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la trasformazione di cristo e del cristiano alla luce del tabor
C. M. MARTINI
LA TRASFORMAZIONE DI CRISTO E DEL CRISTIANO
ALLA LUCE DEL TABOR
Un corso di esercizi spirituali
Rizzoli, 2004
Introduzione
I MEDITAZIONE: Essere e tempo
VII
MEDITAZIONE:
trasformazione battesimale
Le
dimensioni
della
II MEDITAZIONE: «Salì sul monte a
VIII MEDITAZIONE: La trasformazione eucaristica
pregare»
III MEDITAZIONE: Le tentazioni del IX MEDITAZIONE: Conoscere intimamente Gesù per
monte
seguirlo
IV MEDITAZIONE: Le tentazioni della
X MEDITAZIONE: Il silenzio del Padre
pianura
V MEDITAZIONE: La trasformazione di
XI MEDITAZIONE: Gesù umiliato
Gesù
VI MEDITAZIONE: La trasformazione
XII MEDITAZIONE: Sotto il segno dell’amore
battesimale
OMELIE
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Introduzione
Sono stato qualche giorno fa al santuario di Manoppello, in Abruzzi, nel centro Italia,
dove è conservato un telo che pare sia quello della Veronica. Certamente è un'immagine
straordinaria, perché non è dipinta e, vista alla luce da ogni parte, riflette il volto
dolcissimo del Signore. Dopo la visita, mi hanno chiesto di lasciare un pensiero sul
registro e ho scritto semplicemente: «Il Volto che contempleremo in eterno».
È il Volto che contempleremo in questi giorni, meditando il mistero della
Trasfigurazione di Gesù.
Ci introduciamo cosi negli esercizi spirituali e mi rivolgo in preghiera allo Spirito Santo,
chiedendogli di guidarci nel nostro cammino. In proposito richiamo due testi del Nuovo
Testamento.
Il primo è dell'evangelista Matteo, là dove parla dell'apostolo consegnato nelle mani dei
pagani (però la promessa di Gesù vale per tante altre occasioni): «Non preoccupatevi di
come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che
dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in
voi» (10, 19-20). Queste parole mi confortano, mi assicurano che il Signore mi suggerirà
quello che devo dirvi; non sarò infatti io a parlare, ma lo Spirito Santo parlerà in me.
Vorrei che il testo di Matteo confortasse anche voi. Talora di fronte alla prospettiva di
una settimana di esercizi, ci si domanda: cosa farò? Come passerò questi giorni? Proprio
qui risuonano le parole di Gesù: non preoccupatevi per le vostre preghiere, vi sarà
suggerito di volta in volta dallo Spirito Santo ciò che è giusto pensare, come adorare,
lodare, ringraziare, chiedere perdono.
Il secondo testo che ci incoraggia lo traggo dalla Lettera ai Romani: «Allo stesso modo
anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che
cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi
con gemiti inesprimibili: e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito,
poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8, 26-27).
«Ti ringrazio, Signore, perché tu conosci la nostra debolezza nel pregare, la nostra fatica,
la nostra facilità a confonderci, a distrarci. Ti ringrazio perché il tuo Spirito mette in noi
le attitudini, le parole, i gesti, i silenzi giusti. Ci affidiamo a te e allo Spirito Santo, per
intercessione di Maria sotto la cui protezione ci poniamo per tutti i giorni dei nostri
esercizi. E ci affidiamo pure alla preghiera della Chiesa, sapendo che noi siamo portati
da quella preghiera, siamo soltanto una goccia del fiume di preghiera che scende verso il
mare di Dio.»
Forse ricordate la splendida testimonianza del beato Cardinale Schuster sulla recita
personale del breviario nei giorni in cui era affranto e privo di forze: «Allora chiudo gli
occhi, e mentre le labbra mormorano le parole del breviario che conosco a memoria, io
abbandono il loro significato letterale, per sentirmi nella landa sterminata per dove passa
la Chiesa pellegrina e militante, in cammino verso la patria promessa. Respiro con la
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Chiesa nella stessa sua luce, di giorno, nelle sue stesse tenebre, di notte; scorgo da ogni
parte le schiere del male che l'insidiano o l'assaltano; mi trovo in mezzo alle sue battaglie
e alle sue vittorie, alle sue preghiere d'angoscia e ai suoi canti trionfali, all'oppressione
dei prigionieri, ai gemiti dei moribondi, alle esultanze degli eserciti e dei capitani
vittoriosi. Mi trovo in mezzo: ma non come spettatore passivo, bensì come attore la cui
vigilanza, destrezza, forza e coraggio possono avere un peso decisivo sulle sorti della
lotta tra il bene e il male e sui destini eterni dei singoli e della moltitudine». Parole che
esprimono molto bene come la nostra è preghiera della e nella Chiesa.
Il titolo degli esercizi
A me piace dare a ogni corso di esercizi un titolo diverso, e in questa occasione ho scelto
il seguente:
La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor.
Ne spiego l'origine.
Nel mese di giugno, trovandomi a Gerusalemme, ho fatto i miei otto giorni di esercizi
sul monte Tabor, al fondo della pianura di Esdrelon. È un luogo paradisiaco: lì Gesù ha
pregato di notte, lì si è trasfigurato, lì sono apparsi Mosè ed Elia, lì Pietro, Giacomo e
Giovanni hanno voluto costruire tre tende, lì si è reso manifesto il raccordo di Gesù con
il Primo Testamento e con la passione, la morte e la risurrezione. E allora mi sono
lasciato attrarre da tale esperienza stupenda e ho pensato: devo continuare a meditare
sull'evento del Tabor e invitare altri a farlo. Un evento importantissimo e caro in
particolare alle Chiese orientali: per i monaci la Trasfigurazione è un'icona del cristiano,
indica ciò che siamo chiamati a divenire. Per questo il titolo degli esercizi fa leva sulla
Trasfigurazione di Gesù e sulla nostra trasformazione in lui. È un mistero bellissimo e
grandissimo. In realtà, il vocabolo che traduciamo con «trasfigurazione» nel testo greco
significa anche «trasformazione» o «metamorfosi», la metamorfosi di cui parla, per
esempio, Paolo nella Lettera ai Romani (12, 2): «Trasformatevi rinnovando la vostra
mente». La Trasfigurazione è segno, icona, appello a trasformarci in Cristo; ha un valore
ascetico e spirituale assai grande, è un invito a trasfigurare la nostra vita.
Vi consiglio la lettura personale, in questi giorni, dei racconti della Trasfigurazione
in Mt 17, in Mc 9 e in Lc 9; e la lettura di quel quarto racconto che si trova nella Seconda
Lettera di Pietro (1, 16-19): «Infatti, non per essere andati dietro a favole
artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore
nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli
ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta
questa voce: "Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto". Questa
voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E
così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere
l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e
la stella del mattino si levi nei vostri cuori».
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Indicherò successivamente i brani collegati.
Natura, scopo, dinamica degli esercizi spirituali
È opportuno incominciare, per chiarezza, con una definizione sintetica della dinamica
degli esercizi spirituali perché collocheremo in tale prospettiva la lettura e la
contemplazione dei testi neotestamentari sulla trasfigurazione.
Gli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Lojola, a cui ci riferiamo, comprendono un
momento di richiamo dei principi fondamentali dell'esistenza umana e cristiana; un
momento penitenziale; un momento di ascolto della chiamata di Cristo; un momento di
imitazione di Cristo fino alla morte e risurrezione. Il tutto nell'apertura alla grazia. Gli
esercizi sono opera della grazia dello Spirito Santo: è lui che muove, è lui che prega in
noi, che stimola. che ci fa da maestro. Chi detta gli esercizi è un umilissimo suggeritore
di ciò che poi lo Spirito chiarisce nell'intimo dei cuori.
Con questa premessa è più facile svolgere ora una riflessione distesa e articolata sulla
natura e lo scopo degli esercizi.
Sapete già che gli esercizi spirituali, come li prevede sant'Ignazio, si svolgono lungo
l'arco di un intero mese. Personalmente ho fatto tre volte il Mese: all'inizio del noviziato,
dopo l'ordinazione presbiterale per il terzo anno di noviziato, e infine nel 1989 in
coincidenza con il mio decennio di episcopato.
Gli esercizi annuali durano invece abitualmente otto-dieci giorni, ma la natura è la
stessa. Non si tratta di ascoltare alcune parole buone, alcune meditazioni, di leggere
qualche passo della Bibbia, di pregare un po' di più. Lo scopo proposto da sant'Ignazio
per il Mese di esercizi è di giungere a una scelta definitiva dello stato di vita, una scelta
ispirata da Dio celibato o matrimonio, vita sacerdotale, vita religiosa o vita missionaria,
vita nel servizio sociale, culturale, politico.
Costituiscono quindi un metodo per purificare il cuore e la mente, per sintonizzarsi con
le scelte di Dio, così da decidere secondo la sua volontà e non secondo il nostro parere,
la nostra emotività, le nostre ripugnanze o attrattive. È decisivo il lavoro di
purificazione, per non lasciarsi trascinare da simpatie, antipatie, paure, entusiasmi facili,
resistenze. Essendo un metodo di purificazione del cuore, gli esercizi sono utili anche
quando la scelta definitiva è già fatta, non è più da mettere in questione, e tuttavia
occorre riconfermarla o rinnovarla. Infatti le scelte per una vita pienamente consacrata a
Dio o per la vita matrimoniale, restano sempre soggette a degrado, rischiano di
impolverarsi e appesantirsi e vanno continuamente ripulite e rilanciate.
Ci chiediamo: in quale maniera gli esercizi portano a una scelta limpida e disinteressata?
Sono tre i movimenti fondamentali.
- Il primo è quello di accettarsi e riconciliarsi con la propria storia magari nel
pentimento, e però un pentimento che sia affidamento fiducioso a Dio. Talora senza
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accorgercene, siamo autocritici, scettici, sfiduciati, la nostra storia non ci piace oppure
ha degli aspetti pesanti. Negli esercizi occorre anzitutto fare pace con noi stessi e con
Dio, imparare ad accettarci come siamo. con le nostre povertà e fragilità.
- il secondo movimento ci mette a contatto con la vita di Gesù, per entrare nel mondo di
Dio, nelle sue scelte, nel suo amore, nelle sue preferenze: come Dio misura le realtà di
questo mondo? Come le giudica? Che cosa ritiene importante e che cosa ritiene senza
valore?
- E ancora, gli esercizi ci abilitano a discernere i movimenti interiori: le emozioni, i
sentimenti le inclinazioni pericolose, le resistenze, le paure, le desolazioni, le amarezze,
le solitudini, le oscurità, gli sprazzi di luce, le intuizioni, il camminare nel buio. Ci
aiutano a ordinarli, a chiarirli, a vederne il senso, a interpretarli, allo scopo di
comprendere e scegliere ciò che Dio vuole da noi. È il cosiddetto discernimento degli
spiriti, che per sant'Ignazio è nodale.
Un altro frutto o scopo degli esercizi dovrebbe essere quello della consolazione della
mente, cioè l'illuminazione che trae fuori dalle piccolezze nelle quali ci impastoiamo
giorno dopo giorno e ci permette di contemplare il piano meraviglioso di Dio, che
abbraccia l'umanità intera, con le sue sofferenze e le sue speranze. La consolazione della
mente di cui parlo è la visione intuitiva e complessiva dei misteri divini di salvezza, è
quel respiro largo, profondo, che nasce in noi quando intuiamo che ogni cosa ha il suo
posto nel piano di Dio, e l'abbiamo noi pure, con le nostre piccole o grandi prove,
fatiche, sofferenze, oscurità. Spesso siamo concentrati, e giustamente, sull'uno o
sull'altro problema, magari di carattere etico, ma il disegno di Dio è infinitamente più
grande. Per Pietro, Giacomo e Giovanni la Trasfigurazione è stata proprio
un'illuminazione che li ha liberati dalla paura delle contraddizioni, delle vie oscure per
cui Gesù li stava guidando verso Gerusalemme; hanno compreso che era in gioco un
mistero meraviglioso, la salvezza totale dell'universo, la gloria di Dio e dell'uomo.
Infine gli esercizi sono una scuola di preghiera. Ne parlerò spiegando il metodo
della lectio divina e offrendo poi qualche suggerimento su come disporsi alla preghiera.
Ho evocato la natura, lo scopo e la dinamica degli esercizi e potremmo utilmente porci
due domande.
In quale situazione inizio il cammino di questi giorni? Con quale stato d’animo, con
quale preparazione, con quali luci dei Signore? Ciascuno ha una biografia diversa, ha
trascorso l'anno in modo diverso, ha vissuto gioie, tentazioni, sofferenze diversissime.
E come vorrei uscire dagli esercizi? Che cosa mi piacerebbe aver chiarito, superato o
almeno ordinato?
Rispondendo alle due domande, sarò in grado di comprendere quel «frutto speciale»
che io - tu, ciascuno di noi - e non altri posso ricevere perché certamente Dio l'ha
preparato per me.
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La lectio divina
Ritengo fondamentale proporre per le vostre meditazioni personali la lectio divina e ne
descrivo brevemente il metodo, che comprende tre gradini o passaggi.
La lectio consiste nel leggere e rileggere il testo, sottolineandone la dinamica, gli
elementi portanti, le parole chiave, per capire che cosa dice il testo. La meditatio mette
in rilievo i valori e i messaggi del brano e vuole rispondere alla domanda: che cosa dice
a me, a noi, alla Chiesa? Infine la contemplatio: che cosa dico io a Gesù che mi parla
nella pagina che ho letto? Qui inizia il colloquio con Gesù, che è il fine principale della
preghiera: lo si adora, lo si loda, lo si contempla, chiedendogli, magari nel silenzio, di
purificarci e di renderci simili a lui. Una preghiera che non sfocia nel colloquio è
soltanto intellettuale.
Dunque la preghiera mentale meditativa e contemplativa, propria della lectio
divina, consente di interiorizzare quanto si è letto e ascoltato, cosicché non scivoli via
come l'acqua sulla roccia.
Ci sono evidentemente altri modi di pregare che si possono vivere bene negli esercizi.
Penso alla preghiera vocale, come il Rosario, oppure alla bellissima preghiera di Gesù,
nella quale la mente lascia posto al cuore, mentre si ripete, anche migliaia di volte,
l'invocazione: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me peccatore».
Penso ancora al metodo molto facile che chiamo «corsa dietro motori»: quando siamo
stanchi, incapaci di raccoglierci, possiamo prendere spunto per la preghiera dalla lettura
di qualche pagina di un libro spirituale.
L’esercizio della lectio divina è comunque irrinunciabile e ne darò alcuni esempi. Vi
chiedo in ogni caso di impegnarvi personalmente a praticare la lectio divina su tutti i
testi che citerò, perché è il fondamento sicuro per vivere in pienezza questi giorni.
Come disporsi a pregare
Sant’Ignazio parla a lungo negli Esercizi spirituali di come prepararsi a entrare nella
meditazione e nella preghiera. Mi ispiro dunque ai suoi insegnamenti.
Sono tre gli atteggiamenti importanti.
Anzitutto occorre circondare l'ingresso nella preghiera con un’anticamera di
silenzio. Magari respirare a lungo, tranquillamente, ascoltare i rumori della natura,
immergersi nel silenzio, così da non entrare nell'orazione di corsa, con fretta.
Dice sant’Ignazio: «Prima di entrare in preghiera, sedendo o passeggiando, far sostare un
poco lo spirito e pensare dove si va e a che fare» (n. 239). Ricordo che quando ho fatto il
terzo anno di noviziato con i miei confratelli Gesuiti, in Carinzia, a St. André, il padre
maestro, un uomo di grande esperienza, dandoci gli esercizi cominciava sempre le
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meditazioni con queste parole: «Vor allem sich ruhig vor Gott werden lassen»: in primo
luogo lasciarsi calmare, diventare tranquillo, quieto davanti a Dio.
Il secondo atteggiamento che immediatamente consegue è l'adorazione. È estremamente
importante entrare in preghiera con un atto di adorazione, silenzioso o espresso a voce:
«Mio Dio, io non sono nulla, tu sei tutto. Tu hai creato tutte le cose. Tu mi hai chiamato,
piccolo essere e povero, a stare davanti a te. Tu mi fai il dono di parlare con te. Io ti
adoro e mi riconosco indegno di stare alla tua presenza». Non di rado la nostra preghiera
è fiacca perché non è stata preceduta da un'adorazione ben fatta: siamo entrati nella sfera
di Dio svogliatamente, come certi ragazzi che entrano in chiesa correndo, guardando,
toccando di qua e di là, incapaci di raccogliersi per pensare. Dobbiamo invece metterci
in adorazione profonda e stupita del mistero inconoscibile di Dio, quasi prostrati per
terra, dicendo: «Signore, io ti adoro, ti lodo, ti amo, ti riconosco come mio re, ti
benedico. Tutto ciò che c'è di buono è da te. Parla, o Signore, che il tuo servo ti ascolta».
Soltanto dopo potremo dedicarci all'ascolto della parola biblica.
Una terza e ultima annotazione raccomanda di entrare nella preghiera con un atto
di offerta, espressa con la bocca e col cuore. «Signore, ti offro questo tempo, voglio che
sia tutto solo per te, non che sia ripreso da me in alcun modo; te lo regalo, è tempo tuo, è
tempo nel quale tu devi regnare, nel quale tu mi accompagni.» Come, passando per una
stazione, prendiamo coscienza dei treni che partono e arrivano, così, entrando in noi
stessi, noi prendiamo coscienza di tutte le nostre possibilità e le offriamo: «Gesù, ti,
offro questo momento. Qualunque cosa sentirò - di aridità o di desolazione, di
interessante o non interessante, di utile o apparentemente inutile non mi distrarrà da te
che sei il Signore della mia vita e del mio tempo». È determinante questa offerta
all'inizio di ogni meditazione. Si può anche formularla così: «In unione alla preghiera di
Gesù e della Chiesa, ti offro, Padre, la mia preghiera. Vale poco, ma tu puoi riempirla
con la tua grazia». Sant'Ignazio propone prima di ogni meditazione l'orazione
preparatoria, che «consiste nel chiedere grazia a Dio nostro Signore affinché tutte le mie
intenzioni, azioni e attività siano puramente ordinate al servizio e alla lode della sua
divina maestà» (n. 46).
Naturalmente, offrendo noi stessi, possiamo offrire tutte le persone che conosciamo e
amiamo, tutta la Chiesa, tutto ciò che si fa nel mondo per la gloria di Dio, in modo che
tutto gli sia donato e reso degno di servizio esclusivo a Lui.
Quando dunque ci accorgiamo che la nostra preghiera è statica, perché non è impregnata
di adorazione e di offerta, dobbiamo umilmente dire ancora una volta: «Signore, perdona
la mia distrazione. Tu sai che sono qui solo per te, e desidero, voglio offrirti la povertà
della mia preghiera».
Silenzio, adorazione e offerta sono tre semplici indicazioni che certamente ci aiuteranno
a vivere la preghiera personale., Affidiamoci con semplicità alla Madonna, perché ci
renda partecipi della sua preghiera e interceda affinché cresca in noi lo spirito di
orazione e il fuoco dello Spirito Santo.
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I MEDITAZIONE
Essere e tempo
All'inizio degli Esercizi, sant’Ignazio presenta una riflessione che intitola Principio e
fondamento. In essa richiama le grandi verità costitutive dell'esistenza umana: «L’uomo
è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la
sua anima» (Esercizi spirituali n. 23). Dio è il Creatore, noi siamo le sue creature, fatte
per servirlo e ricercare la sua volontà come impegno più importante, superando tutte le
passioni che ci potrebbero attrarre all'una o all'altra scelta, così da essere liberi e
disponibili. Vorrei comunicarvi alcuni pensieri legati alla contemplazione del Principio e
fondamento per ricordare due grandi parole che determinano tutto il nostro modo di
concepire la realtà, da tenere distinte e unite, mentre spesso vengono confuse o
identificate. In termini filosofici sono le parole essere e tempo o, se volete, metafisica e
storia, oppure uno e molteplice. In termini biblici, creazione e alleanza. Esprimono due
sguardi sulla realtà che sono complementari, fatti l'uno per l'altro; ma che insieme vanno
distinti per non confondere i piani e commettere errori anche gravi di prospettiva.
È un po' un Principio e fondamento per il nostro tempo: riconoscere la verità dell'essere
e del tempo, della creazione e dell'alleanza.
Prendiamo queste due coppie di termini - essere e tempo, creazione e alleanza,
metafisica e storia -, e riferiamoci alla parola di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Questa è
la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo»
(17, 3).
Notiamo la duplice riflessione: conoscano te, l'unico vero Dio, il creatore, l'essere
perfettissimo, la sorgente di ogni cosa, l'unico, l'indiviso, colui che ha in mano l'intera
realtà del mondo, il padrone di ogni cosa; e colui che hai mandato, Gesù Cristo: evento
storico, apparizione in un determinato tempo, suscitatore di energie in qualche maniera
contingenti, cioè non necessariamente iscritte nella razionalità dell'atto creativo, bensì
donate nella storia.
Due momenti, quindi, di conoscenza: l'essere e il tempo; l'unico vero Dio che non muta
mai e colui che ha mandato, Gesù Cristo che nasce nel tempo.
Nella linea dell'essere
Nella linea dell'essere noi adoriamo l'unico e vero Dio. È la grande forza del
monoteismo, ed è la forza conquistatrice del monoteismo islamico: l'unità di Dio.
L’unico vero Dio, Colui che è stato chiamato mysterium tremendum e mysterium
fascinans, cioè mistero davanti al quale tremiamo e che insieme ci affascina perché non
lo conosciamo, eppure ne siamo attratti. Questo è l'essere di Dio, di fronte al quale
viviamo la riverenza profonda, riverenza che i musulmani esprimono chiaramente nella
loro preghiera fatta per le strade, in piazza, in ogni luogo.
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L’Essere perfettissimo, il Creatore, il Signore, l'Altissimo è dunque il nome di Dio. A lui
si riferiscono le prime domande del Catechismo di Pio X che da bambini imparavamo a
memoria: «Dio è l'Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra. Che
cosa significa perfettissimo? Che cosa significa onnipotente? Che significa buono? ... ».
E Dio nel suo essere immutabile, eterno, non conosce nessuna ombra, è tutto luce.
Ne conseguono gli atteggiamenti cui ho già accennato: l'adorazione di fronte al
totalmente Altro; la riverenza dell'uomo che riconosce di essere un nulla davanti al
Creatore che è tutto; il timore e tremore cosi spesso presenti nel Primo Testamento, al
cospetto di un Dio inconoscibile che l'uomo teme di avvicinare. Da qui nasce
l'obbedienza e l'osservanza della legge intesa come legge naturale, posta nel cuore di
ogni uomo da Dio, che solo sa per cosa l'uomo è fatto. È quella razionalità della legge
riconosciuta anche dalla modernità (ma la postmodernità la sta dimenticando), che si
riferisce all'unico Dio Creatore e Signore, uguale per tutti.
Ci sono altri atteggiamenti che derivano dall'intendere Dio quale Essere supremo e
perfettissimo, che regge e condiziona le sue creature. Ne richiamo tre. La gratitudine, la
meraviglia di esistere: siamo dono di Dio, siamo dati a noi stessi da Lui; l'accettazione,
molto nobile, del nostro limite, di tutti i limiti creaturali, in quanto hanno la loro radice
in Lui; il servizio fedele.
La linea dell'essere non va mai perduta di vista, perché rimane sempre fondante e
fondamentale.
Nella linea del tempo
La parola di Gesù nel vangelo di Giovanni che ho sopra richiamato è esplicita: «Che
conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo». Qui entriamo
nella storia. Non soltanto Dio è l'Essere supremo: esiste una storia che ha il suo culmine
in Cristo Gesù ed è stata preparata da una storia di salvezza che ha la sua origine in
Abramo. Storia è ciò che teoricamente avrebbe potuto non essere, perché la storia è la
libertà di Dio, è imprevedibile. È la libertà di Dio, è il suo amore senza limiti.
Ai nomi del Dio unico si aggiungono i nomi storici: Dio è Padre, Padre anzitutto di Gesù
Cristo e Padre nostro in Gesù. E al termine creazione si oppongono, completandolo, i
termini alleanza ed elezione. Elezione è un altro termine tipico della scelta storica di
Dio: l'elezione di Abramo, l'elezione di un popolo.
Il concetto di elezione costituisce un'estrema difficoltà per l'uomo moderno ed è, a mio
avviso, una delle motivazioni dell'antisemitismo: non si ammette che il Signore possa
scegliere alcuni in favore di altri. Mentre l'illuminiamo razionale vuole l'uguaglianza di
tutti e rifiuta le differenze, la storia è fatta dalla scelta di alcuni per altri; non privilegio
chiuso, ma dono aperto che, se non è riconosciuto, genera invidia. Se leggiamo da questo
angolo di visuale la storia di Giuseppe l'ebreo, ci accorgiamo che il dramma nasce
dall'invidia per un figlio che sembra amato più degli altri. Lo stesso si verifica per il
popolo ebraico: eletto per noi e respinto da chi non vuole che ci siano differenze nel
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piano di Dio. Di fatto il popolo ebraico viene eletto in vista dell'eletto Gesù e affinché
tutti in Gesù siamo eletti.
Questo richiede appunto un concetto di storia della salvezza, di libertà di Dio, di azione
libera di Dio nella storia che la modernità illuministica non ha. Richiede una percezione
dell’opera dello Spirito Santo, opera che - per riferirci a noi - è tangibile negli esercizi.
Non avrebbe senso cercare il proprio posto nella volontà di Dio, se non ci fosse una
storia di salvezza. Gli esercizi partono dalla convinzione che Dio ha «per me» una
chiamata, una missione, che ciascuno deve cercare attivamente; e lo Spirito Santo ci sta
illuminando per trovarla. Siamo nella sfera dell'alleanza, dell'elezione, del dono gratuito
dello Spirito.
Qui Dio assume il nome di Trinità: Padre, Figlio incarnato per noi e Spirito operante. La
Trinità è colta prima nella storia e poi contemplata nella sua essenza; l'Essere di Dio è
Trinità e noi lo scopriamo accettando il suo intervento nella storia. Un’accettazione non
scontata: per i musulmani, ad esempio, non esiste storia di salvezza e Maometto è un
semplice profeta che insegna gli immutabili comandamenti di Dio.
Non a caso la Terra Santa è un luogo significativo per la storia dell'umanità e perciò ho
scelto di vivere gli ultimi anni della mia vita in questo paese, nel desiderio di dare
testimonianza alla scelta storica di Dio. Egli poteva scegliere un'altra terra, ma la sua
libera volontà ha scelto Israele.
Nella sua libera volontà ci sentiamo amati, scelti, eletti, chiamati a essere uno in Gesù.
Tutto ritorna nell'unità di Dio con Gesù («Perché tutti siano una cosa sola. Come tu,
Padre, sei in me e io in te» - Gv 17, 21), ma passando per questa storia.
I comportamenti che sgorgano dai nomi storici di Dio sono non soltanto l'obbedienza,
l'adorazione, la riverenza, il timore, il tremore, la gratitudine, la sorpresa di esserci: sono
anzitutto la fede (accettiamo il piano di Dio), l'adesione, la fiducia (il piano di Dio è
buono). Come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor
Hominis,sgorga pure lo stupore, perché Dio inconoscibile e immenso si è fatto conoscere
nel piccolo Gesù di Nazareth.
E se Gesù è l'eletto di Dio nella storia, noi siamo chiamati a imitarlo, a imitarlo nel
silenzio, nel nascondimento, nella povertà, nel lasciare tutto per lui, dare tutto, perdere
tutto per tutto ottenere. Nella razionalità della creazione ciò che conta è l'uso equilibrato
dei beni della terra; nell'eccesso evangelico della storia il messaggio è,: «Va’, vendi ciò
che hai e dallo ai poveri», un messaggio che va alla radice dell'uomo. L’uomo non è solo
frutto di creazione, ma oggetto di alleanza, perché imiti Gesù; il nostro compito non è
quindi semplicemente di adorare e di obbedire, è di essere in Gesù e di fare come ha
fatto lui, di seguirlo.
Ho cercato di cogliere l'importanza e la pervasività di questa duplice linea interpretativa
del mondo: essere e tempo, metafisica e storia, creazione e alleanza.
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Se noi accettiamo questa duplicità, possiamo anche entrare nel senso della storia umana
e delle sue tragedie, leggendole non come una serie di casualità fatali e drammatiche,
tragiche e inevitabili, bensì come il modo con cui Dio ci purifica e, attraverso la
somiglianza con Gesù crocifisso, ci porta nel suo amore e nella sua unità.
Ai nomi di Dio nella linea del tempo corrispondono, oltre ai nostri atteggiamenti, pure
istituzioni libere e insieme necessarie: la Chiesa, con tutte le sue realtà sacramentali,
spirituali, disciplinari ed ecclesiastiche. Essa è espressione della volontà storica di Dio di
salvarci in Gesù fatto carne. Senza questo non la si coglie bene nella sua funzione. E non
solo la Chiesa, ma la comunità umana unita. Perché ciò a cui tende l'alleanza è appunto
tutta l'umanità redenta e riconciliata. Della sua redenzione e riconciliazione la Chiesa è il
motore (colei che ne difende il progetto, lo custodisce e lo rilancia) e tuttavia essa è più
ampia della Chiesa, in quanto è la realtà finale, la Chiesa diventata ormai Regno,
pienezza che abbraccia tutte le nazioni.
Occorre dunque tenere insieme la dimensione metafisica e quella storica, evitando di
riferirsi solo all'una o all'altra. Ciò avviene per esempio quando non si vuole ammettere
alcuna regola educativa che non sia un uso regolato e proporzionato delle cose; mentre
regola educativa è anche il sacrificio, la rinuncia, l'offerta. Oppure quando si dimentica
che al di sotto di tutto c'è la creazione, e si pone la croce o la mortificazione quale unica
regola educativa. Qui c'è l'eccesso dall'altra parte, non c'è quell'equilibrio che appunto
risponde alla creazione di Dio.
Noi abbiamo bisogno di molta illuminazione, proprio perché siamo chiamati a
mantenere quell'equilibrio che poi si ripercuote nella pastorale, nell'educazione dei
ragazzi e dei giovani, nell'educazione della gente. Non basta educare alla preghiera,
dobbiamo educare anche alle buone maniere, alla giustizia, alla cortesia, alla buona
educazione, all'onestà. L’onestà, però, senza capacità di perdono a un certo punto si
infrange, senza la capacità anche di rinunciare a ciò che si ha a un certo punto diviene
impossibile da mantenere e diventa avarizia, desiderio smodato, orgoglio.
In conclusione, «essere e tempo» è a mio avviso principio e fondamento di una lettura
sintetica della realtà, a cui ci educano gli esercizi spirituali mediante un cammino di
preghiera, a cui Gesù ha voluto educare i suoi discepoli sud monte Tabor, dove la gloria
dell'essenza divina si è riflessa nell'umiltà del Gesù storico.
Ho cercato di comunicarvi alcuni pensieri che mi perseguitano da parecchi mesi, nel
tentativo di capire, pur rimanendo al di fuori del giudizio, la complessità della situazione
storica nella quale si trova la Chiesa oggi, con la fiducia che lo Spirito soltanto ci dona
momento per momento la luce e l'equilibrio, ci indica il passo giusto da compiere. Non
abbiamo in proposito alcuna teoria. Gli stessi matematici e gli stessi fisici hanno
rinunciato a una teoria onnicomprensiva della realtà: ritengono che la realtà vada vista o
secondo la linea quantistica o secondo la linea delle vibrazioni, ma non operano una
sintesi. A maggior ragione non pretendiamo di possedere chiavi interpretative teoriche
noi che siamo di fronte all'Essere misterioso di Dio, al Dio nascosto e insieme rivelato
dal Figlio.
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Questo apparente contrasto si ripercuote nella lettura della Bibbia. Vi offro un esempio:
ogni giorno prego i Salmi guardando dalla mia finestra Gerusalemme. A volte nei Salmi
essa appare come visione di pace, visione di promessa, di futuro. E mi domando: dov’è
questa Gerusalemme? È la Chiesa, è la Gerusalemme celeste, siamo noi che viviamo la
pace di cui parla il salmista; però non senza legame con questa città storica. Non posso
abbandonare una delle due parti del dilemma: c'è la Gerusalemme storica, che persevera
chiamata da Dio per entrare nella pace; e c'è la Gerusalemme celeste che già scende dal
cielo e nel nostro cuore ci riempie di pace e, là dove viviamo la vita cristiana fervente, è
già esperienza di pace definitiva. Leggendo i Salmi ci accorgiamo spesso che la mente
oscilla tra l'una e l'altra realtà. Allo stesso modo non riusciamo a pensare alla Trinità
senza oscillare tra l'unità di Dio e la trinità delle persone, perché il mistero supera il
nostro intelletto e presiede a quella complessità che è il mondo, chiamata però all'unità
piena nel Cristo risorto e glorificato, che riporterà tutto il regno al Padre. L’escatologia
restituirà certamente l'unità; intanto noi viviamo ancora lacerati e spesso paghiamo cara
questa lacerazione anche nella nostra pastorale, nel rapporto con le persone. Non
sappiamo mai bene se è il momento della misericordia o il momento della giustizia più
rigida, dell'esigenza legale; se é il momento di dire: ti comprendo, pazienza, o il
momento di dire: questo non va.
È solo la grazia dello Spirito Santo che volta per volta ci aiuta a vivere con pace questi
dilemmi.
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III MEDITAZIONE
Le tentazioni del monte
Leggiamo nel vangelo di Marco: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li
portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli »(9, 2); e il vangelo di Matteo
racconta: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in
disparte, su un alto monte» (17, 1).
Il «monte» è un simbolo formidabile nella Bibbia: è il luogo dove solevano avvenire gli
incontri con Dio, dove Mosè ha ricevuto la Legge e ha conosciuto più profondamente il
mistero divino, dove Elia ha incontrato il Signore e ne ha ascoltato la voce. E noi,
idealmente, ci troviamo sul monte, nel desiderio di incontrare Dio in maniera nuova, di
penetrare più intimamente nel suo mistero.
Siamo «appartati», tratti fuori dal consorzio umano quotidiano mettendo da parte tutte le
nostre attività. Ancora, siamo «soli»: ciascuno di noi è chiamato a vivere in solitudine la
vocazione di questi esercizi.
«Signore, che ci hai voluti qui perché potessimo conoscerti meglio, lasciando la realtà di
ogni giorno e accettando una solitudine contemplativa, aiutaci a vivere il dono che nasce
dal tuo cuore, che sgorga dall'amore di Dio per noi.»
Nella solitudine abbiamo contemplato gli esempi di Gesù in preghiera, e ci accorgiamo
di quanto sia distratto e superficiale il nostro pregare, sperimentiamo le nostre paure a
restare con lui sul monte, in rapporto intimo col Padre, scopriamo che il peccato è
resistenza alla luce che viene dal volto dei Risorto.
Sono le stesse resistenze che emergono nei tre discepoli sul Tabor, e vorremmo tentare
di comprendere i versetti evangelici attraverso la lectio divina.
Sonno, confusione, paura:
le tentazioni dei monte
Luca annota: «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» (9, 32).
Il sonno è un aspetto misterioso della preghiera di Pietro e dei suoi compagni, e indica
una caratteristica del nostro pregare. Non si tratta solo del sonno fisico che, pur se
dobbiamo vincerlo e superarlo, non è troppo negativo. Ricordiamo che Teresa di Gesù
Bambino soffriva di sonnolenza nella preghiera e nonostante questo offriva se stessa a
Dio.
L’accenno del brano va più in profondità e qualifica la nostra preghiera come svogliata,
pesante, perché ci accontentiamo dell’esteriorità, senza entrare col cuore nelle parole che
esprimiamo e senza lasciarci coinvolgere. È spesso una preghiera che resiste a quella
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dedizione e a quell'abbandono propri della preghiera di Gesù. Nel sonno della preghiera
dei discepoli viene fotografata la fatica, la ripugnanza a impegnarsi nel cammino della
preghiera con perseveranza.
Ritengo importante riconoscere umilmente, durante gli esercizi, le nostre fragilità:
«Signore, certe volte ho le ali ai piedi, il tempo passa rapidamente e penso che pregare
sia facile. Ma quando desidero entrare in una preghiera perseverante e profonda, avverto
che è lotta, lotta per conoscere e contemplare il tuo volto, e che sono incapace di
sostenerla. Aiutami, Gesù, a vincere la mia mortalità e peccaminositá, a non rassegnarmi
ad essa».
L’atteggiamento del sonno è menzionato di nuovo dall'evangelista Luca al capitolo 21,
nel discorso escatologico, dove emerge che si tratta di una situazione di fondo: «State
bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e
affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio
esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e
pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve
accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo» (vv. 34-36).
Queste parole di Gesù descrivono quell'appesantimento che non permette di cogliere il
senso di ciò che sta accadendo, che si lascia sorprendere dagli avvenimenti esteriori,
magari negativi, dolorosi, e brancola nel buio; e vi oppongono la condizione di chi
invece veglia e sta in piedi davanti al Figlio dell'uomo. Se siamo sinceri con noi stessi,
dobbiamo riconoscere che purtroppo il sonno è molto radicato in noi.
Diceva in proposito don Giuseppe Dossetti, uomo di grande preghiera: non andate a
raccontare alla gente che la preghiera è facile, perché è lotta profonda con Dio, è lotta
contro satana.
Di solito nei giorni di esercizi giunge il momento in cui prendiamo coscienza che il
pregare urta contro resistenze ancestrali, profonde: il non fidarci di Dio, il non
abbandonarci a Lui, il volere sempre cercare noi stessi, il nostro comodo, il nostro
vantaggio. Mentre la preghiera, come ho già detto, è arrendersi a Dio, sacrificarsi e
offrirsi gratuitamente a Lui. Viene alla mente l'affermazione dello scrittore russo
Solov'ev: «La fede senza le opere è morta e la preghiera è la prima opera».
Se non abbiamo mai sperimentato la ripugnanza, la fatica nell'orazione, significa che
siamo rimasti a un livello assai superficiale, oppure che abbiamo pregato soltanto
quando ne avevamo voglia.
L’evangelista Luca evidenze una seconda caratteristica dell'incapacità di pregare dei
discepoli, espressa al capitolo 9 v. 33c: «Egli non sapeva quel che diceva». Il riferimento
è alla proposta di Pietro: «Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Ella»
(v. 33b).
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Pietro e i suoi compagni sono mentalmente confusi, smarriti. Di fronte al mistero
ineffabile di Dio che toccano così da vicino, non sanno come reagire, non capiscono che
cosa significhi, non sono all'altezza dei doni spirituali che ricevono, non se ne rendono
conto, non li sanno valorizzare. Chi è chiamato a una vocazione di dedizione al Signore
al servizio della Chiesa nel celibato, a dare tutto per il Regno, riceve di fatto grandissimi
doni che non sempre sa cogliere nella loro forza, per cui non si considera amato dal
Signore, prediletto come lo è in realtà. E la tentazione di banalizzare questi doni è
continua.
Un altro modo di banalizzarli è il pensare che siano nostri e ci siano dovuti,
dimenticando che, essendo dono dall'Alto, possono venir meno. Talora per esempio
vogliamo mantenere, possedere, prolungare artificialmente uno stato di preghiera
gioioso, ricco di sentimenti, di parole, bello e luminoso; ma la devozione nella preghiera
è pura grazia e possiamo restarne privi.
La terza difficoltà dei discepoli è la paura «ebbero paura» (Lc 9, 35). È la paura che Dio
mi chieda troppo, quasi mi sopravvalutasse, quasi volesse qualcosa che non è alla mia
portata; è la paura di penetrare nel mistero della volontà del Padre che ci può portare fino
alla croce. Penso all'esperienza dell'aridità, della nudità e addirittura della sembianza di
morte nella preghiera che ciascuno di noi fa quando si confronta con il proprio peccato e
la propria nullità.
Sono queste le sottili tentazioni che prendono i discepoli di Gesù nel momento in cui si
sentono chiamati a partecipare, sull'alto monte, alla sua preghiera, cioè a una preghiera
profonda, intensa, spirituale, impegnativa. Le abbiamo considerate appunto nella lectio e
meditatio di alcuni versetti dell'evangelista Luca.
* Suggerisco allora due piste di contemplatio per il nostro esercizio di preghiera
personale.
- Anzitutto possiamo raccontare a Gesù il nostro desiderio di imparare a pregare come
lui: come facevi a trascorrere in preghiera lunghe notti? Come hai passato la notte prima
della chiamata dei discepoli (Lc 6, 12-16) e la notte di preghiera sul lago dopo la
moltiplicazione dei pani (Mt 14, 23)?
È bello entrare in colloquio con lui che prega e contemplarlo, perché questa
contemplazione ci purifica e ci nutre, mette in luce che la sua preghiera è davvero
distante dalla nostra.
Sarebbe bello inoltre unirci spiritualmente agli apostoli nel cenacolo e ascoltare,
nell'ultima preghiera di Gesù prima della passione, con quale tenerezza, con quale
padronanza di sé, con quale riverenza e insieme con quale sicurezza si rivolge al Padre.
- In secondo luogo, suggerisco di contemplare gli apostoli nella loro fatica a pregare, e di
chiedere a Pietro, Giacomo e Giovanni: che cos'era il sonno che vi opprimeva? Perché
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eravate confusi al punto di non sapere ciò che dicevate? Aiutatemi a capire le mie
difficoltà nel pregare, insegnatemi a parlarne con Gesù.
«Gesù Signore, solo tu conosci la mia fatica nel pregare, quanta ne ho fatta in
quell'occasione e in quell'altra. Eppure ti ringrazio, Signore, perché più di una volta mi
hai introdotto nella preghiera, mi hai permesso di godere di momenti di luce.»
È molto utile raccontare a Gesù la nostra preghiera, la nostra pochezza, le nostre fatiche,
i nostri desideri: «Gesù, tu sai che vorrei tanto pregare, vorrei tanto contemplare il tuo
volto bellissimo e luminoso, come l'hanno contemplato visivamente alcuni santi.
Donami di dimenticare tutto per restare sempre con te».
Ricordiamo però sempre che, se è giusto umiliarci della nostra povera preghiera e
domandarne perdono, è importante prima di tutto fare compagnia al Signore che prega.
Ricordo di aver trascorso molto tempo sul Tabor proprio ripetendo al Signore: Signore,
come pregavi qui? Donami di capire come vi passavi il tempo in preghiera e rendimi
partecipe di questo tuo mistero.
Rivolgiamoci anche alla Madonna, testimone della preghiera a Nazareth, di Gesù
bambino e adolescente, affinché ci illumini sulla preghiera del suo Figlio e sulla nostra.
Così, a poco a poco, entreremo nel dono di preghiera che il Signore ha in serbo per
ciascuno di noi in questi esercizi.
Soli sul monte, solidali con tutti gli uomini
Abbiamo terminato la lectio divina e ora vorrei prolungare la meditazione a partire dalla
solitudine sul monte con Gesù. Non è una solitudine disincarnata, perché portiamo in noi
tutto un mondo, col desiderio e l'impegno di intercedere. Il nostro stare «in disparte», in
silenzio contemplativo, non è in contraddizione con la domanda che mi sono posto:
quale mondo c'è in noi oltre a quello della nostra personale biografia? Un duplice
mondo: il mondo ecclesiale e il mondo sociale.
Anzitutto il mondo ecclesiale. Portiamo con noi le nostre parrocchie, i confratelli, il
nostro decanato, la nostra diocesi. Portiamo con noi il presente, il futuro e il passato: le
sofferenze, le gioie, le umiliazioni, le difficoltà, i peccati, gli eroismi, i santi della nostra
Chiesa. Non possiamo separarci da queste realtà.
Portiamo con noi la Chiesa universale: il Papa, i vescovi, i presbiteri e i missionari, il
cammino ecumenico delle Chiese, l'impegno di convergere insieme verso Gesù cattolici, protestanti, ortodossi -, l'impegno per il dialogo interreligioso. Portiamo con
noi speranze, paure, timori, e non possiamo prescinderne nella preghiera, pur senza
menzionarli esplicitamente.
E poi c'è il contesto attuale del mondo socio~politico. Le tragedie del mondo sono le
nostre, tragedie che hanno avuto un momento drammatico l'l1 settembre del 2001, con lo
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scoppio inaudito del terrorismo, a cui è seguita una stagione di violenze che non accenna
a finire.
Definirei il problema nodale dell'universo umano con un interrogativo: come riuscire a
convivere tra diversi, evitando di distruggerci a vicenda, anzi comprendendoci e
aiutandoci? È il grande dilemma su cui sta o cade il futuro dell'umanità. Siamo diversi
per religione, etnia, cultura - oriente e occidente, nord e sud, cristiani e islamici, cristiani
e buddisti, europei e non europei, tribù africane - ed è difficile coabitare senza
disprezzarci, o ignorandoci. È giocoforza imparare a coabitare per un comune amore,
fermentandosi vicendevolmente e aiutandoci gli uni gli altri a diventare più autentici.
Vorrei quasi dire che l'impegno per coabitare così è più importante dello stesso dialogo
interreligioso ad alti livelli.
Comunque, ogni nostro personale superamento di barriere è superamento delle barriere
che oggi minacciano di stravolgere l'esistenza degli uomini. Vivendo a Gerusalemme,
sono testimone dei dolori e dei drammi che produce l'incapacità dei diversi a vivere
insieme nello stesso territorio. E noi siamo chiamati a essere apostoli e ministri di
riconciliazione, perché non camminiamo solo per noi stessi o per un nostro
perfezionamento morale.
Un secondo elemento del contesto attuale va tenuto presente: il cosiddetto conflitto di
interessi. La società si rivela sempre più incapace di gestire lo scontro fra gli interessi
privati, di clan, di gruppo, di nazione e gli interessi generali del bene comune. È una
minaccia che rischia di far crollare le civiltà. Del resto le guerre che abbiamo vissuto e
da cui siamo circondati nascono da conflitti di interesse, dall'incapacità a capire che il
bene comune è il più alto dei beni.
Il terzo elemento è l'incertezza crescente su come si deve resistere al male, è il dramma
increscioso delle democrazie contemporanee e Giovanni Paolo II ne ha parlato più volte.
Resistere opponendo forza a forza? Resistere con la forza della legge? Che cosa significa
il principio dell'apostolo Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il
male» (Rm 12, 2 l)? Come è trasferibile questo principio in democrazia? E come si può
introdurre il perdono cristiano nella legge umana?
Ho cercato di delineare il contesto ecclesiale e sociale per ricordarci che, mentre siamo
sul monte con Gesù, dietro a noi c'è un mondo che attende; e noi possiamo renderlo
migliore con tanti piccoli gesti di preghiera, di perdono, di amore, di sacrificio. Il Cristo
trasfigurato ci chiama a medicare con il suo aiuto le malattie mortali di questa umanità.
«Ti consegniamo, Signore, le pesantezze e i peccati nostri e della Chiesa, sentendoci
solidali con le pesantezze e i peccati di tutti gli uomini. Sii tu per noi forza che vince
ogni paura, pace che supera ogni divisione, luce che dissipa le oscurità nostre e del
mondo.»
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IV MEDITAZIONE
Le tentazioni della pianura
Vogliamo soffermarci oggi sulle tentazioni della pianura, i difetti e i vizi della pianura,
quelli che riguardano le realtà più quotidiane. Questa meditazione, insieme alla
precedente, ci prepara anche a un momento importante degli esercizi, quello della
confessione sacramentale, del riconoscimento delle proprie colpe davanti a Dio, che ci
rinnova consentendoci di contemplare il volto risplendente di Gesù senza occhi accecati,
senza paure e senza confusioni.
Mi sembra utile partire da una delle numerose icone della Chiesa d'Oriente che
rappresentano la scena della Trasfigurazione. È l'icona di Teofane il Greco che risale al
XV secolo ed è chiamata «Trasfigurazione di Novgorod». È molto bella.
In alto si vedono tre figure: Gesù completamente bianco come la luce, sfolgorante come
il sole, alla sua destra e alla sua sinistra Mosè ed Elia. Si trovano su tre picchi rocciosi,
dove è difficile rimanere, a dire che lo stare sulla montagna non è un adagiarsi sull'erba,
bensì un resistere su picchi di roccia dura e arida; comporta quindi una fatica, un rischio,
richiede coraggio ed equilibrio.
È pure significativo guardare i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni. Colpisce che,
oltre ad essere spauriti e intimiditi di fronte alla luce abbacinante di Gesù, sono
addirittura sconvolti. Uno è precipitato all'indietro, rovesciato con la testa all'ingiù, e si
copre la faccia con le mani. Sembra dirci: non capisco niente, è troppo per me, non mi
raccapezzo, non riesco a guardare la gloria di Gesù. Probabilmente è l'apostolo Giacomo.
In mezzo sta un altro, forse Pietro, che è invece piuttosto pensoso e si copre la bocca con
la mano. Non guarda Gesù, ma riflette tra sé e sé: non so che cosa sta accadendo, il
Signore mi sopravvaluta, mi chiama al di, là di ciò che posso comprendere. È quindi
pieno di timore, pieno di paura. Mentre il terzo discepolo, Giovanni, ha più coraggio nel
guardare Gesù, pur essendo ancora timoroso. È inginocchiato, riverente, ma con la mano
sembra esprimere al Signore il desiderio di entrare nella sua luce.
Mi ha colpito il fatto che gli iconografi consideravano questa esperienza sublime e
sconvolgente nello stesso tempo. E io penso che la resistenza dei tre discepoli fosse
dovuta alle tentazioni della montagna, e insieme alle tentazioni e ai peccati della pianura.
Si sentivano, in altre parole, attratti dalla carnalità, dalla mondanità; sono l'immagine di
noi che, quando cerchiamo di entrare nella preghiera, ci accorgiamo della nostra povertà,
carnalità e mondanità e abbiamo bisogno della grazia di Dio per essere purificati e
illuminati.
Chiediamo allora al Signore di farci conoscere questi vizi della pianura, che sono dentro
la nostra psiche e rendono prigioniero il nostro cuore, impedendoci anche soltanto di
iniziare la salita sul Tabor. Quand'anche non fossimo coscienti di peccato grave,
saremmo sempre sotto la schiavitù e la pesantezza di tali difetti. Guardiamoli perciò in
faccia con molto coraggio.
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E lasciamoci guidare di nuovo da Gesù, richiamando l'inizio del vangelo di Giovanni:
«Mentre Gesù era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni
che faceva, credettero nel sue nome». La gente si entusiasma, lo riconosce come un
uomo straordinario, si sente attratta e tuttavia l'evangelista aggiunge: «Gesù però non si
confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse
testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo» (2, 23-25). La
frase è misteriosa, ma ci fa pensare: «Signore, tu sai quello che c'è in ogni uomo, quello
che c'è in me. Fammelo conoscere, perché possa comprendere la mia debolezza e
affidarmi totalmente alle tue braccia misericordiose».
Vi propongo di leggere qualche brano evangelico che descrive in quale modo Gesù sa e
rivela ciò che c'è nel nostro cuore.
«Dal cuore dell'uomo»
Anzitutto un passo di Matteo: «Poi riunita la folla, Gesù disse: "Ascoltate e intendete!
Non quello che entra nella bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca
rende impuro l'uomo!". Allora i discepoli gli si accostarono per dirgli: "Sai che i farisei
sono scandalizzati nel sentire queste parole?". Ed egli rispose: "Ogni pianta che non è
stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata. Lasciateli! Sono ciechi e guide di
ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!". Pietro
allora gli disse: "Spiegaci questa parabola '. Ed egli rispose: "Anche voi siete ancora
senza intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e va a
finire nella fogna? Invece ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende
immondo l'uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli
adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le
cose che rendono immondo l'uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende
immondo l'uomo"» (1 5, 10-20).
Nel verso 10 c'è la questione del puro e dell'impuro, cioè di quelle cose che, toccate,
rendono impura una persona. Gesù spiega alla folla: «Ascoltate e intendete! Non quello
che entra nella bocca rende impuro l'uomo». Rovescia in tal modo la prospettiva:
l'impurità non entra nell'uomo dal di fuori, bensì è dentro di lui e da dentro esce.
Particolarmente significativo in proposito è il verso 19: «Dal cuore infatti provengono i
propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze,
le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l'uomo, ma il mangiare senza
lavarsi le mani non rende immondo l'uomo». La vera impurità nasce dal cuore e da esso
provengono le azioni malvagie: sono proprio i vizi della pianura, cioè quelle
trasgressioni che sconvolgono il vivere sociale (omicidi, adulteri, prostituzioni, furti,
falsa testimonianza) e il vivere religioso (le bestemmie). Tali trasgressioni vanno
smascherate e superate prima dì salire sulla santa montagna; Pietro, Giacomo e Giovanni
sono così sconvolti di fronte alla visione di Gesù luminoso perché hanno ancora dentro
di sé pesantezze di questo tipo.
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Notiamo che nel testo parallelo di Marco si parla addirittura di dodici tentazioni negative
della pianura. L’elenco è più lungo e articolato che in Matteo in quanto, come sappiamo,
quello di Marco é l'evangelo del catecumeno, di colui che ha la prima istruzione
cristiana. È normale che nella prima istruzione ci si dilunghi sui vizi della pianura, propri
del catecumeno prima di cominciare il cammino verso la fede, e nei quali all'inizio può
ancora essere impigliato.
«Gesù soggiunse: "Ciò che esce dall'uomo questo sì contamina l'uomo [ci fa del male, ci
rovina, ci insozza, ci sporca, ci rende peccaminosi]. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore
degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie,
malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose
cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo » (Mc7,20-21).
Commento brevemente l'elenco di Marco.
Desideri disordinati
In questo elenco, che sarebbe interessante approfondire, c'è una sorta di ordine.
Anzitutto i peccati più visibili, esteriori, quelli che rovinano maggiormente e
visibilmente la convivenza umana: fornicazioni, adulteri (che rovinano la vita di
famiglia), furti, omicidi (che rovinano la vita sociale, il rapporto di fiducia tra le
persone). Quattro peccati che corrodono, rompono il tessuto sociale della famiglia, della
vita economica e della vita di relazione.
Seguono quattro tentazioni e atteggiamenti più interiori, che però sono in qualche
maniera molto pericolosi, in quanto radice degli altri: cupidigie, malvagità, inganno,
impudicizia. Tutto quel desiderare malvagio, tutto quel gusto di ingannare gli altri,
quella falsità interiore che poi si traduce in peccati esterni e, pur se non visibile, deturpa,
rovina, devasta il cuore della persona.
Che cosa si intende per impudicizia? Mentre fornicazione e adulterio si riferiscono ai
peccati sessuali esterni (rapporto sessuale con una persona non sposata e rapporto
sessuale con una persona sposata), l'impudicizia si riferisce probabilmente alla sensualità
non ben regolata, quindi a tutte le tentazioni di impurità che agitano il cuore, anche se
non si manifestano chiaramente in fornicazione e adulterio; sono le più invisibili, le
conosce chi le vive, ma scuotono dal di dentro l'ordine della purezza e della sensualità.
Così come le cupidigie, le malvagità e l'inganno rompono già dal di dentro quella
capacità di relazione fiduciosa, fedele, benevola, onesta. altruista che costituisce il
rapporto umano.
Davvero Gesù conosce profondamente il cuore dell'uomo, sia nei vizi che rovinano la
società al di fuori, sia nei vizi che rovinano la personalità al di dentro.
«Cupidigia» è un termine che la Bibbia usa molto sovente, e lo troviamo anche nel
Decalogo («non concupire»): è il desiderio disordinato e abbraccia la totalità dei desideri
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irragionevoli. È il desiderio di possedere anche contro il bene degli altri, di essere
assolutamente i primi, di vendicarsi. L’uomo è fatto di desideri, e possono essere
ragionevoli e buoni, come il desiderio di Dio, il desiderio di servire gli altri, di vivere
l'altruismo. Possono però essere desideri centrati su di sé. La cupidigia è il desiderio
autoreferenziale, per cui uno desidera ad ogni costo ciò che fa comodo a lui, magari
calpestando gli altri.
Il cuore indurito
Importante soprattutto è la terza serie di vizi elencati da Marco: «invidia, calunnia,
superbia, stoltezza». Se i primi otto vizi riguardano per lo più una società disordinata e
sfrenata, gli ultimi quattro toccano da vicino persino le comunità religiose, le parrocchie,
le Chiese; sono atteggiamenti che rischiamo dolorosamente di fare nostri. È vero che
nessuno di noi può dire: non cadrò mai nell'impurità, nella fornicazione, nell'adulterio.
Quante volte invece succede! Tuttavia gli ultimi quattro vizi si riscontrano più
frequentemente nella vita associata buona e sono rovinosi. Elencandoli per ultimi, Gesù
ci fa capire quanto conosce il cuore dell'uomo. Li riprendo brevemente.
- L’invidia è il disgusto per il bene altrui ed è di casa pure nel mondo clericale: quel
prete fa meglio di me, predica meglio di me, ha più seguito di me. E sorge così il
disagio, la critica, la maldicenza. L’invidia è purtroppo un peccato molto comune e
sottile, non palese come la fornicazione e l'adulterio; però inquina, è una specie di veleno
che, quando entra in una comunità, la rovina.
Ricordo due esempi terribili. Secondo i vangeli della passione, Pilato capiva che gli
avevano consegnato Gesù per invidia, perché faceva troppi miracoli, aveva troppo
successo, parlava meglio di molti altri. Perfino un pagano come lui intuisce che si tratta
di invidia. Il secondo esempio è la morte di Pietro a Roma. I documenti antichi sul
martirio dell'apostolo sembrano indicare che fu denunciato alle autorità pagane per
invidia di alcuni dei suoi.
Dei resto in ciascuno di noi scatta questo sentimento, quando vediamo un altro più
lodato e più ammirato. Siamo fatti così, è la nostra debolezza; il rischio è che può portare
a maldicenze. a calunnie, a denunciare l'altro, a parlarne male.
- E la calunnia, conseguenza diretta dell'invidia, inquina la comunione, in quanto è
capace di creare sospetto e paura. Molti santi sono stati vittime della calunnia. Ricordo
almeno il fondatore dei Missionari del Sacro Cuore, Daniele Comboni, recentemente
dichiarato santo da Papa Giovanni Paolo II. Fu il primo arcivescovo dell'Africa centrale
e ha dato inizio all'evangelizzazione di quel continente. Uomo di grandissime vedute e di
un coraggio straordinario, incorse in gravi calunnie: di nutrire un affetto disordinato per
una suora, di aver usato illegittimamente il denaro ricevuto per le elemosine e di altri
comportamenti riprovevoli.
- La superbia. Mi ha colpito molto la definizione di un ragazzo a cui avevano chiesto che
cos'è superbia e cosa vanità. Ha risposto: vanità è quando io continuo a dire: piaccio io a
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te? Superbia è quando dico: piaci tu a me? Il vanitoso ha bisogno di piacere agli altri, di
essere lodato e sostenuto, è interessato al giudizio che viene dato su di lui perché pensa
sempre di non essere all'altezza. E la vanità fa compiere molti errori. Il superbo é assai
peggio, vive una forma esasperata di autoreferenzialità. Ritenendosi superiore, pretende
che tutti lo riconoscano, non vuole essere giudicato da nessuno, giudica tutti e si mette al
posto di Dio. Non a caso sant'Ignazio di Loyola, nella seconda Settimana degli
Esercizi colloca la superbia al grado più alto dei vizi.
Nella Chiesa talora esiste questa superbia, questo gusto di essere padre-padrone, di
piegare gli altri alla propria volontà, di far valere l'autorità magari in modi imperiosi.
Purtroppo è diffusa in ogni ambito della convivenza umana la tentazione molto violenta
e sottile di impadronirsi del potere, magari di un potere spirituale sulle anime, che porta
a creare un gruppo di seguaci. Gesù invece ha sempre vissuto come colui che serve.
- Da ultimo Gesù elenca la stoltezza bene espressa da alcuni episodi biblici.
Uno è quello dei discepoli di Emmaus che, camminando con Gesù, gli raccontano
quanto è avvenuto a Gerusalemme, lamentandosi perché le promesse del Maestro non si
sono avverate. E Gesù dice loro: «O stolti e tardi di cuore a credere!» (Lc 24, 25).
Dunque la stoltezza è non fare i conti con Dio, agire come se Dio non ci fosse.
Ne parlano spesso i Libri sapienziali e i Salmi a cominciare dal Salmo 1: «Beato l'uomo
che non siede in compagnia degli stolti» (1, 1).
Ancora un altro esempio di stoltezza lo troviamo nella parabola di Luca al capitolo 12:
«La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: che
farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: farò così: demolirò tutti i miei
magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi
dirò a me stesso: anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati,
mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: stolto, questa notte stessa ti sarà
richiesta la tua vita» (vv. 16-20). Quest'uomo ha fatto i conti senza Dio, ha vissuto come
se Dio non ci fosse. È un difetto grande del mondo di oggi: vivere facendo
continuamente progetti, anche tecnologici, politici, dimenticando che la storia è nelle
mani di Dio.
Gli elenchi dei vizi della pianura sono molti nella Scrittura. Viene alla mente un testo
della Prima Lettera di Pietro (4, 1-4): «Poiché Cristo soffrì nella carne, anche voi
armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente
col peccato, per non servire più alle passioni umane, ma alla volontà di Dio, nel tempo
che gli rimane in questa vita mortale». Enuncia per così dire il Discorso della montagna:
essere morto con Cristo, vivere una vita come quella di Gesù, rompere del tutto col
peccato. Successivamente richiama i difetti della pianura: «Basta col tempo trascorso nel
soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle
crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli». Sa bene che i suoi
cristiani vengono da questo ambiente, hanno rotto con la mondanità che però sempre li
minaccia.
22
Conclusione
Vorrei concludere con tre indicazioni.
- La prima. Nessuno di noi dica: queste cose non mi riguardano. La psicologia del
profondo ci insegna che nei meandri del nostro cuore albergano tutti i vizi e domani
possiamo cadere nell'adulterio, nella menzogna, nella calunnia, nell'invidia, addirittura
nell'omicidio. Dobbiamo saperlo per non spaventarci e non smarrirci, dobbiamo sapere
di avere in noi queste inclinazioni, che sono sempre alla porta anche se per grazia di Dio
non abbiamo peccato.
- La seconda. Nessuno dica: mi accontento di tenere a bada i peccati e le tentazioni. Non
basta, perché se non voliamo alto cadremo, se non ci sforziamo di salire sul monte con
Gesù saremo sempre un po' schiavi dei nostri vizi. È legge spirituale inesorabile che se
l'uomo non tende più in alto cade più in basso; la tensione spirituale è tipica di ogni
cammino di ricerca evangelica.
Quante volte incontrando i diaconi negli anni del mio servizio episcopale a Milano
dicevo loro: il celibato, la verginità per il Regno può essere vissuta solo in un clima di
intensità spirituale, che permette di superare gli ostacoli e di non cadere nel tran tran
quotidiano.
- La terza indicazione. Per questo siamo chiamati a contemplare il volto splendente di
Gesù sul monte. Lui solo può darci le ali ai piedi con cui superare le tentazioni gravi e
sottili che riguardano l'intenzione profonda del cuore, perché la sua grazia è strapotente.
Giustamente san Giovanni della Croce insegna che la purificazione attiva è insufficiente
se non ci lasciamo trasformare, contemplando il volto del Crocifisso risorto, dalla
purificazione passiva, attraverso le diverse forme di via purgativa che il santo descrive.
Potremo allora raggiungere la purezza profonda di cuore, il distacco dal desiderio di
successo mondano, di essere applauditi, la vera umiltà.
Il Padre celeste ci renda degni di irradiare sul nostro volto la luce di Gesù trasfigurato e
risorto.
23
V MEDITAZIONE
La trasformazione di Gesù
Finora siamo rimasti un po' ai margini del mistero della Trasfigurazione. Abbiamo
piuttosto riflettuto sulle difficoltà dei discepoli a coglierlo, sia che fossero le resistenze
della montagna, sia che fossero i vizi della pianura. A questo punto dobbiamo finalmente
prendere coraggio e guardare ciò che avviene sul monte, quindi rivivere il mistero della
trasformazione di Gesù, sul quale la Chiesa ha riflettuto per secoli, mistero che ci
introduce nei disegni di Dio. E faremo, come vi ho indicato nella metodologia generale,
unalectio, leggendo i dati del testo, per poi procedere con la meditazione sui valori e sui
messaggi (meditatio), cosi da entrare nella contemplatio, nel dialogo con Gesù che si
manifesta nelle parole della Scrittura.
Rivivere il mistero
I vangeli di Matteo, Marco e Luca, considerati nel loro insieme, ci presentano,
nell'episodio molto ricco e molto articolato del Tabor, cinque elementi: Gesù stesso,
Mosè ed Elia, la menzione dell'esodo di Gesù a Gerusalemme, la nube luminosa, la voce
dal cielo.
* Anzitutto Gesù. Cosa si dice di Gesù? Si dice che si trasforma: «Gesù si trasfigurò
davanti a loro» (Mc 9, 2; d Mt 17, 2). Abbiamo già ricordato che il verbo greco significa
di per sé «si trasformò» ed è tradotto con «si trasfigurò» a indicare la particolarità di tale
trasformazione. L’evangelista Luca si esprime diversamente e parla del volto di Gesù:
«Mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto» (9, 29), cioè il suo volto divenne altro
mentre pregava. Il mistero del Tabor è mistero di preghiera, in cui Gesù prega e insegna
a pregare.
Il suo volto, continua Matteo, risplende come il sole. Durante i miei esercizi mi sono
accorto che l'esperienza della luce sul Tabor è straordinaria, perché il sole risplende in
maniera diversa più chiaramente che altrove: al mattino come rosso fuoco, a
mezzogiorno risplende come luce quasi bianca, alla sera assume altre sfumature ancora.
Ciò che gli apostoli hanno visto è appunto il trasformarsi del suo volto come il sole.
La trasformazione riguarda pure le vesti che diventano, dice Matteo, bianche come luce
e risplendenti di un tale biancore, dice Marco, che nessun lavandaio sulla terra potrebbe
renderle tanto bianche. Luca aggiunge una notazione: «Videro la sua gloria».
Dunque Gesù si trasforma, il volto diventa altro, risplende come il sole, i vestiti sono
bianchi come la luce, di una bianchezza sfolgorante, e appare nella sua gloria.
È un fatto del tutto nuovo, che gli apostoli non avevano mai sperimentato, ma che deve
averli impressionati profondamente, per cui fanno quasi fatica a descriverlo. Gesù nella
sua gloria effonde gioia, fiducia, letizia, sicurezza, serenità.
24
* Un secondo elemento dell'episodio. Sul monte ci sono, come abbiamo detto, Mosè ed
Elia. Parlano con Gesù e sono anch’essi avvolti di gloria (cf Lc v. 31). È interessante la
presenza di questi due personaggi, che non viene spiegata.
Forse ci saremmo aspettati altre figure bibliche: per esempio Isaia, profeta e scrittore
molto noto (Elia non ha scritto nulla) o Davide, il grande re d'Israele. In realtà, Mosè ed
Elia sono entrambi famosi per la teofania di Dio sul monte Sinai e inoltre rappresentano
la Legge e i Profeti, concretamente tutto quanto nelle Scritture riguarda Gesù. La mente
degli apostoli si allarga perciò dalla figura di Gesù alla totalità del Primo Testamento.
Ricordiamo in proposito l'ammonimento di Gesù ai due discepoli di Emmaus, delusi
nelle loro speranze: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non
bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E
cominciando da Mosè a tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a
lui» (Lc 24, 2527). Ancora in Lc 24 (v. 44) avverte gli apostoli: «Bisogna che si
compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Un altro brano interessante, tratto dagli Atti degli Apostoli, riguarda l'incontro del
diacono Filippo con l'eunuco etiope. Filippo, spinto dallo Spirito, lo raggiunge mentre,
sul suo carro da viaggio, ritorna da Gerusalemme dove si è recato per il culto, e lo
interroga: «Capisci quello che stai leggendo?». L’eunuco, che sta leggendo un passo del
profeta Isaia, ne chiede a Filippo la spiegazione: «Di quale persona dice questo: "Come
una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa,
così egli non apre la sua bocca'?». A partire dal brano di Isaia, Filippo gli annuncia allora
«la buona novella di Gesù». Il messaggio dei profeti racchiude dunque in sé,
anticipandolo, il messaggio di Gesù. Segue il battesimo: «Proseguendo lungo la strada,
giunsero a un luogo dove c'era acqua e l'eunuco disse: "Ecco qui c'è acqua; che cosa mi
impedisce di essere battezzato?". Fece fermare il carro e discesero tutti e due nell'acqua,
Filippo e l'eunuco, ed egli lo battezzò» (cf At 8, 36.38). Entra in Gesù pienamente.
E che cosa fanno Mosè ed Elia? Si intrattengono con Gesù: «Ed ecco apparvero loro
Mosè ed Elia che conversavano con lui»; «Apparve loro Elia con Mosè e discorrevano
con Gesù» (Mt 17, 3; Mc 9, 4).
In conclusione, la visione si allarga a Mosè ed Elia e ci fa intravedere in Gesù la sintesi
del Primo Testamento.
* Il terzo elemento dell'episodio, l'esodo di Gesù, è presentato più specificamente da
Luca: «Apparsi Mosè ed Elia nella loro gloria, parlavano del suo esodo che avrebbe
portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9, 3 1). Sappiamo quanto il termine esodo
sia carico di significato per gli ebrei: è l'uscita dall'Egitto, la liberazione del popolo,
l'evento che ancora oggi ricordano nella Pasqua, l'evento fondatore della loro identità.
Mosè ed Elia alludono all'esodo che Gesù avrebbe portato a compimento a
Gerusalemme; c'è quindi una pienezza nella vita di Gesù che ancora non si è compiuta
nella storia del popolo ebraico, ma che per lui si realizzerà a Gerusalemme.
25
È certamente un modo discreto di indicare la sua morte e risurrezione, il mistero
pasquale quale compimento del disegno di salvezza.
* Un quarto aspetto. I tre discepoli, rimasti finora solamente in contemplazione di quanto
è avvenuto, adesso vengono coinvolti nella nube: «Una nuvola luminosa li avvolse con
la sua ombra» (Mt 17, 5). È interessante ed è qualcosa di simile al fenomeno che ancora
oggi avviene sul Tabor. Siccome il monte si trova nella pianura di Esdrelon e fino al
mare non c'è impedimento, pur essendo abbastanza lontano, talvolta arrivano delle
nuvole dal mare e ci si trova immersi nella nebbia, che rimane tuttavia luminosa perché
c'è il sole. È il fenomeno che i discepoli vivono: una nube luminosa. Essa indica lo
Spirito Santo, quello stesso Spirito che, secondo il vangelo di Luca (1, 35), copre con la
sua ombra Maria. I discepoli entrano nell'ombra santa che è lo Spirito.
Sempre Luca racconta che i tre furono pieni di paura (cf 9, 34); è una nube che da una
parte è luminosa e dall'altra intimorisce.
* Il quinto elemento del racconto è la voce dal cielo.
Cosa dice la voce? L’espressione più completa è di Matteo: «Ed ecco una voce che
diceva: "Questi è il Figlio mio prediletto, che ha tutto il mio favore. Ascoltatelo (17, 5).
Marco riporta le stesse parole, senza l'aggiunta: «che ha tutto il mio favore» (9, 7). In
Luca si legge: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» (9, 35). E Pietro, dal canto
suo, riporta l'insieme della frase senza l'esortazione «ascoltatelo» (cf 2Pt 1, 17-18).
Viene subito spontaneo il paragone (l'abbiamo già ricordato all'inizio) con la voce del
Battesimo, voce del Padre, che scende dall'alto: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel
quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 17); «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono
compiaciuto» (Mc 1, 11); «Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto»
(Lc 3, 22).
Qual è la differenza tra le due proclamazioni Ambedue concordano nel sottolineare che
Gesù è il Figlio, il Figlio amato, il Figlio in cui il Padre si compiace. L’aggiunta nuova
della Trasfigurazione è: «ascoltatelo». A dire: lui sta veramente presentando al mondo
l'immagine del Padre.
Abbiamo riletto l'episodio nel suo nucleo centrale, che riguarda più direttamente Gesù,
tralasciando altri particolari.
Passando alla meditatio ci domandiamo: quali valori ci comunica il brano, quale
messaggio per noi?
Preannuncio della gloria
Il messaggio è talmente ricco che va elaborato a poco a poco. Ho pensato di esprimerlo
considerando l'evento da tre punti di vista: dalla parte di Gesù, dalla parte degli apostoli,
dalla parte della Chiesa.
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1. Che cosa rappresenta la Trasfigurazione per Gesù? - È una promessa
e un’anticipazione della sua gloria. Egli ha vissuto finora una vita molto umile, molto
povera, quasi trascurata dagli altri; certamente ha compiuto miracoli e la folla gli è corsa
dietro, ma a un certo punto si è ritirata perché le sue esigenze erano troppo alte. Gesù
dunque sta vivendo un momento di solitudine, di abbandono da parte della gente. Ed
ecco che il Padre interviene quasi a incoraggiarlo: è destinato alla pienezza della gloria.
Per Gesù il momento della Trasfigurazione mostra quella gloria che è già in lui, pur se
non è ancora manifestata.
- Inoltre per Gesù l'evento del Tabor è un sostegno di fronte alla passione che lo attendeè un aiuto alla sua umanità sapere che non sarà abbandonato nella sofferenza dei
Getsemani, perché gli è dato sul monte di prevedere la sua risurrezione e ascensione.
- Da ultimo questo episodio è rivelazione della Trinità. Gesù appare come il Figlio, la
voce del Padre lo dichiara Figlio e la nube dello Spirito lo copre della sua gloria.
Siamo di fronte a un testo nodale, chiave di tutti i vangeli, un testo di cui dovremmo
sempre nutrirci per allargare i nostri orizzonti su Gesù. Noi siamo troppo tentati di
lasciarci frammentare dalla quotidianità: facciamo una cosa, poi ne facciamo un'altra,
magari cose buone, però banali e ripetitive, e ci lasciamo sbriciolare, logorare dalla
piccolezza quotidiana. Persino i preti, i vescovi, i religiosi faticano ad alzare lo sguardo e
a vedere l'insieme del mistero di Dio, incalzati dalle urgenze, dai problemi, dalle
necessità. Gesù ci invita a contemplare il significato globale, a considerare come tutto
ciò che si compie in lui rivela il Padre, rivela la gloria di Dio, la forza della risurrezione.
È una rivelazione che ci permette di non rimanere schiacciati dagli avvenimenti, contenti
perché una piccola cosa va bene, depressi perché un'altra va male. La visione di fede ci
fa contemplare Gesù nei gesti quotidiani, perché in essi il Figlio manifestava il Padre,
nella gloria dello Spirito. È la rivelazione trinitaria dell'agire della Chiesa e dell'agire di
Gesù.
Concludendo: Gesù viene confermato nella sua missione. Certo la gente che lo ascoltava
poteva pensare: davvero Dio è con lui? Se è con lui, non dovrebbe permettere che sia
criticato e abbandonato. La risposta è nella voce dal cielo: questi è il mio Figlio
prediletto, in lui mi sono compiaciuto. È una rivelazione che la vita umile di Gesù piace
al Padre e rivela il Padre stesso.
2. Cerchiamo allora di richiamare il significato dell’episodio dal punto di vista degli
apostoli.
- Potremmo dire che per loro l'evento è sorgente di una grande consolazione
intellettuale. Anch’essi, come noi, venivano tentati di lasciarsi chiudere nelle critiche,
nelle mormorazioni, in tutto ciò che costituiva la quotidianità, poco rilevante; sul monte
sono invitati a leggere nelle piccole cose la grandezza del mistero di Dio che si rivela.
Agli occhi della fede, nulla più nella nostra vita è banale, niente è mediocre, niente ci
rende impazienti, perché cogliamo il senso profondo di tutto. E una consolazione
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intellettuale, nella quale si gode di capire il senso di tante prove, sofferenze, oscurità. Si
comprende che tutto ha un senso.
- Un secondo significato per gli apostoli è che si sentono sostenuti nelle loro
prove. Quando essi nel Getsemani vedranno Gesù soffrire, triste fino alla morte, si
ricorderanno che di lui il Padre ha detto di compiacersi. La sua debolezza e la sua
sofferenza sono per la vita, hanno un senso positivo.
E ancora i tre discepoli contemplano Gesù quale centro e vertice del disegno di Dio. È il
culmine del Regno, è colui nel quale si riassume il significato di tutta la storia, di tutto
l'universo. Tutto guarda a lui, tutto tende verso di lui, tutto si risolve e si sintetizza in lui.
- Inoltre gli apostoli comprendono che Gesù è il centro delle Scritture, porta a
compimento Mosè e i Profeti (l'abbiamo ricordato parlando di Mosè e di Elia).
Per questo la Chiesa primitiva non ha mai abbandonato le Scritture ebraiche, benché sia
stata una tentazione ricorrente. Marcione è stato uno dei primi a teorizzare l'opportunità
di dimenticare il Primo Testamento, ritenendolo pieno di pagine oscure e
incomprensibili. La verità terribile è che se la Chiesa si distaccasse dalle Scritture e dal
popolo ebraico, taglierebbe le sue radici, perché la Chiesa non è se non l'ebraismo
portato a compimento. Oggi, dopo tante persecuzioni e soprattutto dopo il tentativo
nazista di sterminare gli ebrei, comprendiamo meglio che la Chiesa non può fare a meno
del popolo ebraico, che è fondata su di esso, che siamo inseriti (come dice Paolo) in
questa radice santa, che c’è una continuità inscindibile tra popolo ebraico e Chiesa.
Confesso che, se ho scelto, dopo aver concluso il servizio episcopale a Milano, di vivere
a Gerusalemme, è proprio perché voglio esprimere il legame della Chiesa con Israele.
Noi cristiani non possiamo staccarcene, non possiamo ignorarne l'esistenza, non
possiamo dire: tutto comincia da noi. No, tutto comincia da loro; Gesù è un ebreo, è
l'ebreo che riassume la pienezza del suo popolo e noi siamo, attraverso di lui, inseriti in
questo popolo. Vorrei anche citare alcune frasi che scrisse Giovanni Paolo Il, per
l'intervista con Vittorio Messori pubblicata nel 1994, a proposito delle sue relazioni con
il mondo ebraico: « Torno col ricordo al periodo del mio lavoro pastorale a Cracovia.
Cracovia, e specialmente il quartiere Kasimierz, conservano molte tracce della cultura e
delle tradizioni ebraiche. A Kasimierz, prima della guerra, c'erano alcune decine di
sinagoghe, in parte grandi monumenti della cultura. Come arcivescovo di Cracovia, ebbi
intensi rapporti con le comunità ebraiche della città. Rapporti molto cordiali mi univano
con il suo capo: essi sono continuati anche dopo il mio trasferimento a Roma. Eletto alla
Sede di Pietro, conservo dunque nell'animo ciò che ha radici molto profonde nella mia
vita. In occasione dei miei viaggi apostolici nel mondo cerco sempre di incontrare i
rappresentanti delle comunità ebraiche. Ma un'esperienza del tutto eccezionale fu per
me, senza dubbio, la visita alla sinagoga romana [... ]. Durante quella visita memorabile
definii gli ebrei come fratelli maggiori nella fede. Sono parole che riassumono in realtà
quanto ha detto il Concilio Vaticano II, e ciò che non può non essere una profonda
convinzione della Chiesa [... ]. Questo straordinario popolo continua a portare dentro di
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sé il segno dell'elezione divina» (Giovanni Paolo Il, Varcare la soglia della speranza,
Mondadori, Milano 1994, pp. 111- 112).
Il nostro rapporto con gli ebrei non è insomma uguale a quello con altre esperienze
religiose, perché siamo parte spirituale di questo popolo. È un legame espresso
mirabilmente nella scena del Tabor: Gesù, Mosè, Elia che parlano familiarmente; tutta la
Scrittura ebraica parla di Gesù, della sua morte e risurrezione.
Dunque la nostra storia comincia da Abramo, non da Gesù. Da Adamo nella creazione di
Dio ma, quanto alla elezione, da Abramo. E nella Eucaristia recitiamo: «Abramo, nostro
padre nella fede». Non é poco.
- Infine l'episodio è per i discepoli una conferma della via umile del Vangelo. Le parole
di Gesù nei vangeli sono molto esigenti: il Discorso della montagna, il perdono dei
nemici, l'offrire l'altra guancia. l'essere misericordiosi con tutti, l'allietarsi di essere
poveri piuttosto che ricchi. Ebbene, il racconto della Trasfigurazione insegna che Dio
approva tutto ciò. Quel Gesù che ha pronunciato il Discorso della montagna è degno di
essere ascoltato perché rivela la parola di Dio.
È la conferma divina della straordinarietà del cammino evangelico, cammino di povertà,
di obbedienza, di misericordia, di perdono, di preghiera. Ed è insieme per i discepoli una
promessa e una promessa della gloria eterna. Infatti Pietro esclama: «È bello stare qui!»;
è la parola che diremo in paradiso, è la parola definitiva. Pietro avverte in qualche modo
che «qui» è anticipata la vita eterna, perché conosce Gesù, conosce il Padre nella grazia
dello Spirito, in una maniera nuova e straordinaria.
3. Quale messaggio per la Chiesa e per il cristiano? La Chiesa vede nella
Trasfigurazione di Gesù il proprio cammino di trasformazione dell'esistenza umana: è
chiamata a essere strumento della divinizzazione del mondo, per renderlo simile a Gesù
glorioso; ha la missione di far compiere a tutti il cammino di Gesù. Una missione voluta
da Dio, certa. approvata, sicura.
L’evangelizzazione consiste appunto nell'aiutare le persone a diventare come Gesù.
Per il cristiano - e lo vedremo meglio in seguito la Trasfigurazione è segno della
trasformazione battesimale. Non c'è altro scopo nella vita che diventare come Gesù.
Verso la contemplatio
Vi offro qualche suggerimento per entrare in dialogo con Gesù. Siamo invitati a
contemplare, a rileggere il brano e a chiedere di capirlo, a vivere in esso, ad abitare in
esso, perché ci nutra, ci consoli e ci educhi.
Guardando la gloria di Gesù trasformato, possiamo ringraziare con Gesù il Padre:
ringraziare per la Scrittura, per Mosè ed Elia, per la via stretta che il Signore ci ha
mostrato, per la gloria che ci prepara. Sentiremo allora che Gesù ci riscalda il cuore e
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conferma la nostra fede, e ci aiuta a contemplare la Chiesa come l'umanità trasfigurata in
Gesù.
Lasciamoci dunque attrarre dallo Spirito ne pregare, adorare, lodare, ringraziare, così che
ne segua una dedizione senza limiti al cammino di Gesù verso Gerusalemme, per essere
con lui, per morire e risorgere con lui nella pienezza della vita nuova.
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VI MEDITAZIONE
La trasformazione battesimale
La vita della Chiesa, la liturgia e la patristica ci invitano a leggere nel mistero di Gesù
Cristo trasfigurato la vicenda di ogni cristiano e la nostra personale. Dedichiamo dunque
la nostra riflessione al tema della trasformazione battesimale.
Al riguardo ricordo che in molti Paesi del mondo si è vissuta e si vive una drammatica e
straordinaria esperienza di quanto può valere il battesimo, perché tante persone hanno
rischiato e rischiano la loro vita per aver chiesto di essere battezzate.
Divido la meditazione in due parti: il battesimo e la Trasfigurazione; la trasformazione
battesimale in Rm 12 e in 1 Pt 1, 22-2, 3, così da avviarci alla lettura di passi battesimali
dei Nuovo Testamento.
Il battesimo e la Trasfigurazione
Come leggiamo il nostro battesimo nell'episodio della Trasfigurazione? Contemplando
tre simboli che la Chiesa greca ha valorizzato (il fulgore del volto di Gesù, la sua veste
candida, la nube) e ascoltando la voce.
* Anzitutto il volto di Gesù. È utile richiamare i versetto nel testo greco: «kaì
metemorphóthe émprosthen autón, kaì élampsen tò prósopon autoù hos o hélios», «e si
trasformò Gesù davanti a loro e rifulse il volto di lui come il sole» (Mt 17, 2a). È la
prima immagine.
Il verbo «rifulse» (élampsen) evoca subito che lo stesso verbo occorre ben due volte in 2
Cor 4, 6: «Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far
risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo». Il rifulgere
del suo volto nella Trasfigurazione richiama la creazione della luce e richiama la luce del
volto di Cristo risorto che si riflette sul nostro volto. Il battesimo è quindi l'illuminazione
del volto. Premendo l'etimologia, possiamo dire che «viso», in italiano, è connesso alla
parola «visione», che indica un modo di vedere la vita e non solo semplicemente
un'apparizione. In inglese «vision» si riferisce a un maniera complessiva di leggere il
reale, alla percezione positiva e programmatica di un cammino. Il battesimo è appunto
l'apertura degli occhi, che permette di considerare la vita e la storia come presenza del
regno di Dio.
* Continua il testo greco di Matteo: «tà dè himátia autoû eghéneto leukà hos tò
phós», «e le vesti di lui divennero bianche come la luce» (17, 2b). Nella simbologia
biblica le vesti bianche risplendenti indicano le opere del cristiano, le opere di cui parla
lo stesso Matteo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli
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uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei
cieli» (5, 16). Sono le opere luminose e inappuntabili dei santi, delle quali nessuno può
dire male. Il battesimo trasforma sia la visione che le opere. Anche nell'Apocalisse la
veste bianca è simbolo delle opere. Come esempio ricordiamo la Lettera alla Chiesa di
Sardi: «Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti» (cioè non
si sono resi colpevoli di opere malvagie e idolatriche); «essi mi scorteranno in vesti
bianche, perché ne sono degni. Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti» (Ap 3,
4-5). E di nuovo in 6, 11: «Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu
detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo A numero dei loro
compagni di servizio».
Il battesimo trasforma sia la visione che le opere, sia la mentalità che l'agire dei cristiano.
* Il terzo simbolo è la nube che avvolge i discepoli; entriamo così nell'azione dello
Spirito Santo che prega, ama e loda nel battezzato, spingendolo a un continuo
superamento di sé.
* Più importante ancora dei simboli è la voce del Padre: «Questi è il mio Figlio
prediletto», che occorre in vari modi e rimanda a quella proclamata su Gesù nel
battesimo in seconda persona: «Tu sei il mio Figlio prediletto».
Dunque nel battesimo il Padre dice a me: «Tu sei mio figlio prediletto». È la parola
creativa del Padre su di me, che mi fa figlio come Gesù, che vede in me Gesù. Prima che
io lo invochi «Padre mio, Padre nostro», Dio ha detto: «Figlio mio, io ti amo, tu sei per
me Gesù».
Ecco il battesimo, che ci obbliga a vivere da figli: «Perché siate figli del Padre vostro
celeste», dice Gesù nel Discorso della montagna (Mt 5, 45). Mi colpisce sempre molto
questa parola e quando prego il Padre Nostro aggiungo: posso dire così, perché tu prima
mi hai chiamato «figlio mio»; io dico: «Padre nostro, ti amo», perché tu mi hai detto:
«Figlio mio, tu sei mio figlio, io ti amo».
Il battesimo è l'inizio di tutto il cammino cristiano dell'essere figli come Gesù. E la
Lettera dell'evangelista Giovanni attesta che lo siamo realmente: «Quale grande amore ci
ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1). La
trasformazione comporta il vivere da figli riconoscenti e affettuosi, non da servi
diligenti. Ed è quindi superamento della legge, apertura alla lode, alla familiarità,
all'intimità, all'amore profondo verso Colui che ci ha generato.
Nell'evento della Trasfigurazione pregustiamo la trasformazione cristiana che avviene
nel battesimo.
La trasformazione battesimale in Rm 12 e in 1 Pt 1, 22-2, 3
Questa trasformazione battesimale viene espressa in diverse pagine del Nuovo
Testamento.
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* Cerchiamo di leggere attentamente le parole di Paolo nella Lettera ai Romani: «Non
conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi [metamorphoûsthe è il
verbo usato per la Trasfigurazione di Gesù: Gesù si è trasformato, anche voi
trasformatevi] rinnovando la vostra mente» (12, 2a). Ritorna il concetto di visione,
perché rinnovare la mente vuol dire rinnovare il modo di vedere la realtà. All'uomo che
non crede in Dio, all'uomo mondano ed egoista, tutte le cose appaiono come oggetto
della propria rapina, da desiderare anche contro il bene comune e di cui godere senza
alcuna responsabilità; egli considera il mondo destinato al conflitto, alla decadenza, al
disastro. La sua è una visione pessimistica, brutale, vendicativa. Chi invece ha la mente
trasformata vede il regno di Dio all'opera nel mondo e legge tutto in maniera positiva,
ottimistica, capace di giustificare il dono di sé e il servizio gratuito.
La novità battesimale - trasformatevi rinnovando la vostra mente -, è la conversione,
la metánoia (dalla parola greca noûs che significa mente).
«Per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (v. 2b).
Chi si è lasciato trasformare dal battesimo cerca la volontà di Dio, ciò che a lui è gradito,
ciò che è perfetto e dà gioia, che riempie il cuore, che dà sicurezza, che allarga i
polmoni, diffonde serenità. Ecco, la trasformazione battesimale.
Nella continuazione di Rm 12 troviamo molti esempi di trasformazione battesimale e vi
suggerisco di leggerli e meditarli.
Sono dapprima esortazioni intese a vincere ogni mentalità individualistica: non datevi
arie, siete parte di un corpo, lavorate insieme (cf vv. 3-8). Come è difficile vivere così
nella Chiesa! P, davvero dono di grazia.
Segue l'elenco di ben venticinque atteggiamenti battesimali (cf vv. 9-20): carità,
perdono, pazienza, zelo, ospitalità, preghiera e così via. L’ordine non è logico, è un
ordine del cuore. Paolo «si spreca» nel delineare il quadro del battezzato, toccando tutti
gli aspetti della vita relazionale.
* Nella Prima Lettera di Pietro leggiamo un altro modo di esprimere la trasformazione
battesimale (1 Pt 1, 22-2, 3). «Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza
alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi sinceramente di vero cuore,
gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè
dalla parola di Dio viva ed eterna.» Probabilmente il riferimento è alla formula
battesimale: «Io ti battezzo nel nome dei Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». La
parola di Dio rigenera non con una nascita naturale, bensì con una rigenerazione che
permette di obbedire alla verità. di amarci sinceramente, intensamente, di vero cuore.
Prosegue il testo: «Poiché "tutti i mortali sono come l'erba e ogni loro splendore è come
fiore d'erba. L’erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno".
È questa la parola del Vangelo che vi è stato annunziato». La parola battesimale che vi
ha rigenerato non può essere smentita da niente, rimane sempre, Dio non la ritirerà mai,
siamo sempre suoi figli, qualunque cosa facciamo.
33
«Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza,
come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la
salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore.»
Il battesimo dà il gusto di Gesù, il gusto della sua bontà, che fa crescere e fa desiderare
di nutrirsi del latte spirituale che è il Vangelo, per crescere nella maturità cristiana fino
alla pienezza dei doni di Dio.
Concludo ricordando che il battesimo è l'inizio del cammino, l'inizio in cui ci sentiamo
dire dal Padre: «Tu sei mio figlio come Gesù, io ti amo e ti vedo come Gesù».
Naturalmente il sacramento della cresima conferma tale figliolanza, che poi matura
nell'ordinazione presbiterale ed episcopale e nel sacramento del matrimonio: «Tu sei il
mio messaggero, tu sei il mio servitore, tu sei partecipe del sacerdozio del mio Figlio, tu
sei il mio testimone». Questo «tu» ripetuto nei vari momenti della nostra vita, stabilisce
un rapporto di sempre maggior intimità col Padre.
«Ti ringrazio, Padre, perché mi hai fatto tuo figlio senza mio merito, perché mi ami
tanto, perché vedi in me Gesù, perché dimentichi le mie debolezze e vuoi che io sia
simile al tuo Figlio.»
Lasciamoci guidare dallo Spirito Santo in una preghiera di contemplazione, di
adorazione e di lode.
34
VII MEDITAZIONE
Le dimensioni della trasformazione battesimale
È facile cadere nell'equivoco di ridurre la trasformazione battesimale alla dimensione
etica e ascetica: mi sforzo di cambiare la mia vita e di comportarmi meglio con gli altri,
di pregare di più. Certamente è importante la dimensione etica o ascetica, ma se ci
limitiamo a questa tutto si riduce allo sforzo personale e a un certo punto ci si stanca. In
realtà l'orizzonte è più vasto e possiamo parlare di quattro dimensioni della
trasformazione battesimale.
La pienezza della nostra trasformazione
1. La prima dimensione è appunto la trasformazione etica, cioè dei costumi, del modo di
vivere, di agire, di pensare, la trasformazione delle attitudini, degli atteggiamenti, dei
sentimenti. Essere figlio di Dio significa avere nuovi atteggiamenti, nuove abitudini,
nuovi costumi, usi, sentimenti, nuove reazioni. Lo abbiamo visto già in Rm 12, 2:
«Trasformatevi rinnovando la vostra mente» per discernere ciò che piace a Dio, la sua
volontà. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo», cioè: non agite come tutti
gli altri che ricercano il proprio tornaconto, interesse, guadagno, comodità. Altra è la
nostra via, l'unica che crea l'uomo vero. la donna vera, che forma quella civiltà
dall'amore senza la quale la terra è «un'aiuola che ci fa feroci», un luogo di
combattimento di belve.
2. C'è poi la trasformazione che chiamo mistica, o passiva, quella che avviene per
riflesso della luce che brilla sul volto di Gesù. Non siamo più noi a darci da fare, ma ci
preoccupiamo unicamente di lasciare brillare su di noi il volto di Gesù.
San Paolo ne parla in 2 Cor 3, 18: «E noi tutti, riflettendo come in uno specchio la gloria
del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria,
secondo l'azione dello Spirito del Signore». È moto bello e confortante questo versetto,
perché ci insegna che non siamo noi a darci da fare; è la gloria del Signore che si riflette
in noi. Da un certo punto in avanti non conta più principalmente il nostro sforzo, la
nostra ascesi, la nostra lotta contro le tentazioni, la nostra resistenza al male.
Così si spiega la forza dei santi. Non che avessero una dose di buona volontà molto più
grande della nostra; hanno lasciato che Gesù si rispecchiasse in loro. È bello per esempio
ciò che scrive santa Teresa di Gesù Bambino a proposito della sua «piccola via»: è Gesù
che la porta, è Gesù l'ascensore che la fa salire, che la trasforma a immagine di sé.
Un’altra espressione della trasformazione mistica è l'identificazione, che Paolo descrive
come propria esperienza in Fil 1, 2 1: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un
guadagno». E aggiunge in Gal 2, 20: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io
che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di
Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me».
35
Noi non dobbiamo avere paura di tale esperienza, quasi fosse riservata ai santi. Senza di
essa rischiamo di restare sempre nella palude, nella pianura, sempre con la nostra
fragilità che non ci consente di elevarci al di sopra della mediocrità e di una certa onestà
umana, importantissima, ma con la quale non si va molto avanti nel regno di Dio.
Non sarà dunque mia acquisizione la trasformazione cristiana, bensì sarà grazia.
3. Ricordo poi la dimensione escatologica. La trasformazione piena in Cristo si avrà alla
manifestazione del regno di Dio, a cui dobbiamo guardare. Noi spesso teniamo gli occhi
rivolti verso terra, come gli animali, e invece il nostro sguardo deve essere alto.
Cosi Paolo ammonisce la comunità di Filippi: «Molti, ve l'ho già detto più volte e ora
con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo»
(può accadere anche ai cristiani di essere nemici della croce di Cristo, pur portandola in
processione). «La perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il
loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della
terra.» t una religione carnale, che si accontenta di pratiche esteriori, di forme
superficiali e in parte superstiziose. «La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo
come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per
conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le
cose» (Fil 3,18-21).
È la pienezza della nostra trasformazione simboleggiata sul monte della Trasfigurazione.
Gesù darà una forma diversa (metaschematísei) al corpo della nostra umiltà
conformandolo al suo corpo di gloria. E già ora dal cielo ci attrae e trasfigura.
La civiltà medievale e le civiltà antiche in genere avevano radicato il senso della vita
eterna. Oggi viviamo in una civiltà che opera come se Dio non esistesse, come se la
morte fosse la fine di tutto, e non a caso si cerca in tutti i modi di esorcizzarla. Proprio
per questo non dobbiamo dimenticare la nostra meta e che ogni segno di malattia o di
vecchiaia è un segno del bussare di Gesù alla porta del cuore. Il battesimo ci assicura che
la nostra pienezza è nei cieli.
4. L’ultima dimensione é propria del presbitero, di colui che è chiamato ad avere
responsabilità di altri.
Lo sottolinea un versetto della Lettera ai Galati: «Figlioli miei, che io di nuovo
partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi» (Gal4, 19).
L’esperienza di san Paolo è tipica del prete, il quale soffre talora i dolori dei parto, per
far vivere Cristo Gesù in una persona. Questa intima sofferenza l'hanno patita tutti i santi
che hanno avuto responsabilità di altri.
Ho esposto quattro dimensioni della trasformazione cristiana e mi sembra opportuno
ritornare sulla prima, che è quella più ovvia: la trasformazione etica, del costume, degli
atteggiamenti, delle reazioni, dei sentimenti, dei modi di fare.
36
L’etica delle beatitudini
Tralascio di riprendere le pagine del Nuovo Testamento dove si descrivono gli
atteggiamenti del cristiano che ha rinnovato la sua vita secondo Cristo. Preferisco
riferirmi al quadro più provocante, più completo, più organico della trasformazione della
mente, del cuore e dei sentimenti in Cristo: il Discorso della montagna.
Evidenzio quattro aspetti del testo di Matteo (capitoli 5, 6 e 7), che partono tutti da una
beatitudine e sono indicativi di molti altri.
1. «Beati i poveri in spirito.» È l'atteggiamento di chi non si monta la testa, non pretende
di essere e di possedere chissà che cosa, di chi vive disinteressatamente. t un
atteggiamento straordinario, in un mondo nel quale normalmente si vive per interesse:
mi chiedi questo, ma che cosa mi dai in cambio? Cosa ne guadagno? Al contrario il
battezzato è capace di disinteresse, e se ha un ministero nella Chiesa lo vive
gratuitamente. Sappiamo infatti che sulla gratuità del ministero sta o cade la Chiesa. è
chiaro che il ministro avrà un suo sostentamento, e tuttavia non compie il suo servizio
per un guadagno o per accrescere il proprio potere. Gesù è esplicito: «Gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).
La grande sorpresa per le popolazioni dei Paesi di missione viene dal capire che il
missionario vive gratuitamente, non cerca niente per sé. Perché la gratuità è un riflesso
di Dio, è un riflesso dell'essere divino che si dona gratuitamente a noi, senza aspettare
niente in cambio.
Molto belle le esortazioni con cui si conclude l'insegnamento sull'elemosina, sulla
preghiera e sul digiuno; per tre volte si ripete: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti
ricompenserà» (Mt 6, 4. 6. 18). A dire: non aspettarti gratificazioni al di fuori, non
aspettarti lodi o riguardi particolari. Potrai forse averne, magari ne avrai in abbondanza,
ma proprio perché non li hai cercati.
Questo è il modo di essere di Gesù e qualifica un modo di essere nuovo.
2. Un secondo frutto della trasformazione etica lo leggo nella beatitudine dei miti: «Beati
i miti». Gesù stesso dirà: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29).
Miti sono quelli che non rispondono alla violenza.
È il comportamento evangelico di cui parla Gesù in Mt 5, 3 8: «Se uno ti percuote la
guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti
la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne
con lui due. Da a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle».
Questo comportamento può apparire inattuabile, perché presuppone la disponibilità a
perdere tutto. In realtà ci sono situazioni o condizioni nelle quali io posso esigere e
chiedere qualcosa proprio per amore della giustizia, però al fondo ci deve essere nel
cristiano la disponibilità a soffrire l'ingiustizia piuttosto che compierla, la disponibilità a
perdonare.
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Il cristianesimo non ci pone fuori della realtà, ci chiede ciò che è necessario per vivere
umanamente in questo mondo. Gesù non insegna atteggiamenti estranei all'esistenza
quotidiana; rivela come si può instaurare una civiltà dell'amore, una convivenza vivibile.
Sempre dal Discorso della montagna mi piace citare un altro versetto molto forte: «Io vi
dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre
vostro celeste» (5, 44-45).
La mitezza è la condizione battesimale di colui che è figlio.
Lo stesso Paolo, in una situazione di litigio comunitario, faceva appello a tale principio:
«È già per voi una sconfitta avere liti vicendevoli! Perché non subire piuttosto
l'ingiustizia? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?» (1 Cor
6, 7). Il cristiano può certamente possedere qualcosa e legittimamente difenderla. Sotto a
questo principio di giustizia umana c'è però una giustizia più profonda e capace anche di
cedere e di accettare l'ingiustizia, così che ne venga un bene maggiore.
Sono convinto che le conflittualità umane non saranno mai risolte se non ci si deciderà
ad accogliere l'immagine di uomo nuovo presentata dal Discorso della montagna.
3. «Beati i misericordiosi», beato chi si occupa efficacemente degli altri, dimenticando
se stesso. È una beatitudine più facile da comprendere. Molti giovani, anche non
credenti, fanno del volontariato, donando il loro tempo agli altri.
La misericordia cristiana dona con gioia, perché parte dal Vangelo, da Gesù, dall'amore
che Dio ha per noi. Così san Paolo, al termine del suo discorso a Mileto, afferma con
parole incisive: «In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono
soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: "Vi è più gioia
nel dare che nel ricevere!"» (At 20, 35). E in Rm 12, 8 ammonisce: «Chi fa opere di
misericordia, le compia con gioia».
4. La quarta beatitudine che vorrei ricordare è: «Beati i pacifici, beati gli operatori di
pace», beati coloro che, contrariamente a quanto spesso si fa, non seminano zizzania o
calunnia. Beati coloro che portano pace nelle comunità, che aiutano a superare le
litigiosità quotidiane e vivono per questo un'esistenza pacifica e senza affanni. t lo stile
di vita cristiana, è il comando di Gesù: «Non affannatevi» (Mt 6, 2 5), ed è forse il
comando che trasgrediamo di più. Siamo sempre affannati per noi, per gli altri, per il
futuro, per la paura di quanto può succedere. Ma Gesù continua: «Di tutte queste cose si
preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno» (v. 33). Qui
risulta nuovamente il nostro essere figli.
Le giuste previsioni sono lecite, non però quell'affanno che divora l'esistenza, non
permette di pregare, di rilassarsi, di trovare pace con se stessi e di portare pace agli altri.
5. Oltre le quattro beatitudini che ho ripreso, desidero evocare la bellissima esortazione
che leggiamo nel capitolo 7 di Matteo: «Non giudicate per non essere giudicati; perché
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col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate
sarete misurati» (vv. 1-2). Molte volte passiamo il tempo a giudicare, a misurare, a
tagliare i panni addosso agli altri, e ciò è segno di spirito non cristiano.
È davvero possibile?
Mi piace concludere tentando di rispondere a una domanda che sorge in noi, sempre un
po’ scettici e impazienti: davvero avviene questa trasformazione? E quando? Qualcuno
di noi potrebbe pensare: le pagine evangeliche sono bellissime, ma se guardo la mia
comunità, se guardo me stesso, vedo tutti i difetti, vedo divisioni, contese, contrasti,
litigi. Qualcun altro si chiederà: come mai tante guerre, tante violenze, tante stragi?
Dove sta di casa la trasformazione cristiana se il mondo va cosi male e la mia esperienza
mi fa sentire quasi sempre più la pesantezza della vita che non la gioia e la libertà
battesimale?
Vi offro qualche risposta agli interrogativi dello scettico e dell'incredulo che è in noi.
- In primo luogo, la trasformazione battesimale avviene perché avviene: ci sono i santi,
quindi avviene. Quando sono stato in Kosovo ho visitato i luoghi delle memorie infantili
di Madre Teresa di Calcutta, era figlia di una buona famiglia di Skopje, una brava
ragazza, ben educata, che frequentava scuole di alto livello, e amava cantare, recitare.
Una ragazza come tante altre. E il Signore l'ha trasformata attraverso il servizio ai più
poveri. La trasformazione battesimale, che c'era già in sostanza, è divenuta in lei matura,
luminosa, sfolgorante.
- Per lo più tuttavia la trasformazione avviene lentamente e senza che ce ne accorgiamo.
Dobbiamo accettare i tempi lunghi, progressivi.
E avviene di solito senza che l'interessato lo noti. Anzi l'interessato nota di più le sue
debolezze, quasi crescessero, le sue fragilità, le sue paure, le sue vigliaccherie e le sue
meschinità. Chi lo incontra si accorge invece che c'è in lui un crescendo di pace, di
equilibrio, di umanità.
Più difficile - e concludo - è rispondere alla domanda: la trasformazione avviene anche a
livello collettivo?
Certamente avviene nella Chiesa attraverso la moltiplicazione dei santi. Avviene pure
nella società, nel mondo, nella storia che Cristo ha redento col suo sangue?
Non si può negare che nel Vangelo si trovano frasi un po' enigmatiche e pessimistiche.
Per esempio in Luca, alla fine della parabola della vedova importuna, Gesù pone una
domanda a bruciapelo: «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla
terra?» (1 8, 8). Dunque non è affatto detto che il mondo cresca per il meglio. Anzi varie
pagine apocalittiche fanno pensare a un raffreddarsi della carità e a un moltiplicarsi
dell'iniquità.
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In ogni caso dobbiamo riconoscere che ci sono esempi di trasformazione molto chiari, e
se facciamo attenzione li vediamo. Penso a com'erano considerati cinquant'anni fa gli
handicappati, sempre chiusi in casa perché le famiglie se ne vergognavano. Oggi
l'handicappato è entrato nella vita pubblica, nella scuola, ha un peso nella legislazione. t,
un grandissimo progresso, è un segno dell'opera dello Spirito Santo.
Per quanto riguarda il tema della pace e della guerra, sappiamo benché l'Europa è vissuta
per secoli tra guerre nazionalistiche. Dopo l'ultima guerra mondiale, si sono compiuti
passi straordinari verso l'unificazione. La coscienza è molto mutata, sia nella Chiesa sia
nella società. E, pur essendoci gravi ambiguità nei fenomeni pacifisti, l'Europa è un
esempio di convivenza e mutua accettazione, indicata anche dalla rinuncia a battere
moneta propria, che era prerogativa assoluta di ogni Stato.
Indubbiamente lo Spirito Santo è all’opera dietro questi fatti; l'importante è intuire le
linee secondo cui lavora, che sono le linee del Discorso della montagna.
Se leggiamo gli eventi con la mente e con il cuore trasfigurati dalla grazia del battesimo,
possiamo riconoscere la trasformazione personale e quella collettiva - con tanti vai e
vieni, con sconfitte e resistenze -; la possiamo riconoscere in atto nella storia e
ringraziarne Dio.
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VIII MEDITAZIONE
La trasformazione eucaristica
Il tema su cui vogliamo meditare è un po' esigente: parleremo infatti
della trasformazione eucaristica del cristiano. Il titolo mi è stato ispirato da un libro su
Madre Teresa dove ho letto: «Oberata di problemi, assillata da innumerevoli richieste in
tutti i campi dell'emarginazione, con oltre cinquemila suore sparse nei vari angoli della
terra, non esitava a considerarsi la persona più felice dei mondo per il fatto di essere
continuamente a contatto con Gesù servito nei poveri. La vita attiva diventava il naturale
prolungamento dell'Eucaristia. Per lei la Messa durava tutta la giornata. Conduceva un
esistenza eucaristica. Tutti i giorni Madre Teresa trascorreva quattro ore in ginocchio
davanti al Santissimo Sacramento. Poi. finita l'adorazione, si immergeva nella
contemplazione di quel Dio che si è fatto piccolissimo a Betlemme, che si è annientato
sulla croce, che si è fatto pane per lasciarsi mangiare; quel Dio che si è fatto corpo in
ogni essere umano. Ecco la sua costante e viva contemplazione, vissuta con estrema
serenità, sempre con quel misterioso sorriso sulle labbra». Ho incontrato parecchie volte
Madre Teresa e ne ricordo il sorriso misterioso, velato da un po' di tristezza per tante
sofferenze, ma capace di comunicare pace e serenità.
Noi dobbiamo diventare come lei «Eucaristia» e soprattutto per il prete è fondamentale
imparare a relazionarsi al mistero eucaristico.
Tre i punti che desidero svolgere nella meditazione: l'Eucaristia e noi, l'Eucaristia e il
Tabor, noi per l'Eucaristia?
L’Eucaristia e noi
Il primo punto è semplice. L’Eucaristia è il centro della storia umana: tutta la storia
umana gira attorno ad essa, si svolge al ritmo dell'Eucaristia, va verso il suo compimento
secondo un dinamismo eucaristico. Il Concilio Vaticano Il afferma che l'Eucaristia è la
sorgente e il culmine dell'evangelizzazione, quindi sta all'inizio e alla sommità di tutto il
lavoro della Chiesa. E’ una cosa di cui si può parlare senza fine, proprio in quanto
connessa con i molteplici aspetti della vicenda umana.
D'altra parte l'Eucaristia ha pure una storia, o meglio molte storie, legate anche alla
nostra biografia personale. E’ significativo che il Papa abbia raccontato più di una volta
di sé e della propria biografia eucaristica. Ricordo per esempio alcune bellissime pagine
dell'enciclica Ecclesia de Eucharistia e del volume Dono e mistero, pubblicato in
occasione del suo cinquantesimo di Messa.
Sulla scia del Papa, ciascuno di noi può tracciare con gratitudine la propria biografia
eucaristica: che cosa è stata per me? Quando ho incontrato l'Eucaristia, interiormente e
non solo esteriormente? Come l'ho conosciuta: da bambino, forse nel servizio alla
Messa, nella prima Comunione, nelle comunioni successive, nelle adorazioni, nelle
processioni, nelle visite eucaristiche? Quali sono state le Eucaristie che maggiormente
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mi hanno trasformato o quelle che magari hanno generato in me dolore e resistenza?
Quali vicende mi hanno avvicinato sempre di più all'Eucaristia?
E’ importante prendere coscienza di questa storia.
L’Eucaristia e il Tabor
Nei giorni che ho trascorso sul Tabor ho intuito con chiarezza come l'Eucaristia sia
presente nell'evento della trasfigurazione.
E’ presente nello scambio misterioso di discorsi tra Gesù, Mosè ed Elia: «Ed ecco due
uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano del
suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9, 30-31).
Sottolineo due parole chiave del verso 31.
* Anzitutto la parola compimento, che indica la pienezza del disegno di Dio, la pienezza
dei tempi (ricordiamo Gal4, 4: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo
Figlio, nato da donna»); e questa pienezza del disegno di Dio ne a storia umana è
l'Eucaristia, che contiene in una estrema sintesi il mistero pasquale: passione, morte,
risurrezione, ascensione di Gesù.
* l’altra parola chiave del verso 31 è esodo, vocabolo che ricalca la parola
greca éxodos e che preferisco alla versione «dipartita». Due sono i motivi per cui si usa
la parola «esodo».
- In primo luogo perché è il nome, la cifra per Israele del grande atto redentore di Dio.
«Esodo» ricorda la schiavitù in Egitto, le piaghe d'Egitto, la notte di Pasqua, la fuga dal
faraone, il passaggio del Mar Rosso. E’ dunque una parola chiave per la Scrittura. Nel
Libro degli Atti degli Apostoli, Stefano descrive concretamente l'esodo dicendo: «Dio li
fece uscire, compiendo miracoli e prodigi nella terra d'Egitto, nel Mar Rosso, e nel
deserto per quarant'anni» (At 7, 36). E’ la ricchezza di eventi redentivi, che ancora oggi
costituisce la memoria storica del popolo ebraico.
- C'è un secondo motivo per cui il verso 31 di Luca usa il termine «esodo»: il mistero
pasquale, che ha la sua sintesi nell'Eucaristia, è il vero esodo di Gesù, è il suo partire,
come risulta molto chiaramente nel vangelo di Giovanni: «Prima della festa di Pasqua
Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo ai Padre, dopo avere
amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (1 3, 1). Il suo passaggio al
Padre mediante la morte e la risurrezione è sintetizzato nell'Eucaristia.
Gesù parla del suo esodo in altri momenti. Penso al discorso dell'ultima cena: «Io non
sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo e io vengo a te» (Gv 17, 11). Penso alle
parole rivolte da Gesù a Maria Maddalena: «Vai dai miei fratelli e di' loro: "Io salgo al
Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro"» (Gv 20, 17).
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Possiamo dire che tutta la sua vita è stata esodo verso il Padre.
-Vorrei fare però un passo oltre. Il passare di Gesù attraverso la morte non è un destino
fatale che gli capita addosso, ma è voluto.
Cito per esempio da Gv 10, 14~15: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le
mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la
vita per le pecore». E nei versi 17-18 ripete: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro
la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso,
poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho
ricevuto dal Padre mio».
L’esodo di Gesù è voluto, è il suo proposito, la sua scelta, la sua decisione, la sua
determinazione forte. Ciò appare nel vangelo di Giovanni e anche nei sinottici,
specialmente nelle predizioni della passione. Per esempio in Luca: subito dopo la
confessione di Pietro e subito prima del racconto della Trasfigurazione, Gesù dice: «Il
Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti
e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno» (Lc 9, 22). Egli affronta a
viso aperto il destino di morte, di rifiuto, di rigetto. E sempre in Luca (9, 44-45):
«Mettetevi bene in mente queste parole: "Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato in
mano agli uomini". Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così
misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su
tale argomento». L’esodo rimane per lungo tempo qualcosa di misterioso per i discepoli
e lo è pure per noi, che facciamo fatica a entrare pienamente nel mistero eucaristico, che
ci supera da ogni parte.
Soprattutto mi sembra importante citare nel capitolo 9 di Luca il verso 5 1, e lo leggiamo
in greco per cogliere la pregnanza delle parole. E’ il versetto che abbiamo scelto come
motto per il Sinodo diocesano di Milano, celebrato nell'arco di tre anni, dal 1992
al 1995. «Eghéneto dè en tô sympleroûsthai tàs heméras tês analémpseos
autoû»(«avvenne dunque che, nel compiersi i giorni della assunzione di lui, della salita
di lui, del suo esodo, del suo andare verso il Padre») «kaí autòs tò pròsopon
estérisen» («e lui la faccia indurì») « toû poreúesthai eis Ierousalém» («per andare a
Gerusalemme»). E’ una decisione forte, sofferta, profonda quella di Gesù di guardare in
faccia il suo destino a Gerusalemme e di andarvi per affrontare il mistero della sua
morte.
* Siamo così giunti all'ultimo passaggio della nostra riflessione: il proposito di Gesù di
dare la vita per noi è espresso in maniera piena e simbolicamente densa nell'istituzione
eucaristica, il momento in cui esprime con parole, segni, gesti, questa sua volontà di
offrirsi per nostro amore, per la nostra salvezza, di fronte al Padre, fino alle estreme
conseguenze.
«Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: "Ho desiderato
ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione"» (Lc 22, 1415). E’ la volontà ferma di Gesù. E ai versi 19-20: «Preso un pane, rese grazie, lo spezzò
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e lo diede loro dicendo: 'Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria
di me". Allo stesso modo dopo avere cenato, prese il calice dicendo: "Questo calice è la
nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi"». Parole, gesti, simboli, tutto
si concentra.
Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, viviamo l'esodo di Gesù, l'uscita volontaria di
Gesù da sé per noi, per nostro amore. Come dice Paolo: «Annunciamo la morte del
Signore finché egli venga» (cf 1Cor 11,26).
A me pare sia questo il senso del sacrificio eucaristico: la volontà irrevocabile,
irremovibile di Gesù di morire per la nostra salvezza. Una volontà, un proposito che
comprende tutta la sua vita - nascita, vita nascosta, vita pubblica; predicazione, miracoli;
e poi la passione, le torture, gli insulti, la flagellazione, la via della croce, la
crocifissione, la morte, la risurrezione e l'ascensione al Padre - e che è reso sensibile,
sacramentale, simbolo reale nell'Eucaristia, il simbolo semplicissimo del pane mangiato
e del sangue versato per noi.
Nel mistero della Trasfigurazione sul Tabor è già previsto l'esodo che si compirà a
Gerusalemme e quindi l'Eucaristia, tenerezza del Padre resa visibile nel Figlio che si fa
nostro cibo.
Naturalmente l'Eucaristia è un mistero. Noi accumuliamo parole per esprimere qualcosa
che è al di là dei nostro intendimento, chiedendo al Signore di trasformare in Eucaristia
la nostra vita.
Noi per l'Eucaristia?
Abbiamo contemplato l'Eucaristia per noi. E che cosa facciamo noi per l'Eucaristia, cioè
per Gesù che si dona irrevocabilmente nel mistero pasquale fino alla morte in croce?
1. Penso che innanzitutto non dobbiamo «fare» qualcosa - noi pensiamo istintivamente ai
gesti del culto -, ma lasciarci amare. Di fronte all'Eucaristia dobbiamo lasciarci salvare,
purificare da Gesù, lasciare che sia lui a fare tutto e ricevere la sua vita con gratitudine.
Non temiamo di stare in silenzio, di non trovare nulla da dire, perché è lui che ci parla,
che ci viene incontro con tutto il peso della sua decisione di amore che vuole riversare su
di noi; insomma lasciamo che Gesù sia Eucaristia, salvezza, perdono, pietà, tenerezza,
affetto, purificazione per noi. Lasciamo che Gesù sia Gesù.
Potremo allora vivere il culto spirituale e il culto eucaristico. Può apparire strano l'ordine
in cui li pongo, perché di solito partiamo dal culto eucaristico. Talora infatti si crede più
importante celebrare bene la Messa (per i preti), andare a Messa almeno la domenica
(per la gente) e adorare il Signore nel Santissimo Sacramento. In realtà mi sembra che
dall'Eucaristia ci venga anzitutto l'invito di Gesù a celebrare il nostro culto spirituale,
con l'offerta dei nostro corpo.
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2. Il culto spirituale. Ritroviamo qui il versetto rivelatore di san Paolo nella Lettera ai
Romani (12, 1), che avevo semplicemente letto e non commentato: «Vi esorto dunque,
fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio. E’ questo il vostro culto spirituale».
L’Apostolo dice che il nostro culto è anzitutto offrire i nostri corpi, non celebrare bene la
Messa. E i nostri corpi sono la nostra vita in tutta la sua fisicità, in tutta la sua estensione,
il giorno e la notte, la giovinezza e la vecchiaia, la salute e la malattia, il successo e
l'insuccesso, la gioia e il dolore, l'entusiasmo e la depressione. Tutto va donato quale
sacrificio vivente, offrendoci a Dio come Gesù si è dato a noi e al Padre. Molte persone
compiono, magari senza esserne consapevoli, questo culto spirituale quando vivono
onestamente, amano la famiglia, vivono con serenità la fatica del lavoro o dello studio, si
sacrificano, accettano con pazienza situazioni difficili e dolorose.
Sacrificio vivente, dunque, non semplicemente un rito; sacrificio santo, perché ci
purifica, ci toglie dalle connivenze col male; e sacrificio gradito a Dio.
Anche il nostro ministero è culto a Dio e lo ricorda chiaramente san Paolo all'inizio della
Lettera ai Romani: «Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il
Vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi» (1, 9). Il culto
dell'Apostolo è anzitutto e concretamente predicare il Vangelo. Leggiamo ancora
in Rm15, 16: «Mi è stata concessa da parte di Dio la grazia di essere un ministro di Gesù
Cristo tra i pagani, esercitando l'ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani
divengano un'oblazione gradita». Predicando vive il suo culto spirituale affinché i pagani
stessi possano offrirsi a Dio, con un'oblazione che è appunto l'Eucaristia vissuta.
Mi piace citare altri due brani. Il primo lo traggo dalla Lettera agli Efesini: «Fatevi
dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che
anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di
soave odore» (5, 1-2). «Camminare nella carità» vuol dire vivere il culto spirituale, il
culto della vita.
Il secondo brano lo troviamo nella Prima Lettera di Pietro, dove una serie di pensieri,
ricchi di nuovi simboli, ritorna sul tema dell'offerta. «Stringendovi a Cristo, pietra viva,
rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati
come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale.» La prima metafora è quella
del tempio: voi siete pietre del tempio di Dio, che ha la sua pietra angolare in Gesù. Il
paragone però si allarga e si trasforma: «per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici
spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (2, 45). Ogni cristiano, dunque, è
sacerdote; e su questo Pietro insiste nel verso 9: «Voi siete la stirpe eletta, a sacerdozio
regale, la nazione santa».
Questa è dunque la prima conseguenza dell’Eucaristia: l'offerta della vita quotidiana,
quella che facciamo ogni giorno nella preghiera mattutina: «Ti offro, Signore, nel cuore
di Cristo, tutte le azioni, le preghiere, le sofferenze, le gioie di questo giorno». Questo è
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il nostro culto fondamentale. Che poi si esprime nella carità, nell'amore, in tutte le opere
di misericordia.
3. Prendiamo così coscienza del valore del culto eucaristico. Anzitutto, celebrando e
partecipando alla Messa. viviamo l'esperienza del mistero pasquale, riviviamo la morte e
risurrezione di Gesù, ci disponiamo a lasciarla operare in noi, ad accettare le condizioni
e le implicazioni di questo evento unico e rivoluzionario che è la Pasqua immessa nel
tempo dell'uomo.
E, ancora, possiamo vivere con verità le pratiche che la Chiesa ha sviluppato nei secoli
in relazione alla Messa. Ricordo le processioni eucaristiche; la devozione semplice e
facile delle visite al Santissimo Sacramento; e, soprattutto, l'adorazione eucaristica, nella
quale esprimiamo la lode, la gioia, l'entusiasmo, la riconoscenza. Essa è nata in
Occidente da un bisogno istintivo di prolungare la celebrazione dei mistero. E non è
soltanto una qualunque preghiera silenziosa davanti al tabernacolo. Deve partire dallo
stato eucaristico di Gesù, dal suo essere immolato per noi, testimone del Padre fino alla
morte, perfetto adoratore di Lui, distruttore degli idoli, fonte di comunione perfetta degli
uomini fra loro e col Padre. Il Cristo adorato nell'Eucaristia è il Cristo che dona se stesso
fino alla morte, per la redenzione dell'uomo, che fa di noi un popolo solo e ci chiama alla
pienezza della pace messianica. E la contemplazione eucaristica deve nutrire in noi la
capacità di offrire la vita.
Dal monte santo della Trasfigurazione, luogo d'osservazione privilegiato, chiediamoci in
che misura viviamo questo culto spirituale, sacrificando noi stessi a Dio nel nostro
corpo, in unione con la pietra angolare che è Gesù.
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IX MEDITAZIONE
Conoscere intimamente Gesù per seguirlo
La meditazione odierna si compone di due parti, indicate nel titolo: Conoscere
intimamente Gesù per seguirlo. Ci proponiamo di riflettere dapprima sulla sequela,
partendo dalla parola «ascoltatelo!». E’ una parola chiave nel racconto della
Trasfigurazione e riportata identicamente dai sinottici.
Noi abbiamo già ascoltato Gesù nelle precedenti meditazioni. L’abbiamo ascoltato per
esempio nel Discorso della montagna, là dove ci ha parlato della trasformazione etica del
cristiano, che tende alla trasformazione mistica (identificarsi con lui, essere come lui) e a
quella escatologica (vederlo in eterno come egli è). Serbiamo inoltre nel cuore la parola
particolarmente forte e intensa dell'istituzione dell'Eucaristia.
Questo però non esaurisce il parlare di Gesù, che non è solo, diciamo cosi, generale - nel
Discorso della montagna mette sul tavolo precetti, consigli che tutti sono chiamati a
seguire (beati i poveri, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del domani). Oltre a
queste parole, importantissime perché danno il quadro della vita battesimale, ne
pronuncia di personali, per interpellare e scuotere ciascuno di noi, parole dette a me e a
nessun altro. Ogni persona, infatti, ha una chiamata, una vocazione, una missione, un
compito preciso.
«Seguimi!»
Possiamo allora richiamare alcune parole, che si riassumono nell'invito «seguimi!», e
segnano l'esistenza, cambiano la vita delle persone a cui sono rivolte.
* Anzitutto il testo di Mc 1, 16-20: «Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e
Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori.
Gesù disse loro: "Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini". E subito, lasciate le
reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e
Giovanni suo fratello, mentre Rassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro
padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono».
* Notiamo che in Mc 2, 13-14 Gesù dà degli insegnamenti generali: «Uscì di nuovo
lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava». Ma subito dopo
ascoltiamo una parola specifica: «Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al
banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi". Egli, alzatosi, lo seguì».
* Le chiamate personali di Gesù non sono tuttavia sempre accolte immediatamente.
Possono incontrare resistenza - come del resto incontra resistenza il Discorso della
montagna -, ed è normale. Per esempio in Mt 8, 21-22 uno dei discepoli dice a Gesù:
«Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre» e si sente rispondere:
«Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti». E’ una frase molto forte e il discepolo
capisce che il suo buon proposito si scontra con le esigenze della sequela.
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Ancora, in Lc 9, 61-62: «Un altro disse: "Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi
congedi da quelli di casa". Ma Gesù gli rispose: "Nessuno che ha messo mano all'aratro
e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio"».
Dunque ci sono delle resistenze, e talora occorrono anni per decidersi ad accogliere la
chiamata del Signore.
Il giovane ricco
Il «seguimi» può addirittura incontrare un rifiuto, come accade nel racconto del giovane
ricco (Mc 10, 17-22 e paralleli).
Egli pone al Maestro, mettendosi in ginocchio pieno di rispetto, una prima domanda
sincera che nasce da una retta visione di fede: «Maestro buono, che devo fare per avere
la vita eterna?». C'è in lui una disponibilità, un'apertura molto grande. Non è una persona
qualunque, ha una grande rettitudine, sente l'esigenza del cuore umano di relazionarsi in
maniera profonda con la verità di Dio.
Gesù gli risponde di osservare i comandamenti (cf v. 19). E il giovane replica: «Tutte
queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (v. 20). Gesù, allora, «fissatolo, lo
amò»: lo amava anche prima, ma qui esprime quell'amore personale che riflette l'infinito
amore di Dio per ciascuno di noi. Per questo gli chiede una missione nuova: «Una cosa
sola ti manca: va, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi
vieni e seguimi» (v. 2 1).
Il giovane comprende benissimo che gli viene affidato un compito, che gli è chiesto non
soltanto di dare quello che ha ai poveri, ma di condividere la sorte del Maestro, la sua
vita di predicatore itinerante, contestato e respinto. L’invito di Gesù lo sconvolge e «se
ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (v. 22). Avrebbe potuto dire: «Ci penserò,
rifletterò»; oppure: «Dammi la forza di seguire questa tua parola». Invece si chiude in se
stesso perché ha molti beni. Quindi la tristezza ha invaso il suo cuore; ha intuito che,
nonostante l'amore con cui Gesù l'ha fissato, egli non riesce a giocarsi per paura, per
viltà, per pigrizia.
E’ un episodio drammatico che ci fa pensare. Ciascuno di noi ha molti beni, anche se
non ha un conto in banca: sono i talenti che vorremmo esprimere, i progetti che
facciamo, le amicizie, e, al fondo, la nostra autonomia, il voler disporre liberamente di
noi stessi. Quando Gesù ci chiede di obbedire alla sua parola, tutto è messo in gioco, non
per essere buttato a mare, ma per venire valorizzato nell'obbedienza alla parola dei
Signore.
Domandiamo a Gesù la grazia di comprendere fino in fondo la serietà della parola con
cui ci interpella.
Il paradosso del non-evento
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Nella seconda parte di questa meditazione cerchiamo di scoprire qual è il segreto che
permette di mettersi in gioco nella sequela di Gesù.
Scrive sant'Ignazio nella seconda Settimana degli Esercizi, prima di iniziare le
meditazioni sui diversi misteri della vita del Signore: «Chiedere di conoscere
intimamente il Signore, perché lo ami e lo segua di più» (n. 104).
E’ la «conoscenza intima» di Gesù che ci abilita a seguirlo, e tale conoscenza nasce dalla
contemplazione prolungata e amorosa della sua esistenza fra noi. Purtroppo non
possiamo ripercorrerla lungo tutto l'arco del suo svolgersi. Ho scelto allora di fermarmi
con voi su un tempo che mi sembra parlare in modo particolare alla nostra quotidianità: i
trent'anni della vita di Gesù a Nazaret.
Collocheremo ancora una volta la nostra contemplazione nella sfera di quella luce del
Tabor che è il centro irradiante dei nostri esercizi - in relazione ad essa abbiamo già letto
episodi evangelici fondamentali, come il battesimo di Gesù e il Discorso della montagna
-, cosi come faremo nelle successive meditazioni, guardando Gesù nella sua passione (la
terza Settimana degli Esercizi) e nella sua gloria di Risorto.
Due sono gli eventi legati a Nazaret. Il primo è l'incarnazione del Verbo, l'evento nel
quale l'Essere si fa storia e che dà senso a tutta la storia umana. Il secondo evento di
Nazaret è il non-evento, ossia il fatto che per trent'anni non succede nulla. Se il primo è
certamente straordinario, il secondo ci interpella in maniera molto forte, perché tocca da
vicino la nostra vita quotidiana.
Spesso, almeno finché abbiamo buona salute e lavoriamo, ci sentiamo incalzati da
occupazioni e urgenze che a nostro parere sono importanti. Il tempo non basta mai. Se
però guardiamo la vita di Gesù a Nazaret cercandovi fatti o azioni di qualche rilievo,
essa ci può apparire insignificante, una vita in cui non si sa come arrivare a sera, in cui il
tempo non passa mai. Nasce dunque la domanda: come armonizzare il tempo nella sua
duplice valenza: il «tempo che non basta mai» e quello «che non passa mai»? E
soprattutto: quale senso dare al tempo «che non passa mai», un'esperienza che anche a
noi può capitare di vivere?
Vi propongo allora di contemplare lo scorrere dei giorni a Nazaret, guardando,
ascoltando, mescolandosi alla vita, sentendo i rumori, i suoni, gli odori, le luci e i colori,
come insegna sant'Ignazio.
Tre i momenti di riflessione: i personaggi, i testi biblici (pochi ma significativi), i nostri
atteggiamenti.
I personaggi. Contempliamo anzitutto Maria e domandiamole in preghiera: «Tu, o
Maria, che hai vissuto l'oscurità senza eventi di Nazaret, aiutaci a comprendere come
l'hai vissuta giorno dopo giorno, ora dopo ora».
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La vediamo mentre guarda con riverenza amorosa il Figlio; è il suo segreto, non
conosciuto da molti, e vi si immerge senza aspettarsi nulla. Come una madre gioisce per
il bambino che cresce, ella guarda il suo Figlio, che è portatore del mistero divino.
Quindi Maria contempla serenamente, tranquillamente, senza nervosismo, senza fretta, e
attende, perché sa che qualcosa accadrà. Certamente prega molto, sia nei momenti
dedicati alla preghiera sia mentre lavora; prega che venga il regno di Dio, prega
ripetendo le parole del Magnificat e, pur se non le vede avverarsi, le ripete perché vive di
fede.
Utilizzando un'espressione psicologica, possiamo dire che è presente al presente: vive il
presente con semplicità, abbandono, senza pretese e senza lamenti. Non chiede
nemmeno al Signore: fino a quando? Aspetta con attesa amorevole, godendo di quel
piccolo e grande presente che ha: Gesù, il suo sposo, le sue occupazioni quotidiane. Il
suo vivere così è già regno di Dio, salvezza in atto.
Contempliamo inoltre Maria evocando due testi del Vangelo. Dopo i racconti della
natività a Betlemme, Luca annota: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose
meditandole nel suo cuore» (2, 19). Continua a osservare, conservare, meditare. E in
2,51 Luca ripete che, dopo il ritorno a Nazaret dal pellegrinaggio a Gerusalemme, la
madre di Gesù «serbava tutte queste cose nel suo cuore». Non capisce del tutto gli
eventi, ma li accetta.
Il secondo personaggio da contemplare è Giuseppe,uomo giusto, per il quale la volontà
di Dio era sempre la norma, e uomo pio. Prega diverse volte al giorno secondo l'uso di
ogni buon ebreo; lavora a Nazaret e probabilmente anche fuori. Ci sembra di
vederlo mentre va avanti e indietro per costruire la cittadina di Sefforis, distante da
Nazaret sei chilometri.
Compie insomma azioni semplicissime: prega, insegna il lavoro a Gesù, si affatica come
tutti i carpentieri.
Anche Gesù vive così: prega nelle ore previste dalla tradizione ebraica, nella sinagoga al
sabato e nelle festività; lavora, e il suo tempo non gli sembra sprecato in un'attività priva
di significato pastorale ed evangelizzatore; obbedisce e, sicuramente, attende un segno.
Noi siamo sconcertati al pensiero che non gli sia dato alcun segno nell'età in cui di solito
si prendono decisioni importanti. Di fatto ci vorranno anni prima che giunga il segno
della predicazione del Battista. Finché non viene, sta in pace.
Naturalmente non è del tutto monotona la vita del villaggio di Nazaret. Gesù vive le
diverse esperienze della quotidianità: quella dei giorno e della notte, con la varietà delle
luci, delle occupazioni, degli incontri; quella delle stagioni, con le differenze di vita che
comportano; quella degli eventi locali - nascite, matrimoni, amicizie, malattie, funerali -;
quella dei tempi sacri con i pellegrinaggi a Gerusalemme.
Vive dentro l'esistenza quotidiana nei suoi tempi e nei suoi spazi e la accetta.
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I testi. Ricordo due testi del vangelo di Luca: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno
di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (2, 40); «Tornò a Nazaret e stava loro
sottomesso [... ]. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»
(2, 51-52).
Interessante questo crescendo molto semplice, molto naturale e spontaneo.
Cresceva in sapienza presso gli uomini. E’ ragionevole immaginare che a Nazaret fosse
stimato sempre più come un saggio, a cui si poteva ricorrere per consiglio, dal momento
che sapeva dire le parole giuste. Soprattutto cresceva in sapienza di Dio, nel senso che
imparava a cogliere la presenza di Dio in tutti gli eventi, e ciò anche grazie alla lettura
regolare delle Scritture.
Cresceva in età. Strana questa annotazione, perché è abbastanza ovvia. A mio giudizio,
l'evangelista vuole indicare che la giornata di Gesù aveva un senso. Cresceva davanti
agli uomini, che vedevano il valore della sua vita, la sua bellezza. la sua umiltà e
semplicità. Cresceva davanti a Dio, in quanto camminava verso il tempo stabilito, verso
la pienezza del tempo, attendendolo con pazienza.
Cresceva in grazia. Davanti agli uomini, agli occhi dei quali diventava via via più
amabile per le opere buone che compiva. Davanti a Dio, perché faceva sempre il suo
beneplacito; cresceva quindi in grazia e in amore.
I testi aggiungono: «Era sottomesso», a dire che riconosceva le istituzioni umane, le
rispettava, le onorava senza pretendere nessun privilegio.
Sarebbe bello interrogare Gesù, stando con lui in preghiera sul Tabor: come leggi ora
quei trent’anni di esperienza così monotona e solitaria? Forse risponderebbe: sono lieto
di avere vissuto quei trent'anni nei quali ho meditato a lungo sulla religiosità e sulla vita.
Di fatto molti discorsi pronunciati da lui più tardi sono probabilmente da riferirsi alle sue
riflessioni ed esperienze giovanili, quando contemplava la natura, osservava gli eventi
familiari e quelli sociali. penetrandoli con occhio amoroso e sagace.
Erano dunque anni di preparazione, non tempi morti. Pur se non aveva fretta di
esprimersi, valutava tutto in silenzio: eccessivo peso delle osservanze esteriori, formalità
nell'osservanza della Legge, fatica della gente, distanza dei farisei dal popolo, il valore
della misericordia, della fedeltà, del perdono rispetto alle pratiche religiose esterne.
I nostri atteggiamenti. Infine sottolineo quattro atteggiamenti che, a partire dalla sua
esperienza a Nazaret, Gesù sembra raccomandarci.
- Il primo è quello della presenza al presente. Noi siamo sovente protesi al futuro, a
quanto verrà. Talora è necessario, e tuttavia l'ansietà per il domani non deve mai
distoglierci dal presente, che allora può anche essere luogo di serena programmazione.
C'è un imperativo molto saggio e ricco di contenuto nell'Imitazione di Cristo: «Age quod
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agis!». Scrivi, canta, leggi, mangia, gemi, prega, ma fa’ ciò che fai. E’ una ricetta di
salute psichica, e sappiamo che gran parte delle nevrosi hanno origine dal non sapersi
concentrare sul presente, rimuginando continuamente su ciò che è stato e su ciò che sarà.
Gesù stesso esorta a non affannarci per il domani perché a ogni giorno basta il suo
affanno (cf Mt 7, 34). A Nazaret egli ha vissuto tale atteggiamento nell'abbandono totale
all'ora dopo ora, al minuto dopo minuto, spogliandosi di ogni preoccupazione. Era infatti
libero da tutto, anche se le ansietà sul futuro avrebbero potuto, almeno esteriormente,
tentarlo: che cosa mai aspetti? Buttati, fatti valere.
Gesù vive nel silenzio la presenza al presente con pienezza e non con rimpianto.
- Il secondo atteggiamento è l'attesa serena. Siamo sempre in attesa di qualche cosa, dal
momento che il nostro presente è aperto sull'avvenire, non chiuso in se stesso. Si tratterà
di eventi o cambiamenti che desideriamo per la nostra vita o che dovremo affrontare;
l'importante è saper attendere con pace. San Paolo ci esorta ad aspettare con amore la
venuta di Gesù ed è questa l'attesa vera della nostra vita, che permea di serenità ogni
nostra attesa.
- Il terzo atteggiamento raccomandato da Gesù è la pazienza, la capacità di sopportare i
tempi lunghi senza esserne snervati. E’ una virtù poco esaltata, ma davvero preziosa e va
domandata come grazia allo Spirito Santo.
- Da ultimo, dobbiamo avere la coscienza del dono di Dio che è l’oggi, del dono dei
fratelli con cui camminiamo seguendo il Signore. Da tale coscienza sgorgano
lagratitudine, la lode, la riconoscenza tutti atteggiamenti che sovente dimentichiamo,
riservandoli per avvenimenti eclatanti o inattesi. La gratitudine per il presente che
viviamo va invece coltivata in ogni momento.
Conclusione: il miracolo del presente
A modo di conclusione leggo alcuni brani di lettere scritte da una giovane ebrea
Olandese, Etty Hillesum, morta a ventinove anni nelle camere a gas di Auschwitz il. 30
novembre 1943. Questa ebrea, non praticante, incontra gradualmente il mistero di Dio e
tanto più lo adora quanto più entra nelle sofferenze del suo popolo.
Le lettere sono degli anni 1942-1943, quando Etty si trovava nel campo di Westerbork
prima del trasferimento in Polonia. Scritte con un distacco, un umorismo, una serenità
tali da stupire, mostrano come questa giovane donna ha vissuto il suo presente in una
pace, una pazienza, un'umiltà incomparabili.
Scrive per esempio a un'amica: «Marietke, scriverai presto a Etty come stai? Sei allegra,
sei triste, corri di qua e di là, stai tranquillamente a casa? E che dice Ernst, che dice
Amsterdam, e papà Han che fa, e Kàte va a letto presto? Io cammino nel fango tra le
baracche di legno, e allo stesso tempo cammino per i corridoi di quella che da sei anni è
la mia casa; ora sono seduta a un tavolino disordinato in un piccolo ambiente rumoroso,
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ma sono anche seduta alla mia cara, disordinata scrivania. Molte persone mi dicono:
"Non vogliamo ricordare niente della vita di prima, altrimenti non saremmo in grado di
vivere qui". Mentre io posso vivere così bene qui proprio perché ricordo perfettamente
ogni cosa di "prima' (per me non è neppure un "prima"), e intanto la mia vita continua».
Interrompe la lettera e la riprende nel pomeriggio: «La mia anima è in pace, Maria, oggi
mi sono state assegnate quattro baracche di malati, una grande e tre piccole; lì devo
controllare se qualcuno ha bisogno che gli siano spediti viveri o bagagli da fuori. La cosa
più bella è che ora ho libero accesso a quasi tutto il complesso dell'ospedale, e a quasi
tutte le ore del giorno.
«Prendi queste poche parole come vengono, mia piccola Maria, qui non si riesce a
scriver molto, le lettere che ti mando nei miei pensieri sono ben più lunghe di questa. Io
sto bene e sono contenta, in fondo vivo qui proprio come ad Amsterdam, a volte non mi
accorgo neppure di essere in un campo. E voi tutti mi siete tanto vicini che non mi
mancate neppure. Jopie è un caro compagno. Di sera assistiamo al tramonto del sole, che
si tuffa nei lupini violetti dietro il filo spinato. E probabilmente ritornerò ancora per la
prossima licenza. Scrivi presto. Ciao!» (Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi,
Milano 2001, pp. 65-66).
Le sue lettere sono davvero intrise di serenità del presente. Un presente di per sé
terribile, drammatico, eppure da lei vissuto con pace e coraggio che traspaiono da ogni
riga.
«Christine, sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assoluto inferno. Stamattina
presto, la fila dei vagoni merci ha fatto il suo ingresso nel campo fangoso. Io stavo da
una parte, e per una stretta apertura in alto, in un vagone, ho scoperto il cappello
sgualcito e gli occhiali di mio padre, il cappello di mia madre e il magro viso di Mischa.
E ora li accompagnerò nella loro via crucis, sono riconoscente di essere qui e di poter
alleviare la loro vita in tante piccole cose sebbene in questo momento non ci sia proprio
nulla da alleviare. Qui è una totale catastrofe. Nelle ultime ventiquattr'ore il campo è
stato inghiottito da grandi ondate di ebrei. Ma devo dire che papà, la mamma e anche
Mischa mi hanno sbalordita. E vero che papà è completamente indifeso, che in queste
ore il suo colletto è diventato troppo, troppo largo e che la sua ispida barba grigia fa
tanta pena. Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavamo per
ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel libro di Giosuè. Ora stanno in
una delle grandi baracche, un magazzino umano stipato al massimo dove per ogni tre
persone ci sono due strette cuccette di ferro, nessun materasso per gli uomini, nessuna
possibilità di riporre qualcosa da qualche parte, aria pesante, bambini che urlano, la
peggior miseria immaginabile. Farò il possibile per aiutarli a superare queste difficoltà,
personalmente mi sento molto forte e piena di coraggio anche se a volte tutto diventa
buio e incomprensibile. [... ] Spero di trovare un letto stanotte, ogni millimetro quadrato
è preso. La prossima volta scriverò di più. Prega un pochino per noi» (Ibidem, pp. 6869).
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Alla stessa Christine è indirizzata l'ultima cartolina, che Etty riuscì a buttare fuori del
treno che la portava ad Auschwitz, prima di lasciare per sempre il territorio olandese,
con la chiara consapevolezza del proprio destino: «Christine, apro a caso la Bibbia e
trovo questo: "Il Signore è il mio alto ricetto". Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di
un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La
partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato
appositamente per noi dall'Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma
molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre
buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse
avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro.
Etty»(Ibidem, p. 149).
E’ quel miracolo del presente che la grazia può compiere anche in situazioni al limite
dell'assurdo, e mostra come il regno di Dio viene proprio nelle circostanze più
impensate.
Preghiamo la Madonna affinché ci ottenga di cogliere il miracolo di Dio in tutte le ore
della nostra vita.
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X MEDITAZIONE
Il silenzio del Padre
«O Dio Padre nostro, aiutaci a entrare nelle sofferenze di Gesù, nel suo cuore addolorato,
trafitto, schiantato dai nostri peccati, per poter conoscere la sua misericordia, la sua
bontà, e per crescere nel suo amore. Te lo chiediamo, o Padre, per Cristo nostro Signore,
nella grazia dello Spirito Santo.»
Stiamo cercando, dal monte della Trasfigurazione, di contemplare qualche mistero della
vita di Gesù. Il Tabor, come ho detto, è anche geograficamente in una posizione centrale,
privilegiata per vedere da una parte Nazaret, dall'altra il lago di Tiberiade con le città
dove Gesù predicava, poi la Samaria, la valle del Giordano, la via verso Gerusalemme.
Ora meditiamo, proprio dal monte santo, sulla passione, e lo faremo secondo
un'angolatura particolare: quando il Padre sembra tacere.
Le parole del Padre
Anzitutto ricordiamo che il Padre di Gesù parla nei vangeli. Poche le parole, ma
decisive, incoraggianti e illuminanti. Parla al battesimo di Gesù e su Gesù: «Questi è il
mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3, 17). Parla nella
Trasfigurazione: «Questi è il mio Figlio prediletto, l'eletto. Ascoltatelo». Tutte parole di
grande conforto per Gesù e per noi: ci manifestano la volontà di Dio, dichiarano che
Gesù rappresenta veramente il mistero del Padre tra noi e che le sue parole (il Discorso
della montagna, l'istituzione dell'Eucaristia) sono vere, da ascoltare, da prendere sul
serio.
Pur se il IV vangelo non riporta né il racconto del Battesimo né quello della
Trasfigurazione, Giovanni ricorda tuttavia una parola del Padre, pubblica e misteriosa.
Quando si avvicinano gli ultimi momenti della sua vita a Gerusalemme, Gesù dice:
«"Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire: Padre, salvanti da quest'ora? Ma per questo
sono giunto a quest'ora. Padre, glorifica il tuo nome!". Venne allora una voce dal cielo: "
L’ho glorificato e ancora lo glorificherò!' La folla che era presente e aveva udito diceva
che era stato un tuono. Altri dicevano: "Un angelo gli ha parlato". Rispose Gesù:
"Questa voce non è venuta per me, ma per vol)2» (1 2, 27-30).
E’ dunque una voce del Padre che dà conforto a chi la sa capire, confermando e
approvando la missione del Figlio.
Insieme alle poche voci esteriori che ho evocato, ne sottolineo una interiore del Padre,
ripresa parecchie volte da Gesù nei discorsi che leggiamo nel vangelo di Giovanni. Per
esempio in 5, 19-20: «Gesù riprese a parlare e disse: "In verità, in verità vi dico, il Figlio
da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il
Figlio lo fa. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli
manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati"».
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Stupendo l'intimo colloquio tra il Padre e il Figlio, e molto confortante. Gesù contempla
il Padre e da lui impara ciò che deve fare.
Gesù non si sente solo: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che
lo Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io
parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio
sempre le cose che gli sono gradite» (8, 28-29).
Anche a noi capita di vivere talora un’esperienza simile, quando sentiamo che il Signore
ci parla interiormente, ci conferma, ci incoraggia, ci sostiene. Viviamo cioè l'esperienza
della consolazione, che è preziosa per la vita spirituale. Se non la provassimo almeno
qualche volta, significherebbe che non siamo seriamente nella via di Dio.
Sant'Ignazio di Lojola nel libretto degli Esercizi dà molta importanza alle consolazioni e
le descrive in maniera psicologicamente molto efficace. Cito dalle Regole per il
discernimento degli spiriti: «Nelle persone che vanno intensamente purificandosi dai
loro peccati, e che procedono di bene in meglio nel servizio di Dio nostro Signore, [... ] è
proprio del cattivo spirito rimordere, rattristare, creare impedimenti, turbando con false
ragioni, affinché non si vada avanti [il cattivo spirito che spesso ci tenta]. E’ proprio del
buono spirito dare coraggio, forza, consolazioni, lacrime, ispirazioni e quiete, rendendo
facili le cose e togliendo tutti gli impedimenti, perché si proceda avanti nel bene
operare» (n. 315).
Davvero spesso ci accorgiamo di fare con slancio cose che sembrerebbero difficili e di
sostenere sacrifici che mai avremmo pensato di saper compiere, perché siamo avvolti
dalla consolazione interiore, che ci spinge a volare, a camminare di gran lena, a
perdonare volentieri, ad aiutare gli altri con semplicità e spontaneità. E gli esercizi
servono spesso per ritrovare il filone d'oro della consolazione, che magari si era nascosto
sotto terra.
Leggo pure la Regola III, la cui descrizione è molto bella ed ampia: «Chiamo
consolazione spirituale il causarsi nell'anima di qualche movimento intimo con cui
l'anima resti infiammata nell'amore del suo Creatore e Signore», una crescita spontanea
di amore, che non si sa da dove venga ma ci muove ad amare Dio, «e di conseguenza
quando non riesce ad amare per se stessa nessuna cosa creata sulla faccia della terra, ma
solo in relazione al Creatore di tutto». E’ grazia: uno si accorge che gli importa solo di
Gesù e altre cose in relazione a Gesù. «Così pure c'è consolazione quando la persona
versa lacrime che la spingono all'amore del suo Signore, o a causa del dolore dei suoi
peccati, o per la passione di Cristo nostro Signore, o a causa di altre cose direttamente
ordinate al suo servizio e lode.» Sono tutte le mozioni positive che ci fanno entrare nel
mistero della pietà, della devozione, della facilità a pregare, ad adorare, a lodare. «Infine
chiamo consolazione ogni aumento di speranza, fede e carità e ogni tipo di intima letizia
che sollecita e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima, rasserenandola
e pacificandola nel proprio Creatore e Signore» (n. 316).
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Nel corso della nostra vita potremo leggere cento volte queste Regole e sempre le
troveremo pertinenti al nostro cammino, ne saremo illuminati.
La consolazione dello spirito è una grazia da desiderare, è il colloquio interiore del Padre
con noi, è Gesù che si fa nostro maestro.
Il Padre sembra tacere
Ci sono tuttavia momenti nei quali Dio sembra tacere. Nei vangeli il momento più
drammatico in cui si vedono le conseguenze dei silenzio di Dio è rappresentato
plasticamente nell'episodio del Getsemani, che corrisponde specularmente a quello della
Trasfigurazione. Come ho sottolineato all'inizio degli esercizi, noi facciamo meno fatica
a contemplare il santo volto dolente e sofferente di Gesù che il volto luminoso sul Tabor.
La sofferenza infatti è un'esperienza più congeniale a noi, più vicina alla quotidianità.
Lascio a voi di leggere l'episodio del Getsemani in Mc 14,32-40.
Insieme vogliamo contemplare anzitutto i sentimenti negativi di Gesù: «Prese con sé
Pietro, Giacomo e Giovanni [i tre discepoli della Trasfigurazione] e cominciò a sentire
paura e angoscia» (v. 33). E’ una descrizione terribile. Il Figlio di Dio sperimenta la
paura, la paura che avevano provato i discepoli entrando nella nube. Qui la paura è assai
più dolorosa, drammatica e dirompente, perché carica di angoscia. Mentre la paura nasce
dalla prospettiva di un male imminente e inevitabile, l'angoscia è la ristrettezza del
respiro propria di chi ha la percezione di una tragedia da cui non sa come uscire. Manca
il respiro, si è come stritolati dagli eventi. Gesù vive questi sentimenti e le sue parole,
durissime, ci stupiscono e ci smarriscono: «Disse loro: "La mia anima è triste fino alla
morte"» (v. 34). Mi stupisco sempre di questo «fino alla morte», cioè fino ad essere
schiacciato dalla tristezza.
Immaginiamo allora il volto di Gesù, che nella Trasfigurazione era luminoso come il
sole, e qui appare triste, sconsolato, tremante. E’ il volto di un uomo che sperimenta una
terribile desolazione.
E il Padre non parla, tace, non interviene a rassicurarlo, a confortarlo. Gesù invece,
prostrato a terra, si rivolge quasi disperatamente a Dio, cerca il colloquio con Lui,
ripetendo a lungo, forse per un'ora o due, la parola che, nella formula più tenera, recitava
nelle sue preghiere: «Abbà, papà mio!»; e continua: «Tutto è possibile a te, allontana da
me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (v. 36). Grida verso il
Padre, invoca, chiede di essere liberato da questo calice, ma non riceve risposta.
Nemmeno lo confortano i tre discepoli. che si sono addormentati: «Simone, dormi? Non
sei riuscito a vegliare un'ora sola?» (v. 37).
Dunque la desolazione di Gesù è totale.
Sant'Ignazio negli Esercizi spirituali presenta puntualmente quegli stati di desolazione
che prima o poi segnano il nostro cammino: «Chiamo desolazione tutto ciò che si
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oppone a quanto ho detto in precedenza sulla consolazione, ad esempio l'oscurità
dell'anima, il suo turbamento [nervosismo, inquietudine, agitazione di passioni]
l'inclinazione alle cose basse e terrene [tentazioni impure, fantasie, sensualità, golosità]
l'inquietudine dovuta a vari tipi di agitazioni e tentazioni». Sono tutti moti interiori che
portano l'anima - dice sant'Ignazio - a essere «sfiduciata, senza speranza, senza amore. E
la persona si trova tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore»
(n. 317).
Pensiamo a santa Teresa di Gesù Bambino, che riferendosi all'ultimo anno e mezzo della
sua vita, scriveva: non vedo più il cielo sopra di me, sono entrata in un tunnel, come se
Dio non esistesse. E aggiungeva: mangio alla tavola degli increduli, sento in me le
tentazioni del mondo contro la fede, mi pare che tutto sia illusione.
Gesù ha provato per noi questa desolazione, sapendo che inevitabilmente ci avrebbe
toccato. Il Padre, tacendo, ha lasciato che il Figlio per amore nostro fosse avvolto da un
tunnel oscuro.
Riprendo il testo di sant'Ignazio: «Come la consolazione è contraria alla desolazione,
così i pensieri che nascono dalla consolazione sono opposti ai pensieri che nascono dalla
desolazione», pensieri disfattisti, cinici, irritati, amari (n. 317). Chi è nella desolazione
ha l'impressione, se prega, se celebra la Messa o vi partecipa, di ingannare se stesso e gli
altri.
La vita spirituale è dunque intessuta di luci e di ombre, di consolazione e desolazione.
Dalla consolazione sorgono allegria, serenità, scioltezza, spontaneità, dalla desolazione
amarezza, pesantezza, non voglia, stanchezza, nevrosi, forme di blocco. Eppure la
desolazione è un passaggio provvidenziale per la purificazione della nostra fede e per la
nostra trasformazione in Cristo, nella misura in cui resistiamo. Viene alla mente la
Regola V di sant'Ignazio: «In tempo di desolazione non si facciano mai mutamenti, ma
si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano il giorno precedente
a tale desolazione o nella decisione che si aveva nella precedente consolazione. Perché,
mentre nella consolazione ci guida e consiglia di più il buono spirito, nella desolazione
ci guida quello cattivo, con i consigli del quale non possiamo imbroccare nessuna strada
giusta» (n. 318).
Ci sia di esempio Gesù nel suo mirabile continuare a parlare, anche dalla croce, con un
Padre che tace.
Le parole di Gesù in croce
Una prima parola molto forte la leggiamo in Lc 23,34: «Padre, perdonali, perché non
sanno quello che fanno». Gesù si rivolge al Padre, non tenendo in conto il suo silenzio.
Un’altra parola è in Lc 23, 46: «Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito». La tendenza della desolazione sarebbe di fuggire, di
scendere dalla croce, di rinnegare il Padre, ma Gesù vince la desolazione consegnandosi.
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Un’ultima parola, terribile, è riportata da Marco e da Matteo, non da Luca. Mc 15, 3334: «Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle
tre Gesù gridò con voce forte: "Eli, Eli, lamà sabactàni?", che significa: Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?» (cf Mt 27, 45~46). Un’espressione sconvolgente, che
facciamo molta fatica a capire, e non a caso da due millenni teologia cerca di spiegarla.
Certamente va considerata nel contesto del Salmo 22 di cui è l'inizio, dove il salmista
lamentandosi con Dio manifesta ugualmente fiducia: se mi lamento con Dio, vuol dire
che mi ascolta, che c’è che è là per me.
In ogni caso è una parola drammatica: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché non
mi parli più e non intervieni? Perché mi lasci morire così umiliato? Perché mi lasci
sbeffeggiare così e non mi fai sentire in questo momento che sei mio Padre?
Gesù è nel buio più profondo e lo vive per noi, per aiutarci a capire che, anche quando
siamo in questo buio, non tutto è perduto, anzi è l'inizio della salvezza.
Alcuni teologi, come Hans Urs von Balthasar, vanno oltre, ritenendo che qui Gesù
sperimenta quella solitudine e quel distacco da Dio proprio del peccatore, sperimenta
l'inferno. Si comprenderebbe allora la straordinarietà dell'angoscia di Gesù al Getsemani,
il suo sudare sangue: senza avere peccato, vive l'esperienza di essere senza Dio, di non
avere più contatto con Lui, di essere abbandonato. Come dice san Paolo, Gesù ci riscatta
dal peccato e dalla maledizione (cf Gal 13, 3), assumendo la condizione del peccatore,
che é lontananza da Dio. Con la differenza che il peccatore non si accorge della sua
condizione, perché tutto preso dai beni effimeri del mondo.
A questo punto traggo una conseguenza per noi, che affido alla vostra meditazione:
dobbiamo avere orrore del peccato, cioè di quel distacco da Dio che Gesù ha vissuto in
maniera lacerante e dirompente. Non si comprende la gravità del peccato quando lo si
intende come trasgressione della Legge, ma quando viene colto nella sua vera natura:
lontananza da Dio, separazione dal Padre, rottura delle relazioni tra Figlio e Padre.
Concludo affidandovi tre indicazioni pratiche, che sant'Ignazio dà nelle Regole sulla
desolazione (VI, VII, VIII).
Regola VI: «Visto che durante la desolazione non dobbiamo cambiare i primi propositi,
gioverà molto reagire intensamente contro la stessa desolazione, restando per esempio
più tempo nella preghiera, allungando gli esami e protraendo, secondo che sarà meglio,
qualche tipo di penitenza» (n. 319). E’ il principio dell'agere contra, che ci permette di
vincere la tentazione.
Regola VII: «Chi si trova nella desolazione consideri come il Signore lo lasci nella prova
affidato alle sue forze naturali, perché resista alle molte agitazioni e tentazioni del
nemico; infatti può fare ciò con l'aiuto divino che sempre gli resta, sebbene non lo senta
chiaramente perché il Signore gli ha sottratto il suo grande fervore, l'intensità dell'amore
e della grazia, pur lasciandogli la grazia sufficiente per la salvezza eterna» (n. 320). E’
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una regola molto importante, perché ci assicura che tutto possiamo fare, con l'aiuto di
Dio, anche se non lo sentiamo.
E infine la Regola VIII: «Chi si trova nella desolazione si sforzi di perseverare in quella
pazienza, che è contraria alle vessazioni subite, e pensi che sarà presto consolato» (n. 32
1). Chi è in una galleria oscura, non ne vede la fine, ma poi scorge d'improvviso la luce.
L’importante è resistere e sopportare con pazienza.
La nostra certezza è che Gesù ci guida attraverso le prove della vita. Abbandonandosi a
Dio, ci fa capire che non c'è situazione tanto disperata che ci impedisca di essere salvati
affidandoci con amore al Padre. Ci insegna che anche se Dio risponde col silenzio a
nostre preghiere, ci è sempre vicino con la tenerezza di un Padre e non permetterà che
nessuno dei suoi figli vada perduto. Gesù ha vissuto la gloria del Tabor per essere
preparato al silenzio di Dio. E noi, meditando i racconti della passione, possiamo dire
con lui: «Padre, si compia in me non la mia, ma la tua volontà. Dammi la forza di amarti
anche quando taci, di resistere al maligno con la grazia del tuo Spirito. Dona a quanti
passano per il tunnel tenebroso nel quale è passato il tuo Figlio Gesù la forza di resistere
e di attendere».
Così la nostra preghiera si unirà alla preghiera sofferente di Gesù.
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XI MEDITAZIONE
Gesù umiliato
Continuiamo a contemplare la passione di Gesù, che abbiamo iniziato a meditare
soprattutto a partire dal Getsemani. Certamente la meditazione sulla passione si può fare
in molti modi e suggerisco di utilizzarne oggi qualcuno.
Il più semplice è di leggere i fatti uno dopo l'altro: dal Getsemani all'arresto, ai processi
giudaici, al processo romano, l'invio ad Erode, la flagellazione, la condanna a morte, la
coronazione di spine, gli improperi dei soldati, il cammino verso il Calvario, la
crocifissione, la morte e la sepoltura. Tutti misteri, incominciando dalla condanna, che si
venerano ogni venerdì a Gerusalemme, con la Via crucis che si svolge per le strade della
città, le stesse strade, più o meno, percorse da Gesù. Sempre a Gerusalemme, nella
basilica dei Santo Sepolcro, si rivive ogni pomeriggio la passione, in una processione
ricca di canti antichi in latino, che sosta davanti agli altari, dalla flagellazione fino alla
tomba.
Ci sono altri modi di meditare la passione, per esempio esaminando gli attori del
dramma: amici, nemici, persone indifferenti. E’ un microcosmo di personaggi, che
hanno sentimenti diversi e violenti; agiscono l'uno contro l'altro o l'uno insieme all'altro,
in uno scatenamento di invidie, di odi, di intolleranza, di slealtà, di connivenza. t
veramente un processo alla cattiveria umana.
Noi ci proponiamo di contemplare Gesù umiliato, ricordando che, quando predice la sua
passione e morte, si sofferma in particolare sulle umiliazioni.
Il rifiuto delle autorità
Leggiamo in Mc 8, 3 1: «E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva
molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi». Di
solito si passa sopra a questa parola come se non significasse molto, ma in realtà è
drammatica: gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi rappresentano ufficialmente il
popolo, nell'ambito della teologia, del diritto, del culto, e sono quindi le persone alle
quali si rende onore. Gesù non è soltanto riprovato da qualche nemico particolare, da
qualche gruppo malvagio, da qualche banda di scatenati, bensì dalle autorità più
rispettabili dei suo tempo. Continua il testo: «Poi venire ucciso [quindi deve essere
eliminato, non deve vivere, non ne ha il diritto] e dopo tre giorni risuscitare»: notiamo
che la predizione delle sue umiliazioni e della sua morte prevede anche una risurrezione,
quale parte integrante del mistero pasquale.
* Un’altra predizione della passione è in Mc 10,32-34:«Mentre erano in viaggio per
salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che
venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò
a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio
dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo
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consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo
uccideranno, ma dopo tre giorni risusciterà"». Gli scherni, gli sputi, il supplizio
vergognoso della flagellazione, rappresentano quelle umiliazioni che Gesù prevede e
accoglie come parte del suo proposito di andare fino in fondo. Umiliazioni gravi e
incisive per la vita di chi vive in un popolo provvisto di strutture, di autorità, di leggi che
non si mettono in discussione. Gesù è messo in questione da queste autorità e da queste
leggi.
Tutti i racconti della passione potrebbero essere riletti nella prospettiva di Gesù umiliato.
Ho pensato di contemplare insieme con voi il luogo dove le umiliazioni raggiungono il
loro culmine: la croce.
Umiliazioni sulla croce
Sulla croce Gesù è ormai un vinto, un impotente, uno di cui non si ha più paura, e perciò
tutta la perfidia, la vigliaccheria umana si scatena. Prima avevano paura di attaccarlo
apertamente, ma ora che non può più nuocere, tutti si scagliano contro di lui. E’ un segno
tipico della vigliaccheria umana godere nell'umiliare i deboli.
* Significativo il testo di Mt27, 39-44: «E quelli che passavano di là lo insultavano
scuotendo il capo e dicendo: "Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni,
salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!". Anche i sommi sacerdoti con
gli scribi e gli anziani lo schernivano: "Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! E’
il re di Israele, scenda dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora,
se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!". Anche i ladroni crocifissi con lui
lo oltraggiavano allo stesso modo».
E in Mc 15, 29-32 leggiamo: «I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo,
esclamavano: "Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso
scendendo dalla croce!". Egualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi
beffe di lui, dicevano: "Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re
d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo. Anche quelli che erano
stati crocifissi con lui lo insultavano».
Luca aggiunge (23, 35-39): «Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano
dicendo: "Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto". Anche i
soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: "Se tu sei
il re dei Giudei, salva te stesso". C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi é il re
dei Giudei. Uno dei malfattori appeso alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva
te stesso e anche noi!"».
Tenendo presenti le descrizioni degli insulti, vogliamo riprenderle per capire come si
comportano le diverse categorie di persone.
Luca segnala che non tutti lo insultano: «Il popolo stava a vedere». Dunque la gente
semplice trepidava, giudicando vergognoso ciò che accadeva, ma non poteva dire
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apertamente che i capi stavano sbagliando. Nel verso 48 di Luca viene annotato che,
dopo la morte di Gesù, «tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a
quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto». E’ una dinamica
interessante: il popolo, dapprima neutrale e perplesso, successivamente si pente.
Consideriamo poi coloro che invece si fanno beffe di lui. Anzitutto i passanti
(cf Mt27, 39-40), alcuni dei passanti, che lo insultavano scuotendo il capo. L’espressione
è presa dal Salmo 22, 8 («scuotevano la testa») e sta a dire: costui si è tanto vantato e
adesso non sa far niente, è un povero illuso. E infatti gli ricordano le parole di uno dei
capi di accusa: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso!
Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce!». Si prendono gioco di quel potere che Gesù
aveva mostrato nel compiere i miracoli. Un insulto che ferisce profondamente il cuore di
Cristo e lo vedremo meglio meditando le parole dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli
anziani.
I capi, come afferma Luca (23, 35), sono anche più duri: «Lo schernivano dicendo: "Ha
salvato gli altri, salvi se stesso" ». Irridono la sua bontà, la sua misericordia, il suo amore
per noi e mettono addirittura in forse il fatto che abbia salvato altri. «Se è il Cristo di
Dio, il suo eletto» (viene alla mente la voce dall'alto nel racconto del Battesimo e
nell'evento del Tabor). Secondo i capi, Dio non può permettere che il suo eletto muoia in
quel modo. E’ un attacco diretto all'azione di Dio in Gesù crocifisso, alla missione di
Gesù, è il rifiuto dell'agire di Dio nel Figlio suo che va alla morte.
Anche Marco riporta lo stesso, invito a scendere dalla croce che leggiamo in Matteo: «Il
re di Israele scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo» (15, 32). E’ una ferita
mortale per Gesù che si trova nel terribile dilemma: se scende dalla croce forse
crederanno, però andrebbe contro il disegno di Dio, presentando un'immagine di Dio
incapace di solidarizzare col peccatore fino in fondo. Sulla croce mostra quindi che
proprio perché è Figlio di Dio si lascia crocifiggere, affronta la drammatica serietà della
croce che gli viene imputata come segno della falsità della sua vita, per restare solidale
con l'uomo peccatore e amarlo fino alla morte.
Per Matteo proferiscono il terribile insulto anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli
anziani (27, 4243): «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! E’ il re d'Israele,
scenda ora dalla croce e gli crederemo». Poi viene citato il Salmo (22, 9) e il Libro della
Sapienza (2, 18): «Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti:
Sono Figlio di Dio!». E’ una sfida che mette in gioco la visione di Dio; ma Dio, che gli è
Padre e gli vuole bene, non lo libera.
I soldati, dal canto loro, agiscono secondo i criteri di potere, di efficacia: «I soldati lo
schernivano. e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: "Se tu sei il re dei
Giudei, salva te stesso"» (Lc 23, 36~37). Sono pagani e non concepiscono che possa
regnare con la povertà, l'umiltà, la mitezza, la pazienza e l'accettazione della morte. Se
sei un re, devi avere il potere, devi difenderti, chiamare i tuoi soldati perché ti liberino;
non credono che un re sia privo di potere.
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Da ultimo guardiamo i due crocifissi con Gesù. Matteo e Marco si limitano a osservare
che lo schernivano anche i ladroni crocifissi con lui. Probabilmente nella loro semplicità
si erano detti: quest’uomo tanto potente forse ci salverà, dal momento che saremo
giustiziati insieme a lui. Accorgendosi però che non salva nemmeno se stesso, si sentono
traditi e lo beffeggiano. Tuttavia Luca annota che uno dei due ragiona diversamente:
«Uno dei malfattori appesi alla croce lo
insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava:
"Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché
riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male"». Il «buon
ladrone» intuisce ciò che né i sacerdoti né la gente capiscono, intuisce che Gesù realizza
le profezie di Isaia: il giusto soffrirà. «E aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai
nel tuo regno"». Crede con una fede straordinaria che il Signore ha un Regno, un Regno
non di questo mondo perché altrimenti non sarebbe sulla croce, e spera che quando vi
entrerà si ricorderà di lui. E’ un peccatore, un malfattore; è il primo salvato. Infatti si
sente rispondere: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23, 39-43).
Quindi colui che fino in fondo ha condiviso le sofferenze di Gesù, senza pretendere di
essere liberato ma anzi riconoscendo la propria colpa, riconoscendo misteriosamente che
c'è un giusto trattato ingiustamente, viene perdonato e salvato.
Vi invito a rivivere i quadri della passione riprendendoli punto per punto, per chiedervi:
Signore, che idea ho di te, della tua regalità, della tua divinità? Come mi sarei
comportato? Come ti avrei apostrofato?
Conclusioni
Dalla nostra contemplazione traggo una conclusione espressa molto fortemente
negli Esercizi di sant'Ignazio: non è un male l'essere umiliati, perché in tal modo
partecipiamo alla sorte di Gesù. Quando qualcuno ci umilia, istintivamente ci ribelliamo,
vorremmo difenderci, oppure restiamo confusi e smarriti. Ma Gesù, che ha scelto di
passare per questa via, ci chiama a seguirlo e ci insegna a percorrerla con lui.
Accettare le umiliazioni è scandalo per la logica del mondo; fa parte del mistero del
Vangelo, ed è quella verità proclamata nelle beatitudini.
In proposito mi rifaccio a un libro di un autore tedesco, Dietrich von Hildebrand,
pubblicato negli anni Cinquanta: La Formazione in Cristo (ed. Morcelliana, Brescia
1952), in cui sono indicati i passi successivi di tale trasformazione. In un capitolo molto
bello, intitolato La santa mansuetudine, von Hildebrand spiega che cos'è la mitezza.
Leggo la prima pagina: «San Paolo pone la mansuetudine tra i doni dello Spirito Santo.
Essa è una irradiazione della Carità soprannaturale e annovera tra i suoi presupposti, in
particolar modo, la pazienza e la pace interiore.
«Appartiene a quelle virtù che possono fiorire in noi solo su fondamento della
rivelazione. E non solo postula la conoscenza dello stato metafisico dell'uomo [l'uomo
creato da Dio, opera delle sue mani, quindi necessariamente umile] ma ancora del
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mondo nuovo del soprannaturale, il fallimento di tutte le unità di misura puramente
naturali, la luce nuova che emana dalle parole del Sermone della montagna per le quali il
mondo naturale fu per così dire innalzato al di sopra dei suoi cardini. Essa presuppone
anche che noi sappiamo come Dio, il Signore onnipotente, Creatore del cielo e della
terra, sia l'Amore stesso, e che non è destinata alla vittoria definitiva l'energia naturale né
la potenza, bensì l'umiltà e la mitezza del cuore. "Fece scendere dal loro trono i potenti
ed esaltò gli umili" (cf Lc 1, 52). Dio non ha redento il mondo con la forza, ma con la
morte sulla croce dell'uomo-Dio, e Gesù Cristo non ci ha comandato di diffondere nel
mondo la sua Verità col fuoco e con la spada, ma di annunziarla come prigionieri del suo
amore. La base etica da cui dobbiamo vincere il mondo è la carità umile e dolce. "Beati i
mansueti perché essi possederanno la terra" (Mt 5, 5) ».
Spiega poi ampiamente che la mitezza non è semplice bonomia o arrendevolezza
naturale, ma è una forza interiore formidabile. E’ la forza di Dio che vince il mondo.
Domandiamo la grazia di partecipare a questa forza, perché la virtù della mitezza
evangelica che Gesù esprime in maniera eroica sulla croce, va vissuta quotidianamente.
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XII MEDITAZIONE
Sotto il segno dell'amore
«Nella memoria della risurrezione gloriosa del Cristo tuo Figlio, donaci, Padre, di
entrare nello spirito dell'ultima giornata di esercizi, godendo della gloria e gioia di Gesù,
per poterla sentire dentro di noi e poterla testimoniare ad altri. Te lo chiediamo per
Cristo nostro Signore.
Tra poco, infatti, riprenderemo la vita quotidiana, con le sue fatiche e le sue banalità, ma
portiamo con noi la luce taborica e, illuminati da essa, sappiamo che la vita di ogni
giorno è, in realtà, luogo in cui si mostra la gloria nascosta di Gesù, è luogo in cui
cresciamo nella fede speranza e carità, in cui il Regno viene e la volontà di Dio si
compie.»
Nella quarta Settimana degli Esercizi di sant'Ignazio, la Settimana della risurrezione,
siamo invitati a «osservare il ruolo di consolatore che assume Cristo, paragonandolo a
quello degli amici che consolano altri amici» (n. 224).
Richiamo altri due impegni che caratterizzano quella Settimana.
Anzitutto, «chiedere grazia per rallegrarmi e godere intensamente per la grande gloria e
gioia di Cristo nostro Signore» (n. 221). È una grazia non facile, ma essenziale al
cristiano per partecipare alla gioia del Risorto che vive in mezzo a noi.
Il secondo impegno è di «considerare come la divinità, che sembrava nascondersi nella
passione, appare e si mostra ora tanto miracolosamente nella santissima risurrezione,
attraverso i veri e meravigliosi effetti di essa» (n. 223), contemplare la divinità che si
mostra in Gesù.
Sono quattro gli spunti di riflessione che vi offro: l'importanza della consolazione; il
Tabor come esperienza di consolazione; alcuni casi in cui il Risorto consola i suoi;
infine, la vita cristiana sotto il segno della consolazione e della gioia.
L’importanza della consolazione
Abbiamo già detto che per sant'Ignazio la consolazione è un motore potente per
camminare, per volare sulle vie della santità perché mette le ali ai piedi (cf Esercizi,
Regola III, n. 316).
Pensiamo inoltre al bellissimo inno di san Paolo, che possiamo fare nostro: «Sia
benedetto Dio, padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni
consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi
consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con
cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in
noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo
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tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra
consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che
anche noi sopportiamo» (2 Cor 1,3-6). L’Apostolo si sente consolato, vive forti
esperienze di consolazione. Egli sa che non sono solo per sé, ma pure per i suoi, a cui
pensa sempre, e sa che comunque, sia nella consolazione sia nella tribolazione, aiuta
altri. Questo vale anche per la nostra azione pastorale.
La situazione dell'essere consolati da Dio è davvero tipica della vita cristiana. E se il
Signore ci fa passare attraverso le prove è perché ne emerga consolazione e conforto.
La consolazione del Tabor
Il Tabor è certamente un'esperienza forte di consolazione per Gesù e per i discepoli. Lo è
in quanto mostra il senso complessivo degli eventi di Gesù, collocandoli nel quadro del
Primo Testamento e in quello del futuro esodo a Gerusalemme, quindi nel quadro della
morte, risurrezione, ascensione, gloria del Signore.
È estremamente importante l'allargamento della visuale e spesso la consolazione può
essere semplicemente un ampliamento di orizzonti. Quando ci concentriamo su un
evento spiacevole, ne restiamo ipnotizzati e lasciamo dilagare la tristezza in tutto il
nostro umore. Se invece allarghiamo le prospettive, leggendo l'evento quale momento di
un cammino provvidenziale, torniamo a respirare e riprendiamo coraggio. La
Trasfigurazione è appunto l'invito a guardare l'insieme dei misteri e a non farci bloccare
da un piccolo o da piccoli episodi.
La Trasfigurazione sul Tabor contiene inoltre un anticipo e una promessa della
risurrezione di Gesù, attraverso simboli e parole.
I simboli sono il volto di Gesù splendente come il sole e le vesti bianche come la luce.
Simboli - e l'abbiamo già evocato - che rimandano espressamente all'angelo della
risurrezione, presente presso la tomba in Mt 28, 3, il cui aspetto era «come la folgore» e
le cui vesti «bianche come la neve». Splendore e candore sono il simbolo della vittoria
sulla morte e della pienezza di vita. Gesù sul Tabor è già colui che sa vincere la morte.
L’anticipo della risurrezione appare anche nelle parole. La prima è «esodo» e indica il
compimento della missione del Figlio di Dio, che morirà, risorgerà e ritornerà al Padre.
Una seconda parola è «gloria». Pietro nella Seconda Lettera sottolinea di essere stato
testimone oculare di quell'evento straordinario in cui Gesù «ricevette onore e gloria da
Dio Padre» (1,17). E nel racconto di Luca 9, 32 leggiamo che «videro la sua gloria»,
ossia la gloria definitiva che si manifesterà nella risurrezione.
Tutte le volte che riusciamo a dire: sto soffrendo, ma un giorno avrò il centuplo e il volto
di Gesù mi si manifesterà nella pienezza del suo amore, sentiamo in noi la forza della
consolazione e sperimentiamo quindi un anticipo di risurrezione.
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Gesù risorto consola i suoi
Che cosa potevano aspettarsi gli apostoli dal Risorto? Non avevano la coscienza a posto:
erano fuggiti, l'avevano abbandonato, si erano lasciati prendere dalla paura, qualcuno lo
aveva tradito, quasi nessuno era sotto la croce. Forse immaginavano che, se Gesù fosse
apparso, li avrebbe rimproverati e criticati.
Invece il Risorto, presentandosi a loro, non giudica il comportamento che hanno avuto,
non critica, non condanna, non rinfaccia i ricordi dolorosi della loro debolezza, ma
conforta e consola. Le uniche parole di rimprovero rivolte sia ai discepoli di Emmaus
(Lc 24, 25), sia agli apostoli (Mc 16, 14), non si riferiscono al fatto che lo hanno
abbandonato e che, dopo tante promesse, tante parole altisonanti (moriremo con te,
verremo con te), si sono dimostrati inaffidabili; si riferiscono piuttosto alla loro poca
fede. Avrebbero dovuto credere alle Scritture, alle sue parole e alla testimonianza di chi
lo aveva visto risorto. Gesù, che vuole il bene di questi poveri apostoli tramortiti,
smarriti, confusi, umiliati, interiormente sconvolti dalla certezza di essere cosi deboli,
non tiene conto della loro fragilità, ma li consola e li rilancia.
Soffermiamoci su alcuni esempi di discepoli consolati.
Il primo è nel racconto di Gv 20, 11-16: Maria Maddalena che piange al sepolcro perché
si è spezzato il legame terreno col Maestro. Gesù non la rimprovera, anche se le sue
lacrime sono dovute a mancanza di fede, a incomprensione del mistero del Risorto.
Delicatissimamente interpella la donna, entra nel dolore che vive a partire dalla sua
situazione confusa: «Perché piangi? Chi cerchi?». Poi ascolta la risposta goffa e
sbagliata: «Dimmi dove l'hai posto e io
andrò a prenderlo». Allora la chiama per nome: «Maria!», una parola che la ricolma di
consolazione e le consente di riconoscerlo in verità e pienezza. L’agire di Gesù è un
modello stupendo di consolazione che, passando sopra a tutti i difetti, coglie il meglio
della persona. Egli sapeva che Maria lo amava e, pronunciandone il nome, risuscita la
fiamma del suo amore.
Il secondo esempio riguarda i discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35). Mentre l'episodio
della Maddalena rappresenta il passaggio dal pianto all'esultanza, quello dei discepoli di
Emmaus rappresenta il passaggio dallo smarrimento alla chiarezza. I due non piangono,
ma sono smarriti, delusi perché Gesù non ha ricostruito il regno di Israele; sono
addolorati per la morte del Maestro e insieme sono sconvolti dalle notizie di alcune
donne le quali affermano che
il Signore è vivo. Gesù prende occasione dalla loro delusione e dal loro sconvolgimento
per spiegare le Scritture, scaldare il cuore e portarli di fronte alla mensa eucaristica.
Anche qui con infinita pazienza, agisce positivamente, li illumina e fa cogliere il senso,
l'unità, l'ordine, la coerenza, la logicità, la necessità dei testi sacri. È una sorta di lectio
divina, che chiarisce e scalda il cuore. I due discepoli, senza capire chi era colui che
parlava con loro, si dicevano con stupore: abbiamo ritrovato la pace, la serenità, il
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conforto, i blocchi che ci intristivano sono stati superati e quelle che sembravano
disgrazie ora sappiamo leggerle come situazioni provvidenziali. Gesù compie una
consolazione tipicamente biblica, che consiste nello spiegare, a partire dalle Scritture, la
ragione di una storia, di una vicenda.
Ancora in Lc 24 il Risorto appare ai discepoli (vv. 36-42). È il passaggio dalla paura alla
gioia. Essi infatti sono pieni di paura, l'ipotesi stessa che Gesù sia risorto li spaventa e
quasi temono di essere respinti, di sentirsi dire: non vi conosco più, siete incoerenti,
bugiardi, fanfaroni. Gesù, anche qui, non pronuncia nessuna delle parole che temevano.
Con immensa pazienza si fa riconoscere: guardate, sono io, toccatemi, datemi da
mangiare; si sforza di metterli a loro agio, presentandosi come uno di loro, vicino a loro,
come amico.
Straordinaria infine la manifestazione di Gesù ai discepoli sul lago di Tiberiade e il
colloquio con Pietro, dove il passaggio è dalla vergogna alla fiducia ( Gv 21, 1-19). Il
Risorto non rimprovera nessuno: stando sulla riva del lago, consiglia come fare una
buona pesca e riempie così il cuore dei discepoli di soddisfazione umana, quasi a
sottolineare che è sempre disposto ad aiutarli. Già qualche anno prima Pietro l'aveva
sperimentato sul lago di Tiberiade, allorché aveva gettato allargo le reti sulla parola del
Signore.
Quando i discepoli tornano a riva, Gesù offre loro da mangiare, senza dire nulla, per non
precipitare le cose, per far sì che abbiano modo di rifocillarsi e di riposare dopo avere
faticato tutta la notte. È un tocco delicatissimo. Successivamente pone a Pietro per tre
volte la domanda: «Pietro mi ami tu?», che permette implicitamente a Pietro di risalire
dal suo tradimento, senza alcun rimprovero. Gli riconsegna anzi il mandato, rinnovando
gli totalmente la fiducia:
«Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle».
Questa è veramente consolazione regale: non approfittare dell'umiliazione altrui per
schernire, schiacciare, mettere da parte, ma riabilitare, ridare coraggio, ridare
responsabilità.
Per consolare così, penso che bisogna essere come Gesù, cioè avere in sé una grande
gioia, un grande tesoro, perché allora è facile comunicarlo. Il Signore, che ha il tesoro
della sua vita divina, fa calare la consolazione come balsamo, goccia a goccia. E noi
nella certezza di essere in comunione con lui, possiamo far calare la consolazione goccia
a goccia, senza rimproveri né presunzione.
Sotto il segno dell'amore
Infine, a modo di conclusione, vorrei affermare che tutta la vita cristiana è sotto il segno
della consolazione e della letizia. Per questo nelle Regole per il discernimento degli
spiriti della seconda Settimana, sant'Ignazio scrive: «È proprio di Dio e dei suoi angeli
dare con le loro mozioni vera letizia e godimento spirituale, togliendo qualsiasi tristezza
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e turbamento inoculati dal nemico [è una regola fondamentale. Dio agisce dando letizia e
gioia, rimuovendo tristezza e turbamento] mentre è proprio del nemico combattere
contro tale letizia e consolazione spirituale, adducendo ragioni speciose, sofismi e
continue falsità» (n. 329). In verità, è incredibile la serie delle sottigliezze, delle piccole
menzogne, con cui satana cerca di toglierci la
gioia (preoccupazioni, previsioni, ansietà, turbamenti); tutto è utile a satana, e spesso
riesce nei suoi intenti. Nostro compito è di combattere contro la tristezza che occupa il
nostro cuore e il cuore di tanta gente, cercando di smontare le ragioni di depressione, di
amarezza, di sconforto, di disperazione.
La vita cristiana e pastorale è dunque sotto il segno della consolazione e della letizia. E
questo perché è sotto il segno dell'amore, che potremmo riferire come cifra conclusiva
dei nostri esercizi.
Abbiamo riflettuto sull'insieme della storia e della realtà dell' universo utilizzando la
duplice sigla «Essere e tempo». Ora sappiamo che l'Essere di Dio è Amore e il tempo è il
luogo nel quale il Padre «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito».
L’universo perciò è fondato sull'Amore, sull'Essere che è Amore e sul tempo che è
espressione di amore; l'universo è fondato su creazione e alleanza e se la creazione è un
atto di purissimo amore, l'alleanza è un atto di amore folle, che esce da se stesso.
Mi piace leggere così anche il binomio esercizi-vita: espressione di amore,
contemplazione dell'amore di Dio e desiderio forte di comunicarlo a tutti coloro che ci
sono affidati e al mondo intero.
Rimettiamoci alla grazia dello Spirito Santo, perché ciò che abbiamo visto della luce del
Tabor rimanga e illumini i nostri cuori, fino a che vedremo la più grande luce, la luce
eterna, che è la pienezza della vita di Dio.
70
«Il mistero della pietà»
Omelia nella Messa di mercoledì 17 settembre
2003
La bellezza della Chiesa
«Carissimo, ti scrivo nella speranza di venire
presto da te; ma se dovessi tardare, voglio che
tu sappia come comportarti nella casa di Dio,
che é la Chiesa del Dio vivente, colonna e
sostegno della verità. Dobbiamo confessare che
grande è il mistero della pietà: Egli si
manifestò nella carne, / fu giustificato nello
Spirito, / apparve agli angeli, / fu annunziato ai
pagani, / fu creduto nel mondo, / fu assunto
nella gloria» (1Tm 3, 14-16).
La Lettera di san Paolo a Timoteo è un
bell'esempio di amicizia fra un apostolo anziano e
un presbitero giovane. Timoteo si appoggia a
Paolo, che cerca di incoraggiarlo e confortarlo,
perché è agli inizi del suo ministero ed è quindi
facilmente preso dallo scoraggiamento, dalla
paura, dal senso della solitudine. Paolo lo educa,
con un affetto che nasce dall'amo del Signore che
l'apostolo stesso sperimenta: « scrivo nella
71
speranza di venire presto da te», vorrei esserti
vicino per sostenerti; «ma se dovessi ritardare»
non importa poi tanto, tu ormai sei adulto, sai che
I Chiesa è il tuo sostegno.
A dire che il Signore ci guida a poco a poco
partire dagli appoggi umani, che sono utili e belli
importanti - a trovare sostegno e conforto nella
Chiesa, in quella grande realtà uscita dal costato
trafitto di Cristo, che è costituita da tutti i cristi
sparsi nel mondo e nella quale troviamo il luogo
dove abitare sereni e sicuri.
Ricordo che quando ero ragazzo mi ponevo la
domanda: come si fa ad amare la Chiesa? La
domanda era giusta, perché conoscevo la Chiesa
solo come può conoscerla un bambino, battezzato
e che ha fatto 1a prima Comunione. Ma la Chiesa
l'ho amata a man a mano che ho investito in essa
le mie energie, cercando di servirla e giocandovi
la mia vita. Allora mi è diventata familiare e la
riconosco come madre che mi ha generato,
nutrito, sostenuto.
La amo anche perché manifesta la potenza di Dio.
La Chiesa infatti è la casa voluta da Dio, l'edificio
da lui piantato quale «colonna e sostegno della
72
verità» scrive Paolo -, e in essa mi sento al sicuro.
E’ una casa dove possono esserci talora invidie e
calunnie. E tuttavia la Chiesa è più grande degli
uomini, perché è la sposa di Cristo e con gli occhi
della fede la vediamo come regno di Dio che
viene.
Chi inizia l'esperienza di Chiesa può essere preso
da paure e da timore, ma se persevera la scorge in
tutta la sua verità e maternità.
E io prego per voi, nel desiderio che la conosciate
sempre meglio come madre, come luogo in cui ci
si sente a proprio agio; se un giorno venisse meno
per voi un sostegno umano o un'amicizia
troverete sempre in essa una dimora accogliente.
La sicurezza della Chiesa deriva soprattutto dal
mistero della fede, da Gesù proclamato in essa,
che Paolo chiama «il mistero della pietà», per
ricordarci che è un mistero di Amore. Pietà infatti
significa amore compassionevole per noi di Dio,
che ci è vicino con tenerezza, ci capisce, ci
comprende fino in fondo. E quindi il suo mistero
non è soltanto di gloria o di fede, ma pure mistero
dell'Amore paterno e materno del Signore per
ciascuno di noi.
73
L’Apostolo esprime questo mistero in forma
poetica, con un inno liturgico che canta il mistero
di Gesù: «Si manifestò nella carne,/ fu
giustificato nello Spirito, / apparve agli angeli, /
fu annunziato ai pagani, / fu creduto nel mondo, /
fu assunto nella gloria». E’ un'acclamazione
stupenda ed è lo stesso mistero che celebriamo
nell'Eucaristia, dove incontriamo Gesù incarnato,
sofferente, crocifisso, morto, risorto, asceso al
cielo, incontriamo la pienezza della Chiesa.
E’ stupendo per un prete poter dire: ho
perseverato nella celebrazione dell'Eucaristia. Nel
2002 ho celebrato, da Arcivescovo di Milano, il
cinquantesimo di sacerdozio e quando i
giornalisti mi hanno chiesto quale fosse il ricordo
più bello del mio ministero, ho risposto con
sincerità: l'aver celebrato la Messa tutti i giorni.
Perché l'Eucaristia è la Chiesa vissuta, l'Eucaristia
è appunto «il mistero della pietà».
Rendere gloria alla sapienza di Dio
«In quel tempo, il Signore disse: "A chi
dunque paragonerò gli uomini di questa
generazione, a chi sono simili? Sono simili a
74
quei bambini che stando in piazza gridano gli
uni agli altri: 'Vi abbiamo suonato il flauto e
non avete ballato: /vi abbiamo cantato un
lamento e non avete pianto!'.
E’ venuto infatti Giovanni il Battista che non
mangia pane e non beve vino, e voi dite: 'Ha
un demonio '. E’ venuto il Figlio dell'uomo che
mangia e beve, e voi dite: 'Ecco un mangione e
un beone, amico dei pubblicano e dei peccatori
'. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da
tutti i suoi figli"» (Lc 7, 3 1-35).
La pagina del Vangelo riporta alla mente le
lamentele di tanti parroci che negli anni del mio
episcopato mi dicevano, con una vena di
tristezza: abbiamo suonato una musica e la gente
non ci ha seguiti, ne abbiamo suonata un'altra e
non ci ha ascoltato!
Questo significa che la persona umana è fragile,
Gesù stesso ha dovuto fare i conti con la nostra
incoerenza e debolezza, e se ne è un po'
lamentato: è venuto Giovanni Battista e non vi
andava bene perché era troppo severo; sono
venuto io, che vado in mezzo alla gente, e mi
criticate. Davvero non vi va bene niente!
75
Di fatto, chi non vuole accettare che il Padre si
manifesta nell'umiltà di Gesù, potrà sempre
portare delle scuse. Occorre un salto di fede,
necessario per riconoscere che in questo umile
Gesù, nell'apparenza delle specie eucaristiche,
nella modestia della sua Chiesa, dei suoi preti, dei
suoi sacramenti, viene il regno di Dio e si
manifesta la sua gloria.
Con ragione Gesù dice: «Alla sapienza è stata
resa giustizia da tutti i suoi figli». Coloro che
veramente conoscono la sapienza di Dio, gli
rendono gloria e colgono che anche nella
piccolezza della Chiesa è davvero all'opera il
mistero della pietà, cioè il mistero di Dio che ci
ama tanto e ci raggiunge in ogni momento.
Giocarsi totalmente per Gesù
Omelia nella Messa di giovedì 18 settembre 2003
Il dono spirituale
«Carissimo, nessuno disprezzi la tua giovane
età, ma sii esempio ai fedeli nelle parole, nel
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comportamento, nella carità, nella fede, nella
purezza. Fino al mio arrivo, dedicati alla
lettura, all'esortazione e all'insegnamento.
Non trascurare il dono spirituale che è in te e
che ti è stato conferito, per indicazioni di
profeti, con l'imposizione delle mani da parte
del collegio dei presbiteri. Abbi premura di
queste cose, dedicati ad esse interamente
perché tutti vedano il tuo progresso.
Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii
perseverante: così facendo salverai te stesso e
coloro che ti ascoltano» (1Tm4, 12-16).
primo testo liturgico, sempre dalla Prima Lettera
di Paolo a Timoteo, contiene un avvertimento
molto importante per i preti, là dove dice: «Non
trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è
stato conferito [... ] con l'imposizione delle
mani». Paolo suppone che persino la grazia del
diaconato e del presbiterato - che pure è una
grazia permanente - venga in qualche maniera a
inaridirsi in colui che la riceve, sia come
nascosta, sembri venir meno, e tuttavia è possibile
rinnovarla e rivivificarla. Questo ammonimento è
molto incoraggiante per tanti preti, perché li
Il
77
assicura che possono ricominciare dalla grazia
dell'ordinazione data loro in pienezza, pur se
talvolta non ne hanno sperimentato l'efficacia.
Significativo è in particolare l'elenco dei tre
impegni affidati a Timoteo nell'attesa che arrivi
san Paolo, impegni a cui deve comunque
dedicarsi: la lettura, l'esortazione, l'insegnamento.
Cogliamo qui l'importanza della lectio divina,
cioè della lettura orante e sistematica della
Scrittura, da cui derivano l'esortazione e
l'insegnamento. Ogni sacerdote deve dunque
praticare la lectio prima di esortare e insegnare.
Compiere scelte coraggiose
La pagina evangelica è certamente sconcertante e
coraggiosa, e non finiamo mai di capirla,
stupendoci per quanto dice; nessuno di noi
l'avrebbe scritta. E’ una pagina di conversione,
ma il cammino che descrive è un po' anomalo.
«In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a
mangiare da lui. Egli entrò nella casa del
fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna,
una peccatrice di quella città, saputo che si
trovava nella casa del fariseo, venne con un
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vasetto di olio profumato; e stando dietro,
presso i suoi piedi, piangendo cominciò a
bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi
capelli, li baciava e li cospargeva di olio
profumato.
A quella vista il fariseo che l'aveva invitato
pensò tra sé: "Se costui fosse un profeta,
saprebbe chi e che specie di donna è colei che
lo tocca: è una peccatrice".
Gesù allora gli disse: "Simone, ho una cosa da
dirti.
Ed egli: "Maestro, di' pure" .
'Un creditore aveva due debitori: l'uno gli
doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta.
Non avendo essi da restituire, condonò il
debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo
amerà di più?" Simone rispose: "Suppongo
quello a cui ha condonato di più". Gli disse
Gesù: "Hai giudicato bene".
E volgendosi verso la donna, disse a Simone:
"Vedi questa donna? Sono entrato nella tua
casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei
invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li
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ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai
dato un bacio, lei invece da quando sono
entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu
non mi hai cosparso il capo di olio profumato,
ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi, Per
questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti
peccati, poiché ha molto amato. Invece quello
a cui si perdona poco, ama poco '.
Poi disse a lei: "Ti sono perdonati i tuoi
peccati". Allora i commensali cominciarono a
dire tra sé: "Chi è quest'uomo che perdona
anche i peccati?". Ma egli disse alla donna:
"La tua fede ti ha salvata; va' in
pace! "» (Lc 7,36-50).
Il cammino più logico di conversione è quello
espresso nella nota parabola del figliol prodigo. Il
figlio lascia la famiglia e va in un paese lontano,
dove sperpera le sue sostanze vivendo da
dissoluto.
Quando si trova nel bisogno e nessuno gli dà da
mangiare, si decide a tornare a casa dal padre e
gli dice: mi pento,ho peccatocontro il Cielo e
contro di te. Sono propriamente gli atti del
penitente.
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Nel brano evangelico invece la donna non dice
una parola, non confessa di aver peccato, di
pentirsi, non promette di non peccare più. Il suo
baciare i piedi di Gesù bagnandoli con le lacrime,
l'asciugarli con i capelli, il cospargerli di olio
profumato sono gesti che sgorgano dalla sua
spontaneità. Ed è veramente coraggioso
l'evangelista che ha saputo valorizzare così
l'affetto di questa donna per Gesù.
E’ interessante il contrasto tra la figura della
donna e la figura di Simone detto il lebbroso.
Simone è un tipico fariseo, rigido e un po'
presuntuoso, che vuole mettersi in vista invitando
il Maestro a mangiare nella sua casa. Tuttavia non
vuole compromettersi troppo e quando arriva non
gli dà il bacio dell'ospitalità, non gli lava i piedi.
Simone sta sulle sue, non si scioglie, e addirittura
dubita di Gesù, non ha fiducia in lui, e pensa: se
fosse un profeta, saprebbe che specie di donna è
colei che lo tocca. Rappresenta in tal modo tutti
coloro che accettano Gesù per metà, che non si
giocano fino in fondo.
E’ bello contemplare questa donna che mette in
gioco totalmente la sua reputazione, che rischia di
81
essere respinta e cacciata fuori, che non si cura
più di niente perché il cuore la guida. I gesti da lei
compiuti, che Simone potrebbe interpretare
negativamente e addirittura con malizia, sono
interpretati da Gesù nella maniera migliore: ha
molto peccato, perciò ama molto; viene lodata
perché il suo grande amore e la totale fiducia che
ha in lui hanno completamente rovesciato la sua
vita e cancellato tutti i suoi peccati. «Va’ in
pace»; non: «fa’ penitenza, non peccare più». ma:
«va’ in pace», le dice Gesù.
La sua è una figura spontanea, simpatica, ardente,
coraggiosa.
Possiamo inoltre notare nella pagina evangelica la
delicatezza di Gesù nei riguardi di Simone. Prima
di rimproverarlo, gli racconta una parabola e gli
fa pronunciare una risposta giusta: amerà di più
quello a cui è stato condonato di più. Lo tratta
dunque bene e solo quando si è guadagnato la sua
confidenza lo rimprovera: sono entrato nella tua
casa e non mi hai dato l'acqua, non mi hai dato un
bacio, non mi hai unto con l'olio. Il fariseo
credeva di essere un uomo molto misurato, molto
sicuro di sé, molto oggettivo, capace di equilibrio;
82
a un tratto si riconosce povero, senza amore,
senza coraggio, senza spontaneità, senza energia.
Il Signore ha guarito anche lui, perché anche a lui
vuol bene.
Noi stiamo celebrando l’Eucaristia, nella quale
Gesù ha giocato tutto se stesso per noi, ci ha
molto amato; e proprio perché ci ha amato molto,
ci sentiamo perdonati e a nostra volta ci mettiamo
in gioco nell'Eucaristia.
Come il giovane Timoteo è chiamato a donarsi
nella sua vita pastorale, non lasciandosi vincere
dalla timidezza, dalla pusillanimità, dalla pigrizia,
dalla voglia di nascondersi, cosi ci é chiesto di
fare delle scelte coraggiose, di metterci in gioco
in ogni giorno della nostra vita, dicendo:
«Signore, disponi di me in tutto ciò che vuoi».
Allora il Signore si rivela a noi come colui che
valorizza tutte le nostre intime possibilità e ci
dona quella spontaneità, quella gioia, quella
scioltezza, quella libertà di cuore che è cosi bella
da ammirare nella donna del Vangelo, che supera,
vince il proprio peccato con la pienezza del suo
dono e del suo amore.
83
La gratuità della fede
Omelia nella Messa di venerdì 19 settembre 2003
La buona battaglia della fede
«Carissimo, questo devi insegnare e
raccomandare.
Se
qualcuno
insegna
diversamente e non segue le sane parole del
Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina
secondo la pietà, costui è accecato
dall'orgoglio, non comprende nulla ed è preso
dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da
ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i
sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti
nella mente e privi della verità, che
considerano la pietà come fonte di guadagno.
Certo, la pietà è un grande guadagno,
congiunta però a moderazione!
Infatti non abbiamo portato nulla in questo
mondo e nulla possiamo portarne via. Quando
dunque abbiamo di che mangiare e di che
coprirci, contentiamoci di questo.
84
Al contrario coloro che vogliono arricchire
cadono nella tentazione, nel laccio e in molte
bramosie insensate e funeste, che fanno
affogare gli uomini in rovina e perdizione.
L’attaccamento al denaro infatti è la radice di
tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni
hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi
tormentati con molti dolori.
Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi
alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità,
alla pazienza, alla mitezza.
Combatti la buona battaglia della fede, cerca
di raggiungere la vita eterna alla quale sei
stato chiamato e per la quale hai fatto la tua
bella professione di fede davanti a molti
testimoni»
(1 Tm 6, 2-12).
E’ ancora Paolo che, rivolgendosi a Timoteo,
sottolinea le conseguenze negative derivanti dal
non seguire le «sane parole» e «la dottrina
secondo la pietà».
In maniera sintetica possiamo dire che le sane
parole e la dottrina secondo la pietà consistono
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nel riconoscimento della gratuità di Dio, di quel
Dio che per puro amore ci ama e ci perdona. Chi
non la riconosce non è capace lui stesso di
gratuità. Infatti la radice dei comportamenti
negativi che turbano le comunità affidate a
Timoteo (invidie, litigi, maldicenze, sospetti
cattivi), è la mancanza di gratuità, il servirsi del
Vangelo come fonte di guadagno.
Questa deviazione si è verificata varie volte nella
storia della Chiesa, dando origine a molti mali.
Paolo afferma con parole semplici ma molto
pregnanti: «Coloro che vogliono arricchire
cadono nella tentazione, nel laccio e in molte
bramosie insensate e funeste, che fanno affogare
gli uomini in rovina e perdizione».
Parole che valgono per i preti, ma anche per la
società; la rovina di tante persone, famiglie,
nazioni è dovuta appunto alla bramosia del
guadagno. Di qui ha spesso origine il cosiddetto
conflitto di interessi, dove l'interesse proprio
viene messo al di sopra del bene comune.
L’attaccamento al denaro è davvero la radice di
ogni altro male.
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Ma proprio perché non possiamo fare a meno del
denaro chiediamo con insistenza al Signore di
liberare il nostro cuore dal desiderio di ricchezza,
da quell'attaccamento al denaro che ha fatto la
rovina di Giuda e ha causato tanti mali nella
Chiesa e nella società.
Successivamente Paolo esorta positivamente
Timoteo a fuggire queste derive e tendere alla
giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla
pazienza, alla mitezza. t la descrizione della vita
di un buon prete che, non essendo attirato dal
guadagno, serve la sua gente con disinteresse.
Particolarmente incisiva è l'esortazione seguente,
e dovremmo sempre tenerla presente: «Combatti
la buona battaglia della fede». Il cristiano è in una
situazione di lotta, non di pace e nemmeno di
armistizio, dal momento che il nostro nemico,
cioè il diavolo, come leone ruggente va in giro
per cercare chi divorare e come divorarci
(cf 1Pt 5,8). Dobbiamo resistere saldamente nella
fede con perseveranza e senza mai stancarci,
combattendo la buona battaglia ed entrando nella
tentazione e nella prova con la certezza di
riportare la vittoria.
87
«C'erano con lui i Dodici e alcune donne»
«In quel tempo, Gesù se ne andava per le città
e i villaggi, predicando e annunziando la
buona novella del regno di Dio. C'erano con
lui i Dodici e alcune donne che erano state
guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria
di Magdalena, dalla quale erano usciti sette
demoni,
Giovanna,
moglie
di
Cusa,
amministratore di Erode, Susanna e molte
altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8,
1-3).
Il breve testo di Luca ci ricorda che Gesù «andava
per le città e i villaggi, predicando e annunziando
la buona novella del regno di Dio».
Leggendo il Vangelo, non si pensa che spesso in
Israele il tempo atmosferico è inclemente; nella
Galilea per esempio ci sono delle punte di caldo
umido opprimente, oppure delle giornate di vento
gelido e di pioggia battente. Eppure, nonostante
questo contesto faticoso, Gesù non tralasciava
mai di percorrere città e villaggi predicando il
Vangelo. Anche oggi viene nelle nostre città, nei
88
nostri villaggi e cerca persone che siano disposte,
come lui, ad andare per città e villaggi a
proclamare la buona notizia del regno di Dio.
Naturalmente egli aveva dei collaboratori, i
Dodici e alcune donne che con i loro beni
(abbiamo detto, commentando la prima lettura,
che non possiamo in certa misura fare a meno del
denaro) provvedevano ai bisogni suoi e degli
apostoli.
La menzione delle donne ci ricorda che sono
davvero preziose in ambito ecclesiale. Sappiamo
quanto Giovanni Paolo Il abbia insistito nel
sottolineare l’importanza e la dignità della donna
nella Chiesa, soprattutto nella sua lettera
apostolica Mulieris Dignitatem. E’ un invito per
noi a saper valorizzare il genio e il carisma
femminile nelle nostre comunità, ad approfondire
la missione femminile come punto nodale di
molti problemi che viviamo.
E mi piace concludere con una citazione dello
stesso Giovanni Paolo II: «Alla luce di Maria, la
Chiesa legge sul volto della donna i riflessi di una
bellezza, che è specchio dei più alti sentimenti di
cui è capace il cuore umano: la totalità oblativa
89
dell'amore; la forza che sa resistere ai più grandi
dolori; la fedeltà illimitata e l'operosità
infaticabile; la capacità di coniugare l'intuizione
penetrante con la parola di sostegno e di
incoraggiamento»(Redemptoris Mater,46).
La perseveranza della vita
Omelia nella Messa di sabato 20 settembre 2003
Fino alla manifestazione di Gesù
«Carissimo, al cospetto di Dio che dà vita a
tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua
bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti
scongiuro di conservare senza macchia e
irreprensibile il comandamento, fino alla
manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
/ che al tempo stabilito sarà a noi rivelata / dal
beato e unico Sovrano, / il Re dei regnanti e
Signore dei signori, il solo che possiede
l'immortalità, / che abita una luce
inaccessibile; / che nessuno fra gli uomini ha
90
mai visto né può vedere. / A lui onore e
potenza per sempre. Amen» (1 Tm 6, 13-16).
La lettera amicale di Paolo a Timoteo termina con
una formula solennissima: «AI cospetto di Dio
che dà vita a tutte le cose [quindi invoca Dio a
testimone] e di Gesù Cristo che ha dato la sua
bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti
scongiuro di conservare senza macchia e
irreprensibile il comandamento, fino alla
manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo».
Non è facile capire che cosa si intende per
«conservare il comandamento». Dall'insieme
della Lettera si può pensare che è chiesto a
Timoteo di mantenere ferme le sue responsabilità
di episcopo di fronte a una comunità difficile e di
essere fedele alla dottrina della gratuità assoluta
del dono di Dio e della misericordia senza limiti
che ci salva e ci viene -incontro anche nel nostro
peccato. Di fronte a possibili contraffazioni del
messaggio, Paolo scongiura l'amico di mantenere
ferma questa testimonianza. E insieme di
mantenere ferma la sua vita al servizio di Dio, di
fronte a qualsiasi circostanza, fosse pure il
martirio. E’ una parola molto forte, ma sappiamo
91
che Paolo stesso darà la vita per tale
testimonianza. Nell'esortazione «ti scongiuro» è
quindi implicito l'impegno di mettere tutta la
propria vita a disposizione del Signore.
La richiesta pressante e cordiale dell'Apostolo al
discepolo desidero ripeterla a ognuno di voi:
conservate la bella testimonianza che avete
offerto in questi giorni, conservate quella fede
che avete approfondito nelle meditazioni,
conservatela con la perseveranza della vostra vita.
Perseveranza fino al momento in cui Gesù si
manifesterà: negli eventi significativi del nostro
cammino, nelle sofferenze e nelle persecuzioni
sopportate per lui, nel momento della nostra
morte e, infine, in pienezza, nella vita eterna.
Le battute conclusive riportano un inno in sette
versi, probabilmente antecedente alla Lettera, che
proclama la grandezza di Dio. La manifestazione
del Signore Gesù «al tempo stabilito sarà a noi
rivelata / dal beato e unico Sovrano, / il Re dei
regnanti e il Signore dei signori, / il solo che
possiede l'immortalità, / che abita una luce
inaccessibile; / che nessuno fra gli uomini ha mai
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visto né può vedere. / A lui onore e potenza per
sempre».
E’ un inno che eleva il nostro cuore al Dio
invisibile e misterioso, eppure continuamente
presente nella nostra esistenza, come lo sentiamo
presente in questi giorni di esercizi.
Ascoltare la Parola con cuore buono
«In quel tempo, poiché una gran folla si radunava
e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse
con una parabola: "Il seminatore uscì a seminare
la sua semente. Mentre seminava, parte cadde
lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del
cielo la divorarono. Un’altra parte cadde sulla
pietra e appena germogliata inaridì per mancanza
di umidità. Un’altra cadde in mezzo alle spine e
le spine, cresciute insieme con essa, la
soffocarono. Un’altra cadde sulla terra buona,
germogliò e fruttò cento volte tanto". Detto
questo, esclamò- "Chi ha orecchi per intendere,
intenda!'. I suoi discepoli lo interrogarono sul
significato della parabola. Ed egli disse: "A voi è
dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli
altri solo in parabole, perché / vedendo non
vedano / e udendo non intendano". Il significato
93
della parabola é questo: il seme è la parola di Dio.
I semi caduti lungo la strada sono coloro che
l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta
via la parola dai loro cuori, perché non credano e
così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro
che, quando ascoltano, accolgono con gioia la
parola, ma non hanno radice; credono per un
certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono
meno. Il seme caduto in mezzo alle spine sono
coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si
lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla
ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a
maturazione. Il seme caduto sulla terra buona
sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con
cuore buono e perfetto, la custodiscono e
producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,
4-1 5).
La pericopa del vangelo secondo Luca ci
consegna la prima e la più nota delle parabole.
Probabilmente Gesù l'ha raccontata non all'inizio
del ministero, ma quando a un certo punto la
gente cominciava a interrogarsi: come mai questa
Parola non ottiene il frutto che avremmo sperato?
Come mai tanti non seguono più Gesù? E’ la
domanda di noi oggi: perché la Chiesa non è
94
molto ascoltata nel mondo? Perché i giovani che
entrano in seminario poi lo lasciano e si
allontanano?
La risposta della parabola è semplice: il Vangelo
è capace di dare salvezza, il Vangelo è forza, la
Parola seminata è buona, non tutti però la
ricevono nel debito modo.
I semi caduti lungo la strada rappresentano chi
l'ascolta superficialmente e presto la dimentica. I
semi caduti sulla pietra sono coloro che, pur
avendo accolto con gioia la Parola, non hanno
radici e presto si stancano. Le radici sono
soprattutto la grazia, la preghiera, la lectio
divina; dove non ci sono, facilmente ci si
scoraggia nell'ora della tentazione. La terza
situazione è quella del seme caduto in mezzo alle
spine, che raffigura chi, dopo avere ascoltato la
Parola, si lascia fuorviare dal denaro, dal
successo, da tutto ciò che costituisce la
mondanità. Questo è un pericolo che rimane
sempre, perché sempre siamo circondati dalle
spine, che sono lo spirito mondano, lo spirito che
ci porta a cercare le nostre comodità, il guadagno,
lo star bene, l'evitare le fatiche, il soddisfare i
95
nostri sensi. E per questo a poco a poco la Parola
non ha più gusto, perde significato, si entra in uno
stato di confusione e si arriva ad abbandonare
tutto.
Mi pare tuttavia che Gesù racconti la parabola
specialmente per sottolineare la quarta situazione
e cioè per ricordarci che la Parola è efficace e,
quando cade sulla terra buona e viene accolta e
custodita con cuore buono e perfetto, produce
frutto.
Domandiamo al Signore che custodisca il nostro
cuore con la sua Parola e ci insegni a custodirla
con la fedeltà alla lectio divinaquotidiana.
Una sapienza pura, pacifica, arrendevole
Omelia nella Messa di domenica 21 settembre 2003
La liturgia di questa domenica ci propone tre letture su cui possiamo riflettere insieme
brevemente.
Era necessario che Gesù fosse crocifisso?
«Dissero gli empi: / "Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo / ed è
contrario alle nostre azioni; / ci rimprovera le trasgressioni della legge / e ci
rinfaccia le mancanze / contro l'educazione da noi ricevuta. [... ] / Vediamo se le sue
parole sono vere; / proviamo ciò che gli accadrà alla fine. / Se il giusto è figlio di
Dio, egli l'assisterà, / e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. / Mettiamolo alla
prova con insulti e tormenti, / per conoscere la mitezza del suo carattere / e saggiare
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la sua rassegnazione. / Condanniamolo a una morte infame, 1 perché, secondo le sue
"» (Sap 2,12, 17-20).
parole, il soccorso gli verrà
La prima lettura è tratta dal Libro della Sapienza,
prefigura la passione di Gesù e risponde a una
domanda che ci viene rivolta tante volte: era
proprio necessario che Cristo morisse? Era
proprio predestinato il tradimento che l'avrebbe
portato alla morte?
Di per sé non era necessario che Gesù morisse;
ma é vero che la presenza di un uomo giusto in
mezzo ai peccatori è sempre fonte di imbarazzo:
«Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di
imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni». Gesù
rappresenta la bontà infinita di Dio in mezzo a noi
uomini cattivi, e perciò sarà messo a morte. Egli
non cerca la morte e però l'accetta per amore di
noi peccatori, per mostrarci l'incredibile amore di
Dio che ci vuole perdonare e salvare. Possiamo
dire che si è lasciato mettere in croce per renderci
certi dei perdono di Dio.
Seminare giustizia e amore
«Carissimi, dove c'é gelosia e spirito di
contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive
azioni.
97
La sapienza che viene dall'alto invece è
anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, senza
parzialità, senza ipocrisia.
Un frutto di giustizia viene seminato nella pace
per coloro che fanno opera di pace.
Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono
in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre
passioni che combattono nelle vostre membra?
Bramate e non riuscite a possedere e uccidete;
invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete
e fate guerra! Non avete perché non chiedete;
chiedete e non ottenete perché chiedete male,
per spendere per i vostri piaceri» (Gc 3, 16~4,
3).
«In quel tempo, Gesù e i discepoli
attraversavano la Galilea, ma egli non voleva
che alcuno lo sapesse.
Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro:
"Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato
nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma
una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà".
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Essi però non comprendevano queste parole e
avevano timore di chiedergli spiegazioni.
Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in
casa, chiese loro: "Di che cosa stavate
discutendo lungo la via?". Ed essi tacevano.
Per la via infatti avevano discusso tra loro chi
fosse il più grande. Allora, sedutosi, chiamò i
Dodici e disse loro: "Se uno vuol essere il
primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti".
E preso un bambino, lo pose
abbracciandolo disse loro: "Chi
di questi bambini nel mio nome,
chi accoglie me, non accoglie me,
mi ha mandato"» (Mc 9,30-37).
in mezzo e
accoglie uno
accoglie me;
ma colui che
Il secondo testo, dalla Lettera di san Giacomo, è
molto attuale e ci insegna che non ci sono guerre
giuste, perché le guerre derivano dalle passioni
che sono in noi, dai nostri vizi, dai nostri peccati,
dalle nostre invidie. Ed è quindi nostra la
responsabilità dei disastri, delle violenze e delle
sofferenze causate dalla guerra.
Alla guerra, continua il brano, si oppone la
sapienza che viene da Dio, una sapienza che è
99
pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di
misericordia. Chi semina giustizia, bontà, amore,
pazienza e perdono raccoglierà opere di pace.
Del vangelo di Marco sottolineo solo una parola
illuminante di Gesù: «Se uno vuol essere il
primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti» ;
Alla brama di primeggiare nell’avere, nel potere e
nell'apparire egli sostituisce il desiderio di
servire. Questa è la grandezza di Dio. Essendo
amore, non afferma se stesso a spese dell'altro,
ma lo promuove a sue spese; non si serve
dell'altro, ma lo serve; non lo spoglia di ciò che
ha, ma si spoglia, a suo favore, di tutto, anche di
sé. Essere povero, umile e piccolo è la
caratteristica propria di Dio che, divenuto Figlio
dell'uomo, si è fatto ultimo di tutti e servo di tutti.
La vera grandezza del discepolo è diventare come
il Maestro.
Preghiamo dunque in questa Eucaristia perché ci
conceda la grazia di imitarlo e perché in tutto il
mondo, e soprattutto là dove si soffre di più, si
semini giustizia e amore, nascano frutti di pace.
100
Il tempio indistruttibile
Omelia nella Messa di lunedì 22 settembre 2003
Dopo la lettura della Lettera di Paolo a Timoteo, inizia nella liturgia quella dei Libro di
Esdra, una nuova pagina della Scrittura, come per voi comincia una nuova pagina della
vostra vita dopo l'esperienza degli esercizi.
«Nell'anno primo del regno di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola che
il Signore aveva detto per bocca di Geremia, il Signore destò lo spirito di Ciro re di
Persia, il quale fece passare quest'ordine in tutto il suo regno, anche con lettera:
"Così dice Ciro re di Persia: il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni
della terra; egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in
Giudea. Chi di voi proviene dal suo popolo? Sia con lui il suo Dio; tomi a
Gerusalemme, che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore Dio di Israele;
egli è il Dio che dimora a Gerusalemme. Ogni superstite in qualsiasi luogo sia
immigrato, riceverà dalla gente di quel luogo argento e oro, beni e bestiame con
offerte generose per il tempio di Dio che è in Gerusalemme '. Allora si misero in
cammino i capifamiglia di Giuda e di Beniamino e i sacerdoti e i leviti, quanti Dio
aveva animato a tornare per ricostruire il tempio del Signore in Gerusalemme.
Tutti i loro vicini li aiutarono validamente con oggetti d'argento e d'oro, con beni e
bestiame e con oggetti preziosi, oltre a quello che ciascuno offrì volontariamente
»
(Esd 1, 1-6).
Nel 538 a.C., l'anno seguente la conquista di
Babilonia da parte dei Persiani, un editto del re
Ciro autorizza gli Ebrei a tornare a Gerusalemme.
Lo scriba Esdra ci parla anzitutto di questo
proclama e del ritorno del popolo, della salita a
Gerusalemme, che in ebraico si dice alia «Così
dice Ciro re di Persia: il Signore, Dio del cielo,
mi ha concesso tutti i regni della terra [... ]. Chi di
voi proviene dal suo popolo? Sia con lui il suo
101
Dio; torni a Gerusalemme, che è in Giudea». E’
la stessa ansia del ritorno che negli ultimi decenni
ha spinto a tornare nella città santa milioni di
ebrei dalla Russia, dal Sud America, dal Sud
Africa, dall'Etiopia e da tanti altri Paesi. Milioni
di persone che hanno sentito il richiamo dell'alia.
Il testo prosegue (ed è la seconda parola che
desidero sottolineare): «tomi a Gerusalemme, che
è in Giudea, e ricostruisca il tempio del
Signore, Dio di Israele». Questo tempio è stato
ricostruito parecchie volte e Gerusalemme stessa
sembra che sia stata distrutta e ricostruita ben
ventisei volte; è dunque una delle città più
sofferte e disperate del mondo. Eppure proprio in
questa città, tanto segnata dal peccato umano,
Gesù costruisce il suo tempio, che è lui stesso, il
tempio non fatto da mano d'uomo, quello che
dura sempre, nel quale siamo entrati, anzi di cui
siamo parte, come ci ha detto la Lettera di Pietro
sulla quale abbiamo riflettuto -in questi giorni.
Noi siamo quel tempio che è Gesù, tempio
indistruttibile, non eretto da uomini, eterno. Il
tempio di Gerusalemme è allora soltanto
un'immagine del tempio che è Gesù e che siamo
noi.
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«In quel tempo, Gesù disse alla folla: 'Nessuno
accende una lampada e la copre con un vaso o
la pone sotto un letto; la pone invece su un
lampadario, perché chi entra veda la luce.
Non c'é nulla di nascosto che non debba essere
manifestato, nulla di segreto che non debba
essere conosciuto e venire in piena luce.
Fate attenzione dunque a come ascoltate;
perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà
tolto anche ciò che crede di avere"» (Lc 8, 1618).
La piccola parabola del Vangelo sembra banale,
ovvia, addirittura insignificante: nessuno accende
una lampada per coprirla con un vaso. Eppure sta
a dire che nessuno fa un cammino spirituale,
come l'avete fatto voi, per poi tenerlo nascosto.
La parabola è per voi.
Avete in mano una lampada, avete una luce e
questa luce dovrebbe illuminare tutti i luoghi
dove vivete, la parrocchia, la Chiesa intera,
perché, pur se è una luce modesta, è capace di
rischiarare qualunque oscurità.
103
Accolga il Signore il nostro desiderio di essere
luce dei mondo come Gesù, per la forza della
Parola ascoltata e custodita con amore nel cuore.
104
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