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- Filo Spinato
STORIA SOCIALE E CULTURALE (A.A. 2013/2014) IMI A CONFRONTO: L’ESPERIENZA DI UFFICIALI E SOLDATI NEI CAMPI NAZISTI A CURA DI: Ciracì Francesca Teresa Fanfoni Martina Pompei Ludovica Ruberti Francesca Turco Valentina INDICE INTRODUZIONE...................................................................................... 1 Capitolo 1. L’inizio della sofferenza....................................................... 3 1.1 L’armistizi.......................................................................................... 3 1.2 Il viaggio e l’arrivo al campo................................................................ 4 Capitolo 2. Condizioni materiali e morali............................................... 6 2.1 La struttura dei campi ......................................................................... 6 2.2 Le ragioni del No................................................................................. 7 2.3 La prigionia.......................................................................................... 10 2.3.1 Il cibo................................................................................................ 10 2.3.2 Il clima.............................................................................................. 11 2.3.3 Il vestiario......................................................................................... 12 2.3.4 L’igiene............................................................................................. 13 2.3.5 Le condizioni di salute...................................................................... 14 2.3.6 La comunicazione con le famiglie.................................................... 15 2.3.7 L’appello........................................................................................... 16 2.3.8 I piaceri del campo........................................................................... 16 2.3.9 Le notizie sulla guerra e il percorso interiore................................... 18 2.3.10 La fede........................................................................................... 20 2.3.11 Il rapporto con i tedeschi................................................................ 20 2.3.12 Le torture........................................................................................ 21 2.3.13 Il rapporto tra gli internati............................................................... 22 2.3.14 La civilizzazione............................................................................. 23 Capitolo 3: la fine delle sofferenze........................................................ 25 3.1 Il rapporto con i liberatori.................................................................... 25 3.2 Il ritorno............................................................................................... 26 BIBLIOGRAFIA........................................................................................ 30 SITOGRAFIA............................................................................................ 31 APPENDICE ICONOGRAFICA................................................................ 34 Scheda biografica Imi............................................................................. 40 Scheda biografica Imi.............................................................................. 41 Scheda biografica Imi................................................................................ 42 INTRODUZIONE IMI. Per molti di noi una sigla sconosciuta, breve, ma che racchiude la storia di migliaia di militari italiani che tra il 1943 e il 1945 sperimentarono le violenze e le atrocità della guerra non sul campo di combattimento, ma nei lager tedeschi. Una storia ricca di particolari, che però non ha una grande visibilità, o per lo meno, non come dovrebbe averne. Forse perché testimone scomoda di un passato che si è voluto e si vuol ancora sottacere, una storia di prigionia non eclatante, fatta di settimane sempre uguali a se stesse, tediosa per certi aspetti. Ma leggendo i diari, le lettere e qualsiasi altra testimonianza di coloro che questa storia collettiva l’hanno vissuta, non si può rimanere indifferenti: si viene catapultati in un mondo parallelo a quello dei racconti evenemenziali della seconda guerra mondiale, ma che con essi è strettamente intrecciato. E proprio dall’intreccio tra le varie storie, tra le differenti personalità dei protagonisti ha preso avvio questa ricerca: si è cercato di capire il modo in cui le vicende dell’internamento sono state vissute dagli uomini con le cui testimonianze siamo venute a contatto. Un costante confronto tra due mondi differenti, quello degli ufficiali superiori e quello dei soldati semplici, sviluppato attraverso l’analisi di diversi testi: prima di tutto i diari di quattro generali internati in diversi campi, poi due diari e una raccolte di lettere di tre soldati semplici trentini, unitamente a tre testimonianze orali di ex internati, raccolte tramite interviste effettuate dal gruppo. Sono state poi condotte altre ricerche bibliografiche e sitografiche al fine di avere una più ampia comprensione del fenomeno in esame. Per quanto riguarda i diari dei generali, seguendo l’ordine alfabetico, il primo è quello di Francesco Giangreco, Memoriale, pubblicato nel 1976 ad Avola e scritto poco tempo dopo la prigionia nei campi di Schokken e Flossenbürg, su richiesta di un suo caro amico, il colonnello Michele Adabbo. Lo stesso Giangreco precisa come i ricordi in esso contenuti siano stati impressi con la macchina da scrivere, di getto, nel gennaio del 1945, senza le dovute accortezze per la pubblicazione, e che nell’edizione del 1976 ha deciso di conservare questa spontaneità. Altro diario è quello del generale Piero Steiner, scritto con la collaborazione del capitano Luigi Enea Ronchi, che è anche l’autore del terzo, sempre subito dopo la prigionia, su incoraggiamento del cappellano del campo polacco di Schokken, Castelli: è stato lui infatti a consegnare degli appunti al capitano Ronchi perché ne «traesse una storia degna della bufera attraverso la quale eravamo passati»1, e Steiner ha aggiunto il suo punto di vista. De La strada più lunga, una «storia 1 P. Steiner, La strada più lunga, Premessa. 1 breve e incompleta, […] destinata a quelli di Schokken»2 non conosciamo il luogo dove è stata scritta. Il terzo diario è appunto quello di Ronchi, Ricordi di prigionia, che raccoglie brani scritti da vari internati nel lager 64/Z, sempre a Schokken, e specificamente delle Eccellenze Rosi e Porro, dei Generali Florio, Santini e Jacobucci, del Tenente Colonnello Dolchi, del Capitano Lava e i suoi, nell’incontro per il decennale del rientro in Italia, quindi nel 1955, a Milano. L’ultimo diario è quello del generale Alberto Trionfi, anche lui internato a Schokken: in realtà si tratta di una raccolta di lettere scritte dal generale durante la sua prigionia e spedite alla famiglia, che la figlia Maria ha riunito e pubblicato nel libro Il generale Alberto Trionfi del 2004 a Roma. Le testimonianze dei soldati semplici, invece, sono due diari e una raccolta di lettere: il primo è Diario di Carlo Calzà, soldato trentino che descrive quello che gli accade giorno per giorno sui materiali che aveva a disposizione, nello specifico due piccole agende, poi dei fogli ripiegati, infine un calendario tedesco annotato direttamente a matita3; il secondo è Memorie di prigionia di Claudio Busolli, una memoria scritta anch’essa per intero in prigionia, ma con sguardo retrospettivo. Lettere dalla Germania di Antonio Cortiana sono invece le lettere rivolte ai propri cari e spedite durante l’internamento. Vi sono poi le testimonianze orali di tre ex internati, i primi due intervistati da Francesca Ruberti e Valentina Turco il 6 maggio 2014 all’Istituto romano San Michele, l’altro da Teresa Francesca Ciracì il 29 aprile 2014 a Corigliano Calabro: Francesco Carotenuto, artigliere di Napoli e Sergio Buzzi, soldato semplice friulano, e il soldato semplice calabrese Luigi Algieri. Come accennato sopra, l’analisi è stata condotta attraverso un confronto seguendo le dimensioni rilevanti della storia degli IMI: nel primo capitolo viene descritto l’evento dell’armistizio e il viaggio verso i campi di punizione; nel secondo invece la struttura degli stessi, le ragioni del No alle proposte dei militari tedeschi, e successivamente tutte quelle afferenti alla vita del lager: il cibo, il clima, il vestiario, l’igiene personale e collettiva, le condizioni di salute, le comunicazioni con le famiglie, il momento dell’appello, i vari passatempi per smorzare la monotonia della vita da internato, le notizie che si ricevevano sulla guerra, il rapporto con il tempo e con il futuro, il percorso interiore compiuto, il rapporto tra i prigionieri e quello con i tedeschi, le torture, la fede, la civilizzazione e il lavoro. Nell’ultimo capitolo, invece, si dà conto del rapporto degli internati con i liberatori e quindi il loro tanto atteso ritorno a casa. 2 Ibidem. Cfr. F. RASERA (a cura di), Introduzione, in I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 1943-1945, Museo storico della guerra, Rovereto 2003, pp 8-9. 3 2 Capitolo 1. L’inizio della sofferenza 1.1 L’armistizio 4 Alla vigilia dell’8 Settembre 1943 l’annuncio dell’Armistizio colse del tutto impreparate le truppe italiane dislocate sui vari fronti: in questa data o nei giorni successivi più di 600.000 uomini furono catturati dalle milizie tedesche per aver rifiutato ogni tipo di collaborazione col nazifascismo. Vennero in seguito rinchiusi per due anni nei campi di internamento del Reich e privati della qualifica di “prigionieri di guerra”, assumendo invece quella di “Internati militari” solo per non riconoscere loro la possibilità di veder esercitati i relativi diritti, come quello della protezione della Croce Rossa Internazionale. La tragica esperienza dei militari italiani all'indomani dell’8 Settembre prese forma in un contesto di confusione generale, di mancanza di ordini dei comandi superiori, il che determinò un esercito allo sfascio, truppe allo sbando che vivevano una situazione di sconcerto senza avere notizie sicure sul cosa fare e sul come agire. Le parole del virtuosismo linguistico “Internato Militare Italiano” di Giovannino Guareschi, racchiuse nell’acronimo IMI, rispecchiano la situazione di assoluto disordine, incertezza e impreparazione che ha colto le truppe italiane. «Ingannato Malmenato Impacchettato, Internato Malnutrito Infamato»: queste prime righe della poesia del 1945 di Guareschi descrivono gli inganni di cui i militari italiani furono vittime. Vennero ingannati poiché si disse loro che sarebbero stati riportati in Italia, ma questo non accadde. Furono «Malmenati», «Impacchettati», «Malnutriti», in quanto picchiati e trasferiti nei campi in pessime condizioni, senza cibo a sufficienza con conseguente indebolimento fisico dei corpi, il che nella maggior parte dei casi li portò alla morte. Questa triste realtà accomuna i destini di soldati e di ufficiali che, nell’assoluta atmosfera di inganno e mancanza di direttive, sono stati costretti a vivere la tragica esperienza dell’internamento. Sono diverse le testimonianze, sia di generali che di soldati, che portano all’emergere di molte dimensioni vissute all’indomani dell’8 Settembre: «Noi eravamo lì militari, e i tedeschi subito si sono impossessati di noi, ci hanno preso prigionieri. Sono venuti i tedeschi e noi bonariamente 4 http:// www.europaquotidiano.it, ult. cons. 26 giugno 2014. 3 avevamo l’ordine dei nostri ufficiali di non fare niente, di stare fermi perché poteva avvenire, com'è avvenuto, dove è stato sparato un solo colpo, sono stati distrutti tutti quei militari»5. Anche il generale Santini ricorda a tal proposito che «il nostro esercito all’armistizio del tristissimo 8 Settembre 1943, fu abbandonato a sé stesso, [ma] noi, da soldati, abbiamo saputo affrontare la tremenda avventura con dignità e coraggio»6. E ancora Steiner: “I comandanti italiani avevano tutti sentito il disagio in cui l’improvviso armistizio li poneva di fronte all’alleato con cui avevano con lealtà, se pur con grande disparità di mezzi, combattuto. Questo disagio, questa lealtà, l’impossibilità morale di mutare di colpo l’amicizia in ostilità, avevano fatto cadere quasi tutti in trappole, tese senza nessuno scrupolo dai germanici, per cui soprattutto l’ordine è ordine e l’amico di ieri, se ordinato, può essere il nemico di oggi”7. L’8 Settembre è stato definito «giorno fatale»8 e fu per soldati e generali l’inizio di tanti mali e tante sofferenze, riconosciuto come la «data nera della mia vita, dell’Italia e degli Italiani»9, proprio perché stravolse numerose vite, alcune delle quali cessarono di esistere con l’internamento per lo strazio, per la fame, per le torture, per le malattie, per le fucilazioni. Esso fu un percorso molto lungo, che vide nel lavoro coatto la massima espressione del potere esercitato dalla pratica totalizzante. 1.2 Il viaggio e l’arrivo al campo “All’alta griglia del vagone lo sguardo si ostina a farmi preda del mutevole paesaggio e a distogliermi non serve la pena del treno ferraglioso, il languore tormentoso dello stomaco vuoto da due giorni...”10 Durante il viaggio verso i luoghi di internamento i militari italiani cominciarono ben presto a comprendere quale dura vita gli si sarebbe presentata. La maggior parte di loro fu deportata nei territori del Reich nei giorni immediatamente successivi alla cattura; i lenti spostamenti avvennero via ferrovia e via nave in condizioni disumane: numerose testimonianze di chi viaggiò in treno parlano di vagoni merci pieni fino all’inverosimile che non venivano aperti per giorni e giorni, dove mancavano cibo ed acqua e persino la possibilità di soddisfare i bisogni corporali. Le SS portavano 5 Testimonianza orale del soldato Luigi Algieri, arma di appartenenza: artiglieria di campagne, trentaseiesimo reggimento, grado al momento della cattura: soldato semplice. Intervista fatta da Teresa Francesca Ciracì il 29/04/2014. 6 G. Santini, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, Milano 1955, p.1 . 7 P . Steiner, La strada più lunga, p.2. 8 C. Busolli, Memorie di prigionia, in Rasera F. (a cura di), I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 19431945, Museo storico della guerra, Rovereto 2003, p.83. 9 Ibidem. 10 G. Bimbi, Turingia, 1944. 4 via gli zaini migliori, soprattutto quelli degli ufficiali, nella speranza di far bottino. Chi tentava di difendersi o di resistere veniva legato e minacciato. Nelle stive il carico era enorme, si stava in piedi uno accanto all’altro, stretti e pigiati, senza la possibilità neppure di muoversi e con difficoltà di respirare. Furono distribuiti e smistati in 249 lager principali in Germania, Russia, Polonia, Jugoslavia e Grecia, successivamente divisi in campi diversi: i soldati vennero rinchiusi negli Instammager/Stalag, gli ufficiali furono, invece, internati negli Offlager. All’arrivo sia per gli ufficiali che per i soldati semplici vi era l’identificazione: i tedeschi compilavano una scheda con tutti i dati anagrafici dei prigionieri e assegnavano ad ognuno un numero che veniva riportato su una piastrina metallica. Il controllo era assoluto. Nel corso del periodo di detenzione fu abbastanza frequente lo spostamento da un campo all’altro, sia per i generali che per i soldati11, qualunque fossero le condizioni atmosferiche: il generale Giangreco ad esempio venne trasferito da Schokken a Posen già nell’ottobre del 1943, per poi arrivare a Flossenbürg con l’amico Grimaldi12. Ronchi invece durante la lunga marcia dei generali del gennaio del 1944, nella quale morì Alberto Trionfi, viaggiò da Schokken per arrivare poi nel campo liberato di Wugarten, in Ucraina. Con lui c’era anche il generale Steiner, con il quale proseguì il viaggio a Friedenberg , poi a Lublino, per arrivare al campo russo di Karkow, sempre in Ucraina. Oppure Carlo Calzà trascorse la prima parte della sua prigionia in Prussia orientale, nella cittadina di Gendauen dove venne preso a lavorare, per poi tornare al lager13. Occorre chiarire inoltre che vi era un’organizzazione di smistamento piuttosto complessa: i “nostri” generali appena fatti prigionieri rimasero per alcuni mesi nello stesso campo; mentre i soldati generalmente o vennero avviati subito al lavoro oppure in campi secondari per essere registrati e poi spostati in base alle esigenze dei loro “padroni” di lavoro14. Carlo Calzà racconta sul suo arrivo al campo: «Una speciale operazione ci viene fatta il giorno appresso. […] Passiamo in un ufficio dove ci chiedono tutte le generalità, ci mettono un cordone al collo con attaccato un piastrino con ivi inciso il numero del prigioniero (3013). […] Gli prendono anche le impronte e fanno una foto segnaletica, come dei veri delinquenti»15. 11 Vedi Appendice, disegni n. 1 e n. 2. Cfr. F. Giangreco, Memoriale, Avola 1976, p. 15 e sgg. 13 Cfr. F. Rasera, Introduzione, in Rasera F. (a cura di), I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 19431945, pp.12-13. 14 Cfr. C. Calzà, Diario, in Rasera F. (a cura di), I campi dei soldati. Diari e lettere di internati militari 1943-1945, Museo storico della guerra, Rovereto 2003. C. Busolli, Memorie di prigionia, cit. 15 C. Calzà, Diario, p.27. 12 5 Capitolo 2. Condizioni materiali e morali 2.1 La struttura dei campi 16 Poiché i diari ci consentono di confrontare diversi campi nei quali furono rinchiusi i “nostri” generali, dalle loro descrizioni e dal tono delle loro parole si può cogliere agevolmente il diverso grado di “comodità” delle strutture in cui erano rinchiusi: si va da Schokken, apparentemente più gradevole e funzionale, a Flossenbürg, dove la barbarie è costantemente davanti agli occhi degli internati. L’impressione è che la sostanza non cambi, ma solo la forma, presumibilmente per la differenza, cui i tedeschi tenevano, che correva tra un campo “riservato” agli ufficiali superiori e i campi misti. Tale impressione è confermata dal generale Giangreco, il quale afferma che tra tutte le varie tipologie di lager quella dei “Konzentrationslager” militari era la più terribile, perché da questo ben pochi fecero ritorno dei milioni che vi furono “ospitati” 17. Significativa è la considerazione di Busolli sul momento del loro arrivo al campo: «Al bagno vedemmo per l’ultima volta in mezzo a noi i nostri ufficiali, questa volta nudi e miseri come noi»18. In queste sue parole si può cogliere la presa di coscienza dell’iniziale annullamento di ogni gerarchia militare nei campi di prigionia, dove l’accusa di essere dei traditori accomunava tutti gli IMI: successivamente i generali potevano avere un trattamento più o meno privilegiato in ragione del loro grado, ma la sofferenza che provarono per tale situazione emerge indifferentemente da tutti i diari presi in esame, siano stati essi soldati o ufficiali superiori. A parte le suddette iniziali differenze nello smistamento, i campi dei generali e quelli delle truppe ne presentavano poche altre: se negli Oflag si avevano minori probabilità di subire i bombardamenti, negli Stalag i prigionieri erano costretti a subire pesanti incursioni aeree. Ad esempio il soldato Giovanni Tosi racconta che «i bombardamenti alleati erano terrificanti e continui […]. Anche le stazioni ferroviarie erano uno dei bersagli preferiti»19, o ancora Busolli che vede distrutta la propria baracca da due bombe20. 16 G. Santini, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p.8. Cfr. F. Giangreco, Memoriale, p.43. 18 C. Busolli, Memorie di prigionia, p.88. 19 G. Tosi, in S. Specifico, Il mito, il sacrificio, l’oblio. Testimonianze e diari di guerra e di prigionia (1940-1946), p. 506. 20 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 88. 17 6 Ma nella sostanza la situazione era la stessa: si dormiva su «una specie di castelli che assomigliano alle conigliere. […] Benché sul legno duro si dorme ugualmente, coprendoci con due vecchie coperte che ci vengono costì distribuite»21, con la costante compagnia dei cimici che disturbavano il già debole sonno dei prigionieri, o anche di «grossi topi»22. Ma poteva capitare che ai generali venisse riservato “un trattamento di favore”, come a Schokken dove essi non dormivano in letti biposto come invece i soldati nella baracca di legno23. Vi potevano poi essere differenti strutture attigue alle baracche, come le cucine, i bagni, e nei campi più forniti teatrini e sale riunioni, oltre alle “dimore” dei soldati tedeschi24. Vi erano poi quelli più duri dal punto di vista delle condizioni materiali e psicologiche: il campo nazista di Flossenbürg era decisamente più insostenibili rispetto a Schokken25, così come lo Stalag 344 vicino la città di Lamsdorf, in Polonia, aveva una disciplina più rigida di quella di Gerdauen, che il soldato trentino Calzà rimpiange per la grande libertà che concedeva loro26. Gabriele Hammermann racconta poi come ad ogni trasferimento si generassero risse per occupare le postazioni più lontane dall’ingresso, che spesso diventavano delle latrine per i prigionieri debilitati che non riuscivano a raggiungere i bagni, e dove venivano posti recipienti per coloro che avevano problemi digestivi, emanando quindi un lezzo insopportabile27. Se i campi tedeschi si presentavano in tal modo, non dissimili nella struttura erano quelli degli Alleati russi, francesi e anglo-americani, dove molti IMI attesero a lungo il rimpatrio a causa delle non poche difficoltà logistiche nell’organizzarli. Come si può facilmente intuire, però, essendo campi liberati le condizioni materiali e psicologiche erano decisamente più favorevoli, sebbene la sofferenza per la lontananza da casa persistesse. 2.2 Le ragioni del No “Inutilmente Mussolini Insistette”28. «[…] Quando il nostro esercito all’armistizio del tristissimo 8 settembre 1943, fu abbandonato a sé stesso, noi, da soldati, abbiamo saputo affrontare la tremenda avventura con dignità e coraggio […], abbiamo saputo combattere in prigionia la dura battaglia per dare il nostro contributo affinché la 21 C. Calzà, Diario, p. 27. R. Roncarolo, http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/RREnnesimo%20trasferimento.html, ult. cons. 22 giugno 2014. 23 P. Steiner, La strada più lunga, p.5. Vedi Appendice disegno n. 3. 24 Ivi, pp. 3 e sgg. 25 Cfr. F. Giangreco, Memoriale. 26 C. Calzà, Diario, p. 53. 27 G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, trad. it. di E. Morandi, Il Mulino, Bologna 2004, p. 236. 28 G. Guareschi, Internato Militare Italiano, 1945. Sulle ragioni del “No” vedi anche Appendice figura n. 6. 22 7 Patria non cadesse nell’ignominia»29: la fame, la debolezza, l’angoscia e la barbarie non hanno fatto cedere la loro resistenza, il mantenere fede alla Patria, tener duro al loro giuramento. Un giuramento che è costato a molti la vita. La lettura dei diari ci permette di comprendere le motivazioni che hanno spinto i “nostri” generali alla scelta di una lunga e tortuosa prigionia, dove la sofferenza e l’angoscia erano l’unico pasto del giorno: «Affranti si, ma tenaci nel seguire la via tracciata dalla nostra coscienza di soldati, obbedienti all’imperativo del nostro onore, abbiamo saputo resistere, nella maggioranza, alle imposizioni e alle lusinghe del nemico, che ci offriva la libertà in cambio di una firma»30. Dall’Ottobre 1943 i militari internati si trovarono nella condizione di dover pronunciare più volte una sentenza secca, aderire o meno alla neonata Repubblica di Salò, che divenne una decisione che si caricava man mano di significato. Un semplice “Sì” avrebbe concesso a questi militari, provati dalla fame e dalla mancanza della libertà, di ritornare nella loro Patria e riabbracciare le loro famiglie, ma loro risposero “No!”. Certamente il primo “No”, pronunciato con spirito patriottico ancor prima di patire le sofferenze e le torture dei campi, e l’ultimo, pronunciato dopo mesi di fame e dolorosa esistenza, sono differenti. Il “No” di fine 1943 è molto meditato: incalza la fame, la sofferenza, il freddo. Questo è più di tutti il “No” della scelta legato al senso del dovere per il giuramento fatto alla Patria, la prima vera Resistenza ai soprusi subiti in questi primi mesi di prigionia. E così cominciò la lunga resistenza degli IMI nei campi, una lunga e faticosissima lotta, tra le tante umiliazioni. Una battaglia silenziosa e dura dietro il reticolato: «Prigioniero dei tedeschi, sebbene malfermo in salute e minorato dal male che la permanenza in campo di concentramento aggravava rapidamente, rimaneva impassibile ad ogni offerta di adesione che gli avrebbe consentito il rimpatrio e la salvezza della vita. Preferiva andare così incontro alla morte, piuttosto di mancare al giuramento»31. La scelta dell’adesione dura dall’autunno del 1943 alla primavera del 1944. La stragrande maggioranza resistette, più di 600.000, però ci fu chi cedette e pronunciò il “Sì”. Il Generale Gualtiero Santini afferma che 10 ufficiali superiori ed inferiori avevano optato per la Repubblica Sociale italiana ed erano stati concentrati in un campo provvisorio attiguo al 64Z. Molte delle adesioni alla Repubblica Sociale avvenute nell’autunno del 1943 sono spinte da motivazioni ideologiche, giacché molti soldati erano nati e cresciuti sotto il regime fascista. Ma le adesioni avvenute nel 1944, dopo alcuni mesi di dura vita nel campo, erano dovute alle sofferenze, alla fame, alle torture subite che spingevano molti ad optare per mettere fine a tutto ciò. 29 E. Rosi, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 1. Ivi , p. 1. 31 Ivi , p. 4. 30 8 L’ardua domanda veniva posta in riunioni che servivano a raccogliere le eventuali adesioni. Piero Steiner, nel suo diario, racconta del giorno in cui ci fu la riunione nel teatrino: «Eravamo nel campo di Schokken da pochi giorni quando ci annunciarono che nel pomeriggio sarebbe venuto un rappresentante del partito a parlarci. […] Venne l’ora della riunione. Andammo nel teatrino […] l’indignazione era grave in tutti. Non si poteva avere l’impudenza di parlare di tradimento a chi aveva obbedito e si era, quasi sempre, assunto responsabilità»32. Anche nel diario del Generale Francesco Giangreco vi è la descrizione del giorno in cui viene fatta loro la proposta dell’adesione in una minuziosa descrizione, facendo quasi rivivere quel momento. Giangreco definisce tale proposta “un ricatto”. Era piuttosto avverso al modo con cui era stato ricercato ed attuato l’armistizio, soprattutto dal punto di vista operativo, ma il senso di onore, e la fede nel giuramento fatto erano ben superiori a tutto questo. L’onore e la certezza si sentono forti e decisi nelle parole utilizzate dal generale Giangrieco, onore e certezza della scelta mantenuta fino alla fine nonostante le lusinghe e le torture da parte dei tedeschi. Il disagio si avverte in maniera decisa nelle loro descrizioni, l’armistizio li aveva messi in una situazione di grande opposizione, opposizione a quelli che fino al giorno prima erano loro alleati. La scelta fu dolorosa in entrambi i casi, soprattutto perché qualcuno si ritrovò ad aderire per timore di rappresaglie alle famiglie, nel caso contrario perché cominciò un lungo e tortuoso periodo per resistere e mantenere fede al giuramento. Fieri della loro scelta continuarono la impari lotta: «Se ci fucileranno pazienza! Tanti nostri colleghi sono morti in combattimento. Moriremo anche noi» 33. Era questo lo spirito che animava i nostri soldati, convinti e decisi nella loro scelta avrebbero dato la vita pur di non tradire il giuramento fatto: «Come sempre, ho fatto tutto il mio dovere. Ora attendo serenamente»34. La fede per la Patria si evince anche da queste parole contenute nelle lettere scritte dal Generale Alberto Trionfi a sua moglie. Scoraggiato per la situazione e avvilito nell’anima, porta avanti la sua battaglia convinto di essere nel giusto, di non aver nessuna colpa, ricordandosi ogni volta di aver compiuto il proprio dovere di soldato italiano, sperando e pregando ogni giorno per la sua Italia: “Mi sento talmente puro da non poter temere nulla […] tornerà un giorno il sole sulla nostra Italia!”35. Una nota differente però scaturisce dalle sue lettere: la costante importanza data all’opinione dei familiari sulla sua decisone. In quasi tutte possiamo notare il chiedere l’opinione della famiglia che diventa di vitale importanza anche per la paura di sbagliare. 32 P. Steiner, La strada più lunga, p. 1. Ibidem. 34 M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, ANEI, Roma 2004, p. 5. 35 Ivi, p. 16. 33 9 Nonostante le umiliazioni subite e le privazioni, Trionfi continua però a sperare in un futuro migliore per il suo paese e per la sua condizione. La domanda non fu posta solo ai generali, ma anche ai soldati semplici, di cui molti reagirono in modo differente rispetto ai loro superiori. La maggior parte pensava a salvare la pelle oppure aderire per poi sabotare, infatti, alla prima richiesta di “SI!” ce ne furono, e molti. Pochi erano coloro che sentivano di tradire il giuramento fatto, altri, invece, erano confusi, anche per non dare un dispiacere ai padri, reduci della prima guerra, ma soprattutto perché non volevano ritornare a combattere: «Quel Tenente ci avvertiva che, nonostante tutto, la guerra sarebbe durata a lungo e ci enumerava tutti i patimenti ai quali avessimo dovuto soggiacere se non seguivamo il suo “cameratesco” consiglio quello di uscire da quei reticolati e incorporarci nell’esercito tedesco. […] L’eco delle sue parole si era appena spenta quando ci lanciò a bruciapelo una domanda: chi di noi voleva aderire? Con mia grande sorpresa vidi alcune mani alzarsi al di sopra delle nostre teste»36; «Si pensava alla pelle!»37. In ogni caso non mancarono le ostilità verso chi aderì alla Repubblica Sociale, anche da parte dei tedeschi, come raccontato nel diario di Steiner: dopo la scelta i soldati tedeschi non mutarono il loro comportamento nei confronti dei militari italiani, come di rispetto per i loro sentimenti. 2.3 La prigionia 2.3.1 Il cibo “Ci davano un pezzo di pane, come un cane...Andavamo a lavorare senza mangiare...ci davano 100grammi di pane e un coppino con acqua dove c’erano scorze di barbabietole. Stringevo i denti ma quello era il mangiare!”38 I nostri internati erano «malnutriti»39, non avevano cibo a sufficienza per sopravvivere, in alcuni casi era difficile procurarselo, in altri più facile. Molti prigionieri morivano di fame, stremati dal duro lavoro; spesso erano costretti a vivere 48 ore con soli 100grammi di pane40. La debolezza fisica era troppo elevata, tanto che tutti scesero di peso. Erano diverse le strategie adoperate nei campi sia da generali che da soldati semplici per mangiare anche qualche briciola di pane, perché la fame era in costante crescita: 36 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 90. Testimonianza orale del soldato semplice Francesco Carotenuto, tratta dall’intervista del 6/05/2014 effettuata da Francesca Ruberti e Valentina Turco. 38 Testimonianza orale del soldato L. Algeri. 39 G. Guareschi, Internato Militare Italiano, 1945. 40 Ibidem. 37 10 “La fame aumentava, si può dire, di ora in ora. Ricordo che un pomeriggio, durante una breve sosta, vidi delle galline che si inseguivano disputandosi una grossa briciola di pane; feci spaventare quella che la teneva nel momento in cui mi passava vicina, costringendola a lasciarla per poterla mangiare io: sarà stata una briciola di due grammi. Un’altra volta, da un davanzale di una finestra raccolsi nel palmo della mano delle briciole che una mano gentile aveva dovuto lasciarvi per i passeri. A questo ero ridotto!”41 Giangreco annota che «il vitto consisteva in una fetta di pane di circa 70grammi alle cinque del mattino, con una tazza di surrogato; una minestra di verdura con qualche rara patata a mezzogiorno, e un’altra fetta di pane con surrogato la sera»42. I soldati riuscivano, più dei generali, a procurarsi del cibo, grazie al fatto che quasi sempre lavoravano al di fuori del lager: non era raro che incontrassero qualche civile che, mosso a pietà, passava loro un pezzo di pane. Ancora più fortunata era la sorte di quelli che lavoravano in cucina, i quali ogni tanto riuscivano ad assaggiare qualcosa; ma ciò comportava anche conseguenze nel rapporto con gli altri compagni, dai quali erano spesso malvisti perché sospettati di rubare il loro cibo: ad esempio Calzà lamenta, con tono di rimprovero, la perdita dell’amico e compaesano Pedretti, che «col suo contegno egoistico è riuscito ad accomodarsi in cucina, rubando così quel posto a chi ne avrebbe avuto maggior diritto e dimenticando così gli amici […]. Secondo lui si prende il pane dalla bocca per noi, in realtà lo prende dalla bocca a noi»43; oppure chi lavorava nei campi e nell’ambito dell’agricoltura riusciva a mangiare mentre svolgeva la sua attività. Inoltre è stato sempre presente, ma in modo più accentuato con il passare del tempo, il baratto, che consentiva la sopravvivenza per molti internati: si scambiavano infatti oggetti per ottenere del cibo. Ad esempio le sigarette erano straordinari strumenti di baratto, perché con quelle se ne prendeva molto. La fame era quindi costante, ma non per ghiottoneria, poiché quella si esauriva solo nei pensieri: «La fame: non quel bel gagliardo appetito che accompagna nella via del ritorno a casa, ma lo stato che crea un lungo periodo di nutrizione insufficiente»44. 2.3.2 Il clima “Germania! Terra senza sole, uomini senza cuore, donne senza amore” 45. Le coperte per la notte erano insufficienti per tutti gli internati, spesso ne utilizzavano una ogni due persone. Questo era un grande problema viste le basse temperature. 41 F. Giangreco, Memoriale, pp. 41-42. Ivi, p. 14. 43 C. Calzà, Diario, p.35. 44 P . Steiner, La strada più lunga, p.6. 45 G. Sangiorgio, Quando l’algente verno…, Biancavilla 2000, p.222. 42 11 46 I soldati erano costretti a lavorare all’aperto «con un freddo che tagliava gli orecchi e il naso»47: in questa situazione una camicia di flanella, una coperta o un pigiama significavano molto. Gli IMI dovevano uscire all’aperto per spostarsi da un locale ad un altro e in questi casi il ghiaccio rendeva il cammino difficoltoso; i tragitti da percorrere a piedi vedevano protagonisti numerosi soldati stremati, infreddoliti, impauriti per le malvagità cui avevano assistito o che avevano subito. Molti cadevano a terra, non riuscivano a camminare perché deboli, altri cercavano di sorreggersi a vicenda con il timore di essere visti dai tedeschi che attuavano la violenza per impedire che i soldati si aiutassero tra loro. Nelle camerate, a volte, c’era una stufa che, una volta accesa con del carbone e della legna rimediata, riscaldava in poco tempo tutta la stanza, permettendo così un caldo, lieto riposo agli IMI. 2.3.3 Il vestiario “Giunti in Germania, spogliati delle nostre divise, che furono bruciate, energicamente ripuliti e disinfestati, indossammo i panni dei prigionieri. La sigla ‘P.I.’ (prigioniero italiano), applicata sulla schiena, ci rendeva immediatamente riconoscibili”48. La procedura in ciascun campo era generalmente la medesima: la privazione della libertà, nella sua realtà, offriva rari spiragli di speranza per un trattamento rispettoso della loro personalità. Giunti nel campo gli internati erano sottoposti alla schedatura, una procedura che prevedeva la consegna, da parte degli IMI, di tutti gli oggetti in loro possesso, dal vestiario ai documenti personali, fino ad arrivare ai libri di lettura. Gli IMI dovevano firmare delle schede su cui erano segnati gli oggetti medesimi, ma, in realtà, i tedeschi ne registravano soltanto una piccola parte. Venivano poi denudati delle proprie uniformi militari e consegnate le uniformi da detenuti, quasi mai della giusta misura. A tutti venivano tagliati i capelli corti. In tal modo, ciascuno veniva privato anche della propria identità, erano considerati semplicemente dei numeri: questa era una delle umiliazioni più forti che dovettero subire. Il campo di Flossenbürg in merito a ciò costituisce un’eccezione: il generale Giangreco racconta 46 P. Steiner, La strada più lunga, p.9. C. Calzà, Diario, p.42. 48 M. Visentini, in S. Specifico, Il mito, il sacrificio, l’oblio. Testimonianze e diari di guerra di prigionia (1940-1946), cit., p. 503. 47 12 infatti che gli venivano fatti indossare indumenti racimolati, nel suo caso specifico «un paio di mutande a brandelli, una camicia da donna, un pantalone eccessivamente lungo pieno di toppe, una giacca che aveva la manica destra corta e la sinistra che oltrepassava le dita di 15 centimetri»49. Per quel che concerneva le scarpe, agli internati venivano consegnati degli zoccoli di legno, o scarpe con suola di legno, che non agevolavano di certo il movimento, anzi costituivano un’ulteriore sofferenza. Gli zoccoli venivano spesso barattati, si offriva del cibo o altro in cambio di scarpe più comode da indossare. Gli indumenti venivano lavati nell’autoclave ma spesso, dopo il lavaggio, erano ancora sporchi di escrementi o sangue essiccato: infatti il vestiario proveniva da prigionieri di altri campi di concentramento tedeschi. Non di rado tra gli indumenti gli internati trovavano oggetti utili di cui si impossessavano furtivamente, sfidando i controlli degli ispettori delle SS, oggetti che poi venivano utilizzati per il baratto. 2.3.4 L’igiene Il sovraffollamento, le condizioni igieniche precarie, la sporcizia rappresentavano per molti IMI un grande disagio capace di influire negativamente sulla propria psiche, senza differenza tra generali e soldati. Nel campo di Schokken gli internati avevano a disposizione acqua calda a sufficienza per lavarsi, non di rado si utilizzavano dei rimedi di fortuna quando ciò di cui si necessitava era carente: ad esempio il generale Steiner scrive che «un ottimo ripiego era l’utilizzo dell’acqua calda della locomotiva per lavarsi il viso al mattino»50. 51 Le condizioni delle stanze ove gli internati dormivano spesso erano disastrose, poiché infestate da zanzare ed insetti, soprattutto cimici, loro vero tormento. La disinfestazione del campo era disposta a piacere della direzione del campo, spesso effettuata con petrolio o cemento quando non con insetticidi talmente maleodoranti che per molti giorni era impossibile accedere alle baracche52. 49 F. Giangreco, Memoriale, p.24. P. Steiner, La strada più lunga, p.50. 51 Ivi, p.12. 52 G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, cit., pp. 240-241. 50 13 Non migliori erano le condizioni igienico-sanitarie degli ospedali dei campi, quando c’erano: i medicinali si tenevano a contatto con materiali non sterili, ad esempio si mettevano su dei vassoi, spesso avvolti in carta di giornale. I luoghi erano sporchi, vi era acqua stagnante ed erano presenti soluzioni provvisorie a questo, come delle passerelle di tavole sulle quali camminare. Gli internati, durante tutta la durata della permanenza nel campo, subivano continue umiliazioni: le condizioni igieniche erano decisamente carenti, non avendo utensili da utilizzare dovevano mangiare con le mani e provvedere alla propria igiene con ciò che avevano, ad esempio con utilizzando i propri, scarsi, indumenti. Rispetto al campo di Schokken, nel campo di Flossenbürg «le docce consistevano in violente gettate d’acqua fredda, emanate da una pompa»53. Quando i “nostri” IMI avevano il «“piacere” di lavarsi con l’acqua calda, tale “piacere” terminava subito vista la mancanza degli asciugatoi e le finestre sempre aperte»54. 2.3.5 Le condizioni di salute 55 Viste le condizioni in cui si trovavano, si può facilmente intuire che il loro stato di salute non era affatto positivo. I corpi sia di ufficiali che di soldati semplici erano segnati dalla guerra: «Scheletri rivestiti di pelle», così vengono definiti dal generale F. Giangreco56. Piaghe, pustole, ulcerazioni “decoravano” le loro membra, posto che la malattia era spesso una conseguenza delle dure condizioni di vita. Le patologie principali erano la tubercolosi, polmonite, pleurite e disturbi gastrointestinali, e in alcuni lager scoppiarono anche epidemie di tifo. Le malattie avevano negli italiani per lo più un brutto decorso. Tra i morti italiani, infatti, vi furono casi di suicidio57. I medici a volte non riscontravano alcuna malattia in queste persone sfinite dalla fame e così le rimandavano al lavoro, dove il giorno seguente spesso cadevano a terra prive di sensi e morivano58. 53 F. Giangreco, Memoriale, p.24. Ibidem. 55 Foto scattata dal fotografo e internato trentino Vittorio Vialli il 28 agosto 1945: dopo la liberazione del campo di Bomblitz gli ex internati ammalati vennero caricati su ambulanze inglesi e trasportati al treno ospedale che li aspetta alla stazione di Bergen, in http://www.8settembre1943.info/gallery/vialli, ult. cons. 24 giugno 2014.. 56 Cfr. F.Giangreco, Memoriale. 57 K.J.Siegefried, Das Leben, (vol. Rustungsproducion), p. 123. 58 Cfr. ANPI (a cura di), UN MILITARE VERCELLESE NEI LAGER NAZISTI Renzo Roncarolo, Aprile 1988. 54 14 Non tutti gli internati, però, parlano di mancato interesse da parte dei medici. Ad esempio il generale Steiner narra nel suo diario59 della possibilità di cure nell’ospedale di Karkow: egli scrive persino di aver ricevuto una pulizia dei denti durante un controllo dentistico. Il soldato Busolli racconta i diversi giorni passati in ospedale a causa di una dissenteria: per un banale virus gastro-intestinale incontrò una serie di difficoltà, come quella di co-abitare in baracca con i compagni, lo spostamento di baracca in baracca, il trasferimento in ospedale. Perché anche piccoli malanni, come una semplice dissenteria, all’ interno del campo risultavano essere gravi problemi da affrontare. 2.3.6 La comunicazione con le famiglie “Dimoro in una terra che si ammanta di una storia tristemente accentuata, povertà che rivedo seminata nella spenta, livida pianura. Il fumo che dilegua oltre le sbarre, colorato come cielo senza macchia, l’attesa mia ti recherà amorosa se nel lungo ed impervio cammino fugherà la nebbia dei rancori”60. Uno dei momenti più entusiasmanti nel campo era l’arrivo dei pacchi, fornitori di prodotti alimentari, di sigarette, libri e delle lettere da casa. Questi elementi sono una componente fondamentale per la sopravvivenza degli IMI. La posta era presente in tutto il periodo della prigionia, subito dopo l’annuncio dell’armistizio la principale preoccupazione dei militari fu quella di avvisare le famiglie della loro situazione: alcune notizie arrivarono alle famiglie persino da alcuni biglietti lanciati dai treni contenenti nome, indirizzo e la preghiera di avvertire i propri parenti. Le prime notizie arrivarono ai parenti nelle settimane seguenti, generalmente da parte della Croce Rossa; solo in un secondo momento arrivarono gli scritti telegrafici da parte degli IMI con indicazioni circa i pacchi da spedire. Gli ufficiali potevano inviare tre lettere e quattro cartoline al mese, i sottoufficiali e i soldati semplici due lettere e quattro cartoline. L’ esigenza di comunicare era talmente importante da diventare moneta di scambio al mercato nero: più biglietti si possedevano più aumentavano le probabilità di ricevere informazioni e aiuti alimentari da casa 61. Sono proprio queste lettere che, rinvenute, spesso ci aiutano a ricostruire la storia avvenuta in quel triste periodo. Attraverso alcune di esse è stato possibile infatti ricostruire le vicende di quel momento storico e la vita nel campo: un esempio sono quelle scritte dal generale Alberto Trionfi 59 P. Steiner, La strada più lunga, p.53. G. Bimbi, Messaggio alla moglie, Wittenheim 1943, in http://www.provincia.lucca.it/ scuolapace/uploads/ quaderni/ quaderno_imi.pdf, ult. cons. 25 giugno 2014. 61 Cfr. F. Ferrarotti, La critica sociologica, Serra, 2009, in http://www.lacriticasociologica.it/. 60 15 durante la prigionia, che dopo un periodo di forzato silenzio riuscì a stabilire dal gennaio 1944 un contatto epistolare con la famiglia. La figlia del generale, Maria, entrata in possesso della documentazione parzialmente deteriorata attraverso alcuni ufficiali liberati, è riuscita infatti a ricostruire i mesi di prigionia del padre nel campo 64/Z62. 2.3.7 L’appello “Ogni mattino stiamo qui per l’appello Ogni giorno, con la pioggia o con il sole Sui nostri volti sono dipinti Dolore, disperazione, tormento….”63. Generalmente era il suono di una campana a richiamare l’attenzione dei militari all’interno del campo per uno dei momenti più importanti: le adunate di controllo. L’eco di questi rintocchi attivava gli ufficiali e i soldati semplici a prendere posizione e mettersi in riga. Sistemati gli ufficiali nei ranghi iniziava l’appello diretto da un sottoufficiale tedesco 64: si effettuavano due o tre appelli giornalieri, uno il primo mattino, il secondo verso l’imbrunire, e uno la sera nelle baracche65. Era raro che i conti tornassero velocemente ed essi venivano fatti e rifatti più volte, baracca per baracca. L’ufficiale Giangreco ricorda appelli dalla durata di non più di un’ora e l’umiliazione legata al fatto che gli appelli dei generali venissero effettuati contemporaneamente a quelli della truppa. Tutti ricordano che potevano esserci ulteriori perquisizioni e ritiro di oggetti e la cosa più sconcertante era che si doveva stare all’aperto a lungo con qualunque tempo, sotto la pioggia come sotto la neve, con parecchi gradi sotto zero, gelando. Al termine dell’appello si sentiva spesso la tipica frase: «Mein Herr, ich zählte von mir, daß es 200 Stücke ist», cioè «Signore, ho contato che da me sono 200 pezzi»66. Pezzi! Non prigionieri. Tanto meno persone. Furono considerati “stücke”. E non tanto gli ufficiali, ma i soldati spesso durante l’appello potevano anche subire percosse e torture. 2.3.8 I piaceri del campo Negli Oflag gli ufficiali correvano il rischio, non essendo obbligati a lavorare, di sprofondare nell’inazione e nella mancanza di volontà. Fortunatamente, al contrario, gran parte di essi riuscirono a reagire sul piano morale e intellettuale: i loro lager produssero un corpus notevolissimo di 62 Cfr. M.Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, p. 29 K. Zywulska, L’Appello del mattino, 1943. 64 Cfr. L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p.15 65 Ibidem, p.15 66 http:// www.iltempolastoria.it/rubriche/stucke-in-tedesco-significa-pezzi. 63 16 espressioni artistiche. C’era chi suonava, chi disegnava come Nereo Laureni67, disegnatore e grafico triestino internato insieme allo scrittore Giovannino Guareschi e all’attore Gianrico Tedeschi nello Stalag X B a Sandbostel, in Germania68; o ancora chi dava vita al giornale parlato, chi organizzava una mostra d’arte, rappresentazioni teatrali come Steiner, un’assemblea, delle conferenze, una funzione religiosa. Si parlava di tutto e si professava di tutto: scienze, matematica, storia, filosofia, diritto, teologia, pedagogia, viticoltura, arboricoltura, geografia etc. Busolli, ad esempio, ebbe l’occasione di parlare di religione cattolica con un compagno della Val di Susa, protestante evangelicano valdese, e racconta che quella fu uno dei suoi migliori confronti intellettuali69. Gli Oflag divennero incredibili luoghi di attività culturali, nei quali, scrisse Guareschi «la cultura rivendicò i suoi diritti e cominciarono le conferenze storiche, letterarie, scientifiche, artistiche, le lecturae Dantis, le serate di poesia moderna. Furono istituiti corsi di lingue, corsi di diritto, corsi di agraria, corsi di ingegneria, ed ecco l’università con docenti e programmi quasi regolari. Indi si organizzarono serate di musica, di canto, di arte varia ed ecco il teatro, che quando fu possibile ebbe orchestre, orchestrine e compagnie di prosa e rivista»70. Gli ufficiali italiani furono in grado di arrangiarsi in tale situazione facendo risaltare la propria creatività e l’arte: la sua massima espressione fu radio Caterina, costruita dagli italiani proprio nell’Oflag X di Sandbostel. Diverse altre furono le radio introdotte segretamente nei campi dei soldati e utilizzate per ricevere: Radio Londra, Radio Berlino e Radio Bari, e alcune vennero scoperte nel corso delle perquisizioni. Ma la “Caterina” fu speciale, sia perché non venne mai catturata, riuscendo persino a evadere da Sandbostel per ricomparire a Fallingbostel, sia in quanto venne costruita con materiali di fortuna71. Negli Stalag la vita dei soldati non era la stessa di quella degli ufficiali: alcuni militari di truppa testimoniano che potevano sì leggere, ma di nascosto, nella baracca con la luce fioca di una candela qualche libro segretamente nascosto dalla vista dei Tedeschi, altri, invece, ricordano passeggiate, letture in cortile e orchestre serali72. Generalmente, però negli Stalag non esisteva lo stesso clima che vivevano gli ufficiali, perché qui occorreva fare molta più attenzione ai sequestri e alle spogliazioni da parte dei Tedeschi. 67 I disegni del grafico Nereo Laureni sono state oggetto di una mostra durante la rassegna Dedicato a chi disse no - I non collaborazionisti nei lager nazisti”, Trieste 2010. Vedi anche Appendice figura n. 7 e n.8. 68 P. Spirito, Vita da lager nei disegni del triestino Nereo Laureni, Il Piccolo, 17 aprile 2010, in http://ricerca.gelocal.it/ ilpiccolo/ archivio/ilpiccolo/2010/04/17/NZ_31_APRE.html, ult. cons. 26 giugno 2014. 69 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 99. 70 G, Guareschi, Ritorno alla base, Rizzoli, Milano 1989, p.28. 71 G. Guareschi, Occhio segreto nel lager. Storia della famosa “Caterina”, “Oggi”, 11, 1946. 72 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 89. 17 2.3.9 Le notizie sulla guerra e il percorso interiore 73 Lo stato d’animo nel presente, le attese e i desideri per il futuro vissute nei campi di detenzione si intrecciano costantemente nei diari dei “nostri” generali e dei soldati con le notizie che riuscivano a carpire sulla guerra, su quello che succedeva in Italia e conseguentemente su quella che sarebbe stata la loro sorte. Le fonti di tali notizie non erano molto variegate: principalmente i giornali tedeschi che circolavano nel campo e che venivano tradotti dagli interpreti tedeschi o dai prigionieri che conoscevano la lingua; i bollettini di guerra germanici, che però presentavano spesso scarsi elementi; ancora giornaletti quali “Voce d’Italia” e “La voce della Patria”, circolanti nel campo, che però il generale Trionfi giudica come perfidi e nauseanti74, le cui notizie venivano strumentalizzate dai tedeschi75; a Schokken c’era “radio campo”76, mentre nel campo ucraino di Karkow una che a mezzogiorno trasmetteva il notiziario, come racconta il generale Steiner77; oppure radio scarpa, di cui parla Busolli78, radio Caterina e altre79. Ma le informazioni più “fresche” venivano dai soldati: quelli «che avevano contatti col comando tedesco o perché lavoravano nell’orto o perché aiutavano in altri servizi, si prestavano spontaneamente a raccogliere le notizie che diramava radio Londra, sfruttando con italica scaltrezza le stesse radio dei locali tedeschi»80. Altra fonte di informazione erano le missioni inviate nei campi, in cui varie personalità annunciavano le novità ai prigionieri; è da notare poi che, in un contesto di forte incertezza per l’avvenire, a notizie più o meno certe derivanti da queste fonti si affiancavano quelle che gli internati potevano cogliere dal comportamento dei tedeschi e dal “clima” del campo. Come accennato prima, il modo in cui veniva vissuto tutto ciò e quindi il rapporto che gli internati instauravano con il trascorrere del tempo e con il futuro cambiava in base alle notizie che ricevevano sugli sviluppi della guerra, ma anche e soprattutto a seconda del temperamento di ciascuno: e ciò si può rintracciare facilmente nello stile di scrittura dei vari diari. 73 G. Florio, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 19. Cfr. M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, cit., p.99. Vedi anche C. Busolli, Diario, p. 97. 75 G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945,cit., p. 243. 76 Cfr. P. Lava, in L.E. Ronchi, Diario, p.31. 77 Cfr. P. Steiner, Diario, p.48. 78 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 94. 79 Vd. Paragrafo 2.3.10. 80 P. Steiner, La strada più lunga, p. 3. 74 18 Colpisce a tal proposito quello del generale Steiner, che conserva sempre un’indole ironica nel descrivere aspetti che, a ben riflettere, non sono per niente piacevoli; di tutt’altro tenore è invece l’atteggiamento del generale Trionfi: leggendo le sue lettere ci si immedesima nell’amarezza infinita che ha provato durante l’internamento: più volte scrive di avere «crisi di pianto e di dolore, immenso»81, ciò che lo sorregge è solo il pensiero che un giorno rivedrà i suoi cari. Ma questa sofferenza che emerge è dovuta forse al fatto che le lettere sono state scritte proprio durante la prigionia, mentre gli altri diari esaminati subito dopo. Egli si fa portavoce comunque della lacerazione con cui gli ufficiali affrontavano la vita del campo, mentre «tra i soldati e i sottoufficiali [era] prevalente il senso di sconfitta, la stanchezza e il rifiuto della guerra»82. Nelle memorie dei militari di truppa, infatti, affiora tale atteggiamento: addirittura Busolli scrive ai suoi che un giorno ha pensato di togliersi la vita, stremato dalla prigionia, e che «non aveva più nessuna volontà: se in una prima parte di questa prigionia [fu] tanto sensibile e filosofo ora [si] trovav[a] del tutto insensibile e irragionevole; non funzionava né la mente, né le membra, né il cuore sentiva nessun impulso»83. In un presente monotono e un futuro incerto gli internati si facevano forza a vicenda, cercavano di darsi reciproco sostegno; e quello che sosteneva tutti era la costante speranza per l’avvenire, la certezza che nonostante tutto per loro vi sarebbe stata una felice conclusione, anche se per molti non è stato così. La prigionia ha comunque cambiato gli internati, e in molti lo ha fatto in meglio: hanno imparato ad adattarsi alle più avverse condizioni, a fare del bene pur potendo fare del male. A tal proposito è toccante e significativa la testimonianza del soldato Arturo Cortiana: Il cervello mio comincia a svolgere una lunga pellicola sulla quale vedo tutte le fasi della mia vita passata “[…]. Sapete qual è la cosa più spaventosa e la più bella? La più orribile fase è la prigionia la più bella è la prigionia. Non si direbbe ma è così: la prigionia mi ha fatto conoscere Dio, mi ha fatto conoscere e imparare tutto quello che nessuno potrà imparare se non con il provare” 84. 81 M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, cit., p.66. L. Zani, Le ragioni del “No”, pp. non numerate, in http://www.sociologia.uniroma1.it/users/zani. 83 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 108. 84 A. Cortiana, Lettere dalla Germania, in I campi dei soldati, Diari e lettere di internati militari 1943-1945, cit., p. 179. 82 19 2.3.10 La fede “A me quello che mi ha salvato è la fede [...] Se io sono qua oggi è per la fede. Io ho avuto tanta fiducia nella fede e ce l’ho sempre. A me è stata la fede che mi ha salvato [...]. Solo la fede può fare quello che ricordo io negli occhi, nel cuore, nella mente”85. Un tratto che accomuna gli internati militari italiani è il conforto della fede: soldati e ufficiali, prima di ricominciare la vita di ogni giorno, rivolgevano un rapido saluto a Dio e ai propri cari, un pensiero nostalgico alla propria terra lontana. Forte era questo sentimento sul quale i nostri uomini si poggiavano per sopravvivere, perché affidarsi alla fede era l’unica ancora di salvezza nell’inferno che stavano vivendo. C’era chi, a causa delle sofferenze, la perdeva in momenti particolarmente drammatici, o comunque la metteva in discussione: con la fame crescente, i dolori, la sensazione di essere abbandonati a se stessi, prevalevano non solo le debolezze fisiche, ma anche quelle morali e spirituali. Anche se, successivamente, la fede era più forte, o comunque la necessità di aggrapparsi a qualcosa, e si tornava a confidare nella misericordia di Dio, come accadde a Busolli, che a causa delle sofferenze fisiche fu tentato dal rivolgersi al Diavolo86. Ogni aspetto della religione era importante: infatti gli internati tenevano molto a frequentare la Santa Messa e a ricevere la comunione, così come a rispettare i morti, sentimento invece spesso ignorato e calpestato dai tedeschi: «In quest’atmosfera, cupa com’era cupo in quei giorni il cielo, la cerimonia toccò tutti profondamente. Il piccolo sacerdote ci parlò dei morti e del dovere di onorarli… Pensate a quello che hanno fatto per noi e che non potremo mai rendere… Disse poche semplici cose con [...] chiarezza e forza di persuasione [...] Anche i più indifferenti ne furono commossi e la commozione portò quasi tutti un po’ per volta a comunicarsi»87. 2.3.11 Il rapporto con i tedeschi “Raccolti da barbari infami, trattati da cani, noi siamo quassù”88. Il rapporto con i soldati tedeschi, come si può immaginare, era piuttosto difficile, frequenti erano gli atti di violenza specialmente nel campo di Flossenbürg, che eccelleva per crudeltà. Gli internati da subito avevano avvertito la durezza di trattamento che avrebbero riservato loro i tedeschi “grazie” alle modalità di trasporto da un campo di concentramento ad un altro, che erano 85 Testimonianza orale di L. Algieri. C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 109. 87 P . Steiner, La strada più lunga, pp.14-15. 88 G. Sangiorgio, Quando l’agente verno…, cit., p.220. 86 20 molto pesanti. Tale trattamento lo subivano indistintamente gli ufficiali e i soldati. Nel campo di Flossenbürg accadeva, ad esempio, che gli ordini venissero impartiti e fatti eseguire non dai soldati tedeschi, ma da altri internati più feroci delle SS89; questi internati, addetti alle varie operazioni, erano muniti di scudisci, con i quali inveivano contro i nuovi venuti, senza risparmio. I colpi fioccavano in continuazione e generalmente senza motivo, molti venivano feriti a morte. I corpi senza vita venivano spogliati dei pochi cenci che indossavano, e su di essi veniva scritto il numero di matricola ed in seguito portati via. Non mancavano però dei Lagerführer più magnanimi, come racconta Roncarolo, i quali cercavano di rendere la prigionia il meno dura possibile, distribuendo sigarette agli internati, controllando che ci fosse acqua calda nei bagni90. 2.3.12 Le torture “C’era uno sgabello a quattro piedi, una sedia senza spalliera, ci mettevano con la pancia lì sopra, uno prendeva le braccia e le torceva e la testa in mezzo alle gambe sue, un altro i piedi e uno batteva di qua, uno batteva di là, come quando una volta ferravano gli asini, fino a che il cristiano doveva svenire. Quella è stata la paura più grande che ho passato nella mia vita, la tortura. Avevo paura! Se mi sparavano non avevo paura, venti minuti, un quarto d’ora e finisce. Ma con la tortura campavi sette, otto giorni, poi morivi. Perché c’erano rotture interne, venivano emorragie di sangue nel corpo e campavano gridando soltanto: Aiuto! Aiuto! e chi dava aiuto?”91 Nei campi di internamento oltre alla fame, alla paura e alle «palate che non sono mancate mai!», si trovano appunto le torture perpetrate dalle milizie tedesche, che portavano ad una morte orrenda, una morte priva di difese, lenta e dolorosa. Essa spaventava tutti, ma ciò che terrorizzava ulteriormente era il come si moriva, la paura di farlo provando dolore e implorando aiuto, senza poterne ricevere da nessuno. Neanche ai generali venivano risparmiate le «indicibili»92 torture: “Basti dire che il medico capo del campo visitava i convalescenti due volte la settimana, cioè li sottoponeva due volte la settimana a crudelissima tortura. Erano quasi tutti dei moribondi, delle larve, che spesso morivano d'inedia [...] i convalescenti erano costretti ad uscire all'aperto completamente nudi [...] attraversavano i cortili sulla neve, spossati e cadenti, sostenendosi l’un l’altro, tremando dal freddo, in lugubre processione: processione di cadaveri”93. La ferocia dei tedeschi si abbatteva sia sui soldati che sui generali e bastava un nonnulla per scatenarla, come ricorda Calzà di un loro amico, che venne ucciso con un colpo di moschetto per 89 F. Giangreco, Memoriale, p.25. Cfr. http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/RRUn%20podiumanita.html, ult. cons. 26 giugno 2014. 91 Testimonianza orale di L. Algieri. 92 F. Giangreco, Memoriale, p.38. 93 Ibidem. 90 21 aver tentato di oltrepassare il reticolato del campo per prendere delle patate 94. L’angoscia, la paura, il terrore di essere massacrati, di essere uccisi crudelmente albergavano nell’animo di tutti e dominavano la mente stanca e impaurita. Vittime senza difese, private della capacità di reagire alla violenza e alla crudeltà, vittime senza scampo e umiliate come larve umane: “Pugni, calci, frustate. Un poveretto, all’inizio dell’adunata, stava arrancando verso l’uscita, traballando e minacciando a ogni istante di perdere l’equilibrio. Quel giovane [...] vedendo che tardava, gli andò incontro, gli urlò non so che frase, ed infine gli mollò un violento ceffone. Quell’infelice cadde riverso sull’impiantito, vi batté l’occipite e rimase lì stecchito. Immediatamente due “piccoli capi” lo spogliarono e lo portarono nella latrina”. 95 2.3.13 Il rapporto tra gli internati “Il rapporto tra prigionieri era questo: là c’erano solo patate e fame e il lavoro. Il tempo passava così, tra paure e lavoro che non è mancato mai”96. Era dura la vita degli internati, costretti a lavorare troppe ore al giorno in condizioni disumane. Alcuni sostengono che non c’era un vero e proprio rapporto tra internati, poiché si lavorava sempre, troppo, e quel poco tempo a disposizione lo si trascorreva riposando. C’era anche chi desiderava stare da solo, passare un po’ di tempo in solitudine, senza dover condividere, in modo forzato, il proprio tempo con gli altri, come faceva il generale Trionfi: «In verità c’erano nella vita del campo [...] grossi pesi [...] l’impossibilità di star solo, il dover vivere sempre tra le stesse persone».97 Molti sostengono invece che nelle difficoltà della vita di ogni giorno avevano trovato appoggio e offerto supporto con chi condivideva la propria sorte: nella malinconica condivisione di quella brutta esperienza si trovava un ancoraggio spontaneo e affettuoso nei propri compagni, con i quali si creava una vera e propria famiglia: «Mi destava un po’ di malinconia lasciare tanti colleghi coi quali, in un anno di vita in comune avevo stretto rapporti di amicizia o di viva cordialità, con i quali, comunque, si era determinata una sorte di “spirito di corpo” in ragione delle comuni sofferenze, delle comuni speranze, dei comuni sentimenti».98 Se questo era il rapporto tra italiani, con i quali si passava la maggior parte del tempo, non molto dissimili erano le relazioni con gli internati di altre nazionalità: in genere si legava molto con i 94 C. Calzà, Diario, p. 70. F. Giangreco, Memoriale, p.29. 96 Testimonianza orale di Luigi Algieri. 97 P . Steiner, La strada più lunga, p.8. 98 F. Giangreco, Memoriale, p.12. 95 22 francesi, con i russi, con gli americani, con i polacchi. Calzà ad esempio trovò un sincero fratello in Peter, l’autista polacco con il quale lavorava ogni giorno «poiché tutto escogita[va] per aiutarci».99 Ai tedeschi invece interessava moltissimo che si creassero ostilità tra generali e soldati, come annota Steiner.100 E anche i rapporti con i civili non furono meno positivi, costituendo essi in molti casi un aiuto provvidenziale per i tanti lavoratori cui non veniva data la quantità sufficiente di cibo per sopportare gli sforzi delle attività che svolgevano. Come in tutte le famiglie c’erano le liti e le incomprensioni, aumentate per di più dalle condizioni di deprivazione fisica che di certo non permetteva una sempre pacifica convivenza. 2.3.14 La civilizzazione Con gli accordi tra Hitler e Mussolini del 20 luglio 1944, gli internati vengono smilitarizzati d’autorità dalla RSI e gestiti come lavoratori liberi civili. Il cambiamento di status, soprattutto per gli ufficiali, incontra molti rifiuti dovuti alla paura di perdere i propri diritti economici, di mettere in pericolo la vita dei propri familiari che vivevano nelle zone già liberate dagli alleati oppure per il timore che tale gesto potesse essere confuso come una collaborazione. Ma all’inizio dell’autunno la “civilizzazione” viene imposta a tutti, sono esclusi soltanto i generali, i cappellani militari, i medici, i malati cronici. Nel diario del generale Giangreco ritroviamo un’attenta descrizione dei lavoratori e delle loro mansioni all’interno del campo di Flossenbürg. Gli operai specializzati (come fabbri, meccanici, sarti) erano impiegati nelle officine o nei laboratori, mentre nelle cave vi si trovavano gli studenti, gli intellettuali, i medici che non essendo abituati a quel tipo di lavoro, nella maggior parte dei casi morivano dopo poche settimane. Nel campo di Flossenbürg gli internati erano divisi in due categorie: “Beschaf”, occupati, e “Unbeschaft”, non occupati. Gli Beschaf erano coloro che avevano un lavoro fisso mentre gli Unbeschaft dovevano essere sempre disponibili per qualsiasi lavoro, solitamente erano addetti a lavori piuttosto pesanti. Ogni giorno venivano rastrellati dei lavoratori tra gli Unbeschaft, questi rastrellamenti provocavano molto spesso degli stati di angoscia poiché in diversi casi essi venivano spostati per lavorare in altri campi. Gli Unbeschaft temevano che potessero essere spostati nei campi cosiddetti di eliminazione, come quello polacco di Auschwitz. Solo la protezione del Blockmann poteva evitare lo spostamento. 99 C. Calzà, Diario, p. 35. P. Steiner, La strada più lunga, p. 12. 100 23 Tutti quindi cercavano di assicurarsi un lavoro fisso e la grazia del Blockmann. Inoltre avere un’occupazione fissa assicurava una razione di viveri supplementare detta “Frustuck”, cioè colazione. I posti di lavoro, alloggiati in vastissimi locali, erano dei luoghi spesso umidi e freddi in cui gli internati si ammalavano di polmonite oppure di setticemia, a causa delle cattive condizioni igieniche: «Noi battevamo i denti dal freddo che ci faceva rattrappire le mani e gelare i piedi, mentre dovevamo stare seduti per lavorare, senza poterci muovere un po’ per riscaldarci»101. Luogo di lavoro, anche peggiore, era poi la cava. Il lavoro durissimo poteva provocare la morte in sole tre settimane, causata anche dall’inadeguatezza delle risorse alimentari che veniva fornito loro: “A uno, a due, a tre alla volta, veniva avanti dal fondo della baracca degli esseri che nulla avevano più di umano: delle larve che a stento si reggevano in piedi, coperte di stracci, con gli occhi spiritati fissi nel vuoto, emaciati fino all’incredibile, dalle facce teree, le occhiaie nere e fonde, i più coperti di piaghe purulente. I disgraziati cercavano di sorreggersi a vicenda; erano tutti con le bocche socchiuse, le labbra sottili dalla quali sporgevano i denti e spesso affioravano dei lamenti.[…] Erano lavoratori addetti ad una cava di pietra, nella quale lavoravano con il fango a mezza gamba, da 16 a 18 ore al giorno, sotto la frusta dei sorveglianti”102. Non mancavano i maltrattamenti da parte delle SS nel caso in cui qualcuno non eseguisse gli ordini oppure cercasse di rubare qualche oggetto dal posto di lavoro. Si narra nel diario del generale Giangreco delle famose “25 scudisciate” che, a seconda dell’umore del comandante del campo, potevano anche terminare con l’eliminazione dell’internato: «Una volta, per esempio, assistemmo alla impiccagione di ben sei giovani russi, i quali avevano rubato sigarette allo spaccio»103. I soldati semplici internati che lavoravano, invece, fuori dal campo erano talvolta più fortunati poiché potevano lavorare la terra di qualche proprietario clemente che dava loro anche da mangiare e perfino l’alloggio. In altri casi potevano lavorare nelle fabbriche e godere di qualche momento di libertà dalla sorveglianza: «Ricevo da una famiglia tedesca una buona porzione di carne di maiale e delle uova arrostite con birra e pane»104; «Li vediamo ritornare alla sera carichi di patate, pomodori e cocomeri, parte comperati e parte grattati come si suol dire»105; «Sembra impossibile oggi di poter andare alla fabbrica senza essere accompagnati dalle sentinelle».106 101 F. Giangreco, Memoriale, p. 35. Ivi , p. 28. 103 Ivi, p. 36. 104 C. Calzà, Diario, p. 40. 105 Ivi, p. 73. 106 Ivi, p. 72. 102 24 Il lavoro dei soldati semplici consisteva in molte mansioni: si andava dal trasporto di carbone e di attrezzature varie al lavoro dei campi. L’intera giornata prevedeva numerosi compiti, che i lavoratori dovevano portare a termine. Talvolta la giornata di riposo domenicale veniva negata e i lavoratori erano costretti a lavorare. Potremmo dedurre, quindi, che i soldati semplici abbiano vissuto una realtà meno crudele rispetto a quella degli ufficiali, ma in entrambi i casi la sofferenza albergava nelle loro anime e nei loro corpi. Se da un lato gli ufficiali non erano costretti ai lavori forzati, erano però costretti a stare rinchiusi nei campi di punizione isolati dal mondo. I soldati semplici, invece sebbene fossero costretti ai lavori duri, veniva loro concesso, seppur raramente e in maniera molto limitata, qualche stralcio di libertà. Coloro che resistettero sino alla fine furono denominati “puri” e venivano trattati molto duramente. Capitolo 3: la fine delle sofferenze 3.1 Il rapporto con i liberatori 107 Occorre evidenziare anzitutto che nei diari in esame si parla compiutamente solo dei rapporti con i russi e non vengono invece mai descritti quelli con gli altri liberatori, quali americani, inglesi o francesi. Soltanto il generale Giangreco accenna al fatto che una volta liberati dal campo di Flossenbürg, il 3 maggio 1945, sono costretti a soffrire ancora «tre settimane di limitazione della […] libertà in un campo di concentramento americano»108; Busolli descrive come inizialmente, dopo la liberazione, il rancio era sufficiente, ma più passava il tempo più diminuiva, così come scendeva il morale perché non si partiva, mentre «gli americani pensan solo alle donne»109. Steiner racconta che il trattamento usato dai russi nei confronti degli italiani a Karkow «se si esclude il completo isolamento in cui era[no] tenuti, era molto corretto, non diverso da quello che [aveva] visto usare agli ufficiali inglesi, francesi, americani»110. Gli interrogativi che si ponevano gli internati su come sarebbero stati i loro liberatori erano mossi naturalmente da una grande curiosità, soprattutto per accertare se la descrizione fatta dalla propaganda fascista fosse corrispondente al vero oppure no: il generale Steiner, infatti, afferma che essa aveva descritto la Russia «un paese come assai poco organizzato; […] erano sorte molte altre 107 P. Lava, in L.E. Ronchi, Diario, p.36. F. Giangreco, Memoriale, p.43. 109 C. Busolli, Memorie di prigionia, p. 134. 110 P. Steiner, La strada più lunga, p.48. 108 25 curiosità, il desiderio vivissimo di sapere qualche cosa in più di questo paese, ed anche quello di vedere se ci potesse essere qualcosa con cui rinnovare o migliorare la nostra forma di vita»111. L’immagine che avevano viene solo in parte provata: Steiner racconta infatti che «i primi contatti con i soldati russi […] li mostrarono come persone con le quali non sarebbe stato difficile intendersi»112; Lava scrive che si accontentavano di «offerte “obbligatorie”»113, come orologi o altri oggetti da loro posseduti, le quali, se consegnate spontaneamente, li rendeva «praticamente a loro ben accetti». In sostanza, a parte queste offerte coatte, i russi erano magnanimi nei confronti degli italiani, e da loro ben visti, almeno inizialmente, anche se non lo erano altrettanto con i contadini ucraini del villaggio di Karkow, così come verso i tedeschi in generale. E infatti Steiner scrive nel diario: «Dopo una settimana di occupazione, concordemente o senza che fosse corsa una parola d’intesa, italiani e americani cercavano di protegger[li]»114. Sottolinea poi come cambiò l’atteggiamento degli italiani nei loro confronti, dove «un po’ per volta a questi sentimenti amichevoli finì col subentrare un freddo distacco»115. In particolare, «quello che finiva con urtare era la costante presunzione di ritenersi superiori a tutti […]; avvertivamo poi qualche cosa di profondamente diverso in loro. Avevamo visto gli atti di ferocia di cui erano stati capaci in Germania, vedevamo in ogni cosa un disprezzo della vita umana che sconcertava»116. E se i russi obbligarono gli ex-internati a lavorare, non fecero altrettanto gli americani117: infatti nei diari dei soldati viene descritto un recupero abbastanza rapido, grazie al molto cibo di cui si disponeva. Cortiana, ad esempio, annota: «L’arrivo degli americani ha portato ogni cosa […]. Dopo l’arrivo […] ho fatto la cura del latte. […] Però si vive benissimo anche sotto gli inglesi». Trattamento decisamente più duro era invece quello degli Alleati francesi, che avevano un atteggiamento molto ostile nei confronti degli italiani118. 3.2 Il ritorno 119 . Il rientro in Italia dei “nostri” generali e soldati non è stato semplice, come d’altronde quella della maggior parte degli Imi sopravvissuti ai campi di concentramento, anche perché alla liberazione 111 Ivi, p.28. Ibidem. 113 P. Lava, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p.36. 114 P. Steiner, La strada più lunga, p.9. 115 Ivi, p.60. 116 Ivi, p.60-61. 117 Cfr. G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-194, cit., p. 333. 118 Cfr. Ivi, p. 335. 119 G. Santini, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 12 112 26 non seguì l’immediato rientro in patria: il generale Giangreco racconta infatti come dopo la liberazione da Flossenbürg furono costretti a soffrire tre settimane di limitazione in un campo di concentramento americano120; anche i soldati Calzà, Busolli e Cortiana attesero il rimpatrio in campi americani. Le modalità scelte per tornare erano varie: chi, come i generali Steiner e Santini e i capitani Ronchi e Lava, “sperimentò” un rimpatrio organizzato in treno, dapprima su vagoni di terza classe «dove la sera si potevano ricavare cuccette [, provvisti di] un vagone per la cucina e provviste per 15 giorni»121 e successivamente in carri bestiame; chi scelse di partire da solo tornando con i propri mezzi pur di non rimanere nei campi liberati in perenne attesa di un intervento esterno, affrontando anche lunghi tragitti a piedi122, come fa il professore Renzo Roncarolo, che finita la guerra da Berlino ha dovuto «percorrere circa 500 Km. a piedi»123. Ma la maggior parte, a causa delle precarie condizioni di salute e dell’assenza di mezzi, scelsero di attendere il rimpatrio nei campi 124. Il percorso dai campi liberati alle proprie case, come detto sopra, fu impervio e incerto, ma non si deve pensare che il vero e proprio rientro in Italia fu più facile: prima di tutto solo ad ottobre vennero predisposti dei punti di ristoro per il gran numero di ex-internati che cominciavano a varcare i confini; Steiner fa parte ad esempio del primo gruppo, e infatti nel suo diario nomina Pescantina, «uno dei centri alloggio più noti»125, dove arrivò il 6 ottobre e da dove poi partì su un autocarro diretto a Milano. Nonostante le sofferenze patite lungo il viaggio, ciò che sconcertava maggiormente i nostri, ormai ex, internati era l’indifferenza manifestata nei loro confronti da parte di chi rappresentava le istituzioni italiane: Steiner infatti racconta che all’arrivo a Pescantina vennero “accolti” da un «sottosegretario con la barbetta caprina e cinque o sei che gli scodinzolavano attorno, [il quale] non si degnò di guardarci o di parlare col nostro comandante, pur essendo stato avvertito della nostra presenza»126.Un atteggiamento paradossale per essi che già durante la prigionia lamentavano l’inazione della Patria: Trionfi si avvilisce costantemente per la condizione di “prigioniero di guerra” e nel constatare che «nessuno si interessa o può interessarsi di noi»127, nonostante abbia «32 anni di onorato servizio [e] 3 ferite di guerra»128. 120 Cfr. F. Giangrieco, Memoriale, p. 42. Cfr. P. Steiner, La strada più lunga, p.63. 122 Cfr. A. Ravaglioli, in S. Frontera, Il ritorno dei militari italiani internati in Germania (1945-1946), «Mondo contemporaneo», 3, 2009, p.10. 123 R. Roncarolo, in http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/RRIl%20ritorno.html. 124 Cfr. G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, cit., p. 337. 125 Ivi, p. 14. 126 P. Steiner, La strada più lunga, p. 69. 127 M. Trionfi, Il generale Alberto Trionfi, cit., p. 16. 128 Ivi, p. 12. 121 27 Gli unici punti di riferimento per gli Imi, vista la latenza delle istituzioni italiane, erano la Chiesa e la Croce Rossa, le quali predisposero gli immediati soccorsi nei capannoni dei vari centri, perché di questo si trattava, dove venivano accolti inizialmente gli Imi per essere poi schedati in base ad un trattamento differente per gli ufficiali generali e per i militari di truppa e i sottoufficiali129. Un rientro difficile, quindi, e ancora più ostile fu il doversi riadattare in un contesto sociale e politico fortemente mutato, in cui ad un sentimento di estraneità si univa la sofferenza nel dover lottare per far riconoscere i propri diritti. CONCLUSIONI Analizzando e intrecciando i vari racconti dei diversi internati militari italiani emergono analogie e differenze tra coloro che, al momento della cattura, risultano essere soldati semplici o ufficiali: due mondi apparentemente diversi ma, al tempo stesso, accomunati dalla sofferenza, dal dolore, dagli strazi, dagli stenti, dalla paura e soprattutto dalla morte. Quest’ultima caratterizzò le vite di generali e soldati nei modi più indicibili e atroci. Si passa dalle torture narrate dal soldato Luigi Algieri130 che riducevano gli internati a bestie, alle fucilazioni narrate dal generale Steiner: «Un ufficiale della SS che risaliva la colonna man mano li fece uccidere. Gli altri erano già allineati davanti al muro [...] proseguirono tra disagi e maltrattamenti la marcia. Il gen. Ferrero, di complessione delicata e stanchissimo, non ebbe la forza di camminare ancora e sedette su un tronco salutando con la mano e con un sorriso i compagni. Il soldato tedesco [...] lo uccise»131. La morte dei soldati e degli ufficiali nella maggior parte dei casi fu cruda e parimenti sofferta: dalle righe di alcuni diari degli ufficiali emerge con chiarezza l’agonia, l’angoscia e l’attesa per una morte terribile: «Uno [...] aveva sulla testa una ferita larga dalla fronte all’occipite, larga, profonda, e purulenta: il pus misto a sangue, gli colava dalla fronte, gli aveva riempito un’occhiaia e, lungo il naso gli arrivava alla bocca. L’infelice non aveva più la forza di tergersi e si forbiva le labbra da quel pus, leccandole»132. Emergono inoltre condizioni simili per quanto riguarda il lungo e straziante viaggio; il mancato cibo; lo scarso igiene; il rifugio nella fede. 129 Cfr. S. Frontera, Il ritorno dei militari italiani internati in Germania (1945-1946), cit., p. 19. Cfr. paragrafo 2.3.14, p. 21. 131 P . Steiner, La strada più lunga, p.15. 132 Ivi, p. 27-28. 130 28 I soldati e gli ufficiali hanno, inoltre, in comune le umiliazioni e le privazioni, l’essere ridotti a larve umane dai trattamenti loro riservati, anche se per gli ufficiali vi era un maggior occhio di riguardo in quanto ostaggi preziosi. Gli IMI furono costretti a viaggiare in condizioni disumane, senza acqua, senza cibo, senza la possibilità di poter soddisfare i propri bisogni. Durante il viaggio e all’arrivo al campo il nutrimento era scarso, troppo misero, tanto da non riuscire a dare loro le forze necessarie, tanto da far scendere anche notevolmente di peso soldati e ufficiali, tanto da portare alla morte molti di loro a causa della inanizione. Le precarie condizioni igieniche hanno rappresentato un significativo elemento di disagio per gli IMI, costretti a vivere nella sporcizia, con pidocchi, senza la possibilità di un riscatto per queste umiliazioni. Talvolta è nella fede, nella preghiera che i nostri internati militari italiani hanno trovato la speranza e la forza per il futuro: sono stati sostenuti da questa immensa fede, che, sostengono in molti, li ha salvati. Questi due mondi, così ravvicinati dall’esperienza del campo, presentano anche degli aspetti divergenti. Per gli ufficiali che, inseguendo i propri ideali, risposero NO alla repubblica di Salò, la vita negli Oflag poteva essere caratterizzata da momenti artistici in cui dare sfogo alla creatività e all’intelletto. Questo fu possibile perché per essi non era previsto il lavoro nel campo. Al contrario quei pochi soldati semplici che rinunciarono alla repubblica di Salò erano destinati, all’interno degli Stalag, al lavoro forzato, con poche possibilità di svago. Le condizioni dei soldati semplici risultano pertanto essere molto più drammatiche di quelle degli ufficiali, anche se dai diari di questi ultimi emerge a tratti un più forte disagio esistenziale. A prescindere dalle differenze proprie delle storie individuali, e dalle differenze emerse tra ufficiali e soldati, la storia dell'internamento è una storia triste, ricca di retroscena orribili, con situazioni, scene, paure impresse nei cuori e nelle anime di coloro i quali l’hanno vissuta. Quella degli IMI è una storia sociale complessa e molto profonda, generata da un Armistizio gestito male, dalla mancanza di direttive precise e da un clima di incertezze e titubanze da parte dei militari. Questo clima di generale confusione e mancanza di responsabilità ha generato la tragica storia di morte e sofferenza degli internati militari italiani, non subito venuta alla luce perché «la loro vicenda non si prestava a costituire il fondamento legittimante e unificante della nuova realtà statuale italiana in via di edificazione»133, come sottolinea argutamente la Hammermann. 133 G. Hammermann, Gli internati militari in Germania, 1943-1945, cit., p. 353. 29 BIBLIOGRAFIA ANPI (a cura di), UN MILITARE VERCELLESE NEI LAGER NAZISTI Renzo Roncarolo, Aprile 1988. BIMBI G., Messaggio alla moglie, Wittenheim 1943. BIMBI G., Turingia, 1944. BUSOLLI C., Memorie di prigionia, in RASERA F. (a cura di), I campi dei soldati. 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Testimonianza orale del soldato Luigi Algieri, arma di appartenenza: artiglieria di campagne, trentaseiesimo reggimento; grado al momento della cattura: soldato semplice. Intervista effettuata da Teresa Francesca Ciracì il 29/04/2014 a Corigliano Calabro. 32 Testimonianza orale del soldato semplice Francesco Carotenuto, artigliere di Napoli, e di Sergio Buzzi, soldato semplice friulano. Intervista effettuata da Francesca Ruberti e Valentina Turco il 06/05/2014 all’Istituto romano San Michele. 33 APPENDICE ICONOGRAFICA Figura n.1: illustrazione della professoressa Giovanna Di Natale raffigurante il viaggio del generale Steiner e di altri generali dal campo di Schokken, in Polonia, a Wugarten, dal 21 al 28 gennaio 1944., in P. Steiner, La strada più lunga, p.27. 34 Figura n. 2: illustrazione della professoressa Giovanna Di Natale, riferita al viaggio da Friedburg a Lublino compiuto dal generale Steiner e da altri generali, P. Steiner, La strada più lunga, p. 38. 35 Figura n.3: illustrazione della professoressa Giovanna Di Natale, una delle camere del lager di Schokken, P. Steiner, La strada più lunga, p. 6. 36 Figura n. 4: eseguito dalla Professoressa Giovanna Di Natale, raffigurante l’edificio principale del campo di Schokken,sede del Comando tedesco. P. Steiner, Diario, p. 4. Figura n. 5: vista del cortile e della sede del Comando tedesco del campo di Schokken, con il campanile della chiesa. P. Steiner, Diario, p.4. 37 Figura n. 6: le ragioni del “No” ai tedeschi del capitano Lava internato a Schokken. P. Lava, in L.E. Ronchi, Ricordi di prigionia, p. 14. Figura n.7: Foto dell’epoca rappresentante i deportati al lavoro nella cava di MAUTHAUSEN, in http://www.storia900bivc.it/pagine/roncarolo/Lo%20sfruttamento%20dei%20deportati.html. 38 Figura 8: disegno del grafico triestino Nereo Laureni, in Figura n. 7: interno di una baracca disegnata da Nereo Laureni, in 39 SCHEDA BIOGRAFICA IMI Cognome: Algieri Nome: Luigi Arma di appartenenza: Artiglieria di campagne 36° reggimento Grado (al momento della cattura) : soldato semplice Data della Cattura: 08/09/1943 Luogo della cattura: Grecia Data del trasferimento nei luoghi di detenzione (partenza e arrivo): 15/09/1943 Grecia; 18/09/1943 campo di Auschwitz. ! Tipo di lavoro svolto (e cambiamenti nel tempo): Operaio manuale Luogo liberazione: Essen Data liberazione: 10/04/1945 Esercito alleato che liberò il campo: esercito americano Quanto tempo rimane in Germania?: 2 mesi ad Auschwitz ed tutto il resto del tempo a Bochum. Arrivo in Italia (data e luogo): 10/07/1945 40 SCHEDA BIOGRAFICA IMI Cognome: Carotenuto Nome: Francesco Arma di appartenenza: artiglieria Grado (al momento della cattura): soldato semplice Data della Cattura: 08/09/1943 Luogo della cattura: Italia I° lager (smistamento e immatricolazione): Africa Lavoro svolto dopo la civilizzazione (e cambiamenti): Manuale Arrivo in Italia (data e luogo): agosto del 1945 41 SCHEDA BIOGRAFICA IMI Cognome: Buzzi Nome: Sergio Grado (al momento della cattura): soldato semplice Data della Cattura: 08/09/1943 Luogo della cattura: Trieste ! I° lager (smistamento e immatricolazione): Africa Lavoro svolto dopo la civilizzazione (e cambiamenti): Operaio Esercito alleato che liberò il campo: esercito americano Arrivo in Italia (data e luogo): 09/1945 42