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La solitudine
FRANCESCA MARIA EULISSE
L’uomo, si sa, è un animale politico, almeno se
seguiamo la celebre definizione di Aristotele. Questo significa che per natura e in natura l’individuo è
spinto a ricercare i propri simili per un vivere in
comune. Il vivere in società è connaturato all’uomo.
Tale concezione, pur essendo oggetto di critiche nel
corso della storia del pensiero politico, sembra
mostrare grande attualità: infatti, anche nella
società del terzo millennio si moltiplicano le teorie
sull’importanza della socializzazione sia in ambito
lavorativo sia nella sfera individuale. Tuttavia, ho
l’impressione che questa visione che conferisce
centralità al vivere dell’uomo in società contribuisca a far credere che il suo opposto, ossia lo stato di
isolamento o di solitudine, sia una sorta di devianza
rispetto all’essenza naturale dell’uomo. La solitudine ha a che fare con il rapporto dell’uomo con l’altro uomo nel mondo.
In effetti, se pensiamo con attenzione, vediamo che
anche nella nostra società, quando si parla di solitudine, se ne parla soprattutto secondo un’accezione
negativa, o come condizione di isolamento, come
stato di misantropia, o come manifestazione esteriore
di disagio psicologico interiore, per esempio la
depressione. Anche nei casi più positivi, alla solitudine si accompagna la malinconia. Della solitudine si
sottolinea la sua componente alienante, invalidante e
persino distruttiva, tant’è vero che di solitudine si
muore, come dimostrano i numerosi articoli che
periodicamente compaiono sulle pagine dei giornali.
La solitudine, come dicono giornalisti e sociologi, è
una malattia che non fa distinzioni e colpisce uomini
e donne di ogni età: anziani, bambini, donne e adolescenti smarriti, padri separati.
In questo senso, la solitudine è spesso presentata
come uno dei prodotti negativi della crisi dei valori
delle moderne società, a partire dallo scardinamento
dell’istituzione della famiglia che, luogo di protezione e controllo, sorvegliava su tutti i suoi componenti.
In realtà, se seguiamo la filosofia di Aristotele, sap-
piamo anche che “l’essere si dice in molti modi”.
Anche il significato di “solitudine” può intendersi
in modo non univoco. Mi sembra cioè che la solitudine assomigli molto a un Giano bifronte, ossia che
dietro un solo concetto si nascondano almeno due
diverse accezioni.
In una prima accezione, intendo la solitudine come
una delle molteplici vesti dell’animo umano. In particolare, essa mi appare come la condizione di possibilità del pensiero individuale, della meditazione,
della riflessione interiore, del dialogo dell’io con se
stesso. La solitudine è luogo teoretico e pratico. Dal
punto di vista conoscitivo, nella solitudine avviene
la comprensione intellettuale, che non può essere
imposta dall’esterno ma che è un atto interno; dal
punto di vista etico, nella solitudine si maturano e si
compiono le scelte, sperimentando quel briciolo di
libertà che a ogni individuo viene concessa.
In effetti, a pensarci bene, i grandi drammi esistenziali, carichi di profondità filosofica, si consumano nella
solitudine di lunghi monologhi interiori. Mi vengono
in mente i monologhi del principe Amleto e dell’Antigone di Sofocle: a chi altro affidare la confessione
del proprio io diviso se non a se stessi? Ma questa
dolorosa confessione interiore, ben lungi dal rimanere
privata, continua a muovere nel corso dei millenni,
come per magia, gli animi degli uomini. La solitudine, astraendo i personaggi da una condizione spaziotemporale particolare, li consegna all’universalità
della comprensione e dei sentimenti dell’Uomo.
La solitudine del barone rampante di Italo Calvino,
personaggio che sceglie di vivere sugli alberi del
giardino di casa senza scendere mai, non è una fuga
dai rapporti umani, dalla società, dalla politica. Al
contrario, questo personaggio che rifiuta di camminare per terra come gli altri non è un misantropo,
“ma un uomo continuamente dedito al bene del
prossimo, inserito nel movimento dei suoi tempi,
che vuole partecipare ad ogni aspetto della vita attiva: dall’avanzamento delle tecniche all’amministra-
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zione locale, alla vita galante. Sempre però sapendo
che per essere con gli altri veramente, la sola via
era d’essere separato dagli altri, d’imporre testardamente a sé e agli altri quella sua incomoda singolarità e solitudine in tutte le ore e in tutti i momenti
della sua vita, così come è vocazione del poeta, dell’esploratore, del rivoluzionario”.
In questa accezione, è l’uomo che in modo per così
dire volontario si isola dal resto del mondo, sia fisicamente che mentalmente.
C’è anche un’accezione negativa della solitudine,
come già anticipato prima. La solitudine diventa
isolamento quando l’individuo rimane senza vie di
comunicazione, quando non riesce più a entrare in
contatto con il mondo. La solitudine non più intesa
come stato d’animo interiore ma come condizione
esterna, come situazione imposta dai fatti del
mondo. Non più scelta volontaria ma costrizione
esterna. In questo caso, penso che il dramma della
solitudine sia l’incomunicabilità. Il passaggio dalla
forma positiva e produttiva a quella negativa e sterile mi pare ben rappresentato da una frase del celebre romanzo di Conrad Cuore di Tenebra. Il protagonista, nel raccontare la drammatica cecità del
colonialismo europeo in Africa, riflette sulla possibilità di una piena ed efficace comunicazione tra
individui: “[…] è impossibile, impossibile comunicare ad altri quel che proviamo dentro di noi in un
momento qualsiasi della nostra vita - ciò che ne
costituisce la verità, il significato - la sua sottile e
penetrante essenza. Impossibile. Si vive come si
sogna: soli…”. Se nel sogno la solitudine è concessa, nella realtà scandagliata dalla ragione, la solitudine diventa un mostro irrazionale. Qui solitudine e
incomunicabilità sono strettamente intrecciate.
Subito mi vengono in mente i tanti anziani isolati
dalla società tecnologica; i malati nelle corsie d’ospedale abbandonati al proprio dolore; i bambini
senza famiglia o con troppe mezze famiglie; i
disoccupati disperati; i padri separati; gli adolescenti incompresi; gli immigrati; le donne abbandonate.
Nel primo caso l’individuo si isola volontariamente
dal resto del mondo; nel secondo caso, invece, è il
mondo che impone l’isolamento all’individuo. Nel
primo caso risalta la forza del pensiero rispetto alla
caducità e drammaticità degli eventi del mondo. Nel
secondo caso, al contrario, emerge la piccolezza dell’individuo rispetto alla forza impositiva degli eventi.
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Asterisco
Dal “Diario di Gusen - Lettere a Maria”
di Aldo Carpi*
21 marzo 1945
Sera.. Un violino nuovo è entrato qui, un
violino d’autore, penso, perché ha un
suono che vince tutti gli altri, in forza,
calore e dolcezza. La faccia anteriore assomiglia a quella del nostro Guadagnini, in
legno di abete venato; il resto è di legno
duro lucido come gli altri. Un maestro
polacco, compositore e organista, ha
cominciato a suonarlo. Si vedeva apparire
sul suo viso un grande godimento. Il buon
violino ha tali vibrazioni, abbondanti e
piene, che il suono prende veramente come
un corpo e la musica acquista accenti
umani e penetranti. È come una persona
nuova che fa udire la sua voce tra le altre
per portare a noi una buona novella, quella
che attendiamo. È l’arrivo di un amico non
comune col quale non si può aver subito
confidenza perché la sua voce ci impone un
certo rispetto. Più tardi la sua voce sarà
anche migliore e più autorevole, ma noi ci
saremo avvicinati e ci saremo familiarizzati
con lui: dopo il rispetto verrà l’amore,
ossia l’attaccamento reciproco, la certezza
della piena rispondenza tra arte, artista e
strumento.
È una cosa rara, che passa di qui. È come
l’entrata dell’Angelo annunziante, come
l’entrata, per me, di qualcuno di casa mia
che mi vuol dire tante cose non comuni,
comprensibili solo a noi, a me e te e voi,
Maria. La musica in casa mia è più bella che
fuori. La musica coi miei parenti e amici, in
cerchio serrato e attento, è più viva, più
calda, più abbracciante che non fuori.
* Gusen è stato uno dei peggiori lager nazisti
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