002-2004), i nuovi assetti organizzativi che hanno
interessato gli ex Istituti Autonomi Case Popolari 1, la recente riforma delle
locazioni abitative e degli sfratti (Rossini, Cattaneo, 2000), la revisione della
disciplina che governa l’assegnazione delle case popolari e che definisce le
1.
Con la legge n. 13 del 10 giugno 1996 la Regione Lombardia ha sancito la trasformazione
dello Iacpm da Ente pubblico non economico ad Azienda pubblica economica con l’intento di
garantire alla collettività un utilizzo più trasparente e razionale delle risorse e di portare l’ente
verso un modello organizzativo e gestionale più efficiente.
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linee per la determinazione dei canoni relativi all’edilizia residenziale
pubblica.
Spostamenti di superficie che si appoggiano su una piattaforma non meno
instabile. In modo differente la questione della casa interagisce e ha relazioni
con il nuovo assetto del sistema locale dei servizi sociali ridisegnato dalla
legge 328/00, con le prospettive di riforma degli strumenti di governo del
territorio, con l’irrigidimento delle politiche di accoglienza e di integrazione
rivolte alla popolazione immigrata che trovano nella triangolazione casalavoro-permesso di soggiorno della legge Bossi-Fini un meccanismo di
controllo e di limitazione e sempre meno un sistema di sostegno
all’inserimento e di tutela del nuovo abitante.
La necessità di un cambiamento non è solo dettata da una insoddisfazione
generale per le forme ordinarie di intervento pubblico messe in atto in
particolare dal secondo dopoguerra (Tosi, 1994) ma anche dalla impossibilità
pratica di proseguire su quella strada.
I modelli di riposta costruiti attorno alla politica abitativa pubblica non solo
non rappresentano più una possibile via d’uscita ma sono col tempo diventati
una parte del problema. Domande emergenti e istanze rimaste per troppo
tempo senza risposta si combinano andando a definire un quadro di
sollecitazioni che se non riesce più a fare breccia nella politica interpella in
forme nuove le politiche e coloro che, a diverso titolo, si trovano a ricoprire
un ruolo nel processo di costruzione degli interventi; “le condizioni sono
cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi,
esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato. (…) Tutto ciò vuol
dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale, forse anche
ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico” (Secchi, 1984).
3. Dalla domanda di casa alle domande sulla casa
Intanto nella città, provando a leggerla con gli occhi di chi, disoccupato, la
guarda dal suo balcone di casa, sempre più simile ad una baracca in cui si
tenta, con un celophan trasparente, di rimediare alla mancanza di una cantina
e di un ripostiglio senza però perdere il prezioso affaccio che apre su viale
Molise e rimedia in parte al taglio ridotto dell’alloggio, il processo di
integrazione e di cucitura tra gli insediamenti popolari costruiti nel corso del
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secolo appena trascorso e il resto del tessuto urbano non si è compiuto e,
quando è avvenuto, è stato prevalentemente fisico: strade, collegamenti,
fermate degli autobus e delle metropolitane, qualche servizio di quartiere.
Milano sembra aver escluso il problema delle connessioni forti,
dell’integrazione; ha seguito e subito un modello di crescita per frammenti,
pezzi di città che riescono ad ignorarsi reciprocamente. Ciascuno insegue la
sua città dentro ad uno spazio dilatato e opaco che non riesce a produrre
processi leggibili di sensemaking, che fatica ad organizzarsi, a strutturarsi
come luogo collettivo, come luogo (in) comune (Weick 1995), come luogo in
cui si conosce e si riconosce la società che abita.
Mentre guardiamo alla regione metropolitana ci troviamo a fare i conti con
una città per parti, separata, isolata al suo interno, anestetizzata. Una città che
forse preferisce guardare fuori, pensarsi altrove, piuttosto che guardarsi
dentro.
L’interrogativo sui destini dell’edilizia pubblica e della casa popolare riporta
l’attenzione sulla città come spazio dell’abitare, dell’abitare plurale, fatto di
diverse strategie. In particolare sposta l’attenzione su quelle storie e su quei
percorsi faticosi, che con grandi difficoltà trovano il modo per dimorare,
svilupparsi o per resistere. Di queste storie sembra non esserci traccia
nell’agenda pubblica: queste storie restano marginali, sconosciute, invisibili.
Non esistono.
Come affrontare il processo di riemersione, ammesso che ci interessi?
Una prima questione intercetta il livello politico e culturale: la questione
abitativa non è risolta. Sicuramente è cambiata ed è chiamata ad affrontare
problemi nuovi, in forme nuove.
La capacità di risposta pubblica al problema casa si appoggia a Milano su un
patrimonio di circa 60.000 alloggi; 2/3 di proprietà Aler, 1/3 di proprietà
comunale. Con una lista di attesa di circa 32.000 domande (17 mila risultanti
dai tre bandi precedenti e 12.500 domande derivanti dal bando 2001) nella
città sono stati realizzati, dal 1995 al 2001, 470 alloggi pubblici. Ogni anno il
Comune si ritrova 1.000 alloggi liberi (i cosiddetti alloggi di risulta) che
rappresentano l’unica possibilità attraverso cui soddisfare le richieste di case
popolari. Non solo non si riesce ad assegnare alloggi ma quei pochi che
vengono assegnati intercettano la quota più problematica della domanda:
sfratti esecutivi, ex pazienti degli ospedali psichiatrici, anziani e invalidi con
redditi inesistenti, donne sole senza lavoro con minori a carico.
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Per queste ragioni è un problema non aver la casa ma è un problema
(differente) anche averla senza essere nelle condizioni di poterla mantenere e
gestire (Irer 2001), di riuscire a con-vivere nello stesso stabile con gli altri
inquilini, di stare nei cortili di quartieri abitati da 1500, 2 mila persone lasciate
a se stesse; senza portineria, senza regole, senza supporti.
Stiamo andando incontro ad una città che ha pochi pensieri, poche risorse ed
energie, pochi progetti da rivolgere ai suoi abitanti (Balducci, Rabaiotti 2001).
Una città che non riesce a costruire politiche pubbliche intendendo con questo
quelle politiche che se non vengono promosse e sostenute dal pubblico non le
fa nessun altro.
La quota pubblica nelle politiche appare sempre più spesso affidata ai residui
di politiche altre. In questo senso la casa ci aiuta: funziona da spia, da segnale,
da avvertimento.
Una seconda questione è di natura scientifica, disciplinare.
Per diversi anni non si è più parlato di casa, nelle università, nelle scuole,
negli istituti di ricerca. Il vuoto non è solo nelle agende pubbliche.
Abbiamo anche noi smesso di interrogarci, di voler capire, di provare a
conoscere.
Un pezzo di storia della città è sfuggito anche alle discipline che hanno fatto
del territorio il loro centro di attenzione: le analisi economiche, sociali,
geografiche, politiche, antropologiche, la progettazione urbanistica, edilizia.
E’ necessario riprendere una riflessione che si è fermata alcuni decenni fa:
esistevano allora riviste, pubblicazioni, corsi e discorsi.
Il cambiamento che segna oggi la questione abitativa, profondamente diversa
per le trasformazioni che hanno interessato la struttura del meccanismo di
regolazione tra domanda e offerta, chiede che si riprenda il tema, che la casa
torni ad essere oggetto di attenzione e di studio. Da una parte vi è infatti una
emergenza sociale che chiede di essere disarticolata: una domanda che va
specificata iniziando da un ragionamento che chiarisca “chi chiede cosa” e poi
provi a dimensionare, ad organizzare, ad orientare; dall’altra vi è lo
spiazzamento delle istituzioni deputate a governare la questione. Regioni e
Comuni sono per la prima volta di fronte a problemi e temi inediti. Mentre
hanno a disposizione le risorse trasferitegli dal governo centrale (forse le
ultime) tendono a riprodurre un modello di intervento tradizionale senza
potersi permettere la disponibilità economica e finanziaria quasi illimitata
quale è stata, per diversi decenni, quella rappresentata dal fondo Gescal.
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La prima preoccupazione degli Enti Locali è diventata quella della
rigenerazione dei capitali: la rigidità dei bilanci pubblici chiede che le riserve
destinate all’edilizia popolare siano in grado di auto-alimentarsi, che il
capitale investito oggi rientri domani: il canone sociale si estende verso l’alto
con l’introduzione del canone moderato. Invece che intercettare la domanda
più bassa e svantaggiata o esclusa si dà la possibilità ai redditi medi di entrare
nell’edilizia pubblica pagando un canone di locazione più elevato. Le Aler si
trovano nella necessità di portare in pareggio bilanci che sono spesso sfuggiti
al controllo e per farlo intervengono sull’unico capitolo di cui possono
disporre: la valorizzazione del patrimonio esistente e il suo incremento
(privilegiando appunto l’introduzione di alloggi a canone moderato).
Compare in questi anni un timido terzo settore abitativo il cui ruolo appare per
il momento ancora incerto ma non privo di potenzialità.
Servono indicazioni, progetti, indirizzi alla cui definizione e costruzione la
ricerca non può sottrarsi.
Ha ancora senso parlare di affitto sociale? Dove conduce la strada che vuole
tutti i cittadini proprietari di casa dentro ad un quadro che, ridotte le protezioni
sociali, espone sempre più persone al rischio di caduta rendendole
vulnerabili? Quali effetti sta producendo sul meccanismo dell’offerta
l’ingresso di operatori internazionali della finanza immobiliare? Siamo in
grado di riformulare un discorso sulla casa che porti pubblico e privato ad
identificare un terreno comune e a verificare la possibilità di sviluppare un
ragionamento congiunto intorno all’abitare sociale? Cosa sta accadendo nei
quartieri popolari che mancano di presidi, che vengono gestiti illegalmente,
che per diverse tipologie sociali rappresentano l’unico modo per avere un
tetto? Quali diventano i nodi sensibili da attivare in un contesto
profondamente mutato?
Un terzo livello del ragionamento è quello associato al governo, alle forme
attraverso cui si sta affrontando il problema e alle modalità attraverso le quali
si potrebbe diversamente affrontare (Tosi, a cura di, 2003).
E’ il livello su cui si gioca anche l’assistenza tecnica e l’intervento di
consulenza.
Con la riforma del titolo V della Costituzione anche la materia abitativa è
passata dallo Stato alle Regioni.
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Il Programma Regionale per l’Edilizia Residenziale Pubblica (PRERP) 20022004 ha definito, in Lombardia, gli indirizzi per le politiche del triennio e la
programmazione della spesa.
Siamo nel mezzo della prima parentesi attuativa del documento di
programmazione e stiamo assistendo all’affanno delle Amministrazioni locali
interessate, in alcuni casi, a concorrere per poter ottenere le risorse messe a
bando. Ad oggi sono stati attivati e si sono concluse le operazioni relative a 5
delle 10 misure di intervento previste nel PRERP. Sono in corso di
svolgimento i bandi relativi ai Contratti di Quartiere e ai Programmi
Comunali per l’Edilizia Residenziale Sociale.
Con riferimento ai Contratti di Quartiere il nostro Dipartimento si trova
impegnato in una attività di consulenza richiesta dal Comune di Milano.
Chi di noi è impegnato in questo lavoro sa cosa voglia dire affiancare
l’Amministrazione di questa città su un tema così delicato e in una
congiuntura così particolare.
Ci rendiamo conto di quanto le istituzioni si trovino a dover rincorrere
problemi sconosciuti o dati per scontati, avvertiamo quanto sia difficile
costruire azioni non banali dovendo rispettare le scadenze e i vincoli del
bando, constatiamo quanto sia urgente e necessario utilizzare paradigmi
differenti e grane analitiche più sottili nel momento in cui avviciniamo chi
abita negli edifici che si dovranno ristrutturare, modificare, recuperare.
Nel ritmo accelerato in cui ci troviamo a lavorare si avverte il rischio che, alla
fine, anche questa esperienza andrà ad affiancarsi alle altre occasioni che
abbiamo avuto e che, anche per la paura di aprire un percorso di confronto e
di valutazione interno e tra noi e la città, la lasceremo cadere senza che possa
fare storia e insegnarci qualcosa.
Forse impropriamente vengono richieste a noi capacità, competenze, ruoli che
spetterebbero ad altri (come mai la Regione non ha pensato ad accompagnare
l’attuazione di questo primo Programma con la costituzione di un gruppo di
assistenza tecnica in grado di sostenere lo sforzo dei Comuni chiamati per la
prima volta a giocare ad un gioco che non hanno mai praticato? Perché il
Comune non si attiva per portare i diversi settori chiamati in causa a
convergere per aggiungere risorse e competenze nel lavoro su questi quartieri?
Come mai non si ritiene opportuno giocare al rialzo e rendere evidente lo
sforzo che in questo momento si sta compiendo per mettere mano alla
disastrosa situazione in cui versano alcuni isolati di case popolari?).
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Avvertiamo il pericolo, l’imbarazzo e il limite di questa posizione ed è invece
più difficile cogliere l’opportunità: quella di poter riavviare un discorso sulla
casa, di essere nelle condizioni di riprendere una riflessione interrotta.
Anche questo vuoto è parte della penuria.
4. Il riconoscimento e la ripresa
Sappiamo che politiche e piani di intervento sono parte del racconto che ci
parla della domanda abitativa e dell’offerta, ci dicono della retorica e della
strategia, delle intenzioni esplicite e di quelle non dette, delle regole e delle
priorità, dei successi e dei fallimenti (Olmo 1992). Un’altra parte del racconto
è quella che sfugge dalle maglie delle iniziative ufficiali: è rappresentata dalle
voci deboli di chi abita, di chi ancora trova la forza per parlare, di chi sostiene
quelli che la forza l’hanno persa (Comitato Inquilini Molise-Calvairate Ponti
2003).
Molte voci si incrociano, si confondono e, nella disattenzione urbana, si
perdono. Essere stati lontani rende oggi difficile ascoltarle, riconoscerle,
considerarle.
“Esprimere è essenziale per scoprire e per scoprirsi.
Studiare è necessario per crescere, identificarsi, maturare,
ma i libri sono soltanto una fonte dell’apprendere.
Occorre saper leggere anche rocce, alberi, voli, creature,
il mare, le nuvole, le stelle. Leggere nel lavoro”
(Dolci 1993)
Da qualche anno a questa parte la casa è sparita dai dibattiti sulla città.
E’ questo il tempo della ripresa. Di una ripresa che sia fatta di saperi e
conoscenze plurali, articolate, ibride; questa è la condizione necessaria per
mettere mano all’agenda e provare a fissare un primo appuntamento.
Un passo in questa direzione possiamo e dobbiamo farlo anche noi.
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Riferimenti bibliografici
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e per la città, in “Territorio”, n. 16, pp. 78-88, Milano, 2001;
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Comitato Inquilini Molise-Calvairate Ponti, Relazione dell’attività svolta dal
settembre 2002 all’agosto 2003 e da svolgere nel quadrimestre settembredicembre 2003, non pubblicato, Milano, settembre 2003;
Dolci D., Gente semplice, Camunia, Milano, 1993;
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Lombarda 2000, Guerini e Associati, Milano, 2001;
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