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- Filo Spinato
STORIA SOCIALE E CULTURALE
(A.A. 2013/2014)
IMI A CONFRONTO:
L’ESPERIENZA DI UFFICIALI E
SOLDATI NEI CAMPI NAZISTI
A CURA DI:
Ciracì Francesca Teresa
Fanfoni Martina
Pompei Ludovica
Ruberti Francesca
Turco Valentina
INDICE
INTRODUZIONE......................................................................................
1
Capitolo 1. L’inizio della sofferenza....................................................... 3
1.1 L’armistizi..........................................................................................
3
1.2 Il viaggio e l’arrivo al campo................................................................
4
Capitolo 2. Condizioni materiali e morali............................................... 6
2.1 La struttura dei campi .........................................................................
6
2.2 Le ragioni del No.................................................................................
7
2.3 La prigionia..........................................................................................
10
2.3.1 Il cibo................................................................................................
10
2.3.2 Il clima..............................................................................................
11
2.3.3 Il vestiario.........................................................................................
12
2.3.4 L’igiene.............................................................................................
13
2.3.5 Le condizioni di salute......................................................................
14
2.3.6 La comunicazione con le famiglie....................................................
15
2.3.7 L’appello...........................................................................................
16
2.3.8 I piaceri del campo...........................................................................
16
2.3.9 Le notizie sulla guerra e il percorso interiore...................................
18
2.3.10 La fede...........................................................................................
20
2.3.11 Il rapporto con i tedeschi................................................................
20
2.3.12 Le torture........................................................................................
21
2.3.13 Il rapporto tra gli internati...............................................................
22
2.3.14 La civilizzazione.............................................................................
23
Capitolo 3: la fine delle sofferenze........................................................
25
3.1 Il rapporto con i liberatori....................................................................
25
3.2 Il ritorno...............................................................................................
26
BIBLIOGRAFIA........................................................................................
30
SITOGRAFIA............................................................................................
31
APPENDICE ICONOGRAFICA................................................................
34
Scheda biografica Imi.............................................................................
40
Scheda biografica Imi.............................................................................. 41
Scheda biografica Imi................................................................................ 42
INTRODUZIONE
IMI. Per molti di noi una sigla sconosciuta, breve, ma che racchiude la storia di migliaia di militari
italiani che tra il 1943 e il 1945 sperimentarono le violenze e le atrocità della guerra non sul campo
di combattimento, ma nei lager tedeschi.
Una storia ricca di particolari, che però non ha una grande visibilità, o per lo meno, non come
dovrebbe averne. Forse perché testimone scomoda di un passato che si è voluto e si vuol ancora
sottacere, una storia di prigionia non eclatante, fatta di settimane sempre uguali a se stesse, tediosa
per certi aspetti. Ma leggendo i diari, le lettere e qualsiasi altra testimonianza di coloro che questa
storia collettiva l’hanno vissuta, non si può rimanere indifferenti: si viene catapultati in un mondo
parallelo a quello dei racconti evenemenziali della seconda guerra mondiale, ma che con essi è
strettamente intrecciato.
E proprio dall’intreccio tra le varie storie, tra le differenti personalità dei protagonisti ha preso avvio
questa ricerca: si è cercato di capire il modo in cui le vicende dell’internamento sono state vissute
dagli uomini con le cui testimonianze siamo venute a contatto. Un costante confronto tra due mondi
differenti, quello degli ufficiali superiori e quello dei soldati semplici, sviluppato attraverso l’analisi
di diversi testi: prima di tutto i diari di quattro generali internati in diversi campi, poi due diari e una
raccolte di lettere di tre soldati semplici trentini, unitamente a tre testimonianze orali di ex internati,
raccolte tramite interviste effettuate dal gruppo. Sono state poi condotte altre ricerche bibliografiche
e sitografiche al fine di avere una più ampia comprensione del fenomeno in esame.
Per quanto riguarda i diari dei generali, seguendo l’ordine alfabetico, il primo è quello di Francesco
Giangreco, Memoriale, pubblicato nel 1976 ad Avola e scritto poco tempo dopo la prigionia nei
campi di Schokken e Flossenbürg, su richiesta di un suo caro amico, il colonnello Michele Adabbo.
Lo stesso Giangreco precisa come i ricordi in esso contenuti siano stati impressi con la macchina da
scrivere, di getto, nel gennaio del 1945, senza le dovute accortezze per la pubblicazione, e che
nell’edizione del 1976 ha deciso di conservare questa spontaneità.
Altro diario è quello del generale Piero Steiner, scritto con la collaborazione del capitano Luigi
Enea Ronchi, che è anche l’autore del terzo, sempre subito dopo la prigionia, su incoraggiamento
del cappellano del campo polacco di Schokken, Castelli: è stato lui infatti a consegnare degli
appunti al capitano Ronchi perché ne «traesse una storia degna della bufera attraverso la quale
eravamo passati»1, e Steiner ha aggiunto il suo punto di vista. De La strada più lunga, una «storia
1
P. Steiner, La strada più lunga, Premessa.
1
breve e incompleta, […] destinata a quelli di Schokken»2 non conosciamo il luogo dove è stata
scritta.
Il terzo diario è appunto quello di Ronchi, Ricordi di prigionia, che raccoglie brani scritti da vari
internati nel lager 64/Z, sempre a Schokken, e specificamente delle Eccellenze Rosi e Porro, dei
Generali Florio, Santini e Jacobucci, del Tenente Colonnello Dolchi, del Capitano Lava e i suoi,
nell’incontro per il decennale del rientro in Italia, quindi nel 1955, a Milano.
L’ultimo diario è quello del generale Alberto Trionfi, anche lui internato a Schokken: in realtà si
tratta di una raccolta di lettere scritte dal generale durante la sua prigionia e spedite alla famiglia,
che la figlia Maria ha riunito e pubblicato nel libro Il generale Alberto Trionfi del 2004 a Roma.
Le testimonianze dei soldati semplici, invece, sono due diari e una raccolta di lettere: il primo è
Diario di Carlo Calzà, soldato trentino che descrive quello che gli accade giorno per giorno sui
materiali che aveva a disposizione, nello specifico due piccole agende, poi dei fogli ripiegati, infine
un calendario tedesco annotato direttamente a matita3; il secondo è Memorie di prigionia di Claudio
Busolli, una memoria scritta anch’essa per intero in prigionia, ma con sguardo retrospettivo.
Lettere dalla Germania di Antonio Cortiana sono invece le lettere rivolte ai propri cari e spedite
durante l’internamento.
Vi sono poi le testimonianze orali di tre ex internati, i primi due intervistati da Francesca Ruberti e
Valentina Turco il 6 maggio 2014 all’Istituto romano San Michele, l’altro da Teresa Francesca
Ciracì il 29 aprile 2014 a Corigliano Calabro: Francesco Carotenuto, artigliere di Napoli e Sergio
Buzzi, soldato semplice friulano, e il soldato semplice calabrese Luigi Algieri.
Come accennato sopra, l’analisi è stata condotta attraverso un confronto seguendo le dimensioni
rilevanti della storia degli IMI: nel primo capitolo viene descritto l’evento dell’armistizio e il
viaggio verso i campi di punizione; nel secondo invece la struttura degli stessi, le ragioni del No alle
proposte dei militari tedeschi, e successivamente tutte quelle afferenti alla vita del lager: il cibo, il
clima, il vestiario, l’igiene personale e collettiva, le condizioni di salute, le comunicazioni con le
famiglie, il momento dell’appello, i vari passatempi per smorzare la monotonia della vita da
internato, le notizie che si ricevevano sulla guerra, il rapporto con il tempo e con il futuro, il
percorso interiore compiuto, il rapporto tra i prigionieri e quello con i tedeschi, le torture, la fede, la
civilizzazione e il lavoro. Nell’ultimo capitolo, invece, si dà conto del rapporto degli internati con i
liberatori e quindi il loro tanto atteso ritorno a casa.
2
Ibidem.
Cfr. F. RASERA (a cura di), Introduzione, in I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 1943-1945, Museo
storico della guerra, Rovereto 2003, pp 8-9.
3
2
Capitolo 1. L’inizio della sofferenza
1.1 L’armistizio
4
Alla vigilia dell’8 Settembre 1943 l’annuncio dell’Armistizio colse del tutto impreparate le truppe
italiane dislocate sui vari fronti: in questa data o nei giorni successivi più di 600.000 uomini furono
catturati dalle milizie tedesche per aver rifiutato ogni tipo di collaborazione col nazifascismo.
Vennero in seguito rinchiusi per due anni nei campi di internamento del Reich e privati della
qualifica di “prigionieri di guerra”, assumendo invece quella di “Internati militari” solo per non
riconoscere loro la possibilità di veder esercitati i relativi diritti, come quello della protezione della
Croce Rossa Internazionale.
La tragica esperienza dei militari italiani all'indomani dell’8 Settembre prese forma in un contesto
di confusione generale, di mancanza di ordini dei comandi superiori, il che determinò un esercito
allo sfascio, truppe allo sbando che vivevano una situazione di sconcerto senza avere notizie sicure
sul cosa fare e sul come agire.
Le parole del virtuosismo linguistico “Internato Militare Italiano” di Giovannino Guareschi,
racchiuse nell’acronimo IMI, rispecchiano la situazione di assoluto disordine, incertezza e
impreparazione che ha colto le truppe italiane. «Ingannato Malmenato Impacchettato, Internato
Malnutrito Infamato»: queste prime righe della poesia del 1945 di Guareschi descrivono gli inganni
di cui i militari italiani furono vittime. Vennero ingannati poiché si disse loro che sarebbero stati
riportati in Italia, ma questo non accadde. Furono «Malmenati», «Impacchettati», «Malnutriti», in
quanto picchiati e trasferiti nei campi in pessime condizioni, senza cibo a sufficienza con
conseguente indebolimento fisico dei corpi, il che nella maggior parte dei casi li portò alla morte.
Questa triste realtà accomuna i destini di soldati e di ufficiali che, nell’assoluta atmosfera di
inganno e mancanza di direttive, sono stati costretti a vivere la tragica esperienza dell’internamento.
Sono diverse le testimonianze, sia di generali che di soldati, che portano all’emergere di molte
dimensioni vissute all’indomani dell’8 Settembre: «Noi eravamo lì militari, e i tedeschi subito si
sono impossessati di noi, ci hanno preso prigionieri. Sono venuti i tedeschi e noi bonariamente
4
http:// www.europaquotidiano.it, ult. cons. 26 giugno 2014.
3
avevamo l’ordine dei nostri ufficiali di non fare niente, di stare fermi perché poteva avvenire, com'è
avvenuto, dove è stato sparato un solo colpo, sono stati distrutti tutti quei militari»5.
Anche il generale Santini ricorda a tal proposito che «il nostro esercito all’armistizio del tristissimo
8 Settembre 1943, fu abbandonato a sé stesso, [ma] noi, da soldati, abbiamo saputo affrontare la
tremenda avventura con dignità e coraggio»6. E ancora Steiner:
“I comandanti italiani avevano tutti sentito il disagio in cui l’improvviso armistizio li poneva di fronte
all’alleato con cui avevano con lealtà, se pur con grande disparità di mezzi, combattuto. Questo disagio,
questa lealtà, l’impossibilità morale di mutare di colpo l’amicizia in ostilità, avevano fatto cadere quasi
tutti in trappole, tese senza nessuno scrupolo dai germanici, per cui soprattutto l’ordine è ordine e l’amico
di ieri, se ordinato, può essere il nemico di oggi”7.
L’8 Settembre è stato definito «giorno fatale»8 e fu per soldati e generali l’inizio di tanti mali e tante
sofferenze, riconosciuto come la «data nera della mia vita, dell’Italia e degli Italiani»9, proprio
perché stravolse numerose vite, alcune delle quali cessarono di esistere con l’internamento per lo
strazio, per la fame, per le torture, per le malattie, per le fucilazioni.
Esso fu un percorso molto lungo, che vide nel lavoro coatto la massima espressione del potere
esercitato dalla pratica totalizzante.
1.2 Il viaggio e l’arrivo al campo
“All’alta griglia del vagone
lo sguardo si ostina a farmi
preda del mutevole paesaggio
e a distogliermi non serve
la pena del treno ferraglioso,
il languore tormentoso dello
stomaco vuoto da due giorni...”10
Durante il viaggio verso i luoghi di internamento i militari italiani cominciarono ben presto a
comprendere quale dura vita gli si sarebbe presentata. La maggior parte di loro fu deportata nei
territori del Reich nei giorni immediatamente successivi alla cattura; i lenti spostamenti avvennero
via ferrovia e via nave in condizioni disumane: numerose testimonianze di chi viaggiò in treno
parlano di vagoni merci pieni fino all’inverosimile che non venivano aperti per giorni e giorni, dove
mancavano cibo ed acqua e persino la possibilità di soddisfare i bisogni corporali. Le SS portavano
5
Testimonianza orale del soldato Luigi Algieri, arma di appartenenza: artiglieria di campagne, trentaseiesimo
reggimento, grado al momento della cattura: soldato semplice. Intervista fatta da Teresa Francesca Ciracì il 29/04/2014.
6
G. Santini, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, Milano 1955, p.1 .
7
P . Steiner, La strada più lunga, p.2.
8
C. Busolli, Memorie di prigionia, in Rasera F. (a cura di), I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 19431945, Museo storico della guerra, Rovereto 2003, p.83.
9
Ibidem.
10
G. Bimbi, Turingia, 1944.
4
via gli zaini migliori, soprattutto quelli degli ufficiali, nella speranza di far bottino. Chi tentava di
difendersi o di resistere veniva legato e minacciato. Nelle stive il carico era enorme, si stava in piedi
uno accanto all’altro, stretti e pigiati, senza la possibilità neppure di muoversi e con difficoltà di
respirare. Furono distribuiti e smistati in 249 lager principali in Germania, Russia, Polonia,
Jugoslavia e Grecia, successivamente divisi in campi diversi: i soldati vennero rinchiusi negli
Instammager/Stalag, gli ufficiali furono, invece, internati negli Offlager.
All’arrivo sia per gli
ufficiali che per i soldati semplici vi era l’identificazione: i tedeschi
compilavano una scheda con tutti i dati anagrafici dei prigionieri e assegnavano ad ognuno un
numero che veniva riportato su una piastrina metallica. Il controllo era assoluto.
Nel corso del periodo di detenzione fu abbastanza frequente lo spostamento da un campo all’altro,
sia per i generali che per i soldati11, qualunque fossero le condizioni atmosferiche: il generale
Giangreco ad esempio venne trasferito da Schokken a Posen già nell’ottobre del 1943, per poi
arrivare a Flossenbürg con l’amico Grimaldi12. Ronchi invece durante la lunga marcia dei generali
del gennaio del 1944, nella quale morì Alberto Trionfi, viaggiò da Schokken per arrivare poi nel
campo liberato di Wugarten, in Ucraina. Con lui c’era anche il generale Steiner, con il quale
proseguì il viaggio a Friedenberg , poi a Lublino, per arrivare al campo russo di Karkow, sempre in
Ucraina. Oppure Carlo Calzà trascorse la prima parte della sua prigionia in Prussia orientale, nella
cittadina di Gendauen dove venne preso a lavorare, per poi tornare al lager13.
Occorre chiarire inoltre che vi era un’organizzazione di smistamento piuttosto complessa: i “nostri”
generali appena fatti prigionieri rimasero per alcuni mesi nello stesso campo; mentre i soldati
generalmente o vennero avviati subito al lavoro oppure in campi secondari per essere registrati e poi
spostati in base alle esigenze dei loro “padroni” di lavoro14. Carlo Calzà racconta sul suo arrivo al
campo: «Una speciale operazione ci viene fatta il giorno appresso. […] Passiamo in un ufficio dove
ci chiedono tutte le generalità, ci mettono un cordone al collo con attaccato un piastrino con ivi
inciso il numero del prigioniero (3013). […] Gli prendono anche le impronte e fanno una foto
segnaletica, come dei veri delinquenti»15.
11
Vedi Appendice, disegni n. 1 e n. 2.
Cfr. F. Giangreco, Memoriale, Avola 1976, p. 15 e sgg.
13
Cfr. F. Rasera, Introduzione, in Rasera F. (a cura di), I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 19431945, pp.12-13.
14
Cfr. C. Calzà, Diario, in Rasera F. (a cura di), I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 1943-1945,
Museo storico della guerra, Rovereto 2003. C. Busolli, Memorie di prigionia, cit.
15
C. Calzà, Diario, p.27.
12
5
Capitolo 2. Condizioni materiali e morali
2.1 La struttura dei campi
16
Poiché i diari ci consentono di confrontare diversi campi nei quali furono rinchiusi i “nostri”
generali, dalle loro descrizioni e dal tono delle loro parole si può cogliere agevolmente il diverso
grado di “comodità” delle strutture in cui erano rinchiusi: si va da Schokken, apparentemente più
gradevole e funzionale, a Flossenbürg, dove la barbarie è costantemente davanti agli occhi degli
internati. L’impressione è che la sostanza non cambi, ma solo la forma, presumibilmente per la
differenza, cui i tedeschi tenevano, che correva tra un campo “riservato” agli ufficiali superiori e i
campi misti. Tale impressione è confermata dal generale Giangreco, il quale afferma che tra tutte le
varie tipologie di lager quella dei “Konzentrationslager” militari era la più terribile, perché da
questo ben pochi fecero ritorno dei milioni che vi furono “ospitati” 17.
Significativa è la considerazione di Busolli sul momento del loro arrivo al campo: «Al bagno
vedemmo per l’ultima volta in mezzo a noi i nostri ufficiali, questa volta nudi e miseri come noi»18.
In queste sue parole si può cogliere la presa di coscienza dell’iniziale annullamento di ogni
gerarchia militare nei campi di prigionia, dove l’accusa di essere dei traditori accomunava tutti gli
IMI: successivamente i generali potevano avere un trattamento più o meno privilegiato in ragione
del loro grado, ma la sofferenza che provarono per tale situazione emerge indifferentemente da tutti
i diari presi in esame, siano stati essi soldati o ufficiali superiori.
A parte le suddette iniziali differenze nello smistamento, i campi dei generali e quelli delle truppe
ne presentavano poche altre: se negli Oflag si avevano minori probabilità di subire i
bombardamenti, negli Stalag i prigionieri erano costretti a subire pesanti incursioni aeree. Ad
esempio il soldato Giovanni Tosi racconta che «i bombardamenti alleati erano terrificanti e continui
[…]. Anche le stazioni ferroviarie erano uno dei bersagli preferiti»19, o ancora Busolli che vede
distrutta la propria baracca da due bombe20.
16
G. Santini, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p.8.
Cfr. F. Giangreco, Memoriale, p.43.
18
C. Busolli, Memorie di prigionia, p.88.
19
G. Tosi, in S. Specifico, Il mito, il sacrificio, l’oblio. Testimonianze e diari di guerra e di prigionia (1940-1946), p.
506.
20
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 88.
17
6
Ma nella sostanza la situazione era la stessa: si dormiva su «una specie di castelli che assomigliano
alle conigliere. […] Benché sul legno duro si dorme ugualmente, coprendoci con due vecchie
coperte che ci vengono costì distribuite»21, con la costante compagnia dei cimici che disturbavano il
già debole sonno dei prigionieri, o anche di «grossi topi»22. Ma poteva capitare che ai generali
venisse riservato “un trattamento di favore”, come a Schokken dove essi non dormivano in letti
biposto come invece i soldati nella baracca di legno23. Vi potevano poi essere differenti strutture
attigue alle baracche, come le cucine, i bagni, e nei campi più forniti teatrini e sale riunioni, oltre
alle “dimore” dei soldati tedeschi24.
Vi erano poi quelli più duri dal punto di vista delle condizioni materiali e psicologiche: il campo
nazista di Flossenbürg era decisamente più insostenibili rispetto a Schokken25, così come lo Stalag
344 vicino la città di Lamsdorf, in Polonia, aveva una disciplina più rigida di quella di Gerdauen,
che il soldato trentino Calzà rimpiange per la grande libertà che concedeva loro26.
Gabriele Hammermann racconta poi come ad ogni trasferimento si generassero risse per occupare le
postazioni più lontane dall’ingresso, che spesso diventavano delle latrine per i prigionieri debilitati
che non riuscivano a raggiungere i bagni, e dove venivano posti recipienti per coloro che avevano
problemi digestivi, emanando quindi un lezzo insopportabile27.
Se i campi tedeschi si presentavano in tal modo, non dissimili nella struttura erano quelli degli
Alleati russi, francesi e anglo-americani, dove molti IMI attesero a lungo il rimpatrio a causa delle
non poche difficoltà logistiche nell’organizzarli.
Come si può facilmente intuire, però, essendo campi liberati le condizioni materiali e psicologiche
erano decisamente più favorevoli, sebbene la sofferenza per la lontananza da casa persistesse.
2.2 Le ragioni del No
“Inutilmente Mussolini Insistette”28.
«[…] Quando il nostro esercito all’armistizio del tristissimo 8 settembre 1943, fu abbandonato a sé
stesso, noi, da soldati, abbiamo saputo affrontare la tremenda avventura con dignità e coraggio […],
abbiamo saputo combattere in prigionia la dura battaglia per dare il nostro contributo affinché la
21
C. Calzà, Diario, p. 27.
R. Roncarolo, http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/RREnnesimo%20trasferimento.html, ult. cons. 22 giugno
2014.
23
P. Steiner, La strada più lunga, p.5. Vedi Appendice disegno n. 3.
24
Ivi, pp. 3 e sgg.
25
Cfr. F. Giangreco, Memoriale.
26
C. Calzà, Diario, p. 53.
27
G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, trad. it. di E. Morandi, Il Mulino, Bologna 2004, p.
236.
28
G. Guareschi, Internato Militare Italiano, 1945. Sulle ragioni del “No” vedi anche Appendice figura n. 6.
22
7
Patria non cadesse nell’ignominia»29: la fame, la debolezza, l’angoscia e la barbarie non hanno
fatto cedere la loro resistenza, il mantenere fede alla Patria, tener duro al loro giuramento. Un
giuramento che è costato a molti la vita.
La lettura dei diari ci permette di comprendere le motivazioni che hanno spinto i “nostri” generali
alla scelta di una lunga e tortuosa prigionia, dove la sofferenza e l’angoscia erano l’unico pasto del
giorno: «Affranti si, ma tenaci nel seguire la via tracciata dalla nostra coscienza di soldati,
obbedienti all’imperativo del nostro onore, abbiamo saputo resistere, nella maggioranza, alle
imposizioni e alle lusinghe del nemico, che ci offriva la libertà in cambio di una firma»30.
Dall’Ottobre 1943 i militari internati si trovarono nella condizione di dover pronunciare più volte
una sentenza secca, aderire o meno alla neonata Repubblica di Salò, che divenne una decisione che
si caricava man mano di significato.
Un semplice “Sì” avrebbe concesso a questi militari, provati dalla fame e dalla mancanza della
libertà, di ritornare nella loro Patria e riabbracciare le loro famiglie, ma loro risposero “No!”.
Certamente il primo “No”, pronunciato con spirito patriottico ancor prima di patire le sofferenze e
le torture dei campi, e l’ultimo, pronunciato dopo mesi di fame e dolorosa esistenza, sono differenti.
Il “No” di fine 1943 è molto meditato: incalza la fame, la sofferenza, il freddo. Questo è più di tutti
il “No” della scelta legato al senso del dovere per il giuramento fatto alla Patria, la prima vera
Resistenza ai soprusi subiti in questi primi mesi di prigionia.
E così cominciò la lunga resistenza degli IMI nei campi, una lunga e faticosissima lotta, tra le tante
umiliazioni. Una battaglia silenziosa e dura dietro il reticolato: «Prigioniero dei tedeschi, sebbene
malfermo in salute e minorato dal male che la permanenza in campo di concentramento aggravava
rapidamente, rimaneva impassibile ad ogni offerta di adesione che gli avrebbe consentito il
rimpatrio e la salvezza della vita. Preferiva andare così incontro alla morte, piuttosto di mancare al
giuramento»31.
La scelta dell’adesione dura dall’autunno del 1943 alla primavera del 1944. La stragrande
maggioranza resistette, più di 600.000, però ci fu chi cedette e pronunciò il “Sì”. Il Generale
Gualtiero Santini afferma che 10 ufficiali superiori ed inferiori avevano optato per la Repubblica
Sociale italiana ed erano stati concentrati in un campo provvisorio attiguo al 64Z.
Molte delle adesioni alla Repubblica Sociale avvenute nell’autunno del 1943 sono spinte da
motivazioni ideologiche, giacché molti soldati erano nati e cresciuti sotto il regime fascista. Ma le
adesioni avvenute nel 1944, dopo alcuni mesi di dura vita nel campo, erano dovute alle sofferenze,
alla fame, alle torture subite che spingevano molti ad optare per mettere fine a tutto ciò.
29
E. Rosi, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 1.
Ivi , p. 1.
31
Ivi , p. 4.
30
8
L’ardua domanda veniva posta in riunioni che servivano a raccogliere le eventuali adesioni. Piero
Steiner, nel suo diario, racconta del giorno in cui ci fu la riunione nel teatrino: «Eravamo nel campo
di Schokken da pochi giorni quando ci annunciarono che nel pomeriggio sarebbe venuto un
rappresentante del partito a parlarci. […] Venne l’ora della riunione. Andammo nel teatrino […]
l’indignazione era grave in tutti. Non si poteva avere l’impudenza di parlare di tradimento a chi
aveva obbedito e si era, quasi sempre, assunto responsabilità»32.
Anche nel diario del Generale Francesco Giangreco vi è la descrizione del giorno in cui viene fatta
loro la proposta dell’adesione in una minuziosa descrizione, facendo quasi rivivere quel momento.
Giangreco definisce tale proposta “un ricatto”. Era piuttosto avverso al modo con cui era stato
ricercato ed attuato l’armistizio, soprattutto dal punto di vista operativo, ma il senso di onore, e la
fede nel giuramento fatto erano ben superiori a tutto questo.
L’onore e la certezza si sentono forti e decisi nelle parole utilizzate dal generale Giangrieco, onore
e certezza della scelta mantenuta fino alla fine nonostante le lusinghe e le torture da parte dei
tedeschi. Il disagio si avverte in maniera decisa nelle loro descrizioni, l’armistizio li aveva messi in
una situazione di grande opposizione, opposizione a quelli che fino al giorno prima erano loro
alleati.
La scelta fu dolorosa in entrambi i casi, soprattutto perché qualcuno si ritrovò ad aderire per timore
di rappresaglie alle famiglie, nel caso contrario perché cominciò un lungo e tortuoso periodo per
resistere e mantenere fede al giuramento. Fieri della loro scelta continuarono la impari lotta: «Se ci
fucileranno pazienza! Tanti nostri colleghi sono morti in combattimento. Moriremo anche noi» 33.
Era questo lo spirito che animava i nostri soldati, convinti e decisi nella loro scelta avrebbero dato la
vita pur di non tradire il giuramento fatto: «Come sempre, ho fatto tutto il mio dovere. Ora attendo
serenamente»34.
La fede per la Patria si evince anche da queste parole contenute nelle lettere scritte dal Generale
Alberto Trionfi a sua moglie. Scoraggiato per la situazione e avvilito nell’anima, porta avanti la sua
battaglia convinto di essere nel giusto, di non aver nessuna colpa, ricordandosi ogni volta di aver
compiuto il proprio dovere di soldato italiano, sperando e pregando ogni giorno per la sua Italia:
“Mi sento talmente puro da non poter temere nulla […] tornerà un giorno il sole sulla nostra
Italia!”35. Una nota differente però scaturisce dalle sue lettere: la costante importanza data
all’opinione dei familiari sulla sua decisone. In quasi tutte possiamo notare il chiedere l’opinione
della famiglia che diventa di vitale importanza anche per la paura di sbagliare.
32
P. Steiner, La strada più lunga, p. 1.
Ibidem.
34
M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, ANEI, Roma 2004, p. 5.
35
Ivi, p. 16.
33
9
Nonostante le umiliazioni subite e le privazioni, Trionfi continua però a sperare in un futuro
migliore per il suo paese e per la sua condizione.
La domanda non fu posta solo ai generali, ma anche ai soldati semplici, di cui molti reagirono in
modo differente rispetto ai loro superiori. La maggior parte pensava a salvare la pelle oppure aderire
per poi sabotare, infatti, alla prima richiesta di “SI!” ce ne furono, e molti. Pochi erano coloro che
sentivano di tradire il giuramento fatto, altri, invece, erano confusi, anche per non dare un
dispiacere ai padri, reduci della prima guerra, ma soprattutto perché non volevano ritornare a
combattere: «Quel Tenente ci avvertiva che, nonostante tutto, la guerra sarebbe durata a lungo e ci
enumerava tutti i patimenti ai quali avessimo dovuto soggiacere se non seguivamo il suo
“cameratesco” consiglio quello di uscire da quei reticolati e incorporarci nell’esercito tedesco. […]
L’eco delle sue parole si era appena spenta quando ci lanciò a bruciapelo una domanda: chi di noi
voleva aderire? Con mia grande sorpresa vidi alcune mani alzarsi al di sopra delle nostre teste»36;
«Si pensava alla pelle!»37.
In ogni caso non mancarono le ostilità verso chi aderì alla Repubblica Sociale, anche da parte dei
tedeschi, come raccontato nel diario di Steiner: dopo la scelta i soldati tedeschi non mutarono il loro
comportamento nei confronti dei militari italiani, come di rispetto per i loro sentimenti.
2.3 La prigionia
2.3.1 Il cibo
“Ci davano un pezzo di pane, come un cane...Andavamo a
lavorare senza mangiare...ci davano 100grammi di pane e un coppino con acqua
dove c’erano scorze di barbabietole. Stringevo i denti ma quello era il mangiare!”38
I nostri internati erano «malnutriti»39, non avevano cibo a sufficienza per sopravvivere, in alcuni
casi era difficile procurarselo, in altri più facile.
Molti prigionieri morivano di fame, stremati dal duro lavoro; spesso erano costretti a vivere 48 ore
con soli 100grammi di pane40. La debolezza fisica era troppo elevata, tanto che tutti scesero di peso.
Erano diverse le strategie adoperate nei campi sia da generali che da soldati semplici per mangiare
anche qualche briciola di pane, perché la fame era in costante crescita:
36
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 90.
Testimonianza orale del soldato semplice Francesco Carotenuto, tratta dall’intervista del 6/05/2014 effettuata da
Francesca Ruberti e Valentina Turco.
38
Testimonianza orale del soldato L. Algeri.
39
G. Guareschi, Internato Militare Italiano, 1945.
40
Ibidem.
37
10
“La fame aumentava, si può dire, di ora in ora. Ricordo che un pomeriggio, durante una breve sosta, vidi
delle galline che si inseguivano disputandosi una grossa briciola di pane; feci spaventare quella che la
teneva nel momento in cui mi passava vicina, costringendola a lasciarla per poterla mangiare io: sarà stata
una briciola di due grammi. Un’altra volta, da un davanzale di una finestra raccolsi nel palmo della mano
delle briciole che una mano gentile aveva dovuto lasciarvi per i passeri. A questo ero ridotto!”41
Giangreco annota che «il vitto consisteva in una fetta di pane di circa 70grammi alle cinque del
mattino, con una tazza di surrogato; una minestra di verdura con qualche rara patata a mezzogiorno,
e un’altra fetta di pane con surrogato la sera»42.
I soldati riuscivano, più dei generali, a procurarsi del cibo, grazie al fatto che quasi sempre
lavoravano al di fuori del lager: non era raro che incontrassero qualche civile che, mosso a pietà,
passava loro un pezzo di pane. Ancora più fortunata era la sorte di quelli che lavoravano in cucina, i
quali ogni tanto riuscivano ad assaggiare qualcosa; ma ciò comportava anche conseguenze nel
rapporto con gli altri compagni, dai quali erano spesso malvisti perché sospettati di rubare il loro
cibo: ad esempio Calzà lamenta, con tono di rimprovero, la perdita dell’amico e compaesano
Pedretti, che «col suo contegno egoistico è riuscito ad accomodarsi in cucina, rubando così quel
posto a chi ne avrebbe avuto maggior diritto e dimenticando così gli amici […]. Secondo lui si
prende il pane dalla bocca per noi, in realtà lo prende dalla bocca a noi»43; oppure chi lavorava nei
campi e nell’ambito dell’agricoltura riusciva a mangiare mentre svolgeva la sua attività.
Inoltre è stato sempre presente, ma in modo più accentuato con il passare del tempo, il baratto, che
consentiva la sopravvivenza per molti internati: si scambiavano infatti oggetti per ottenere del cibo.
Ad esempio le sigarette erano straordinari strumenti di baratto, perché con quelle se ne prendeva
molto. La fame era quindi costante, ma non per ghiottoneria, poiché quella si esauriva solo nei
pensieri: «La fame: non quel bel gagliardo appetito che accompagna nella via del ritorno a casa, ma
lo stato che crea un lungo periodo di nutrizione insufficiente»44.
2.3.2 Il clima
“Germania! Terra senza sole, uomini senza cuore, donne senza amore” 45.
Le coperte per la notte erano insufficienti per tutti gli internati, spesso ne utilizzavano una ogni due
persone. Questo era un grande problema viste le basse temperature.
41
F. Giangreco, Memoriale, pp. 41-42.
Ivi, p. 14.
43
C. Calzà, Diario, p.35.
44
P . Steiner, La strada più lunga, p.6.
45
G. Sangiorgio, Quando l’algente verno…, Biancavilla 2000, p.222.
42
11
46
I soldati erano costretti a lavorare all’aperto «con un freddo che tagliava gli orecchi e il naso»47:
in questa situazione una camicia di flanella, una coperta o un pigiama significavano molto.
Gli IMI dovevano uscire all’aperto per spostarsi da un locale ad un altro e in questi casi
il ghiaccio rendeva il cammino difficoltoso; i tragitti da percorrere a piedi vedevano protagonisti
numerosi soldati stremati, infreddoliti, impauriti per le malvagità cui avevano assistito o che
avevano subito. Molti cadevano a terra, non riuscivano a camminare perché deboli, altri cercavano
di sorreggersi a vicenda con il timore di essere visti dai tedeschi che attuavano la violenza per
impedire che i soldati si aiutassero tra loro.
Nelle camerate, a volte, c’era una stufa che, una volta accesa con del carbone e della legna
rimediata, riscaldava in poco tempo tutta la stanza, permettendo così un caldo, lieto riposo agli IMI.
2.3.3 Il vestiario
“Giunti in Germania, spogliati delle nostre divise, che furono bruciate, energicamente ripuliti e disinfestati, indossammo
i panni dei prigionieri. La sigla ‘P.I.’ (prigioniero italiano), applicata sulla schiena, ci rendeva immediatamente
riconoscibili”48.
La procedura in ciascun campo era generalmente la medesima: la privazione della libertà, nella sua
realtà, offriva rari spiragli di speranza per un trattamento rispettoso della loro personalità.
Giunti nel campo gli internati erano sottoposti alla schedatura, una procedura che prevedeva la
consegna, da parte degli IMI, di tutti gli oggetti in loro possesso, dal vestiario ai documenti
personali, fino ad arrivare ai libri di lettura. Gli IMI dovevano firmare delle schede su cui erano
segnati gli oggetti medesimi, ma, in realtà, i tedeschi ne registravano soltanto una piccola parte.
Venivano poi denudati delle proprie uniformi militari e consegnate le uniformi da detenuti, quasi
mai della giusta misura. A tutti venivano tagliati i capelli corti.
In tal modo, ciascuno veniva privato anche della propria identità, erano considerati semplicemente
dei
numeri:
questa
era
una
delle
umiliazioni
più
forti
che
dovettero
subire.
Il campo di Flossenbürg in merito a ciò costituisce un’eccezione: il generale Giangreco racconta
46
P. Steiner, La strada più lunga, p.9.
C. Calzà, Diario, p.42.
48
M. Visentini, in S. Specifico, Il mito, il sacrificio, l’oblio. Testimonianze e diari di guerra di prigionia (1940-1946),
cit., p. 503.
47
12
infatti che gli venivano fatti indossare indumenti racimolati, nel suo caso specifico «un paio di
mutande a brandelli, una camicia da donna, un pantalone eccessivamente lungo pieno di toppe, una
giacca che aveva la manica destra corta e la sinistra che oltrepassava le dita di 15 centimetri»49.
Per quel che concerneva le scarpe, agli internati venivano consegnati degli zoccoli di legno, o
scarpe con suola di legno, che non agevolavano di certo il movimento, anzi costituivano
un’ulteriore sofferenza. Gli zoccoli venivano spesso barattati, si offriva del cibo o altro in cambio di
scarpe più comode da indossare.
Gli indumenti venivano lavati nell’autoclave ma spesso, dopo il lavaggio, erano ancora sporchi di
escrementi o sangue essiccato: infatti il vestiario proveniva da prigionieri di altri campi di
concentramento tedeschi. Non di rado tra gli indumenti gli internati trovavano oggetti utili di cui si
impossessavano furtivamente, sfidando i controlli degli ispettori delle SS, oggetti che poi venivano
utilizzati per il baratto.
2.3.4 L’igiene
Il sovraffollamento, le condizioni igieniche precarie, la sporcizia rappresentavano per molti IMI un
grande disagio capace di influire negativamente sulla propria psiche, senza differenza tra generali e
soldati. Nel campo di Schokken gli internati avevano a disposizione acqua calda a sufficienza per
lavarsi, non di rado si utilizzavano dei rimedi di fortuna quando ciò di cui si necessitava era carente:
ad esempio il generale Steiner scrive che «un ottimo ripiego era l’utilizzo dell’acqua calda della
locomotiva per lavarsi il viso al mattino»50.
51
Le condizioni delle stanze ove gli internati dormivano spesso erano disastrose, poiché infestate da
zanzare ed insetti, soprattutto cimici, loro vero tormento.
La disinfestazione del campo era disposta a piacere della direzione del campo, spesso effettuata con
petrolio o cemento quando non con insetticidi talmente maleodoranti che per molti giorni era
impossibile accedere alle baracche52.
49
F. Giangreco, Memoriale, p.24.
P. Steiner, La strada più lunga, p.50.
51
Ivi, p.12.
52
G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, cit., pp. 240-241.
50
13
Non migliori erano le condizioni igienico-sanitarie degli ospedali dei campi, quando c’erano: i
medicinali si tenevano a contatto con materiali non sterili, ad esempio si mettevano su dei vassoi,
spesso avvolti in carta di giornale. I luoghi erano sporchi, vi era acqua stagnante ed erano presenti
soluzioni provvisorie a questo, come delle passerelle di tavole sulle quali camminare.
Gli internati, durante tutta la durata della permanenza nel campo, subivano continue umiliazioni:
le condizioni igieniche erano decisamente carenti, non avendo utensili da utilizzare dovevano
mangiare con le mani e provvedere alla propria igiene con ciò che avevano, ad esempio con
utilizzando i propri, scarsi, indumenti.
Rispetto al campo di Schokken, nel campo di Flossenbürg «le docce consistevano in violente gettate
d’acqua fredda, emanate da una pompa»53. Quando i “nostri” IMI avevano il «“piacere” di lavarsi
con l’acqua calda, tale “piacere” terminava subito vista la mancanza degli asciugatoi e le finestre
sempre aperte»54.
2.3.5 Le condizioni di salute
55
Viste le condizioni in cui si trovavano, si può facilmente intuire che il loro stato di salute non era
affatto positivo. I corpi sia di ufficiali che di soldati semplici erano segnati dalla guerra: «Scheletri
rivestiti di pelle», così vengono definiti dal generale F. Giangreco56. Piaghe, pustole, ulcerazioni
“decoravano” le loro membra, posto che la malattia era spesso una conseguenza delle dure
condizioni di vita. Le patologie principali erano la tubercolosi, polmonite, pleurite e disturbi gastrointestinali, e in alcuni lager scoppiarono anche epidemie di tifo. Le malattie avevano negli italiani
per lo più un brutto decorso. Tra i morti italiani, infatti, vi furono casi di suicidio57.
I medici a volte non riscontravano alcuna malattia in queste persone sfinite dalla fame e così le
rimandavano al lavoro, dove il giorno seguente spesso cadevano a terra prive di sensi e morivano58.
53
F. Giangreco, Memoriale, p.24.
Ibidem.
55
Foto scattata dal fotografo e internato trentino Vittorio Vialli il 28 agosto 1945: dopo la liberazione del campo di
Bomblitz gli ex internati ammalati vennero caricati su ambulanze inglesi e trasportati al treno ospedale che li aspetta
alla stazione di Bergen, in http://www.8settembre1943.info/gallery/vialli, ult. cons. 24 giugno 2014..
56
Cfr. F.Giangreco, Memoriale.
57
K.J.Siegefried, Das Leben, (vol. Rustungsproducion), p. 123.
58
Cfr. ANPI (a cura di), UN MILITARE VERCELLESE NEI LAGER NAZISTI Renzo Roncarolo, Aprile 1988.
54
14
Non tutti gli internati, però, parlano di mancato interesse da parte dei medici. Ad esempio il
generale Steiner narra nel suo diario59 della possibilità di cure nell’ospedale di Karkow: egli scrive
persino di aver ricevuto una pulizia dei denti durante un controllo dentistico.
Il soldato Busolli racconta i diversi giorni passati in ospedale a causa di una dissenteria: per un
banale virus gastro-intestinale incontrò una serie di difficoltà, come quella di co-abitare in baracca
con i compagni, lo spostamento di baracca in baracca, il trasferimento in ospedale. Perché anche
piccoli malanni, come una semplice dissenteria, all’ interno del campo risultavano essere gravi
problemi da affrontare.
2.3.6 La comunicazione con le famiglie
“Dimoro in una terra che si ammanta di una storia tristemente accentuata,
povertà che rivedo seminata nella spenta, livida pianura.
Il fumo che dilegua oltre le sbarre, colorato come cielo senza macchia,
l’attesa mia ti recherà amorosa se nel lungo ed impervio cammino
fugherà la nebbia dei rancori”60.
Uno dei momenti più entusiasmanti nel campo era l’arrivo dei pacchi, fornitori di prodotti
alimentari, di sigarette, libri e delle lettere da casa. Questi elementi sono una componente
fondamentale per la sopravvivenza degli IMI.
La posta era presente in tutto il periodo della prigionia, subito dopo l’annuncio dell’armistizio la
principale preoccupazione dei militari fu quella di avvisare le famiglie della loro situazione: alcune
notizie arrivarono alle famiglie persino da alcuni biglietti lanciati dai treni contenenti nome,
indirizzo e la preghiera di avvertire i propri parenti.
Le prime notizie arrivarono ai parenti nelle settimane seguenti, generalmente da parte della Croce
Rossa; solo in un secondo momento arrivarono gli scritti telegrafici da parte degli IMI con
indicazioni circa i pacchi da spedire. Gli ufficiali potevano inviare tre lettere e quattro cartoline al
mese, i sottoufficiali e i soldati semplici due lettere e quattro cartoline. L’ esigenza di comunicare
era talmente importante da diventare moneta di scambio al mercato nero: più biglietti si
possedevano più aumentavano le probabilità di ricevere informazioni e aiuti alimentari da casa 61.
Sono proprio queste lettere che, rinvenute, spesso ci aiutano a ricostruire la storia avvenuta in quel
triste periodo. Attraverso alcune di esse è stato possibile infatti ricostruire le vicende di quel
momento storico e la vita nel campo: un esempio sono quelle scritte dal generale Alberto Trionfi
59
P. Steiner, La strada più lunga, p.53.
G. Bimbi, Messaggio alla moglie, Wittenheim 1943, in http://www.provincia.lucca.it/ scuolapace/uploads/ quaderni/
quaderno_imi.pdf, ult. cons. 25 giugno 2014.
61
Cfr. F. Ferrarotti, La critica sociologica, Serra, 2009, in http://www.lacriticasociologica.it/.
60
15
durante la prigionia, che dopo un periodo di forzato silenzio riuscì a stabilire dal gennaio 1944 un
contatto epistolare con la famiglia. La figlia del generale, Maria, entrata in possesso della
documentazione parzialmente deteriorata attraverso alcuni ufficiali liberati, è riuscita infatti a
ricostruire i mesi di prigionia del padre nel campo 64/Z62.
2.3.7 L’appello
“Ogni mattino stiamo qui per l’appello
Ogni giorno, con la pioggia o con il sole
Sui nostri volti sono dipinti
Dolore, disperazione, tormento….”63.
Generalmente era il suono di una campana a richiamare l’attenzione dei militari all’interno del
campo per uno dei momenti più importanti: le adunate di controllo. L’eco di questi rintocchi
attivava gli ufficiali e i soldati semplici a prendere posizione e mettersi in riga. Sistemati gli ufficiali
nei ranghi iniziava l’appello diretto da un sottoufficiale tedesco 64: si effettuavano due o tre appelli
giornalieri, uno il primo mattino, il secondo verso l’imbrunire, e uno la sera nelle baracche65. Era
raro che i conti tornassero velocemente ed essi venivano fatti e rifatti più volte, baracca per baracca.
L’ufficiale Giangreco ricorda appelli dalla durata di non più di un’ora e l’umiliazione legata al fatto
che gli appelli dei generali venissero effettuati contemporaneamente a quelli della truppa. Tutti
ricordano che potevano esserci ulteriori perquisizioni e ritiro di oggetti e la cosa più sconcertante
era che si doveva stare all’aperto a lungo con qualunque tempo, sotto la pioggia come sotto la neve,
con parecchi gradi sotto zero, gelando.
Al termine dell’appello si sentiva spesso la tipica frase: «Mein Herr, ich zählte von mir, daß es 200
Stücke ist», cioè «Signore, ho contato che da me sono 200 pezzi»66.
Pezzi! Non prigionieri. Tanto meno persone. Furono considerati “stücke”. E non tanto gli ufficiali,
ma i soldati spesso durante l’appello potevano anche subire percosse e torture.
2.3.8 I piaceri del campo
Negli Oflag gli ufficiali correvano il rischio, non essendo obbligati a lavorare, di sprofondare
nell’inazione e nella mancanza di volontà. Fortunatamente, al contrario, gran parte di essi riuscirono
a reagire sul piano morale e intellettuale: i loro lager produssero un corpus notevolissimo di
62
Cfr. M.Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, p. 29
K. Zywulska, L’Appello del mattino, 1943.
64
Cfr. L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p.15
65
Ibidem, p.15
66
http:// www.iltempolastoria.it/rubriche/stucke-in-tedesco-significa-pezzi.
63
16
espressioni artistiche. C’era chi suonava, chi disegnava come Nereo Laureni67, disegnatore e
grafico triestino internato insieme allo scrittore Giovannino Guareschi e all’attore Gianrico
Tedeschi nello Stalag X B a Sandbostel, in Germania68; o ancora chi dava vita al giornale parlato,
chi organizzava una mostra d’arte, rappresentazioni teatrali come Steiner, un’assemblea, delle
conferenze, una funzione religiosa. Si parlava di tutto e si professava di tutto: scienze, matematica,
storia, filosofia, diritto, teologia, pedagogia, viticoltura, arboricoltura, geografia etc. Busolli, ad
esempio, ebbe l’occasione di parlare di religione cattolica con un compagno della Val di Susa,
protestante evangelicano valdese, e racconta che quella fu uno dei suoi migliori confronti
intellettuali69. Gli Oflag divennero incredibili luoghi di attività culturali, nei quali, scrisse Guareschi
«la cultura rivendicò i suoi diritti e cominciarono le conferenze storiche, letterarie, scientifiche,
artistiche, le lecturae Dantis, le serate di poesia moderna. Furono istituiti corsi di lingue, corsi di
diritto, corsi di agraria, corsi di ingegneria, ed ecco l’università con docenti e programmi quasi
regolari. Indi si organizzarono serate di musica, di canto, di arte varia ed ecco il teatro, che quando
fu possibile ebbe orchestre, orchestrine e compagnie di prosa e rivista»70.
Gli ufficiali italiani furono in grado di arrangiarsi in tale situazione facendo risaltare la propria
creatività e l’arte: la sua massima espressione fu radio Caterina, costruita dagli italiani proprio
nell’Oflag X di Sandbostel. Diverse altre furono le radio introdotte segretamente nei campi dei
soldati e utilizzate per ricevere: Radio Londra, Radio Berlino e Radio Bari, e alcune vennero
scoperte nel corso delle perquisizioni. Ma la “Caterina” fu speciale, sia perché non venne mai
catturata, riuscendo persino a evadere da Sandbostel per ricomparire a Fallingbostel, sia in quanto
venne costruita con materiali di fortuna71.
Negli Stalag la vita dei soldati non era la stessa di quella degli ufficiali: alcuni militari di truppa
testimoniano che potevano sì leggere, ma di nascosto, nella baracca con la luce fioca di una candela
qualche libro segretamente nascosto dalla vista dei Tedeschi, altri, invece, ricordano passeggiate,
letture in cortile e orchestre serali72.
Generalmente, però negli Stalag non esisteva lo stesso clima che vivevano gli ufficiali, perché qui
occorreva fare molta più attenzione ai sequestri e alle spogliazioni da parte dei Tedeschi.
67
I disegni del grafico Nereo Laureni sono state oggetto di una mostra durante la rassegna Dedicato a chi disse no - I
non collaborazionisti nei lager nazisti”, Trieste 2010. Vedi anche Appendice figura n. 7 e n.8.
68
P. Spirito, Vita da lager nei disegni del triestino Nereo Laureni, Il Piccolo, 17 aprile 2010, in http://ricerca.gelocal.it/
ilpiccolo/ archivio/ilpiccolo/2010/04/17/NZ_31_APRE.html, ult. cons. 26 giugno 2014.
69
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 99.
70
G, Guareschi, Ritorno alla base, Rizzoli, Milano 1989, p.28.
71
G. Guareschi, Occhio segreto nel lager. Storia della famosa “Caterina”, “Oggi”, 11, 1946.
72
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 89.
17
2.3.9 Le notizie sulla guerra e il percorso interiore
73
Lo stato d’animo nel presente, le attese e i desideri per il futuro vissute nei campi di detenzione si
intrecciano costantemente nei diari dei “nostri” generali e dei soldati con le notizie che riuscivano a
carpire sulla guerra, su quello che succedeva in Italia e conseguentemente su quella che sarebbe
stata la loro sorte.
Le fonti di tali notizie non erano molto variegate: principalmente i giornali tedeschi che circolavano
nel campo e che venivano tradotti dagli interpreti tedeschi o dai prigionieri che conoscevano la
lingua; i bollettini di guerra germanici, che però presentavano spesso scarsi elementi; ancora
giornaletti quali “Voce d’Italia” e “La voce della Patria”, circolanti nel campo, che però il generale
Trionfi giudica come perfidi e nauseanti74, le cui notizie venivano strumentalizzate dai tedeschi75; a
Schokken c’era “radio campo”76, mentre nel campo ucraino di Karkow una che a mezzogiorno
trasmetteva il notiziario, come racconta il generale Steiner77; oppure radio scarpa, di cui parla
Busolli78, radio Caterina e altre79. Ma le informazioni più “fresche” venivano dai soldati: quelli «che
avevano contatti col comando tedesco o perché lavoravano nell’orto o perché aiutavano in altri
servizi, si prestavano spontaneamente a raccogliere le notizie che diramava radio Londra, sfruttando
con italica scaltrezza le stesse radio dei locali tedeschi»80. Altra fonte di informazione erano le
missioni inviate nei campi, in cui varie personalità annunciavano le novità ai prigionieri; è da notare
poi che, in un contesto di forte incertezza per l’avvenire, a notizie più o meno certe derivanti da
queste fonti si affiancavano quelle che gli internati potevano cogliere dal comportamento dei
tedeschi e dal “clima” del campo.
Come accennato prima, il modo in cui veniva vissuto tutto ciò e quindi il rapporto che gli internati
instauravano con il trascorrere del tempo e con il futuro cambiava in base alle notizie che
ricevevano sugli sviluppi della guerra, ma anche e soprattutto a seconda del temperamento di
ciascuno: e ciò si può rintracciare facilmente nello stile di scrittura dei vari diari.
73
G. Florio, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 19.
Cfr. M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, cit., p.99. Vedi anche C. Busolli, Diario, p. 97.
75
G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945,cit., p. 243.
76
Cfr. P. Lava, in L.E. Ronchi, Diario, p.31.
77
Cfr. P. Steiner, Diario, p.48.
78
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 94.
79
Vd. Paragrafo 2.3.10.
80
P. Steiner, La strada più lunga, p. 3.
74
18
Colpisce a tal proposito quello del generale Steiner, che conserva sempre un’indole ironica nel
descrivere aspetti che, a ben riflettere, non sono per niente piacevoli; di tutt’altro tenore è invece
l’atteggiamento del generale Trionfi: leggendo le sue lettere ci si immedesima nell’amarezza
infinita che ha provato durante l’internamento: più volte scrive di avere «crisi di pianto e di dolore,
immenso»81, ciò che lo sorregge è solo il pensiero che un giorno rivedrà i suoi cari. Ma questa
sofferenza che emerge è dovuta forse al fatto che le lettere sono state scritte proprio durante la
prigionia, mentre gli altri diari esaminati subito dopo.
Egli si fa portavoce comunque della lacerazione con cui gli ufficiali affrontavano la vita del campo,
mentre «tra i soldati e i sottoufficiali [era] prevalente il senso di sconfitta, la stanchezza e il rifiuto
della guerra»82. Nelle memorie dei militari di truppa, infatti, affiora tale atteggiamento: addirittura
Busolli scrive ai suoi che un giorno ha pensato di togliersi la vita, stremato dalla prigionia, e che
«non aveva più nessuna volontà: se in una prima parte di questa prigionia [fu] tanto sensibile e
filosofo ora [si] trovav[a] del tutto insensibile e irragionevole; non funzionava né la mente, né le
membra, né il cuore sentiva nessun impulso»83.
In un presente monotono e un futuro incerto gli internati si facevano forza a vicenda, cercavano di
darsi reciproco sostegno; e quello che sosteneva tutti era la costante speranza per l’avvenire, la
certezza che nonostante tutto per loro vi sarebbe stata una felice conclusione, anche se per molti non
è stato così.
La prigionia ha comunque cambiato gli internati, e in molti lo ha fatto in meglio: hanno imparato ad
adattarsi alle più avverse condizioni, a fare del bene pur potendo fare del male. A tal proposito è
toccante e significativa la testimonianza del soldato Arturo Cortiana:
Il cervello mio comincia a svolgere una lunga pellicola sulla quale vedo tutte le fasi della mia vita passata
“[…]. Sapete qual è la cosa più spaventosa e la più bella? La più orribile fase è la prigionia la più bella è
la prigionia. Non si direbbe ma è così: la prigionia mi ha fatto conoscere Dio, mi ha fatto conoscere e
imparare tutto quello che nessuno potrà imparare se non con il provare” 84.
81
M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, cit., p.66.
L. Zani, Le ragioni del “No”, pp. non numerate, in http://www.sociologia.uniroma1.it/users/zani.
83
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 108.
84
A. Cortiana, Lettere dalla Germania, in I campi dei soldati, Diari e lettere di internati militari 1943-1945, cit., p.
179.
82
19
2.3.10 La fede
“A me quello che mi ha salvato è la fede [...] Se io sono qua oggi è per la fede.
Io ho avuto tanta fiducia nella fede e ce l’ho sempre. A me è stata la fede che mi ha salvato [...].
Solo la fede può fare quello che ricordo io negli occhi, nel cuore, nella mente”85.
Un tratto che accomuna gli internati militari italiani è il conforto della fede: soldati e ufficiali, prima
di ricominciare la vita di ogni giorno, rivolgevano un rapido saluto a Dio e ai propri cari, un
pensiero nostalgico alla propria terra lontana.
Forte era questo sentimento sul quale i nostri uomini si poggiavano per sopravvivere, perché
affidarsi alla fede era l’unica ancora di salvezza nell’inferno che stavano vivendo.
C’era chi, a causa delle sofferenze, la perdeva in momenti particolarmente drammatici, o comunque
la metteva in discussione: con la fame crescente, i dolori, la sensazione di essere abbandonati a se
stessi, prevalevano non solo le debolezze fisiche, ma anche quelle morali e spirituali. Anche se,
successivamente, la fede era più forte, o comunque la necessità di aggrapparsi a qualcosa, e si
tornava a confidare nella misericordia di Dio, come accadde a Busolli, che a causa delle sofferenze
fisiche fu tentato dal rivolgersi al Diavolo86.
Ogni aspetto della religione era importante: infatti gli internati tenevano molto a frequentare la
Santa Messa e a ricevere la comunione, così come a rispettare i morti, sentimento invece spesso
ignorato e calpestato dai tedeschi: «In quest’atmosfera, cupa com’era cupo in quei giorni il cielo, la
cerimonia toccò tutti profondamente. Il piccolo sacerdote ci parlò dei morti e del dovere di
onorarli… Pensate a quello che hanno fatto per noi e che non potremo mai rendere… Disse poche
semplici cose con [...] chiarezza e forza di persuasione [...] Anche i più indifferenti ne furono
commossi e la commozione portò quasi tutti un po’ per volta a comunicarsi»87.
2.3.11 Il rapporto con i tedeschi
“Raccolti da barbari infami,
trattati da cani,
noi siamo quassù”88.
Il rapporto con i soldati tedeschi, come si può immaginare, era piuttosto difficile, frequenti erano gli
atti di violenza specialmente nel campo di Flossenbürg, che eccelleva per crudeltà.
Gli internati da subito avevano avvertito la durezza di trattamento che avrebbero riservato loro i
tedeschi “grazie” alle modalità di trasporto da un campo di concentramento ad un altro, che erano
85
Testimonianza orale di L. Algieri.
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 109.
87
P . Steiner, La strada più lunga, pp.14-15.
88
G. Sangiorgio, Quando l’agente verno…, cit., p.220.
86
20
molto pesanti. Tale trattamento lo subivano indistintamente gli ufficiali e i soldati.
Nel campo di Flossenbürg accadeva, ad esempio, che gli ordini venissero impartiti e fatti eseguire
non dai soldati tedeschi, ma da altri internati più feroci delle SS89; questi internati, addetti alle varie
operazioni, erano muniti di scudisci, con i quali inveivano contro i nuovi venuti, senza risparmio. I
colpi fioccavano in continuazione e generalmente senza motivo, molti venivano feriti a morte.
I corpi senza vita venivano spogliati dei pochi cenci che indossavano, e su di essi veniva scritto il
numero di matricola ed in seguito portati via.
Non mancavano però dei Lagerführer più magnanimi, come racconta Roncarolo, i quali cercavano
di rendere la prigionia il meno dura possibile, distribuendo sigarette agli internati, controllando che
ci fosse acqua calda nei bagni90.
2.3.12 Le torture
“C’era uno sgabello a quattro piedi, una sedia senza spalliera, ci mettevano con la pancia lì sopra, uno prendeva le
braccia e le torceva e la testa in mezzo alle gambe sue, un altro i piedi e uno batteva di qua, uno batteva di là, come
quando una volta ferravano gli asini, fino a che il cristiano doveva svenire. Quella è stata la paura più grande che ho
passato nella mia vita, la tortura. Avevo paura! Se mi sparavano non avevo paura, venti minuti, un quarto d’ora e
finisce. Ma con la tortura campavi sette, otto giorni, poi morivi. Perché c’erano rotture interne, venivano emorragie di
sangue nel corpo e campavano gridando soltanto: Aiuto! Aiuto! e chi dava aiuto?”91
Nei campi di internamento oltre alla fame, alla paura e alle «palate che non sono mancate mai!», si
trovano appunto le torture perpetrate dalle milizie tedesche, che portavano ad una morte orrenda,
una morte priva di difese, lenta e dolorosa. Essa spaventava tutti, ma ciò che terrorizzava
ulteriormente era il come si moriva, la paura di farlo provando dolore e implorando aiuto, senza
poterne ricevere da nessuno. Neanche ai generali venivano risparmiate le «indicibili»92 torture:
“Basti dire che il medico capo del campo visitava i convalescenti due volte la settimana, cioè li
sottoponeva due volte la settimana a crudelissima tortura. Erano quasi tutti dei moribondi, delle larve, che
spesso morivano d'inedia [...] i convalescenti erano costretti ad uscire all'aperto completamente nudi [...]
attraversavano i cortili sulla neve, spossati e cadenti, sostenendosi l’un l’altro, tremando dal freddo, in
lugubre processione: processione di cadaveri”93.
La ferocia dei tedeschi si abbatteva sia sui soldati che sui generali e bastava un nonnulla per
scatenarla, come ricorda Calzà di un loro amico, che venne ucciso con un colpo di moschetto per
89
F. Giangreco, Memoriale, p.25.
Cfr. http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/RRUn%20podiumanita.html, ult. cons. 26 giugno 2014.
91
Testimonianza orale di L. Algieri.
92
F. Giangreco, Memoriale, p.38.
93
Ibidem.
90
21
aver tentato di oltrepassare il reticolato del campo per prendere delle patate 94. L’angoscia, la paura,
il terrore di essere massacrati, di essere uccisi crudelmente albergavano nell’animo di tutti e
dominavano la mente stanca e impaurita. Vittime senza difese, private della capacità di reagire alla
violenza e alla crudeltà, vittime senza scampo e umiliate come larve umane:
“Pugni, calci, frustate. Un poveretto, all’inizio dell’adunata, stava arrancando verso l’uscita, traballando e
minacciando a ogni istante di perdere l’equilibrio. Quel giovane [...] vedendo che tardava, gli andò
incontro, gli urlò non so che frase, ed infine gli mollò un violento ceffone. Quell’infelice cadde riverso
sull’impiantito, vi batté l’occipite e rimase lì stecchito. Immediatamente due “piccoli capi” lo spogliarono
e lo portarono nella latrina”. 95
2.3.13 Il rapporto tra gli internati
“Il rapporto tra prigionieri era questo: là c’erano solo patate e fame e il lavoro.
Il tempo passava così, tra paure e lavoro che non è mancato mai”96.
Era dura la vita degli internati, costretti a lavorare troppe ore al giorno in condizioni disumane.
Alcuni sostengono che non c’era un vero e proprio rapporto tra internati, poiché si lavorava sempre,
troppo, e quel poco tempo a disposizione lo si trascorreva riposando.
C’era anche chi desiderava stare da solo, passare un po’ di tempo in solitudine, senza dover
condividere, in modo forzato, il proprio tempo con gli altri, come faceva il generale Trionfi: «In
verità c’erano nella vita del campo [...] grossi pesi [...] l’impossibilità di star solo, il dover vivere
sempre tra le stesse persone».97
Molti sostengono invece che nelle difficoltà della vita di ogni giorno avevano trovato appoggio e
offerto supporto con chi condivideva la propria sorte: nella malinconica condivisione di quella
brutta esperienza si trovava un ancoraggio spontaneo e affettuoso nei propri compagni, con i quali si
creava una vera e propria famiglia: «Mi destava un po’ di malinconia lasciare tanti colleghi coi
quali, in un anno di vita in comune avevo stretto rapporti di amicizia o di viva cordialità, con i quali,
comunque, si era determinata una sorte di “spirito di corpo” in ragione delle comuni sofferenze,
delle comuni speranze, dei comuni sentimenti».98
Se questo era il rapporto tra italiani, con i quali si passava la maggior parte del tempo, non molto
dissimili erano le relazioni con gli internati di altre nazionalità: in genere si legava molto con i
94
C. Calzà, Diario, p. 70.
F. Giangreco, Memoriale, p.29.
96
Testimonianza orale di Luigi Algieri.
97
P . Steiner, La strada più lunga, p.8.
98
F. Giangreco, Memoriale, p.12.
95
22
francesi, con i russi, con gli americani, con i polacchi. Calzà ad esempio trovò un sincero fratello in
Peter, l’autista polacco con il quale lavorava ogni giorno «poiché tutto escogita[va] per aiutarci».99
Ai tedeschi invece interessava moltissimo che si creassero ostilità tra generali e soldati, come
annota Steiner.100
E anche i rapporti con i civili non furono meno positivi, costituendo essi in molti casi un aiuto
provvidenziale per i tanti lavoratori cui non veniva data la quantità sufficiente di cibo per sopportare
gli sforzi delle attività che svolgevano. Come in tutte le famiglie c’erano le liti e le incomprensioni,
aumentate per di più dalle condizioni di deprivazione fisica che di certo non permetteva una sempre
pacifica convivenza.
2.3.14 La civilizzazione
Con gli accordi tra Hitler e Mussolini del 20 luglio 1944, gli internati vengono smilitarizzati
d’autorità dalla RSI e gestiti come lavoratori liberi civili. Il cambiamento di status, soprattutto per
gli ufficiali, incontra molti rifiuti dovuti alla paura di perdere i propri diritti economici, di mettere in
pericolo la vita dei propri familiari che vivevano nelle zone già liberate dagli alleati oppure per il
timore che tale gesto potesse essere confuso come una collaborazione. Ma all’inizio dell’autunno la
“civilizzazione” viene imposta a tutti, sono esclusi soltanto i generali, i cappellani militari, i medici,
i malati cronici.
Nel diario del generale Giangreco ritroviamo un’attenta descrizione dei lavoratori e delle loro
mansioni all’interno del campo di Flossenbürg. Gli operai specializzati (come fabbri, meccanici,
sarti) erano impiegati nelle officine o nei laboratori, mentre nelle cave vi si trovavano gli studenti,
gli intellettuali, i medici che non essendo abituati a quel tipo di lavoro, nella maggior parte dei casi
morivano dopo poche settimane.
Nel campo di Flossenbürg gli internati erano divisi in due categorie: “Beschaf”, occupati, e
“Unbeschaft”, non occupati. Gli Beschaf erano coloro che avevano un lavoro fisso mentre gli
Unbeschaft dovevano essere sempre disponibili per qualsiasi lavoro, solitamente erano addetti a
lavori piuttosto pesanti. Ogni giorno venivano rastrellati dei lavoratori tra gli Unbeschaft, questi
rastrellamenti provocavano molto spesso degli stati di angoscia poiché in diversi casi essi venivano
spostati per lavorare in altri campi. Gli Unbeschaft temevano che potessero essere spostati nei
campi cosiddetti di eliminazione, come quello polacco di Auschwitz. Solo la protezione del
Blockmann poteva evitare lo spostamento.
99
C. Calzà, Diario, p. 35.
P. Steiner, La strada più lunga, p. 12.
100
23
Tutti quindi cercavano di assicurarsi un lavoro fisso e la grazia del Blockmann. Inoltre avere
un’occupazione fissa assicurava una razione di viveri supplementare detta “Frustuck”, cioè
colazione.
I posti di lavoro, alloggiati in vastissimi locali, erano dei luoghi spesso umidi e freddi in cui gli
internati si ammalavano di polmonite oppure di setticemia, a causa delle cattive condizioni
igieniche: «Noi battevamo i denti dal freddo che ci faceva rattrappire le mani e gelare i piedi,
mentre dovevamo stare seduti per lavorare, senza poterci muovere un po’ per riscaldarci»101.
Luogo di lavoro, anche peggiore, era poi la cava. Il lavoro durissimo poteva provocare la morte in
sole tre settimane, causata anche dall’inadeguatezza delle risorse alimentari che veniva fornito loro:
“A uno, a due, a tre alla volta, veniva avanti dal fondo della baracca degli esseri che nulla avevano più di
umano: delle larve che a stento si reggevano in piedi, coperte di stracci, con gli occhi spiritati fissi nel
vuoto, emaciati fino all’incredibile, dalle facce teree, le occhiaie nere e fonde, i più coperti di piaghe
purulente. I disgraziati cercavano di sorreggersi a vicenda; erano tutti con le bocche socchiuse, le labbra
sottili dalla quali sporgevano i denti e spesso affioravano dei lamenti.[…] Erano lavoratori addetti ad una
cava di pietra, nella quale lavoravano con il fango a mezza gamba, da 16 a 18 ore al giorno, sotto la frusta
dei sorveglianti”102.
Non mancavano i maltrattamenti da parte delle SS nel caso in cui qualcuno non eseguisse gli ordini
oppure cercasse di rubare qualche oggetto dal posto di lavoro. Si narra nel diario del generale
Giangreco delle famose “25 scudisciate” che, a seconda dell’umore del comandante del campo,
potevano anche terminare con l’eliminazione dell’internato: «Una volta, per esempio, assistemmo
alla impiccagione di ben sei giovani russi, i quali avevano rubato sigarette allo spaccio»103.
I soldati semplici internati che lavoravano, invece, fuori dal campo erano talvolta più fortunati
poiché potevano lavorare la terra di qualche proprietario clemente che dava loro anche da mangiare
e perfino l’alloggio. In altri casi potevano lavorare nelle fabbriche e godere di qualche momento di
libertà dalla sorveglianza: «Ricevo da una famiglia tedesca una buona porzione di carne di maiale e
delle uova arrostite con birra e pane»104; «Li vediamo ritornare alla sera carichi di patate, pomodori
e cocomeri, parte comperati e parte grattati come si suol dire»105; «Sembra impossibile oggi di
poter andare alla fabbrica senza essere accompagnati dalle sentinelle».106
101
F. Giangreco, Memoriale, p. 35.
Ivi , p. 28.
103
Ivi, p. 36.
104
C. Calzà, Diario, p. 40.
105
Ivi, p. 73.
106
Ivi, p. 72.
102
24
Il lavoro dei soldati semplici consisteva in molte mansioni: si andava dal trasporto di carbone e di
attrezzature varie al lavoro dei campi. L’intera giornata prevedeva numerosi compiti, che i
lavoratori dovevano portare a termine. Talvolta la giornata di riposo domenicale veniva negata e i
lavoratori erano costretti a lavorare. Potremmo dedurre, quindi, che i soldati semplici abbiano
vissuto una realtà meno crudele rispetto a quella degli ufficiali, ma in entrambi i casi la sofferenza
albergava nelle loro anime e nei loro corpi. Se da un lato gli ufficiali non erano costretti ai lavori
forzati, erano però costretti a stare rinchiusi nei campi di punizione isolati dal mondo. I soldati
semplici, invece sebbene fossero costretti ai lavori duri, veniva loro concesso, seppur raramente e in
maniera molto limitata, qualche stralcio di libertà. Coloro che resistettero sino alla fine furono
denominati “puri” e venivano trattati molto duramente.
Capitolo 3: la fine delle sofferenze
3.1 Il rapporto con i liberatori
107
Occorre evidenziare anzitutto che nei diari in esame si parla compiutamente solo dei rapporti con i
russi e non vengono invece mai descritti quelli con gli altri liberatori, quali americani, inglesi o
francesi. Soltanto il generale Giangreco accenna al fatto che una volta liberati dal campo di
Flossenbürg, il 3 maggio 1945, sono costretti a soffrire ancora «tre settimane di limitazione della
[…] libertà in un campo di concentramento americano»108; Busolli descrive come inizialmente,
dopo la liberazione, il rancio era sufficiente, ma più passava il tempo più diminuiva, così come
scendeva il morale perché non si partiva, mentre «gli americani pensan solo alle donne»109.
Steiner racconta che il trattamento usato dai russi nei confronti degli italiani a Karkow «se si
esclude il completo isolamento in cui era[no] tenuti, era molto corretto, non diverso da quello che
[aveva] visto usare agli ufficiali inglesi, francesi, americani»110.
Gli interrogativi che si ponevano gli internati su come sarebbero stati i loro liberatori erano mossi
naturalmente da una grande curiosità, soprattutto per accertare se la descrizione fatta dalla
propaganda fascista fosse corrispondente al vero oppure no: il generale Steiner, infatti, afferma che
essa aveva descritto la Russia «un paese come assai poco organizzato; […] erano sorte molte altre
107
P. Lava, in L.E. Ronchi, Diario, p.36.
F. Giangreco, Memoriale, p.43.
109
C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 134.
110
P. Steiner, La strada più lunga, p.48.
108
25
curiosità, il desiderio vivissimo di sapere qualche cosa in più di questo paese, ed anche quello di
vedere se ci potesse essere qualcosa con cui rinnovare o migliorare la nostra forma di vita»111.
L’immagine che avevano viene solo in parte provata: Steiner racconta infatti che «i primi contatti con i
soldati russi […] li mostrarono come persone con le quali non sarebbe stato difficile intendersi»112;
Lava scrive che si accontentavano di «offerte “obbligatorie”»113, come orologi o altri oggetti da loro
posseduti, le quali, se consegnate spontaneamente, li rendeva «praticamente a loro ben accetti».
In sostanza, a parte queste offerte coatte, i russi erano magnanimi nei confronti degli italiani, e da
loro ben visti, almeno inizialmente, anche se non lo erano altrettanto con i contadini ucraini del
villaggio di Karkow, così come verso i tedeschi in generale. E infatti Steiner scrive nel diario:
«Dopo una settimana di occupazione, concordemente o senza che fosse corsa una parola d’intesa,
italiani e americani cercavano di protegger[li]»114.
Sottolinea poi come cambiò l’atteggiamento degli italiani nei loro confronti, dove «un po’ per volta a
questi sentimenti amichevoli finì col subentrare un freddo distacco»115. In particolare, «quello che finiva
con urtare era la costante presunzione di ritenersi superiori a tutti […]; avvertivamo poi qualche
cosa di profondamente diverso in loro. Avevamo visto gli atti di ferocia di cui erano stati capaci in
Germania, vedevamo in ogni cosa un disprezzo della vita umana che sconcertava»116.
E se i russi obbligarono gli ex-internati a lavorare, non fecero altrettanto gli americani117: infatti nei
diari dei soldati viene descritto un recupero abbastanza rapido, grazie al molto cibo di cui si
disponeva. Cortiana, ad esempio, annota: «L’arrivo degli americani ha portato ogni cosa […]. Dopo
l’arrivo […] ho fatto la cura del latte. […] Però si vive benissimo anche sotto gli inglesi».
Trattamento decisamente più duro era invece quello degli Alleati francesi, che avevano un
atteggiamento molto ostile nei confronti degli italiani118.
3.2 Il ritorno
119
.
Il rientro in Italia dei “nostri” generali e soldati non è stato semplice, come d’altronde quella della
maggior parte degli Imi sopravvissuti ai campi di concentramento, anche perché alla liberazione
111
Ivi, p.28.
Ibidem.
113
P. Lava, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p.36.
114
P. Steiner, La strada più lunga, p.9.
115
Ivi, p.60.
116
Ivi, p.60-61.
117
Cfr. G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-194, cit., p. 333.
118
Cfr. Ivi, p. 335.
119
G. Santini, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 12
112
26
non seguì l’immediato rientro in patria: il generale Giangreco racconta infatti come dopo la
liberazione da Flossenbürg furono costretti a soffrire tre settimane di limitazione in un campo di
concentramento americano120; anche i soldati Calzà, Busolli e Cortiana attesero il rimpatrio in
campi americani.
Le modalità scelte per tornare erano varie: chi, come i generali Steiner e Santini e i capitani Ronchi
e Lava, “sperimentò” un rimpatrio organizzato in treno, dapprima su vagoni di terza classe «dove la
sera si potevano ricavare cuccette [, provvisti di] un vagone per la cucina e provviste per 15
giorni»121 e successivamente in carri bestiame; chi scelse di partire da solo tornando con i propri
mezzi pur di non rimanere nei campi liberati in perenne attesa di un intervento esterno, affrontando
anche lunghi tragitti a piedi122, come fa il professore Renzo Roncarolo, che finita la guerra da
Berlino ha dovuto «percorrere circa 500 Km. a piedi»123. Ma la maggior parte, a causa delle
precarie condizioni di salute e dell’assenza di mezzi, scelsero di attendere il rimpatrio nei campi 124.
Il percorso dai campi liberati alle proprie case, come detto sopra, fu impervio e incerto, ma non si
deve pensare che il vero e proprio rientro in Italia fu più facile: prima di tutto solo ad ottobre
vennero predisposti dei punti di ristoro per il gran numero di ex-internati che cominciavano a
varcare i confini; Steiner fa parte ad esempio del primo gruppo, e infatti nel suo diario nomina
Pescantina, «uno dei centri alloggio più noti»125, dove arrivò il 6 ottobre e da dove poi partì su un
autocarro diretto a Milano.
Nonostante le sofferenze patite lungo il viaggio, ciò che sconcertava maggiormente i nostri, ormai
ex, internati era l’indifferenza manifestata nei loro confronti da parte di chi rappresentava le
istituzioni italiane: Steiner infatti racconta che all’arrivo a Pescantina vennero “accolti” da un
«sottosegretario con la barbetta caprina e cinque o sei che gli scodinzolavano attorno, [il quale] non
si degnò di guardarci o di parlare col nostro comandante, pur essendo stato avvertito della nostra
presenza»126.Un atteggiamento paradossale per essi che già durante la prigionia lamentavano
l’inazione della Patria: Trionfi si avvilisce costantemente per la condizione di “prigioniero di
guerra” e nel constatare che «nessuno si interessa o può interessarsi di noi»127, nonostante abbia «32
anni di onorato servizio [e] 3 ferite di guerra»128.
120
Cfr. F. Giangrieco, Memoriale, p. 42.
Cfr. P. Steiner, La strada più lunga, p.63.
122
Cfr. A. Ravaglioli, in S. Frontera, Il ritorno dei militari italiani internati in Germania (1945-1946), «Mondo
contemporaneo», 3, 2009, p.10.
123
R. Roncarolo, in http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/RRIl%20ritorno.html.
124
Cfr. G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, cit., p. 337.
125
Ivi, p. 14.
126
P. Steiner, La strada più lunga, p. 69.
127
M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, cit., p. 16.
128
Ivi, p. 12.
121
27
Gli unici punti di riferimento per gli Imi, vista la latenza delle istituzioni italiane, erano la Chiesa e
la Croce Rossa, le quali predisposero gli immediati soccorsi nei capannoni dei vari centri, perché di
questo si trattava, dove venivano accolti inizialmente gli Imi per essere poi schedati in base ad un
trattamento differente per gli ufficiali generali e per i militari di truppa e i sottoufficiali129.
Un rientro difficile, quindi, e ancora più ostile fu il doversi riadattare in un contesto sociale e
politico fortemente mutato, in cui ad un sentimento di estraneità si univa la sofferenza nel dover
lottare per far riconoscere i propri diritti.
CONCLUSIONI
Analizzando e intrecciando i vari racconti dei diversi internati militari italiani emergono analogie e
differenze tra coloro che, al momento della cattura, risultano essere soldati semplici o ufficiali: due
mondi apparentemente diversi ma, al tempo stesso, accomunati dalla sofferenza, dal dolore, dagli
strazi, dagli stenti, dalla paura e soprattutto dalla morte.
Quest’ultima caratterizzò le vite di generali e soldati nei modi più indicibili e atroci. Si passa dalle
torture narrate dal soldato Luigi Algieri130 che riducevano gli internati a bestie, alle fucilazioni
narrate dal generale Steiner: «Un ufficiale della SS che risaliva la colonna man mano li fece
uccidere. Gli altri erano già allineati davanti al muro [...] proseguirono tra disagi e maltrattamenti la
marcia. Il gen. Ferrero, di complessione delicata e stanchissimo, non ebbe la forza di camminare
ancora e sedette su un tronco salutando con la mano e con un sorriso i compagni. Il soldato tedesco
[...] lo uccise»131.
La morte dei soldati e degli ufficiali nella maggior parte dei casi fu cruda e parimenti sofferta: dalle
righe di alcuni diari degli ufficiali emerge con chiarezza l’agonia, l’angoscia e l’attesa per una
morte terribile: «Uno [...] aveva sulla testa una ferita larga dalla fronte all’occipite, larga, profonda,
e purulenta: il pus misto a sangue, gli colava dalla fronte, gli aveva riempito un’occhiaia e, lungo il
naso gli arrivava alla bocca. L’infelice non aveva più la forza di tergersi e si forbiva le labbra da
quel pus, leccandole»132.
Emergono inoltre condizioni simili per quanto riguarda il lungo e straziante viaggio; il mancato
cibo; lo scarso igiene; il rifugio nella fede.
129
Cfr. S. Frontera, Il ritorno dei militari italiani internati in Germania (1945-1946), cit., p. 19.
Cfr. paragrafo 2.3.14, p. 21.
131
P . Steiner, La strada più lunga, p.15.
132
Ivi, p. 27-28.
130
28
I soldati e gli ufficiali hanno, inoltre, in comune le umiliazioni e le privazioni, l’essere ridotti a larve
umane dai trattamenti loro riservati, anche se per gli ufficiali vi era un maggior occhio di riguardo
in quanto ostaggi preziosi.
Gli IMI furono costretti a viaggiare in condizioni disumane, senza acqua, senza cibo, senza la
possibilità di poter soddisfare i propri bisogni. Durante il viaggio e all’arrivo al campo il nutrimento
era scarso, troppo misero, tanto da non riuscire a dare loro le forze necessarie, tanto da far scendere
anche notevolmente di peso soldati e ufficiali, tanto da portare alla morte molti di loro a causa della
inanizione. Le precarie condizioni igieniche hanno rappresentato un significativo elemento di
disagio per gli IMI, costretti a vivere nella sporcizia, con pidocchi, senza la possibilità di un riscatto
per queste umiliazioni. Talvolta è nella fede, nella preghiera che i nostri internati militari italiani
hanno trovato la speranza e la forza per il futuro: sono stati sostenuti da questa immensa fede, che,
sostengono in molti, li ha salvati.
Questi due mondi, così ravvicinati dall’esperienza del campo, presentano anche degli aspetti
divergenti. Per gli ufficiali che, inseguendo i propri ideali, risposero NO alla repubblica di Salò, la
vita negli Oflag poteva essere caratterizzata da momenti artistici in cui dare sfogo alla creatività e
all’intelletto. Questo fu possibile perché per essi non era previsto il lavoro nel campo. Al contrario
quei pochi soldati semplici che rinunciarono alla repubblica di Salò erano destinati, all’interno degli
Stalag, al lavoro forzato, con poche possibilità di svago. Le condizioni dei soldati semplici risultano
pertanto essere molto più drammatiche di quelle degli ufficiali, anche se dai diari di questi ultimi
emerge a tratti un più forte disagio esistenziale.
A prescindere dalle differenze proprie delle storie individuali, e dalle differenze emerse tra ufficiali
e soldati, la storia dell'internamento è una storia triste, ricca di retroscena orribili, con situazioni,
scene, paure impresse nei cuori e nelle anime di coloro i quali l’hanno vissuta. Quella degli IMI è
una storia sociale complessa e molto profonda, generata da un Armistizio gestito male, dalla
mancanza di direttive precise e da un clima di incertezze e titubanze da parte dei militari. Questo
clima di generale confusione e mancanza di responsabilità ha generato la tragica storia di morte e
sofferenza degli internati militari italiani, non subito venuta alla luce perché «la loro vicenda non si
prestava a costituire il fondamento legittimante e unificante della nuova realtà statuale italiana in via
di edificazione»133, come sottolinea argutamente la Hammermann.
133
G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, cit., p. 353.
29
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2014.
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31
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SPIRITO P., Vita da lager nei disegni del triestino Nereo Laureni, Il Piccolo, 17 aprile 2010, in
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ZANI L., Le ragioni del No, in http://www.sociologia.uniroma1.it/users/zani, ult. cons. 18 giugno
2014.
Testimonianza orale del soldato Luigi Algieri, arma di appartenenza: artiglieria di campagne, trentaseiesimo
reggimento; grado al momento della cattura: soldato semplice. Intervista effettuata da Teresa Francesca
Ciracì il 29/04/2014 a Corigliano Calabro.
32
Testimonianza orale del soldato semplice Francesco Carotenuto, artigliere di Napoli, e di Sergio
Buzzi, soldato semplice friulano. Intervista effettuata da Francesca Ruberti e Valentina Turco il
06/05/2014 all’Istituto romano San Michele.
33
APPENDICE ICONOGRAFICA
Figura n.1: illustrazione della professoressa Giovanna Di Natale raffigurante il viaggio del generale Steiner e
di altri generali dal campo di Schokken, in Polonia, a Wugarten, dal 21 al 28 gennaio 1944., in P. Steiner, La
strada più lunga, p.27.
34
Figura n. 2: illustrazione della professoressa Giovanna Di Natale, riferita al viaggio da Friedburg a
Lublino compiuto dal generale Steiner e da altri generali, P. Steiner, La strada più lunga, p. 38.
35
Figura n.3: illustrazione della professoressa Giovanna Di Natale, una delle camere del lager di
Schokken, P. Steiner, La strada più lunga, p. 6.
36
Figura n. 4: eseguito dalla Professoressa Giovanna Di Natale, raffigurante l’edificio principale del
campo di Schokken,sede del Comando tedesco. P. Steiner, Diario, p. 4.
Figura n. 5: vista del cortile e della sede del Comando tedesco del campo di Schokken, con il
campanile della chiesa. P. Steiner, Diario, p.4.
37
Figura n. 6: le ragioni del “No” ai tedeschi del capitano Lava internato a Schokken. P. Lava, in L.E.
Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 14.
Figura n.7: Foto dell’epoca rappresentante i deportati al lavoro nella cava di MAUTHAUSEN,
in http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/Lo%20sfruttamento%20dei%20deportati.html.
38
Figura 8: disegno del grafico triestino Nereo Laureni, in
Figura n. 7: interno di una baracca disegnata da Nereo Laureni, in
39
SCHEDA BIOGRAFICA IMI
Cognome: Algieri
Nome: Luigi
Arma di appartenenza: Artiglieria di campagne 36° reggimento
Grado (al momento della cattura) : soldato semplice
Data della Cattura: 08/09/1943
Luogo della cattura: Grecia
Data del trasferimento nei luoghi di detenzione (partenza e arrivo): 15/09/1943 Grecia;
18/09/1943 campo di Auschwitz. !
Tipo di lavoro svolto (e cambiamenti nel tempo): Operaio manuale
Luogo liberazione: Essen
Data liberazione: 10/04/1945
Esercito alleato che liberò il campo: esercito americano
Quanto tempo rimane in Germania?: 2 mesi ad Auschwitz ed tutto il resto del tempo a Bochum.
Arrivo in Italia (data e luogo): 10/07/1945
40
SCHEDA BIOGRAFICA IMI
Cognome: Carotenuto
Nome: Francesco
Arma di appartenenza: artiglieria
Grado (al momento della cattura): soldato semplice
Data della Cattura: 08/09/1943
Luogo della cattura: Italia
I° lager (smistamento e immatricolazione): Africa
Lavoro svolto dopo la civilizzazione (e cambiamenti): Manuale
Arrivo in Italia (data e luogo): agosto del 1945
41
SCHEDA BIOGRAFICA IMI
Cognome: Buzzi
Nome: Sergio
Grado (al momento della cattura): soldato semplice
Data della Cattura: 08/09/1943
Luogo della cattura: Trieste !
I° lager (smistamento e immatricolazione): Africa
Lavoro svolto dopo la civilizzazione (e cambiamenti): Operaio
Esercito alleato che liberò il campo: esercito americano
Arrivo in Italia (data e luogo): 09/1945
42
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