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L`annosa questione degli squilibri economici internazionali, il piano

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L`annosa questione degli squilibri economici internazionali, il piano
 Massimo Amato – Università Bocconi L’annosa questione degli squilibri economici internazionali, il piano Keynes e l’UEP Vorrei provare a prendere sul serio il titolo della mia comunicazione, che a dire il vero mi sono ritrovato come titolo definitivo a causa di una certa pigrizia esistenziale che mi contraddistingue ultimamente. Ma forse non tutti i mali vengono per nuocere. Voglio dunque partire dall’aggettivo che qualifica nel titolo la questione degli squilibri internazionali. Perché si tratta di una questione annosa, dunque di una questione su cui sembrerebbe che la conoscenza storica possa dare lumi? C’è qualcosa, lo squilibrio internazionale, che si trascina negli anni, se non nei secoli. E forse si trascina non perché si tratterebbe di una situazione di fatto, difficilmente risolvibile. Si tratta piuttosto di un problema la cui soluzione non si trova non tanto perché non si dia, ma perché una pigrizia concettuale ci impedisce di cercarla. Se non addirittura di porre adeguatamente il problema. Di porlo, cioè, in termini di principi di funzionamento e di architetture monetarie. Con Fantacci mi è capitato di scrivere una storia del sistema finanziario internazionale, in cui ci è apparso con una certa chiarezza che, da quando esistono i mercati finanziari, gli squilibri internazionali non sono mai stati davvero affrontati per essere risolti, ma al massimo per essere gestiti. Questo fin dai tempi del Gold standard. Gli storici più autorevoli di questo sistema, a partire da De Cecco, hanno sempre fatto osservare il Gold standard si caratterizza per una profonda divergenza fra la sua teoria e la sua pratica. A proposito di pigrizia concettuale… In estrema sintesi: mentre la teoria del Gold standard (Ricardo in primis) afferma che il meccanismo stesso di funzionamento del Gold standard produce, senza interventi politici, un riassorbimento degli squilibri, in sostanza grazie al meccanismo humiano del price‐species flow (un meccanismo in cui l’onere di aggiustamento è simmetrico fra paesi in surplus e paesi in deficit), la pratica, quale la registrano gli storici, è piuttosto quella di un tendenziale posponimento del pagamento dei debiti mediante il finanziamento dei deficit, reso sostanzialmente possibile da meccanismi di leva finanziaria. La cosa si spiega al fondo per la natura stessa dei meccanismi di aggiustamento automatico previsti da quel sistema monetario internazionale: da una parte sempre più politicamente impraticabili e socialmente pericolosi (il riaggiustamento per via di deflazione), dall’altra sempre più facilmente aggirabili a misura che il sistema finanziario sviluppa le sue innovazioni, fondate essenzialmente su un costante approfondimento degli effetti di leva (fino alla possibilità di finanziare posizioni debitorie subprime) Resta il fatto che per come funziona, a leva finanziaria presuppone non solo la possibilità di finanziare i deficit, finché le aspettative sono positive, ma anche, in caso di inversione delle aspettative, un addossamento dell’eventuale onere di aggiustamento sui soli debitori. Questo è quello che Fantacci ed io chiamiamo nel nostro libro il principio della liquidità. Secondo questo principio la moneta è costruita come un asset che i creditori possono accumulare indefinitamente senza costi e che proprio per questo frutta una rendita. L’alternativa sempre disponibile fra rifinanziare i debitori e tesaurizzare moneta mette i creditori nelle posizione di pretendere e ottenere un premio di liquidità, ossia una rendita. Finché vige questo principio monetario, ogni liberoscambismo commerciale, anche quello più estremo, nasconde in filigrana un atteggiamento mercantilistico, espresso dalla dissimmetria fra le posizioni di surplus, auspicabili e ricercate, se non addirittura giudicate virtuose, e le posizioni di deficit, evitate e politicamente pericolose, oltre che moralmente riprovevoli. 1 Storicamente, gli effetti sul commercio internazionale dei sistemi basati sulla liquidità sono sempre, prima o poi, effetti drammatici: il “dolce commercio”, che essi sembrano poter sostenere indefinitamente e automaticamente, alimenta e accumula in verità motivi di contrasto: guerre commerciali e spesso semplicemente guerre. Keynes parla di tutto ciò nel capitolo 24 della General Theory, e parla della necessità di concepire il sistema del commercio internazionale in modo tale possa realmente avere una funzione pacificatrice. Cito: [qualora il quadro istituzionale della moneta fosse adeguatamente mutato secondo gli auspici della GT], sarebbero sempre possibili la divisione internazionale del lavoro e i prestiti internazionali, in adatte condizioni [cioè come investimenti diretti all’estero N.d.R.]. Ma non esisterebbe più un motivo urgente perché un paese si trovi costretto a svendere le sue merci in un altro o a respingere le offerte del vicino, non perché ciò fosse necessario a metterlo in grado di pagare ciò che esso desiderasse acquistare, ma con lo scopo esplicito di sconvolgere l’equilibrio dei pagamenti in modo da sviluppare una bilancia commerciale a proprio favore. Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è attualmente, un espediente disperato per preservare l’occupazione interna forzando vendite di merci sui mercati stranieri e restringendo gli acquisti, […] ma sarebbe uno scambio volontario e senza impedimenti di merci e servizi in condizioni di vantaggio reciproco. Ciò che nel 1936 resta un auspicio non tematizzato teoricamente, diviene il fine esplicito di un progetto messo nero su bianco nel 1944. È il progetto della International Clearing Union. In gioco con l’ICU è fin da subito un altro principio architettonico del sistema monetario, che Fantacci ed io chiamiamo principio della compensazione. Lo si può descrivere in diversi modi, ma il punto che qui mi interessa è il fatto che si tratta di un principio basato sulla simmetria dell’onere di aggiustamento degli squilibri, a che a sua volta si basa sul fatto che deficit e surplus vengano considerati entrambi, simmetricamente, forme di squilibrio da riassorbire. Anche qui una citazione di Keynes vale più di molte mie parole, anche perché si tratta del controcanto alla messa in guardia della General Theory: Un paese che si trovi in posizione di creditore netto rispetto al resto del mondo dovrebbe assumersi l’obbligo di disfarsi di questo credito [enter into an obligation to dispose of this credit] e non dovrebbe permettere che esso eserciti nel frattempo una pressione contrattiva sull’economia mondiale e, di rimando, sull’economia dello stesso paese creditore. Questi sono i grandi benefici che esso riceverebbe, insieme a tutti gli altri, da un sistema di clearing multilaterale. […] Non si tratta di uno schema umanitario filantropico e crocerossino, attraverso il quale i paesi ricchi vengono in soccorso ai poveri. Si tratta, piuttosto, di un meccanismo economico altamente necessario, che è utile al creditore tanto quanto al debitore. Che cosa significa per Keynes che anche il creditore abbia obblighi in ordine al raggiungimento dell’equilibrio? Che alla tradizionale obbligazione del debitore, che gli impone di pagare i debiti, si aggiunge un’obbligazione, simmetrica ma non uguale, del creditore a rendere pagabili i debiti altrui spendendo i crediti propri. Ogni parte in causa ha l’obbligo di rientrare dal suo peculiare squilibrio. È sulla base di questo principio di simmetria che Keynes predispone il peculiare funzionamento della ICU, che riassumerei così: 2 1. la moneta di conto della ICU, il bancor (i norvegesi avevano proposto Demos) è una moneta internazionale nel senso che non è la moneta nazionale di nessuna nazione 2. i tassi di cambio delle monete nazionali sono fissati rispetto al bancor 3. il bancor è moneta di conto, e diviene mezzo di scambio nella forma di attivi in bancor spendibili all’interno della ICU e non convertibili in oro. Il bancor non è dunque riserva di valore, o se si vuole reserve asset 4. tutti i paesi partecipanti hanno una overdraft facility proporzionale alla loro quota di mercato internazionale 5. Gli interessi sono pagati sia sulle posizioni in deficit sia sulle posizioni in surplus (Keynes chiama questa clausola esplicitamente “Gesell clause”) 6. La “Gesell clause” stimola aggiustamenti simmetrici per quella parte degli squilibri che può legittimamente essere considera congiunturale 7. La stessa clausola, nella misura in cui non riesca nell’obiettivo del riassorbimento, lascia apparire squilibri strutturali, cui si risponde con aggiustamenti simmetrici dei tassi di cambio volti a rispristinare le condizioni di competitività Il progetto di Keynes a Bretton Woods rimane sulla carta, e tutti sappiamo che ciò che esce dalla conferenza è un sistema di Gold Exchange standard fino al 71 e poi di puro Exchange standard dal 71 a oggi. Il principio della liquidità è preferito nel 1944, in nome degli interessi di breve periodo dei creditori, e dei debitori, al prezzo della rinuncia all’equilibrio di lungo periodo sulla base del principio dell’aggiustamento simmetrico. Non potendomi accontentare di spiegazioni del fallimento del piano Keynes che facciano leva sui rapporti di forza, ciò che mi preme sottolineare è un elemento di pigrizia concettuale se non addirittura di arroccamento dogmatico. Ciò che è rifiutato a Bretton Woods non è solo il piano, ma anche il principio su cui si basa, quello della compensazione, in nome di un altro principio, quello delle liquidità. In gioco a Bretton Woods non ci sono solo i vested interests ma anche le idee, le uniche che per Keynes “presto o tardi sono pericolose sia in bene sia in male”. Lo dico perché rispetto alle scelte perpetrate a Bretton Woods, la ripresa dell’idea alternativa è sempre possibile. Soprattutto in condizioni in cui la maggiore solidità economica dal principio della compensazione può far breccia a causa dei danni provocati dall’altro principio, anche agli stessi portatori d’interessi costituiti. È il caso dell’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Complessivamente debitrice nei confronti degli Usa e totalmente sprovvista di liquidità, e nella necessità crudele di organizzare cooperativamente la sua ripartenza, l’Europa sceglie ciò che il mondo aveva rifiutato qualche anno prima. Nel 1950 è precisamente una camera di compensazione di tipo keynesiano ciò che viene messo in atto in Europa: la Unione Europe dei Pagamenti (UEP). Dal 1950 al 1958 un’Europa che non riesce a innescare la ripresa per mancanza di liquidità trova uno strumento per farne a meno. La storia della UEP è una storia virtuosa: 1.
è posta in essere in meno di nove mesi, ed è salutata con favore da economisti del calibro di Rueff e Triffin 2.
si fonda sui principi di compensazione e di simmetria di aggiustamento, pur non utilizzando tutto lo strumentario previsto da Keynes 3.
rende possibile un rilancio degli scambi intereuropei su base multilaterale, evitando la trappola della proliferazione degli accordi di scambio bilaterale 4.
rende quindi possibile una ripartenza delle economie più provate, in particolare quella tedesca, e dell’Europa nel suo complesso rispetto al resto del mondo 3 5.
contribuisce grandemente alla creazione dei presupposti per un mercato comune europeo Questa è la storia recente. Che già dovrebbe fornire qualche elemento di riflessione sulla attuale situazione dell’Europa, e in particolare della zona euro e dei suoi squilibri apparentemente non riassorbibili, e il cui riassorbimento è stato finora essenzialmente imposto dai creditori ai paesi debitori. Con il rischio che la prospettiva di un’uscita dall’euro, per quanto foriera di mali probabili risulti per alcuni preferibile a una permanenza portatrice di mali certi. In ogni caso si tratta di un’Europa che non è più poi così certa della bontà delle sue istituzioni monetarie. Ma ci saranno altre comunicazioni che cercheranno di attualizzare quanto ho finora detto da una prospettiva storica. Per questo vorrei concludere non con prescrizioni ma con un apologo, preceduto da una premessa. Una delle critiche che più spesso sono state rivolte al processo di creazione dell’euro è che tale processo ha preceduto un’effettiva unificazione politica dell’Europa. Una critica cui si risponde normalmente con un’esortazione ad avere “più Europa” e dunque di forzare le tappe dell’unificazione politica. Forse, tuttavia, il problema principale non sta in questa inversione dell’ordine consueto, quanto nel modo in cui l’unificazione monetaria è stata messa in atto. Potremmo dirlo così. Mentre si chiedeva alla moneta unica di rafforzare l’unificazione europea, si chiedeva ai mercati finanziari di far funzionare la moneta unica, in una sorta di processo di privatizzazione della politica, in cui le banche decidono per gli stati. Ma se ora immaginassimo un sistema strutturato in modo tale che 1. banchieri privati gestiscono in economia un sistema di compensazioni multilaterali degli scambi commerciali intereuropei, utilizzando una moneta di conto intereuropea che non sia un reserve asset ma una pura unità di conto il cui cambio è fissato nelle differenti monete locali 2. Che questa moneta si chiami, poniamo, “écu” 3. Che la fissazione dei cambi fra écu e monete locali renda possibile sia a) la compensazione multilaterale di importazioni e esportazioni sia b) l’emergenza di squilibri attivi e passivi in moneta internazionale, su base trimestrale 4. Che gli squilibri trimestrali diano origine a una ridefinizione simmetrica dei tassi di cambio, in modo che i paesi in surplus vedano la loro moneta rivalutata in termini di moneta internazionale e i paesi in deficit svalutata e questo al fine di dare agli operatori un’indicazione su come riorientare i flussi di scambio nel trimestre successivo Se immaginassimo un sistema di questo tipo, non inventeremmo niente. Ci basterebbe ricordare. Tale sistema è, di fatto, esistito in Europa per più di quarant’anni nel bel mezzo del Cinquecento. Era il sistema delle Fiere dei cambi di Lione. Questo sistema rese possibile una crescita equilibrata del commercio intereuropea senza doversi fondare su movimenti capitali. Il sistema finì per la concorrenza dei debiti pubblici degli stati nazionali nascenti, che in quello stesso secolo cercavano fonti di finanziamento internazionali. E la maggior redditività del finanziamento dei debiti pubblici spiazzò il finanziamento dei commerci. Gli stati nazionali crebbero in potenza, ma l’economia entrò in depressione. Il secolo successivo fu un secolo di guerre e di recessione economica. L’apologo a questo punto potrebbe insegnarci alcune cose. 4 Il primo insegnamento è innanzitutto che l’alternativa fra i principi delle liquidità e della compensazione è un’alternativa sempre attivabile, e non un dato di una storia evolutiva, la quale avrebbe definitivamente mostrato la maggior efficienza del principio della liquidità. Il secondo insegnamento concerne gli insegnamenti della storia. La storia insegna che niente ritorna mai nello stesso modo, anche che i problemi irrisolti continuano a interpellarci, richiedendo ogni volta soluzioni appropriate alla situazione in cui viviamo. Sembrerebbe proprio che il problema dell’attuale mancata ripartenza dell’economia europea sia ancora un problema di spiazzamento. Il sistema finanziario sembra ancora una volta prediligere il finanziamento dei debiti pubblici al finanziamento delle imprese. I debiti pubblici pregressi e accumulati continuano a esistere, e certo nessun colpo di bacchetta magica li può cancellare. Vanno dunque finanziati e al contempo ridotti. Ciò a cui però si può pensare è di affiancare agli strumenti utilizzati a questo fine dai mercati finanziari altri strumenti che non li neghino ma che al contempo rispondano a una logica differente e a scopi diversi. Il fatto che il predecessore dell’euro fosse l’ECU, ossia una pura unità di conto, potrebbe fornirci qualche spunto interessante, anche per affrontare i problemi segnalati da T2 e la proposta di T3 come soluzione non antagonistica ma complementare dei problemi degli squilibri della zona euro. I quali rischiano, anch’essi, di diventare fin troppo annosi. 5 
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