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La nuova frontiera

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La nuova frontiera
La nuova frontiera
«La nuova frontiera» non è solo la formula – memorabile – nella quale
John F. Kennedy decise di racchiudere il senso e la sfida della sua presidenza. Quando, nel luglio del 1960, la pronunciò per la prima volta,
l’America si trovava in un passaggio difficile della sua storia, non tanto
per i rischi di una perdita della supremazia strategica, in un mondo dominato dalla guerra fredda, quanto per una sorta di insicurezza, di calo di fiducia nel proprio potenziale e nei propri destini. A essere chiamata in
causa era la dimensione della storia americana, la sua connaturata necessità di tendere verso nuovi obiettivi e nuove conquiste, pena l’insuccesso
e la sconfitta. Un benessere materiale più solido e più largamente distribuito, una più forte acquisizione dei diritti e delle libertà di tutti, un abbattimento delle barriere e delle discriminazioni razziali, e in fin dei conti la disponibilità di ciascun americano a prendere sulle sue spalle il proprio destino, erano i necessari presupposti senza i quali non avrebbe potuto funzionare, né trovare una sua legittimità, l’idea stessa di un modello americano da proporre al mondo.
Tra i discorsi e gli scritti raccolti in questo volume – tutti concepiti nel
brevissimo torno di anni intercorsi tra la candidatura di Kennedy alla Casa bianca e la fine tragica a Dallas – spicca non solo il fascino di una retorica dell’America civile che ha trovato in Kennedy forse il suo più abile
rappresentante (e che solo Obama ha mostrato di saper emulare). È il
concetto di storia come processo aperto e sottoposto, in ultima istanza,
alla responsabilità democratica di tutti i suoi attori: è la fiducia nella superiorità della democrazia sul dispotismo. Ed è la convinzione – magistralmente espressa nel pamphlet Una nazione di immigrati, per la prima
volta qui tradotto in italiano – che sono le diversità a fare la qualità dell’America, che la sua forza si esprime proprio in ragione del carattere
composito del suo aggregato. Gli immigrati sono l’America, ci ricorda
Kennedy con una forza argomentativa incontrovertibile. Pensiero che
suona, dopo cinquant’anni, fortissimo – e scomodo – all’orecchio delle
nostre incupite paure di vecchi europei.
Kennedy
John F. Kennedy nacque a Brookline, Massachusetts, nel 1917, secondogenito di Joseph P. Kennedy e Rose Fitzgerald, membri di due tra le famiglie più in vista di Boston. L’origine irlandese e la stretta osservanza
cattolica della famiglia segnarono la sua prima formazione. Nel 1936 si
iscrisse all’Università di Harvard, dove conseguì, nel 1940, una laurea
cum laude in International Affairs. Scoppiata la guerra, nonostante una
grave malattia alla spina dorsale, fu arruolato in Marina, dove assunse il
comando di una motosilurante. Il 2 agosto 1943 la sua nave fu speronata
da un cacciatorpediniere giapponese, e Kennedy si adoperò per portare in
salvo i suoi marines, meritandosi sul campo una medaglia. Qundo il fratello primogenito Joseph Jr. morì in un’azione di guerra, tutte le ambizioni politiche della famiglia si concentrarono su John. Membro del Congresso per il Partito democratico nel 1946, nel 1952 conquistò un seggio
di senatore. Nel 1953 sposò Jacqueline Bouvier, anche lei figlia di una delle famiglie più importanti d’America. Nel 1957 Kennedy pubblicò il libro Profiles in Courage, che vinse il premio Pulitzer per le biografie.
L’anno successivo pubblicò il pamphlet A Nation of Immigrants.
A gennaio del 1960 Kennedy lanciò la sua candidatura per la presidenza degli Stati Uniti. Vinte inaspettatamente le primarie, il 13 luglio fu nominato
candidato del Partito democratico. In settembre, si confrontò con il repubblicano Richard Nixon nel primo duello televisivo per la conquista della
presidenza, la cui vittoria fu da tutti considerata determinante ai fini del
successo finale, ottenuto, di strettissima misura, l’8 novembre. Assunta la
carica il 20 gennaio 1961, il presidente dovette gestire una delicatissima
contingenza internazionale: nell’aprile 1961 Kennedy patrocinò lo sbarco
a Cuba, presso la Baia dei porci, di 1500 esuli cubani contrari al regime di
Fidel Castro – sbarco risoltosi in un clamoroso fallimento; l’anno successivo, aerei spia americani rilevarono che i sovietici stavano costruendo una
base missilistica a Cuba; ne nacque la «crisi dei missili», che portò il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare; degli stessi mesi furono la decisione di
intensificare il programma per la conquista dello spazio e quella di intervenire direttamente nel conflitto vietnamita; nel frattempo Kennedy si adoperò a sottolineare il valore della difesa della libertà di Berlino ovest, accerchiata dal Muro che il regime comunista le aveva costruito intorno. Superata la fase più dura dello scontro, con i sovietici furono poi avviate concrete trattative, che inaugurarono la riduzione bilanciata degli armamenti.
Il 22 novembre del 1963 Kennedy cadde vittima di un attentato tragico e
tuttora oscuro. Lee Harvey Oswald, accusato dell’omicidio e catturato,
fu a sua volta ucciso, due giorni dopo, da Jack Ruby. La Commissione
Warren concluse che Oswald aveva agito da solo; tuttavia nel 1979 il Committee on Assassinations dichiarò che si era trattato di una cospirazione.
John Fitzgerald Kennedy
LA NUOVA FRONTIERA
Scritti e discorsi (1958-1963)
Introduzione di
Giancarlo Bosetti
Traduzione di
Marianna Matullo
donzelli editore
gli essenziali
Per A Nation of Immigrants (revised and enlarged edition)
Copyright © 1964, 2008 by Anti-Defamation League of B’nai B’rith
© 2009 Donzelli editore, Roma
via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it
E-MAIL [email protected]
ISBN 978-88-6036-383-1
ISBN PDF 9788860366108
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Introduzione
di Giancarlo Bosetti
John Fitzgerald Kennedy fu eletto presidente degli Stati Uniti nel novembre del 1960, con una vittoria di stretta
misura contro Richard Nixon, talmente stretta che le contestazioni sui conteggi si prolungarono per diversi mesi.
Quando nel 2000 il risultato della gara presidenziale tra
George W. Bush e Al Gore produsse un risultato ancora
più difficile da assegnare, quel precedente era stato quasi
del tutto dimenticato. Il mito e il carisma di «Jack», il carattere «iconico», come dicono gli americani, della sua presidenza, il carisma dell’intera famiglia dei Kennedy, che sarebbe stato ingigantito dall’assassinio prima di John e poi
del fratello Robert, avevano sommerso nell’oblio quelle
contestazioni, tanto più che ad avanzarle era l’uomo che
sarebbe poi affogato nello scandalo del Watergate e nell’impeachment.
È rimasto invece nella memoria collettiva degli americani – una specie di seconda ed eterna vittoria – il duello
televisivo tra Nixon e JFK, diventato un paradigma, il segnale di inizio dell’era della videopolitica. Infatti dai sondaggi dell’epoca risultava che il pubblico aveva preferito il
secondo perché era apparso più fiducioso e sicuro di sé e
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certamente più affascinante del primo, negato per le apparizioni televisive. Negli stessi giorni della campagna elettorale il confronto radiofonico aveva visto invece prevalere
Nixon, il che, visto poi il risultato, dimostrava, quasi in laboratorio, l’incidenza della televisione.
La natura leggendaria, accresciuta dalla giovinezza di
un presidente che entra alla Casa bianca a soli 43 anni
(Obama lo ha fatto a 48), con la bellissima Jacqueline e i
due piccoli John John e Caroline – immagini di una dorata, sublime felicità famigliare –, il trauma della conclusione a Dallas il 22 novembre del 1963, tutto questo ha in un
certo senso complicato la comprensione della sua presidenza, l’ha collocata in una bolla mediatica, ne ha fatto,
appunto, una icona nell’immaginario globale. Nelle rievocazioni è rimasto molto spesso in ombra il posto che Kennedy ha avuto nella storia del XX secolo in una fase cruciale della guerra fredda, le politiche che ha sostenuto, la
cultura riformatrice e progressista che lo ha ispirato. Nel
corso dei decenni la sua figura è stata oggetto sia di mitizzazioni che hanno spinto qualche critico anche troppo severo, come Eric Hobsbawm, a recriminare sulla sua «sopravvalutazione» sia di denigrazioni basate sui love affairs, suoi e della famiglia, in una nuvola di teorie cospirative e complotti, come quelli relativi alla sua uccisione, mai
in verità chiariti fino in fondo.
Ora i discorsi e gli scritti di JFK qui raccolti aggirano
questa nebulosa e consentono di avvicinarsi direttamente
alla politica, ai programmi, alla cultura che il presidente
Kennedy ha rappresentato, e permettono di conoscerne gli
aspetti essenziali.
La prima cosa da ricordare al lettore di oggi è che Kennedy si trovò a fronteggiare il regime comunista in una fase ben diversa da quella che è nella memoria più recente:
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Stalin era scomparso nel 1953; tre anni dopo Nikita
Chruščëv aveva rivelato la verità sui suoi crimini; il «disgelo» e la destalinizzazione avevano lasciato sconcertato il
mondo «oltre cortina» e i comunisti di tutto il pianeta, ma
avevano accresciuto il potere di attrazione dell’Unione Sovietica. C’era stata la violenta repressione della rivoluzione
democratica ungherese, nello stesso ’56, ma il comunismo
non appariva ancora piegato dai disastri economici, dall’inefficienza, dal peso di una burocrazia privilegiata, capace solo di reprimere nel sangue ogni dissenso e moto di libertà, come a Praga nel ’68 o a Varsavia nel 1980. Così sarebbe apparso nell’era brežneviana, più vicina e definitiva
nel bilancio storico e nei nostri ricordi, e poi nel momento del collasso del 1989.
Al contrario, quando Kennedy viene eletto il comunismo è ancora in gioco, la partita appare aperta. Gli storici
discutono se fosse davvero così, se il confronto tra gli armamenti a disposizione dei due blocchi fosse proprio incerto, ma quel che è sicuro è che tale appariva. Il lancio del
primo «satellite artificiale», come allora si diceva, è stato
opera sovietica. Si chiamava Sputnik e non Vanguard – come Kennedy ricorda in campagna elettorale nel discorso di
Detroit ai veterani –; i primi animali mandati in orbita si
chiamavano «Strelka e Belka, non Rover e Fido». Intanto
il comunismo conquistava posizioni in Asia e si spingeva
fino a «novanta miglia» dalla Florida, in quell’isola che impegnerà Kennedy nel duello più teso e pericoloso: il fallimento dello sbarco nella Baia dei porci e poi il braccio di
ferro sui missili russi a Cuba, il blocco delle navi sovietiche, il mondo per tredici giorni con il fiato sospeso, sull’orlo di un conflitto nucleare.
Quando il futuro presidente pone agli americani un
grande interrogativo – saremo ancora la prima potenza
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mondiale militare, nella scienza, nell’istruzione? – non fa
dunque soltanto della retorica. Il satellite è una realtà, il
primato sovietico nello spazio non è un’invenzione. Anche il primo astronauta di lì a poco, nel 1961, si chiamerà
Jurij (Gagarin) e non John o Neil (Glenn, il primo americano in orbita, e Armstrong, il primo uomo sulla Luna
verranno dopo, nel 1962 e nel 1969). La portata militare
dei lanci spaziali da Bajqońyr è evidente. La campagna
elettorale di «Jack» ha qui un suo punto di forza: «Auguriamoci di non dover attendere che la Russia lanci il primo satellite di ricognizione in grado di scrutare ogni angolo del nostro paese». Bisogna svegliarsi subito, ora, accelerare la preparazione dei sottomarini Polaris e dei missili Minuteman, accrescere le forze convenzionali, proteggere gli Stati Uniti dal «primo colpo», recuperare il
terreno perduto. Sarà Kennedy, peraltro, ad annunciare,
durante la sua presidenza, il programma della conquista
della Luna «entro la fine del decennio», che si realizzerà
a sei anni dalla sua morte.
È questo un carattere fondamentale della nuova frontiera e la caratterizza non meno dei programmi che impegneranno i fondi federali per la sanità, la scuola pubblica,
gli anziani e non meno della campagna contro le discriminazioni razziali. Lo slogan di Kennedy si pone in continuità con il New Deal di Roosevelt e il Fair Deal di Truman –
la stagione delle politiche sociali e keynesiane dei presidenti democratici – ma introduce un elemento nuovo di sfida
e di orgoglio: il primato americano è minacciato, bisogna
riscoprire il coraggio dei pionieri che si aprirono la strada
verso ovest, bisogna sacrificare il presente a vantaggio del
futuro, bisogna eguagliare i russi nel sacrificio e non «sacrificare il nostro futuro per godere del presente». Le politiche di welfare state degli anni successivi alla grande cri-
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si promettevano e realizzavano sostegni sociali agli individui; qui si chiede agli individui di fare loro da sostegno per
una impresa comune, di sfoderare coraggio. Non promesse ma sfide. Il discorso inaugurale sancirà il concetto con la
sua sintesi più famosa, illustrando l’idea di una democrazia
partecipativa, basata sulla pienezza e sull’efficacia del principio di rappresentanza e sulla fiducia accordata dal popolo alla classe dirigente. In campagna elettorale Kennedy
aveva parlato non di «ciò che io intendo offrire al popolo
americano, bensì [di] quel che intendo chiedere al popolo americano».
Il futuro vincitore fa appello all’orgoglio degli americani, «non al loro portafoglio, offre la promessa di ulteriori sacrifici anziché di maggiore sicurezza», indicando i
campi di azione della nuova frontiera: le aree inesplorate
della scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della pace
e della guerra, le sacche di ignoranza e pregiudizio non
ancora conquistate, la povertà, la sovrapproduzione. E da
vincitore proclamerà, dando inizio alla sua attività di presidente: «Americani, non chiedetevi cosa il vostro paese
può fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese» e rivolgendosi oltre le frontiere americane ai
«cittadini di tutto il mondo» dirà: «Non chiedetevi cosa
l’America farà per voi, ma cosa insieme possiamo fare per
la libertà dell’uomo».
Il disegno della nuova frontiera rivela una chiara linea
di coerenza fin dall’inizio, fin dalla nuova idea di presidenza con la quale JFK imposta il problema: dopo il ciclo di Eisenhower, il repubblicano con le sue idee «distaccate e ristrette» sulla funzione della Casa bianca, occorre un comandante in capo della grande alleanza, non
un semplice contabile che considera finito il proprio lavoro quando il bilancio è in pareggio; si tratta di ripristi-
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nare una leadership mondiale, e questo è un compito
grande come quello di Lincoln quando firmò il Proclama
di emancipazione. L’ambizione è altissima e la sua rappresentazione emblematica è Berlino, la città simbolo di libertà, «confutazione vivente della dottrina sovietica secondo cui solo una società comunista può generare prosperità». Lo «spirito di Berlino» è la risorsa che consentirà di vincere e di ricostruire il primato della «società aperta». «Ich bin ein Berliner» significa per Kennedy proclamare, sulla Rudolf Wilde Platz di quella città, il nome da
dare alla cittadinanza della libertà.
L’efficacia retorica dei discorsi di JFK è leggendaria,
così come la sua capacità di scegliere e utilizzare la collaborazione di intellettuali: da Ted Sorensen, il ghostwriter
di tutta la sua vita politica, a Arthur Schlesinger, lo storico
che seguì da vicino sia John sia Robert Kennedy nella loro
avventura fino alla tragica conclusione, o Robert McNamara, il manager che il neopresidente convinse a lasciare la guida della Ford per dirigere la Difesa e coordinare il rilancio
del primato militare americano. Con Ted Sorensen scrisse
anche Profiles in Courage, storie di figure politiche americane che rischiarono la carriera per difendere le proprie
idee, un’opera che meritò il Pulitzer nel 1958 e che provocò sospetti e critiche quando emerse che il valente collaboratore rivendicava la gran parte del lavoro.
Nessun sospetto invece ha circondato A Nation of Immigrants, che qui riproponiamo, un’opera che è certo originariamente di JFK e che, per la sua storia – il presidente
stava preparando la revisione e l’ampliamento dell’edizione apparsa nel 1958 quando fu assassinato, il fratello Bob
ne curò la riedizione postuma del ’64, il fratello Edward
questa nuova del 2008 –, può essere considerata un lascito
ideologico e politico dei Kennedy.
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Il testo ha oggi una indiscutibile, straordinaria efficacia per il lettore europeo, e per quello italiano in particolare. I Kennedy sono di origine irlandese, sono sbarcati a
metà dell’Ottocento a Boston, e JFK è stato, tra le altre
cose, il primo e (finora) ultimo presidente americano cattolico. Questo spiega le rassicurazioni che dovette dare in
campagna elettorale circa le pressioni che potessero «direttamente o indirettamente» interferire con la sua gestione della Casa bianca in tema di religioni. È un tratto
molto importante della cultura kennediana l’enorme attenzione sia alla religiosità del paese sia all’equilibrio tra
le differenze culturali che compongono la società degli
Stati Uniti.
È opportuno ricordare qui come il discorso inaugurale di JFK sia il testo più citato (dopo il secondo di Lincoln, e ora da affiancare a quello di Obama del gennaio
2009) per documentare il carattere di «religione civile»
che caratterizza la devozione degli americani alle loro
istituzioni politiche, vale a dire la «dimensione religiosa
dell’ambito politico» (come l’ha definita Robert Bellah
impiegando il concetto rousseauiano), una dimensione
che evita accuratamente di identificarsi con una singola
fede, ma che non per questo rinuncia a riferirsi al trascendente, come Kennedy fa con una particolare forza quando descrive gli stessi diritti umani come elargiti «dalla
mano di Dio» e la nostra stessa opera comune di nazione
come il compimento «della volontà di Dio». E come si
potrebbe del resto trascurare l’enorme apporto dato alle
battaglie per i diritti civili dalle Chiese nere e da Martin
Luther King, il quale sostenne la campagna elettorale di
Kennedy?
L’intreccio tra pluralità delle fedi, rispetto delle religioni in quanto tali e apertura liberale verso l’apporto degli
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immigrati alla vita della nazione ritorna in grande evidenza nel saggio che qui si può leggere per la prima volta in
italiano. Si tratta di un testo che illustra in modo esemplare la continuità del liberalismo pluralistico e multiculturale americano, e che fa delle idee kennediane il sostrato dell’ideologia dei democratici, tuttora vitale.
Infatti Edward Kennedy, che è stato un grande punto
di appoggio della campagna elettorale di Obama, ha fatto suo il lavoro del fratello e proprio in quel periodo ne
ha voluto la pubblicazione in una collana della Anti-Defamation League, l’organizzazione che si batte contro il
razzismo e l’antisemitismo su scala mondiale. L’apertura
alla varietà delle religioni è un test cruciale della tolleranza di una società. È bene meditare in Europa sulle parole
di Abraham Fox, il direttore della League: «Sappiamo
che quando una società comincia a demonizzare un gruppo come meno meritevole di diritti, di minor valore, meno umano, meno uguale, allora possono seguire a ruota la
discriminazione, lo sfruttamento e peggio».
È persino divertente, disarmante, e poi anche amaro,
constatare la regolarità con cui gli atteggiamenti razzisti,
fomentatori di odio contro gruppi stranieri, contro i
nuovi arrivati, appaiono, dopo qualche decennio, ridicoli. Forme di razzismo sembrano conquistare una robusta minoranza di conservatori, di bigotti, di menti accecate dalla paura; ogni volta ciò si manifesta con la forza di una oscura evidenza ontologica circa la «inferiorità» o la «incompatibilità» del gruppo in questione, che
siano gli irlandesi, i cinesi, o gli italiani, oppure i cattolici o i musulmani.
Quella di JFK, sostenuta nello scritto e poi messa in
atto con la sua amministrazione, è stata una politica di
graduale riduzione del rigido sistema delle quote, che as-
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segnava a ciascun paese di origine un certo numero di posti e che era basato sulle proporzioni della popolazione
definite negli anni venti. Si trattava di aprire la via a un sistema che non operasse più discriminazioni, ma facesse
valere in primo luogo i criteri del ricongiungimento famigliare e delle doti professionali dei richiedenti, senza più
arbitrii contro gli asiatici o contro qualsiasi etnia e nazionalità. Anche per questo Kennedy si preoccupa di descrivere l’apporto che ciascuna minoranza ha dato alle fortune dell’America. E lo fa con l’attenzione e lo scrupolo di
chi si accingeva a governare quella «nazione di immigrati» che sono gli Stati Uniti.
Seguendo il suo ragionamento e i dati da lui riferiti
scopriremo l’enorme contributo dato dalle minoranze in
un paese che è somma di minoranze. Per quantità gli italiani sono secondi solo ai tedeschi e vengono prima degli
inglesi! Eppure un giornale di New York poteva scrivere
dei nostri connazionali all’inizio del secolo: «Le cateratte
sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata […]. La
feccia dell’immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia di
terza classe viene travasata nel nostro paese». A ogni ondata di arrivi corrisponde un’ondata di «nativismo», di
«indigenismo» anti-immigrati, che tende a vestirsi con i
cavilli di misure restrittive, talora plausibili, talora pure,
cervellotiche e sadiche strategie di sbarramento. E spesso
i penultimi arrivati si trasformano nei più duri difensori
dell’ordine «originario».
Nelle pagine di JFK appare con evidenza eccezionale
– più che forza retorica si tratta di forza delle cose – come la storia del coraggio e della intraprendenza degli immigrati sia storia del coraggio e della intraprendenza del-
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la società americana. La cura per le paranoie dei «nativi»
– veri o falsi – consiste sempre nella evidenza delle diversità, nel consentire e promuovere la loro piena visibilità
nella vita sociale. A vincere è la strategia del mostrare le
differenze, non del nasconderle. Solo così si dissolvono le
piaghe infette della xenofobia e le ricorrenti teorie cospirative che vedono l’immigrazione come il risultato di un
complotto ordito da oscuri poteri internazionali contro il
«nostro villaggio».
Kennedy aveva in mente molta stampa anti-irlandese e
anti-italiana quando scriveva che «alcuni americani, allarmati, credevano davvero che i cattolici fossero agenti stranieri inviati dal papa per sovvertire la società americana».
Succedeva poi che bruciassero un convento delle orsoline
nel 1834 nel Massachusetts.
Si trovano sempre dei politici disposti a investire sulla
paura più che sul coraggio. Kennedy si dette da fare per
batterli e ci riuscì. La legislazione dell’immigrazione è cambiata, con lui, nella direzione da lui voluta, quella che ha
fatto l’America di oggi, più aperta e ospitale di quella che
aveva trovato.
Come accade per molta letteratura politica proveniente dalle file dell’intellettualità liberal americana – da
John Rawls a Michael Walzer a Martha Nussbaum – sempre meno si può dire che si riferisca a una eccezionalità
americana, a uno scenario multiculturale, multireligioso,
comunitario e non paragonabile a quello europeo. Con le
migrazioni e la globalizzazione gli scenari sono sempre
più vicini.
E lo scenario descritto da Kennedy in The Nation of
Immigrants è oggi molto più vicino all’Europa di quanto
lui stesso potesse immaginare nel 1958. Ciascuno può dare da sé i nomi nostrani ai gruppi politici, ai giornali, ai
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commentatori che coltivano dalle nostre parti gli stessi ricorrenti cliché dell’immigrazione come una congiura ordita da menti raffinate e lontane per farci del male, magari nel nome di una religione ostile.
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Una nuova idea di presidenza
14 gennaio 1960*
Le campagne presidenziali oggi si occupano di qualsiasi cosa, attinente o meno al programma, dai mirtilli alla
creazione. Ma è raro che le persone siano informate sul tema centrale, quello attorno a cui ruota tutto il resto. E il
tema centrale, il punto fondamentale del mio intervento,
non è la questione agricola, né la difesa o l’India: è l’idea
stessa di presidenza.
Certo, la linea politica di un candidato ha la sua rilevanza, eppure Theodore Roosevelt e William Howard Taft
condividevano la medesima linea, ma con risultati del tutto differenti una volta alla Casa bianca. Ovviamente è essenziale eleggere una persona onesta, ma sia Woodrow
Wilson che Warren G. Harding erano persone oneste, così
come Lincoln e Buchanan, eppure alla Casa bianca c’è una
stanza intitolata a Lincoln, e non a Buchanan.
* Il 2 gennaio 1960 John F. Kennedy annunciò ufficialmente la sua
candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Per la giovane età (42 anni)
e l’appartenenza alla religione cattolica, la sua corsa elettorale era vista
con scetticismo anche all’interno del Partito democratico. Pochi giorni
dopo, Kennedy tenne al Circolo nazionale della stampa questo discorso
in cui espose la sua idea di una presidenza forte e dinamica, in contrasto
con quello che considerava l’immobilismo mostrato nei due precedenti
mandati presidenziali dal generale Dwight David Eisenhower.
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di stranieri legalmente residenti in America, ma sempre e
soltanto nell’ambito del sistema delle quote. Tale aspetto
andrebbe modificato al fine di accordare la massima priorità agli individui dotati delle migliori capacità per contribuire al benessere della nazione, indipendentemente dal
luogo di nascita. Dopodiché occorrerebbe dare priorità a
quanti fanno domanda di entrare nel nostro paese per ricongiungersi con i propri familiari. A parità di requisiti,
dovrebbero essere ammessi per primi coloro i quali abbiano fatto richiesta prima.
Al fine di rimuovere gli altri ostacoli ai ricongiungimenti familiari occorre apportare due ulteriori modifiche
alla legge: primo, ai genitori di cittadini americani che attualmente rientrano nelle categorie preferenziali del sistema delle quote dovrebbe essere garantito l’accesso al di
fuori del numero previsto dalla quota; secondo, ai genitori di stranieri residenti negli Stati Uniti che non rientrano
nelle categorie preferenziali dovrebbe essere accordato un
titolo di preferenza, subito dopo i professionisti specializzati e gli altri familiari dei cittadini e dei residenti stranieri.
Tali modifiche non comporteranno grandi ripercussioni sul numero totale di immigrati ammessi, ma avrebbero
un impatto enorme alleviando le difficoltà che oggi molti
dei nostri cittadini e residenti devono sopportare lontani
dalle proprie famiglie.
Tali modifiche non risolveranno tutti i problemi legati
all’immigrazione, ma garantirebbero il progresso in direzione dei nostri ideali e verso la realizzazione degli obiettivi umanitari.
Dobbiamo evitare quella che il poeta irlandese John
Boyle O’Really una volta ha definito:
Beneficenza organizzata, micragnosa e glaciale,
in nome di un Cristo cauto, statistico.
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Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili.
Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro
passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Una
tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di
George Washington: «Il grembo dell’America è pronto ad
accogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione;
a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostri
diritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
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