Comments
Description
Transcript
Gang of Four - SentireAscoltare
digital magazine gennaio 2010 N.75 Il suono in cui vivremo Bachelorette Pond Shogu Tokumaru Everybody Tesla Twin Shadow White Ring Fauve! Gegen A Rhino Numero 6 Die Antwoord Gang of Four Turn On Top 40 2010 1 Gonjasufi A Sufi And A Killer 2 Richard Skelton Landings 3 Tame Impala Innerspeaker 4 Scuba Triangulation 5 Flying Lotus Cosmogramma 6 Ex (The) Catch My Shoe 7 Bjørn Torske Kokning 8 Books (The) The Way Out 9 Shackleton Fabric 55 10 Amor Fou I Moralisti 11 Villagers Becoming A Jackal 12 AA. VV. / Four Tet / Ramadanman Future Bass 13 Beach House Teen Dream 14 Joanna Newsom Have One On Me 15 Divine Comedy (The) Bang Goes The Knighthood 16 Non Voglio Che Clara Dei cani 17 Fursaxa Mycorrhizae Realm 18 New Pornographers (The) Together 19 Mulatu Astatke Mulatu Steps Ahead 20 High Places High Places vs. Mankind 21 Arcade Fire The Suburbs 22 Indian Jewelry Totaled 23 Francesco Tristano Schlimé Idiosynkrasia 24 of Montreal False Priest 25 Chicago Underground Duo Boca Negra 26 Four Tet There Is Love In You p. 4 Bachelorette 6 Pond 8 Shogu Tokumaru 10 Everybody Tesla 11 Twin Shadow 12 White Ring 13 Fauve! Gegen A Rhino Tune IN p. 14 Numero 6 Die Antwoord 18 Drop Out 22 Gang of Four 32 Il suono in cui vivremo Recensioni 44 Ensemble, Hanggai, Iron & Wine, John Vanderslice.... Rearview Mirror 84 Robyn Hitchcock Rubriche 27 Field Music Measure 28 Natalie Merchant Leave Your Sleep 29 Sam Amidon I See The Sign 30 Caribou Swim 31 Barn Owl Ancestral Star 32 Calibro 35 Ritornano Quelli Di... Calibro 35 33 Ikonika Contact, Love, Want, Hate 34 Cairo Gang / Bonnie “Prince” Billy The Wonder Show Of The World 35 Gil Scott-Heron I’m New Here 36 Crocodiles Sleep Forever 37 Mavis Staples You Are Not Alone 38 Jack Rose Luck in the Valley 39 Male Bonding Nothing Hurts 40 Erykah Badu New amerykah, part two: return of the ankh 76 Gimme Some Inches 78 Re-boot 80 China Underground 90 Giant Steps 91 Classic Album SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco, Staff: Stefano Pifferi, , Giancarlo Turra, Stefano Solventi, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Teresa Greco, Stefano Solventi, Luca Barachetti, Gabriele Marino, Andrea Napoli, Desiree Marianini, Marco Boscolo, Gaspare Caliri Guida spirituale: Adriano Trauber (1966-2004) Turn On Bachelorette —Menestrella sintetica— Una persistenza freak-folk che riaffiora attraverso l'ossessione synth pop e le fregole electro vintage. La splendida anomalia di Annabel Alpers AKA Bachelorette. D alle parti di Drag City qualcuno deve essersi fregato ben bene le mani. Comprensibile. Soprattutto dopo i buoni voti e i sempre più entusiastici riscontri “virali” riservati a My Electric Family, terzo opus a nome Bachelorette, moniker dietro al quale agisce la neozelandese Annabel Alpers. Non stupisce affatto quindi che l’etichetta di Chicago abbia rilevato e rimesso in circolo i suoi primi due titoli, il mini album d’esordio The End Of Things e il lungo Isolation Loops, rispettivamente del 2005 e del 2006. C’è di che rallegrarsene, perché la ragazza produce cose davvero interessanti. Procediamo con ordine: dopo un laurea in musica alla Canterbury University di Christchurch, Annabel si tuffa 4 nel surf-pop assieme ad un gruppo di cui nulla ci è dato sapere, gli Hawaii Five-O. L’esperienza finisce presto, troppa la voglia di soddisfare il proprio estro senza scendere a patti con le propensioni altrui. Miss Alpers non sente il bisogno di stare in una band, anzi: si rinchiude nella proverbiale cameretta con chitarra, basso, pianoforte e sintetizzatori e partorisce The End Of Things (Arch Hill Recordings, luglio 2005, 7.2/10), sette tracce che definiscono un enigmatico dissidio tra la smania robotica e la fregola vintage folk-psych. Due parole innanzitutto a proposito della voce: qualcosa a metà tra un ritratto pastello di Sandy Denny e una Beth Orton posterizzata, il tepore differito in una lunatica solennità che pure sa trasmettere un’immediatezza frugale, scolpendo melodie di luce colorata su praticelli sintetici. Love Is A Drug spedisce l’indolenza della ballad tra struggenti brume elettroniche, quel senso di retrofuturismo rappreso prima che diventi nostalgia, ipotesi di ciò che potrebbe essere (stato): oppure, se preferite, un gran pezzo di canzone. Che realizza una sintesi già sentita, certo (qualcosa tra i Grandaddy più eterei e i Royksopp passando per Sparklehorse e un pizzico di Delgados), ma con una convinzione rinnovata. E’ la traccia più interessante in scaletta, quella più ricca di segnali estetici e poetici, anche se gli sbuffi androidi di My Electric Husband (con l’algida ironia del testo dai sottili retrogusti angosciosi) da una parte e la flautata pensosità acustica della title track dall’altra apparecchiano appunto degli estremi stilistici tra i quali non è facile ipotizzare un congruo punto d’equilibrio. Senza contare l’aria acidula e “murder” di Pebbles And Dirt, elettricità cupa e voce ectoplasmatica su spartito neanche troppo vagamente Mark Lanegan (!). Se non è facile inquadrarne intenzioni e prospettive, è però evidente il talento compositivo e l’intensa disinvoltura delle interpretazioni. Capacità ribadite dall’esordio lungo Isolation Loops (Electroplate, 2006, 7.5/10), tra le cui undici tracce molte cose si chiarificano. Bachelorette-Annabel conserva geni freak nel DNA, lascia che si palesino attraverso le mutazioni sintetiche eigthies, i recuperi vintage (filmici e spacey) di certi Air, il respiro recuperato della folktronica e la tenerezza digitale imbastita da gente come i Boards Of Canada. Una menestrella sintetica che canta la solitudine dell’era iperconnessa? Può darsi. Certo, pezzi come And The Earth Knew Absence (gospel liofilizzato come potrebbe una cuginetta diafana di Bjork invaghita delle Cocorosie) o la struggente A Lifetime (french-touch Stereolab stemperato con fatamorgane Yo La Tengo) realizzano ben più di un ibrido da laboratorio, cogliendo il calore dell’immediatezza, della semplicità come frutto di complessità risolte. A tal proposito, il doo-wop letargico e stilizzato di Complex History Of A Dying Star suona più o meno come una Bjork - ancora lei - prodotta da Brian Eno, mentre Intergalactic Solitude disegna diafane traiettorie synthpop con spersa dolcezza Broadcast. D’altro canto, ecco la vena folk sbilanciata vaudeville affiorare nella graziosa Poppaccino, virata di esotismo onirico in Your Magic Air, mentre tremori e languori smazzano dense bradicardie errebì nella calorosa Doo-Wop. L’enigma permane perché l’enigma è lo spettacolo, il messaggio di solitudine rielaborata, fiera del proprio isolamento che si nutre di segnali da un mondo così pervasivo e distante. E’ il controcanto coscienzioso - se mi è consentito dire - di quella Goldfrapp che invece va banalizzando la propria calligrafia in uno shock mainstream che disperde le splendide radici electroavant. Torniamo così al punto di partenza, che poi è quello di arrivo, almeno per il momento: My Electric Family (Drag City, maggio 2009, 7.4/10) sposta l’ago della bilancia verso un più acuto grado di robottizazione, pur senza rinunciare a stratificazioni timbriche sempre più elaborate ed arrangiamenti mai tanto ambiziosi. Insomma, il passaggio a Drag City vorrà pur dire qualcosa. In primis il ricorso ad un pugno di musicisti che le danno una mano con basso, chitarre e batteria. Ed il respiro più ampio, di chi sa di dover abbracciare realtà globali. Non che prima non lo facesse, ma adesso la consapevolezza lavora. Il singolo Her Rotating Head dipana panneggi melodici da odalisca post-moderna su synth-pop iperottanta, preceduto dal funkettino iperboreo di Mindwarp e seguito dalla frigidità kraftwerkiana di Technology Boy: un trittico che sposta il baricentro della scaletta dalle parti di un’elettronica sensibile ben realizzata ma non proprio originale. Non a caso subito dopo la marcetta di Dream Sequence - coi fiati della Royal New Zealand Air Force Brass Band - arriva a sparigliare le coordinate, schiudendo possibilità altre come la processione bucolica di Where To Begin o il rigurgito sixties latin-tex di Donkey, per finire con la graziosa fragranza Stereolab sedata Young Marble Giant di Little Bird Tells Lies. Passi in avanti verso la definizione di un sound più strutturato, pagando un po’ di pegno in fase di scrittura. Resta netto però il senso di anomalia sonica in corso, di cui sarà bene d’ora in avanti non farsi sfuggire la traiettoria. Stefano Solventi 5 Turn On Pond — With a little help from my freak friends— Nick Albrook ci racconta di come un gruppo di giovani sognatori stia portando l’immaginazione al potere dall’altra parte del globo. V erso la metà del decennio appena trascorso, cinque giovani freak di Perth, assolata capitale dell’Australia Occidentale, si riuniscono in una band chiamata Mink Mussel Creek, iniziano a vivere insieme e condividono passioni comuni. Non sono ancora ventenni, ma per look e attitudine sembrano usciti da una bolla temporale posta in qualche punto dei tardi 60s, in quella zona del crepuscolo in cui l’oscurità non aveva ancor inghiottito il sogno hippy e forme di psichedelia evoluta davano origine ai primi embrioni progressive. È un’esperienza breve ma significativa la loro, di cui, per la precisione, non viene decretata ufficialmente la fine. Accade, piuttosto, che ciascuno dei membri inizi a intrecciare nuove relazioni artistiche, senza peraltro porre termine alla reciproca collaborazione. Ognuno di essi da vita a nuove band, instaurando una proliferazione inarrestabile di nuovi progetti, dei quali, saremmo ancora all’oscuro se uno di questi, non avesse imposto il proprio nome fra i più significativi dell’anno ancora in corso. Stiamo parlando dei Tame Impala, autori dell’affascinante affresco pop psych conosciuto come Innerspeaker, 6 della cui maestosa bellezza i lettori di SA non dovrebbero essere all’oscuro. Tame Impala è il moniker con cui Kevin Parker (l’originario batterista dei Mink Mussel Creek) realizza i propri album, ma la formazione, dal vivo comprende anche il bassista Pasley Adams, al secolo Nick Albrook, e il batterista Jay Watson, tutti ex MMC. In questa logica di band a geometrie variabili i Pond, progetto di cui Albrook è la mente principale, rappresentano l’alternativa funkedelica ai voli pindarici degli Impala. “Con i Pond generalmente cerchiamo di suscitare emozioni gioiose ed edificanti – mi racconta il socievole Paisley Adams, contattato in occasione dell’uscita del bellissimo Frond, primo album della band ad essere inciso in un vero e proprio studio di registrazione – tuttavia non è detto che un secondo dopo non si possa voler qualcosa di più aggressivo, malinconico oppure banalmente pop.” Quando Albrook è in cabina di regia, dunque, ci sono i Pond, incarnazione caotica e sexy di quello spirito che oggi aleggia dalle parti di Perth. “È difficile dire a cosa si possa ricondurre il nostro sound, perché ci piacciono le cose più disparate. Magari ci rendiamo conto di voler realizzare qualcosa di funky in stile Prince, ma prima che tutto sia finito vogliamo che suoni ancora più euforico e psichedelico, alla Flaming Lips per esempio. In una prima fase delle registrazioni eravamo convinti di voler fare un album country folk, ma arrivati a metà lavoro tutto si era già mescolato con sonorità ambient ed elettroniche.” L’eccitazione è palpabile, la confusione pure, sebbene quest’ultima sia facilmente imputabile alla giovane età del nostro protagonista e a una sorta di “incontinenza creativa”, corroborata da una versatilità strumentale che permette ai membri di questa folle combriccola di scambiarsi agevolmente i ruoli. Negli ultimi show dei Pond alla batteria sedeva Kevin Parker, in una sorta di versione 2.0 dei Mink Mussel Creek. È proprio dal vivo che le cose si fanno più interessanti: “Durante gli show, questa nostra tendenza a muoverci trasversalmente a parecchi stili, è ancora più evidente. Siamo incapaci di concentrarci fino ad affinare il nostro sound ma credo che emerga la voglia di divertimento che ci pervade e che vorremmo trasferire in chi ci ascolta. Per questo ci piace portare sul palco un numero di persone maggiore, rispetto a quelle che hanno partecipato alla stesura originaria dei brani. Tutto questo tende a condurre la nostra musica in direzioni impreviste.” L’abbattimento delle barriere fra artisti e pubblico è solo un aspetto della dissoluzione dei ruoli che rende così dinamica la scena cittadina. “Diciamo che è come se la distinzione tra le band si stesse dissolvendo. C’è soltanto un bel gruppo di musicisti, con una sensibilità molto affine e sonorità che cambiano secondo chi sta suonando con chi in quel momento. Ogni gruppo ha un nome che serve più che altro a distinguere chi scrive i brani, ma i membri della band sono quasi gli stessi. Ogni volta che qualcuno di noi ha una canzone e ha bisogno di qualcuno che la suoni o la incida con lui, sa bene che gli altri del gruppo sono gli elementi migliori a cui rivolgersi, quelli che capiscono meglio di chiunque altro quello che ha in mente.” A questo punto la tentazione di immaginarsi Perth come una sorta di terra promessa per hippy del ventunesimo secolo è molto forte. È lo stesso Albrook a riportarci con i piedi per terra. “Mi piacerebbe dirti che qui è tutto fantastico, ma purtroppo non è così. I locali che esistevano hanno chiuso o sono stati acquistati da grandi compagnie. C’è rimasto veramente poco. Per quanto riguarda le etichette, il discorso è leggermente diverso. Ci sono parecchie label in città, ma l’unica veramente interessante è la Badminton Bandit: è quella che si prende cura dei migliori artisti, gruppi e songwriter della zona.” E per quanto riguarda le band? “I gruppi interessanti non mancano. I miei preferiti sono i Rabbit Island: fanno la musica migliore che abbia sentito da molto tempo a questa parte. Purtroppo Amber (Fresh, leader della band, nonché poetessa e grafica di professione, ndr) è sempre troppo occupata per dedicarsi a scrivere canzoni a tempo pieno. È un’artista incredibile, sempre impegnata a realizzare cose creative ovunque e con chiunque. I These Shipwrecks e i Growls sono altri due gruppi stupendi: sporchi, psichedelici ed emotivi. Come anche The Silents, naturalmente.” Dei quali, peraltro, fa parte anche Jamie Terry, quarto membro “stabile” dei Pond. L’impressione è che l’attenzione riscossa dal debutto dei Tame Impala abbia acceso i riflettori sulla scena neopsichedelica di Perth e che altre band, Pond in primis, stiano per beneficiare di questo cono di luce. Il problema, per gli infaticabili membri del collettivo, nascerà quando l’infinito tour di Innerspeaker, in atto ormai da mesi, andrà a cozzare con le tappe promozionali dei Pond. Dal canto suo, l’ineffabile Albrook non si scompone: “Personalmente mi limito a prendere tutto come viene. Se le cose si facessero troppo pressanti non avrei problemi a lasciar perdere entrambe i gruppi. Per fortuna al momento non è così. Di tempo ne abbiamo, lavoriamo sodo ma è ancora tutto molto tranquillo. In fondo è solo di musica che stiamo parlando!” Diego Ballani 7 Turn On Shugo Tokumaru — L’arte dal sogno— Sol Levante e Albione, jazz e progressive, punk e indie, tanto indie, per una piccola grande perla di artigianato pop “C redo che nemmeno i miei connazionali riescano davvero a capire di cosa parlano le mie canzoni”. Parole di Shugo Tokumaru che dal Giappone con il suo recente Port Entropy ha sparso anche da noi le sue perle di indie pop purissimo. Le sue sono a un crocevia tra le tradizione musicale del Sol Levante e il pop occidentale, soprattutto britannico. Il quarto disco della sua carriera, iniziata nel 2004 con Night Piece, è giunto da poco nei nostri lettori e ha colorato tutto in tinte pastello, sfruttando un linguaggio pop trasversale. Ad amplificare l’esotismo della sua proposta, l’uso esclusivo della lingua giapponese, che all’orecchio di chi non lo conosce ha la stessa magia di una lingua inventata come l’elfico del Signore degli Anelli. 8 Oltre alla distanza linguistica che separa Italia e Giappone, entrare nel mondo di Shugo Tokumaru non è semplice perché si ha la netta impressione che le parole non siano proprio il suo forte. “Non sono bravo a scrivere i testi per le mie canzoni”, ci confessa, “così sfrutto gli appunti che prendo sui sogni che faccio quando dormo. In generale, credo che le mie canzoni non abbiano punti di contatto con cose concrete o reali”. Ecco: sempre il sogno e la fantasia a fare capolino nella poetica del giapponese. La forma privilegiata per esprimersi sembra proprio quello della musica. Shugo Tokumaru è un polistrumentista versatile e nei suoi dischi tende a fare tutto da solo, facendo esplodere nella sua fantasia l’estetica tipica del genietto da cameretta tanto cara al mondo indie di questi ultimi anni. “Scrivo tutti i giorni, in un sacco di modi diversi. A volte mi metto a suonare uno strumento e vedo semplicemente cosa ne esce fuori. Altre volte, invece, ho in testa tutti i dettagli del brano e devo solo mettermi lì a registrarlo come me lo sono immaginato”. In quest’ultimo caso, si tratterà probabilmente dei messaggi che arrivano da band che popolano i sogni di Shugo: “a volte, quando mi sveglio, cerco di ricostruire le canzoni che band sconosciute e immaginarie hanno suonato nei sogni che ho fatto”. Il musicista come Demiurgo che plasma una materia divina/onirica che arriva direttamente da un altro mondo. Che il lato onirico e fantasioso delle composizioni, sia davvero trasmesso nel sogno a Shugo stesso o il frutto del suo lavoro artigianale, fanno spesso venire alla mente Il mio vicino Totoro, Il castello errante di Howl e le altre opere cinematografiche del maestro Hayao Miyazaki che hanno avuto successo anche qui da noi, oltre ad averlo reso una leggenda vivente in patria. I due sembrano condividere la giocosità dell’atto creativo e la capacità di far coesistere in maniera del tutto plausibile elementi della quotidianità e del mondo reale, con l’invenzione, il fantastico, l’altrove, sia questo un luogo fatto di macchine volanti e strani esseri, oppure una paesaggio sonoro basato sulla tradizione pop mondiale. Che siano frutto della sua attività artigianale con gli strumenti o che siano idee che provengono dal mondo dei sogni, quelle di Shugo Tokumaru sono canzoni che lasciano in bocca un vago retrogusto di John Lennon. La sua è una presenza costante per tutte le composizioni di Port Entropy, tanto che ad ogni passaggio ci si aspetta di sentirlo intonare Strawberry Fields vestito da Peter Pan, mano nella mano con Wendy/Yoko Ono. Un’altra presenza palpabile è quella del Robert Wyatt solista. Una presenza che viene amplificata dal- la vicinanza nella timbrica delle due voci. È questo il lato bucolico, da pic nic nel parco che vena di spirito canterburiano Port Entropy. Ma quello con Wyatt è un accostamento che Shugo non accetta in toto: “non credo che la mia musica sia stata influenzata da Robert Wyatt. Dalla musica europea e americana ho sicuramente preso spunto”, ma dal mondo indie più che quello dei classici di canterbury. E soprattuto spaziando senza confini di genere: “nel mondo indie prendo tanto dal punk, quanto dal progressive e dalla psichedelia. E un po’ di jazz”. L’esperienza live negli Stati Uniti ha messo Shugo in diretto contatto con quel mondo indie da cui trae ispirazione. Durante il tour del 2008 sono saliti sul palco con lui personaggi di primo piano del panorama internazionale, come alcuni musicisti di casa Beirut (“è un progetto musicale che sento vicino da un punto di vista musicale”) e altri dei National (“un’altra band che sento molto affine”). Non sarà americano, ma durante l’ultimo tour europeo, Jens Lekman ha calcato il palco per suonare con Shugo nelle tappe scandinave: “è un personaggio che mi piace molto e mi sono trovato molto bene”. Chissà come devono essere state le serate dopo aver suonato, in una terra molto predisposta a fate e incantesimi (Pippi Calzelunge e Babbo Natale sono pur sempre di quelle parti). Sul fronte compositivo, abbiamo già detto della tendenza all’autarchia da cameretta. Autarchia che non si traduce in un controllo assoluto sulla musica. Certo, le influenze, dichiarate e non, sono talmente disparate e variegate che non ci si aspetta possano coesistere così facilmente. Eppure, il sound di Shugo è del tutto personale e riconoscibile, e una volta ascoltata una qualsiasi delle canzoni da uno dei suoi quattro dischi (forse il primo, Night Piece del 2004, risulta più derivativo dei seguenti tre) si riconosce subito qualsiasi sua altra composizione. L’aspetto più sorprendente è l’assenza dell’aspetto intellettualoide che caratterizza molto indie pop di oggi. Qui a regnare sono la fantasia e il sogno: “tutto sommato non penso tanto a chi mi ha influenzato o a che tipo di relazione ha la mia musica con la tradizione del mio paese: mi interessa soltanto continuare a fare la musica che mi piace”. Ecco, se vi è piaciuto Port Entropy andate a ripescare gli altri episodi e cominciate a sperare che al prossimo tour europeo decida di includere anche l’Italia. Nel qual caso, si accettano scommesso su chi si porterà sul palco. Marco Boscolo 9 —Epistemologia del live looping— —Black And White— George Lewis ha azzeccato uno degli esordi dell’anno con un misto di sintetiche Ottanta e soul Settanta senza perderci in cotonatura pop. Lo abbiamo contattato. Un duo sardo imbrigliato nei cavi di un elettronica rumorosa, psichedelica e atomizzata. C i volevano uno studente di Ingegneria elettrica e uno di Fisica per concepire un progetto come gli Everybody Tesla. O forse il curriculum scolastico di Dario Licciardi e di Alessio Atzori è solo uno degli elementi che vanno a comporre quel mosaico un po’ schizoide di stimoli musicali e non alla base del suono della formazione. Assieme, ovviamente, ai progetti solisti che i due musicisti sardi portavano in giro fino a qualche tempo fa, rispettivamente Gran.Farabutt. Loop.Man. (“Sono sempre stato un patito dei grandi concept - floydiano praticante - e parallelamente dei blob televisivi e musicali. Ho dato il via al mio progetto cercando di compenetrare queste due dimensioni”) e MyNerdPride (“Ho scelto il GameBoy perchè con una simpatica cartuccia può diventare un vero e proprio sequencer. Ne ho presi tre, assieme a un vocoder e a un kaoss pad e ho iniziato a fare concerti”). Certo è che un indole scientifica da se(le)zionatori di suoni dovevano già averla innata i due, visti i buoni risultati ottenuti da un EP posizionato sull’asse Fuck Buttons/Silver Apples/Animal Collective/Black Dice che per ora rappresenta l’unica testimonianza discografica della formazione. Un disco in bilico tra elettronica, tastiere giocattolo e campionamenti che finisce per generare un’idea di psichedelia fortemente ritmica, stratificata 10 Turn On Twin Shadow Turn On Everybody Tesla e perennemente in loop. L’immaginario del gruppo diventa un contenitore dalle dimensioni incerte che vive di cambi di prospettiva, errori involontari capaci di suggerire soluzioni alternative, voci filtrate e riverberi. Alla ricerca di un’originalità che è sommatoria delle parti ma non solo: “Ci piacciono molto le contaminazioni. Il progetto, in origine, era basato solo sul campionamento di un Didgeridoo, poi abbiamo iniziato a metterci dentro tutto quello che avevamo a disposizione, in particolare giocattoli, tastierine, lo stesso GameBoy. Ultimamente stiamo lavorando con microfoni a contatto sul corpo. Ci piacerebbe fare un pezzo che contenesse i nostri battiti cardiaci.” L’Ep lo pubblica la On Two Sides su cassetta, un po’ per questioni emotive legate al supporto, un po’ perché la natura stessa dell’operazione armonizza a dovere con quell’estetica “nerd” da raccolta differenziata (di suoni) del gruppo, un po’ perché il formato è economico e se devi mettere in ordine le idee è quello che ci vuole. In attesa di un esordio lungo previsto per la prossima primavera e di una collaborazione futura ma ancora ipotetica (“Abbiamo già qualche idea e durante queste vacanze di Natale vedremo di concretizzarla”) col conterraneo Iosonouncane. Fabrizio Zampighi F orget, l’esordio di Twin Shadow, aka George Lewis Jr., dominicano, ma giunto a Brooklyn via Florida, è stata una piccola sorpresa del 2010. Etichetta importante per un sound immerso negli Ottanta di Morissey e compagnia, ma capace di guardare alle radici più profonde del decennio precedente, al confine tra musica black e rock bianco. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui, mentre sta portando le sue canzoni nei locali americani e registrando versioni speciali per i vari blogger che contano. George Lewis Jr. sembra voler dare contro alla critica che lo ha messo tra gli innamorati di ritorno degli anni Ottanta e dei suoi suoni sintetici. Sarà stata l’appartenenza all’etichetta britannica a guidare i critici musicali di mezzo mondo o è una tendenza inconscia dello stesso musicista? Difficili dirlo. Di sicuro Forget suona come un tentativo di proiettare più luci dei Settanta negli Ottanta di quanto normalmente non si voglia o tenda a fare. E se al pensiero, forse davvero peregrino, che una versione acustica (come mostra una versione “naked di Slow rintracciabile sul sito) dei di Forget sembrerebbe portare da altre parti rispetto a quanto si può sentire nel disco, George Lewis Jr. risponde piccato che “si tratta degli stessi brani, dicono le stesse cose” e chiude definitivamente l’argomento. Il lato soul del disco e l’amore per la musica black (“una delle cose più divine che esistano sulla terra”) tinge di scuro e di Detroit il sound 4AD in grana grossa (vedi il video di Castle in the Snow) di telefilm come Starsky And Hutch e CHIPs, a bordo di Ford Gran Torino, Porsche 924 (1976), Chevy Corvette 454 (1971). Dietro a Forget c’è un’anima almeno in parte da crooner, da innamorato della musica degli endless seventies, quelli dei jeans a zampa, dai Ray Ban a goccia, del rock della tradizione, della Motor City, Donna Summer e Bee Gees. Nel mondo di Twin Shadow c’è un clash tra black e white, tra due immaginari più che ambiti musicali, che pensiamo più separati di quanto non siano stati davvero. O che forse oggi, a distanza di decenni possiamo riscrivere come meglio crediamo. Marco Boscolo 11 —Di bestie, destrutturazioni e contraddizioni— —Grave Wave in salsa esoterica— Date un ascolto ai F!GAR se volete sapere cosa significhi crescere a pane e mp3. Electro-noise insieme ambientale e tribale, cerebrale e muscolare per un terzetto di esordienti Le rune e le brume della casa infestata hanno nuovi adepti: i White Ring, della chanteuse Kendra Malia, la prossima Zola Jesus U no dei nomi di punta della nuovissima armata witch è un duo di Brooklyn formato dal beatmaker Bryan Kurkimilis e dall’ultima chanteuse in salsa goth Kendra Malia. Avvolti da un manto nebbioso e circondati da immancabili simboli runici, i White Ring hanno esordito lo scorso marzo con un 7 pollici condiviso con i sodali oOoOO (clickatissimo geroglifico) sulla svedese Emotion, mettendo subito in chiaro di che pasta sono fatti: la loro Roses era un perfetto esempio di “nuova onda funerea” con quattro minuti di bassi grevi, rullanti affilati come fendenti, synth apocalittici su cui si stagliava il mesto, confuso cantato di Kendra. Pochi mesi ed è tempo per un secondo singolo. Suffocation, il loro pezzo migliore, esce per la canadese Hi-Scores Recording Library e sposta ancora di più l’asse sonoro sul versante electro, con un incalzante beat e frammentate note di tastiera a far da supporto alla spiritata voce della chanteuse. Licenziato in due edizioni – una su vinile corto e una in digitale con ben cinque remix aggiuntivi, tra cui anche uno ad opera di un altro nome gettonato del lotto, Mater Suspiria Vision – apre le porte al primo tour europeo, solo in quel Regno Unito sempre così attento alle mode, e alla partecipazione alla compilationmanifesto Isvolt con quella IxC999 il cui video circola già da qualche mese in rete. 12 Turn On Turn On White Ring Fauve! Gegen A Rhino Al netto delle aperture da hip-hop inacidito, l’ambiente di riferimento del duo newyorchese è quello del witch-house alla maniera dei maestri Salem. L’anello bianco però vira più verso una disgregazione ritmica e una evanescenza che rimanda all’immaginario 4AD post-Dead Can Dance o Cocteau Twins: rimandi esoterici e ambientazioni medievali, fanno da sfondo a pezzi dilatati e più neri del solito, ma dotati di una grazia e un incanto vocale in grado di battersela, in un futuro prossimo, con la reginetta Zola Jesus e, per ora, di attirare l’attenzione dei fan della compagine esoterica tutta. Ne è esempio il nuovo 12 pollici Black Earth That Made Me, uscito ora per la casa madre di tutte le apprendiste fattucchiere, la texana Disaro. Ovviamente il disco è sold out, complice la tiratura ridicola di sole duecento copie di questa prima edizione, ma, ne siamo certi, ne seguirà una seconda. In 25 minuti scarsi di musica l’ep raccoglie sei pezzi tra cui la sopracitata Roses e dà la prima conferma della capacità dei due: tessere incubi metropolitani in cerca di una ricollocazione nel mondo pagano e pre-moderno. E’ quanto basta. Andrea Napoli E ccola la generazione cresciuta a pane e mp3. Che ha accesso a tutto lo scibile musicale “orizzontalmente”, privo di nessi di consequenzialità cronologica e in cui l’hic et nunc è la somma del tutto. Humus immenso e atemporale che fa nascere progetti che se ne fregano di citare padri putativi perché questi non stanno su un podio distante e algido ma seduti lì, al fianco di ventenni spregiudicati che si scelgono nomi curiosi. Da belve che combattono rinoceronti, metaforiche forze brute, ancestrali che si scontrano però in discoteche venusiane, tra led e fiumi di azoto. Can, Chrome, Cabaret Voltaire seduti accanto a Fuck Buttons, Aa, Black Dice; Fennesz e Brian Eno a conversare amabilmente con Autechre, Pan Sonic e Suicide. Uno spazio-tempo dilatato e vuoto, quello dei F!GAR. In cui tutto convive allo stesso tempo e in uno stesso spazio (non)fisico creando frattali sonori che si diramano in ogni direzione possibile. Contemporaneamente. Così Matteo Moca (chitarra, voce effettata e altro), che insieme a Riccardo Gorone (chitarra, basso, theremin, oscillatori) e Andrea Lulli (synth, drum machine) completa il terzetto: In questi anni, peer to peer e affini hanno spalancato le porte della percezione, citando Huxley. La quantità di musica che in potenza possiamo ascoltare è infinita. Seppure non sia sempre un fatto positivo – si pensi alla elefantiasi produttiva e spesso acritica che va a scapito della qualità media –puoi scoprire qualsiasi cosa, da qualsiasi posto della terra. Essere influenzati da tutti gli artisti che hai citato, crea una voglia ancora maggiore di confrontarsi e di andare oltre, superare, ricercare e non essere mai appagati. Non esercizi di necrofilia scorretta, dunque, quelli di Geben o Namegiver’s Avenue. Se il primo risultava più muscolare e ritmico, e il secondo vive di una smaterializzazione sonora di stampo concettuale, ad accomunare entrambi è la rielaborazione di input tra i più diversi messi al servizio di una sorta di ambient-noise da discoteca del terzo millennio. Percussivismo, dilatazioni post-kraut, ossessività electro, destrutturazioni art-wave dimostrano la dicotomica anima della band: Una spensierata, che danza sul mondo, ne apprezza la bellezza e le sue manifestazioni; l’altra sospettosa, poco convinta della bellezza che si manifesta, ma certa della bellezza nascosta. Una che apre gli occhi e fa brillare di luce splendente ogni cosa rendendola diamante; l’altra che raccoglie il carbone nell’oscurità e lo porge agli alchimisti. Una è la sfinge; l’altra è l’oracolo. In mezzo loro tre, a sviluppare queste contraddizioni. Stefano Pifferi 13 Tune-In Numero 6 —Energici. Elettrici. Immediati.— Testo: Stefano Solventi Col terzo album I Love You fortissimo i Numero 6 hanno realizzato il perfetto album pop rock in italiano. Di questo e altro abbiamo parlato con Michele “Mezzala” Bitossi. 14 Consentimi innanzitutto una domanduccia riguardo al titolo, I Love You fortissimo: i miei sensori avvertono ironia, ma potrebbe essere anche una seria dichiarazione d’intenti. Che mi dici? I tuoi sensori avvertono la cosa giusta. Trovare titoli a canzoni e album non e’ mai stata una mia grande prerogativa. Solitamente lascio volentieri quest’ incombenza ai miei compagni di avventura. A ‘sto giro invece il responsabile del misfatto sono io. Durante le registrazioni del disco girando per Genova in vespa mi sono imbattuto in una scritta a spray su un muro che recitava “i love you fortissimo”. Non so spiegarti il perché ma sono rimasto folgorato da ‘sta cazzata. Inspiegabilmente i miei “soci” mi hanno assecondato e abbiamo trovato il titolo al disco. Devo dire che sta facendo piuttosto schifo in giro. Bene cosi’. Nella mia mente malata dovrebbe esprimere il nostro essere naïf. Veniamo alla sostanza: avete realizzato probabilmente il disco di perfetto pop-rock in italiano. Melodico ma grintoso, accattivante ma non banale, intenso senza velleità poetiche o - peggio - sociopolitiche. Quello che, come si dice, ci piacerebbe sentire alla radio in un mondo più giusto. E’ frutto di una pianificazione o le cose sono andate come dovevano andare? Ti ringrazio molto per questi gratificanti commenti. Questo album è frutto di una meticolosissima pianifazione, ci mancherebbe altro. Intendo dire che sia io in scrittura che insieme agli altri quando si è trattato di fare gli arrangiamenti e la produzione abbiamo focalizzato l’ambizione di realizzare un album che avesse esattamente le caratteristiche che fortunatamente riscontri tu. A questo punto non ci resta che sperare che molta gente la pensi nella stessa maniera. Quanto alle radio italiane maistream sono ne più ne meno lo specchio del miserabile appiattimento culturale della nostra povera patria. Nei corridoi che purtroppo contano non esiste la minima parvenza di curiosità e voglia di scommettere su proposte che hanno sostanza e cose da dire ma che non si rifanno alle coordinate preconfezionate da reality show. Quando poi una radio nazionale come radio 2 sembra aprirsi a una programmazione decente il sogno dura pochi mesi e tutto rientra nei ranghi dai quali si era partiti. Amico mio, questo mondo non e’ giusto. Mi sembra che il vostro sound metabolizzi principalmente i novanta e un bel po’ di anni sessanta, senza disdegnare quel che sta nel mezzo. Mi chiedo quanto venga elaborato dalla fonte (The Moody Blues? Pavement? Husker Du? Sam Cooke? Weezer? Sonics?) e quanto dalle controparti italiane, da Bat- tisti a Ivan Graziani passando per Afterhours e Perturbazione... Io sono del ‘75 e non posso prescindere dai miei tantissimi ascolti degli anni novanta molti dei quali sono ancora oggi in cima alle mie playlist. Le anime anni sessanta della band sono Tristan e Stefano, da sempre beatlesiani convinti. Tristan soprattutto con la sua entrata in organico ha portato una ventata “beat” che ha fatto bene al sound dei Numero 6. Tutti gli artisti che hai citato sono effettivamente fonti di ispirazione significativa. E’ un po’ di tempo tuttavia che quando scrivo penso a riferimenti italiani. Uno su tutti, appunto, e’ il grandissimo Ivan Graziani, che considero un vero e proprio genio, purtroppo assai sottovalutato. L’approccio mi sembra ancora più diretto rispetto a Dovessi mai svegliarmi... Quanto pensi abbia influito e a che livello (estetico, contenutistico...) l’esperienza con quel punkettone situazionista in incognito di Enrico Brizzi? L’esperienza con Enrico Brizzi e’ stata importante per tante ragioni, sia sul versante live che per quanto riguarda il disco che abbiamo fatto insieme e che, fortunatamente, ha riscosso unanimi consensi. Uno degli aspetti a mio avviso piu’ significativi e’ stato il fatto che ne Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro abbiamo, senza fare molti calcoli per la verità, recuperato un approccio molto piu’ energico, elettrico e immediato rispetto all’ ultimo album che era assai introspettivo e acustico. A 35 anni abbiamo sentito nuovamente il bisogno di alzare i volumi e di fare rock’n’roll. Questo spirito “plug and play” lo abbiamo portato in dote anche al nuovo disco dei Numero 6. Inevitabile parlare dei testi. Sono punti di vista indomiti sulla normalità, squarci di lucidità nel quieto (e spesso inquieto) vivere, spasmi di neuroni non privi - non del tutto, non ancora - di dignità. Tutta roba presa dalla vita vera? In linea di massima sì. Tengo moltissimo al versante testuale delle mie canzoni anche se non parto mai dalle liriche quando compongo. Da sempre penso ai testi una volta che ho la musica pronta ed è sempre una sfida disagevole dal momento che il mio approccio è assai poco “cantautorale” dal punto di vista delle metriche. Detto questo attingo quasi esclusivamente da ciò che vedo e ascolto. Anche i testi più “narrativi” nascono sempre da roba vera. Pur evitando la retorica del cantautorato sociopolitico, vi capita di elargire qualche sentenza sullo stato delle cose. Perciò mi sbilancio a chiedervi: cosa resterà di questi anni zero? Musicalmente oppure non, fate voi. 15 Intendi di “questi cazzo di anni zero”? Non saprei. Mi auguro fortemente che non resteranno i dischi oggettivamente brutti e disonesti di cui bisogna comunque parlare bene perché fa figo e perché se no non capisci un cazzo. Vorrei che rimanesse almeno un po’ della rabbia che in molti stiamo accumulando, potrà sempre servire. Poi vorrei che restasse indelebile il ricordo di una domenica: quella in cui il Genoa vincerà il decimo scudetto e, di conseguenza, la stella. In effetti in alcuni testi mi piace inserire delle frasi “ad effetto”. lungi da me però volermi ergere su chissà quale piedistallo, sia chiaro. Una delle cose che mi piacciono è quel senso di composizione di gruppo, ovvero di canzoni che sbocciano e prendono forma e forza provandole nella famosa cantina. E’ così oppure arrivate in studio coi pezzi già scritti? E’ molto affascinante e interessante che tu dica questo. Ti spiego perché. Da sempre il processo creativo e produttivo delle band in cui ho militato (Laghisecchi e Numero 6) mi ha visto scrivere le canzoni per sottoporle alla band già praticamente finite e, di conseguenza, con margini di intervento piuttosto limitati da parte degli 16 altri. Anche per questo disco ho scritto tutti i testi e le musiche ma è stato fondamentale il confronto con Andrea, Stefano e Tristan. abbiamo arrangiato tutto insieme, partendo sempre dal mio materiale ma mischiando spesso le carte, facendoci trasportare dall’entusiasmo e dalla pulsione creativa durante ore e ore di prove. Già che ci siamo, come siete messi a sala prove? Quali sono le difficoltà pratiche che deve affrontare una band come la vostra per sfornare un disco? Fortunatamente disponiamo di una sala molto grande ed accogliente presso il Forte Castellaccio sulle alture di Genova, un posto davvero ideale per scrivere e suonare. Dal punto di vista produttivo abbiamo finanziato autonomamente questo album per quanto riguarda le registrazioni il missaggio e il mastering. Occorrono sacrifici perché per fare le cose bene bisogna elargire somme non indifferenti. D’altra parte abbiamo la fortuna di avere addetti ai lavori amici che credono nel nostro lavoro e che gentilmente spesso ci vengono incontro. Da Eclectic Circus a Supermota passando per Green Fog: le piccole label sono più un riparo, una necessità o un’opportunità? Possono essere un po’ tutte e tre le cose. Nel senso che nonostante ormai sia pressochè un miraggio il fatto di poter usufruire di budget per registrare o per promuovere gli album ritengo che sia conveniente per una band collaborare con un’etichetta indipendente nel caso in cui si incontrino persone capaci, volenterose, appassionate e serie che dimostrino di lavorare come si deve ai progetti, a prescindere da bieche logiche commerciali. Al giorno d’oggi non è più necessario fregiarsi di un marchio se ad esso non corrisponde il lavoro reale di qualcuno. Detto questo bisogna riconoscere che i media tendono a considerare diversamente a priori album che escono autoprodotti rispetto ad altri griffati da label più o meno alla moda. Tenuto conto dei volumi di vendita - che ovviamente vi auguro di smentire - e la generale disaffezione nei confronti del supporto fisico, non avete mai preso in considerazione l’idea di distribuirvi da soli? Fortunatamente c’è ancora chi, come me, desidera ancora possedere una copia fisica di un disco che gli piace. Io non ho mai smesso di comprare vinili, e sono davvero felice che questo fantastico formato stia tornando in auge. Il cd è praticamente morto, nonostante i tentativi di sfornare confezioni accattivanti. Probabilmente questo è l’ultimo nostro lavoro ad uscire in cd. In futuro credo faremo soltanto vinili e files digitali da distribuire in rete. In ogni caso, nonostante siamo distribuiti nei negozi da Audioglobe, puntiamo maggiormente sulla vendita dei dischi ai concerti, dato che vogliamo suonare il più possibile in giro. A proposito, Cristiano Godano in una recente intervista sul Mucchio e Francesco Bianconi su Sentireascoltare criticano piuttosto duramente lo stato delle cose determinate dal web, con riferimento al download selvaggio e all’autopromozione sistematica dei social network. Alla fine, sintetizzando all’estremo, il problema è: se ne parla molto, ma non si vende un cazzo. Che ne pensi? Penso innanzitutto che i punti di vista di Godano e Bianconi, per quanto sulla carta possano essere condivisibili, nascano da presupposti forse un po’ snobistici e arrivino dall’alto di una notorietà piuttosto consolidata data la quale, evidentemente, si può tranquillamente evitare di autopromuovere il proprio progetto usando la rete. E’ curioso, d’altra parte, che spesso chi si fa notare anche grazie al passaparola sul web tenda poi a sparare a zero sulla rete, sui social network ecc. Non mi pare un atteggiamento coerente e rispettoso per chi, magari, ha contribuito al tuo successo diffondendo la tua musica su blog, siti e quant’altro. Per un sacco di artisti alle prime armi la rete è una risorsa fondamen- tale, non è necessario che lo spieghi io in questa sede perché è un fatto evidente. Se poi certi maestri di vita la pensano diversamente beh, questo è un problema loro. Comunque ho letto l’intervista di Francesco a cui ti riferisci e devo dire che, come spesso accade, dice cose interessanti. E’ vero, in generale, che si vende pochissimo, a parte alcuni casi isolati e comunque abbastanza incoraggianti. Sono tuttavia convinto che, stando così le cose, sia importante che un progetto goda di diffusionae anche gratuita se poi ciò porta gente ai tuoi concerti. Noi per esempio abbiamo avuto più di diecimila download gratuiti per l’ultimo ep. Non li baratterei certo con 2000 copie vendute nei negozi. L’ipotesi che la musica verrà fatta quasi esclusivamente da “dilettanti”, che si guadagnano da vivere in altro modo, va presa in considerazione. Voi la prendete in considerazione? Ad esempio, fate altri lavori? Tutti noi facciamo altri lavori, fortunatamente in campo artistico o, comunque, creativo. Detto questo non ci consideriamo affatto dei dilettanti. Per noi la musica è una faccenda importante, direi fondamentale. Per me non sta in piedi il teorema che se non riesci a vivere soltanto musica essa diventa automaticamente un tuo hobby. E’ evidente che non si vive di aria e che alla fine del mese bisogna provare ad arrivarci. Ciò non toglie che puoi fare musica da professionista nonostante fare il musicista non sia la tua unica occupazione. Ci sarebbe da fare un discorso lungo su come è considerata la musica e come sono considerati i musicisti in questa merda di paese ma lasciamo perdere. magari ne parliamo un’altra volta in un’intervista ad hoc. Chiudiamo come abbiamo aperto, con una curiosità personale: perché quel soprannome calcistico “Mezzala”? Sono un tifoso del Genoa fanatico e ai margini della pazzia. Nonostante da ormai trent’anni segua la mia squadra in casa e (quando posso) anche in trasferta non riuscendo assolutamente a disintossicarmi da un calcio sempre più malato e corrotto, sono enormemente affezionato a un calcio che non c’è più, quello con cui sono cresciuto, quello delle maglie da 1 a 11 senza nomi sulle spalle, quello degli stadi stracolmi, di novantesimo minuto, del libero e della mazzala. Ecco, nonostante io sia da sempre un pessimo calciatore adoro fantasticare di essere una mezzala tutta estro e piedi buoni. Con lo pseudonimo di Mezzala tra marzo e aprile prossimo uscirà per Urtovox il mio primo disco solista, un progetto a cui tengo tantissimo e di cui spero di parlarti in un’altra intervista. 17 Tune-In Die Antwoord —The Great Zeff'N'Roll Swindle— Testo: Gabriele Marino 18 Si presentano come il next level di tutto il baraccone, come il mesh definitivo. Ma sono una studiatissima presa per il culo. Ne abbiamo parlato con il membro esterno e "uomo immagine" Leon Botha P er promuovere l’uscita del suo ultimo album negli Stati Uniti, M.I.A. aveva programmato due megaeventi targati Hard Fest. Le cose però non sono andate per il verso giusto: la data del 17 luglio a Los Angeles è stata cancellata all’ultimo momento per “motivi di sicurezza” (una precisa presa di posizione da parte delle autorità locali contro raduni, rave e quant’altro; solo pochi giorni prima, infatti, una quindicenne era morta di overdose all’Electric Daisy Carnival) e la data di New York è stata funestata da continui problemi con l’amplificazione. In tutto questo casino, ci ha colpito un dato forse marginale-forse no: c’era un unico nome, oltre a quello della regina M.I.A., presente sui cartelloni di entrambe le serate, stampato a caratteri cubitali, ben più grande di quelli di superstar acclarate come Flying Lotus e Skream. Ma chi cazzo sono ‘sti Die Antwoord? Per rispondere alla domanda è necessario distinguere due livelli di descrizione. Quello della storia così come ci viene raccontata e quello della storia “esterna”, enunciato ed enunciazione insomma. I Die Antwoord (“La risposta”) si presentano come un trio proveniente dalla periferia di Città del Capo, Sudafrica. Ninja, il rapper stecco tutto tatuato e incazzato; Yo-Landi Vi$$er, la lolita raver; Dj Hi-tek, il produttore tamarro e ciccione. Ninja è il frontman e la testa calda, fuma un sacco d’erba e, giusto per dire, la sua mossa pro-legalizzazione sarebbe stata portarne un sacco intero davanti a Nelson Mandela. I Die Antwoord vogliono portare il fokken (fottuto) hip hop a un livello superiore, dicono di fare Zef rap-rave, dove Zef - è Afrikaans - è qualcosa di simile all’americano redneck (letteralmente significa white trash). Zef è qualcosa che è cheap, cheesy e allo stesso tempo cool. Fucking cool. Il loro è un immaginario “contro” e a tinte forti, ma un po’ demente, da ultrapop delle bidonville, fatto di sesso, soldi, cospirazionismo, vegetarismo, fantascienza ed esaltazione della diversità. Dicono di rappresentare le diverse facce del loro paese: “Blacks, Whites, Coloureds, English, Afrikaans, Xhosa, Zulu, Watookal: I’m like all these different things, all these different people, fucked into one person”. Così Ninja nella programmatica intro di Enter The Ninja, groundbreaking video postato su Youtube nel gennaio 2010 e arrivato in pochi mesi a più di cinque milioni e mezzo di visualizzazioni. Base cross/electrohop epica, Yolandi a introdurre e puntellare con quella sua vocina insopportabile, Ninja in totale valanga egotrip, scenografia d’impatto. E, soprattutto, una strana figura. Ma su questo punto torneremo più avanti. Ninja ha i denti d’oro e il corpo coperto di tatuaggi blu scuro, come i carcerati (sul pene ha scritto “Wat Kyk Jy?”, “che cazzo guardi?”). Yolandi è magrissima, sembra sempre strafatta di qualcosa, ha una vocina all’elio tipo Twetty. Di Dj Hi-Tek conosciamo solo qualche scatto promozionale, opera del curatore ufficiale dell’immagine della band, Sean Metelerkamp (responsabile delle scenografie alla “Keith Haring cattivo” che si possono ammirare in Enter The Ninja). Hi-Tek ha paura di volare e costringe la band a esibirsi spesso come duo, anche se, alla bisogna, viene sostituto dal cugino di Ninja Vuilgeboost. Bah... Appartato Hi-Tek, sovraesposti Ninja e Yolandi, di cui circolano in rete decine di video, studiatissimi off stage, in cui si vedono bere champagne a casa di James Murphy, fanno casino dentro un taxi, sciorinano - svaccati su un divano - fonti e simboli del proprio immaginario: William Gibson, Eraserhead, i pupazzi di South Park e della Friends With You, un B-movie con Eric Bana, la biografia di Eminem scritta da sua madre, dischi di Aphex Twin e PJ Harvey, poster con pin up anni Cinquanta e così via. I Die Antwoord hanno fan mica da poco nello stardom, musicale e non (M.I.A. e la sua cricca, ovviamente, ma anche Katy Perry, Fred Durst, la connazionale Charlize Theron, addirittura David Lynch e David Fincher), e sponsor potenti e danarosi come Jägermeister e Puma. Questa la scena. Passiamo adesso al dietro le quinte. Ninja si chiama Watkin Tudor Jones Jr. aka Waddy Jones, ha 45 anni, ed è un veterano della scena artistica sudafricana, sulla piazza dal 1994 almeno, con diversi progetti musicali all’attivo e una carriera parallela come artista grafico (ha creato alcuni “nasty toys” come un simpatico temperamatite dove la matita va inserita nel culo del pupazzo). Ninja è solo l’ultima di una serie di impersonificazioni studiate da Jones, i Die Antwoord solo l’ultimo di un serie di act via via sempre più complessi, sofisticati (in tutti i sensi) e multi-mediali. Solo per citare i più importanti: il trio street-rap Original Ever19 green (due cd su Epic a metà anni Novanta); il collettivo “motivational rap”, leggi hip hop + situazionismo, Max Normal (qui troviamo già Yolandi, che di Jones è la compagna di vita con tanto di pargolo al seguito, e quel Justin De Nobrega che è con buona probabilità il responsabile delle produzioni firmate Dj Hi-Tek); il collettivo arty/Residentsiano Constructus Corporation (con l’ambizioso concept Ziqqurat, favola urban-fantasy a fumetti orchestrata con tappeti ambient/posttechno e spoken word); senza contare svariati album solisti (il debutto a nome Watkin Tudor Jones, Memoirs Of A Clone, del 2001, è un interessante esempio di trip hop eclettico e contaminato, dagli evidenti pruriti sperimentali, con un’interpretazione vocale molto caricata e teatrale). Ecco, con questo lungo curriculum alle spalle, per alcuni Jones potrebbe essere il nuovo James Philips, talento rinascimentale (rocker, performer, politico, scomparso nel 1995) salutato da molti sudafricani come il primo grande agitatore culturale dell’era post-coloniale. Altri lo accostano invece a Sacha Baron Cohen e alla sua parodia gangsta-rap Ali-G. Lui risponde sibillino: “Ninja rappresenta per me quello che è Superman per Clark Kent. Solo che io non mi tolgo nessun fottuto costumino”. Esplicita poi il concetto: “Sto solo sposando a pieno la componente Zef che c’è dentro di me, che ognuno ha dentro di sé. Ninja non è un personaggio, è un’estensione del mio io, una versione esagerata del mio io”. Come in una specie di “metodo Staninjavskij”. Anche il buon vecchio Robert Christgau, da sempre fan sfegatato del rap più tamarro, testimone della data newyorkese del 24 luglio di spalla a M.I.A., ha provato a sintetizzare a modo suo il profilo e le intenzioni della chiacchierata band sudafricana: “Vogliono demolire tutte le nostre rassicuranti credenze su quella che riteniamo essere la più controversa società multi-etnica del mondo. Il loro look è perfino più efficace dei loro beat euro-rap: sono grezzi, offensivi, spaventosi, intelligenti, e sono pronti a fare soldi a palate. Con l’unico bis della giornata, hanno anche fatto un’interessante chiosa filosofica: Super-Io sono il tuo nemico”. Noi restiamo dell’idea che, per quanto interessante sulla carta, il progetto Die Antwoord sia sostanzialmente una bomba inesplosa. Il radicalismo di cui si fa profeta Jones ci pare poco aggressivo, molto di facciata, molto radical chic insomma. Inquadrabile in un situazionismo duttile e malleabile che si insinua nei meccanismi del mainstream con la scusa di fare loro il verso, finendo poi di fatto con l’esserne assorbito. I Die Antwoord come i Sex Pistols? Non ci sembrano così cattivi, così basici, così punk. Le luci della spettacolarizzazione e dell’entertainment - come già accaduto 20 per una certa M.I.A.- sembrano avere messo troppo in ombra la strizzata d’occhio, il ghigno, il pugno alzato, e cioè, qui, l’esposizione satirica degli stereotipi dell’identità culturale suburbana sudafricana così come filtrata dai media. Jones come Baron Cohen? Troppo ibrido il suo personaggio, troppo camaleonte, troppo integrato, privo di un vero scarto critico. Quella della cricca Zef è una pagliacciata convinta, una satira che si fa apprezzare anche e soprattutto da chi ne è oggetto. Forse perché non così deformante, non così parodistica, sul piano squisitamente musicale. Per questo allora una satira ancora più sottile? Non è detto. Forse solo più opportunista. La cricca Zef ci sembra bravissima soprattutto nello spillare $ a quegli stessi ragazzini HH/ rave che pure dice (e non dice) di voler prendere per il culo. Ai tempi di Max Normal, Watkin Tudor Jones diceva in suo pezzo “Make Me Popular”. Adesso, dieci anni dopo, c’è riuscito. E nter L eon B otha Torniamo al video di Enter The Ninja. E al suo protagonista - neanche poi tanto - occulto: Leon Botha. Leon è nato a Città del Capo venticinque anni fa. A quattro anni gli è stata diagnosticata una rarissima malattia genetica, la progeria, che causa un inarrestabile e devastante invecchiamento delle cellule. A venticinque anni Leon ha l’aspetto di un nanetto deforme e decrepito, è alto un metro e dieci, è senza capelli, ha la pelle avvizzita, le ossa deformate (è costretto a girare con il bastone), la voce come inacidita; non può non ricordare - si vedano gli insulti finiti qualche tempo fa sulla sua pagina Facebook - le donne-gallina di Freaks. Ogni giorno passato e vissuto è per Leon una lotta e una vittoria, dato che una persona affetta da progeria riesce a vivere in media tredici anni. Pare anzi che Leon sia (anche grazie a un intervento al cuore fatto cinque anni fa) il malato di progeria attualmente più longevo. In ogni caso, Leon prende la propria vita come una sfida, alla vita stessa e al senso comune. Fa il pittore, anche se non ha studi artistici alle spalle, ed è alle armi della pittura che ha deciso di affidare la propria terapia personale, l’esplorazione della propria natura e dei propri limiti (Leon starebbe per Learning Element Of Nature). Innamorato della cultura hip hop fin da piccolissi- mo, Leon ne riversa l’immaginario (volti celebri, stilemi, simbologie) nelle proprie tele, contaminando il tutto con suggestioni esoteriche (l’antico Egitto) e naturalistiche. Ne viene fuori un flusso di coscienza fantasy-hip hop raccontato con un tocco naif che lo avvicina molto - opportunamente - a certa street art. Leon si anche è offerto agli scatti indagatori del fotografo Gordon Clark, e quindi allo sguardo morboso dello spettatore, divenendo egli stesso, da opera d’arte vivente(/morente) quale è, soggetto-oggetto della rappresentazione. Come ogni b-boy che si rispetti, Leon è anche dj (con lo pseudonimo di Dj Solarize). E, soprattutto, dal 2009 Leon è anche una superstar: da quando è apparso, suscitando sorpresa, repulsione, compassione e morbosa curiosità, nel video dei Die Antwoord Enter The Ninja. Lo abbiamo intervistato. [Segue alla pagina http://www.sentireascoltare.com/ articolo/1272/die-antwoord-the-great-zeff-n-rollswindle.html] 21 Gang Of Four —Back for Entertainment...— Drop Out L'ennesimo attesissimo ritorno dall'albo d'oro del post-punk. Cicli & ricicli rock e il sistemamusica oggi, il deflagrante esordio e l'ultimo insipido album. La nostra intervista a Andy Gill Testo: Stefano Pifferi, Edoardo Bridda, Gabriele Marino 22 C icli e ricicli Il rock è una fantastica cosmogonia fumettistica, tutta reale però, in almeno un senso: chi non muore si rivede e anche e soprattutto chi era dato per spacciato a un certo punto rispunta sempre fuori. Un grande fiume eracliteo, sempre in movimento, sempre uguale a se stesso. I grandi vecchi sono sempre lì in pista a ballare, tra rendita, porcate e rari colpi di teatro, si riciclano, fanno comunella, oppure, semplicemente, si tirano indietro quando ne hanno abbastanza e quando gli rigira si riesumano a favore dei nostalgici impenitenti e dei giovani che molto spesso conoscono la faccenda solo per interposta persona, per derivazioni, per sentito dire, attraverso la mitologia dei bignami. Ecco allora che come in Spider Man torna sempre la zia May, nel cosmo rock tornano sempre tutti quei nomi che possono tornare, anche e soprattutto quelli che ai “bei tempi” erano un culto, che sono stati poi sdoganati alla grande e che adesso sono praticamente dei classici da mettere in salotto (Pixies?). Operazioni necrofile (Queen, Doors, Zeppelin) e blockbusteroni a parte (Police), importanti fenomeni di costume e vero specchio dei tempi, sono tornati in pista anche i re e i principi del punk e del post-punk, dai Sex Pistols ai Wire al Pop Group. Ai Gang Of Four. Che sono tornati sui palchi e in studio, con risultati alterni, e che cercano come tutti di barcamenarsi in mezzo al grande casino che è il sistema-mercato musicale d’oggi, tra major, indie, internet e fandom, in una dialettica necessaria, per quanto impossibile (perché inevitabilmente ingenerosa), tra 23 Storia e presente. Abbiamo rapidamente ripercorso la succinta discografia della band e parlato di tutto questo e di molto altro ancora con quel vecchio volpone di Andy Gill. S guardi indietro e slanci in avanti Pochi album e un solo capolavoro. Questa, a voler sintetizzare, la storia discografica dei quattro inglesi almeno nella prima (e unica, verrebbe da dire visti gli sviluppi successivi) fase: dal 1978 dell’uscita del 7” Damaged Goods (Fast Products) al 1984 dell’indecoroso live At The Palace (Phonogram), ultima testimonianza della ormai ex Banda dei Quattro nella “fase uno”. Quella cioè della formazione iniziale, basata sul quadrilatero di studenti d’arte d’ispirazione marxista Andy Gill, Jon King, Hugo Burnham e Dave Allen, anche se quest’ultimo si sarebbe smarcato a breve – subito dopo l’uscita di un non disprezzabile secondo album (Solid Gold, Emi, 1981) – seguito nel 1983 da Hugo Burnham, tanto che all’altezza del terzo album erano rimasti i soli Andy Gill e Jon King a dividersi onori (pochi) e oneri (moltissimi). Certo, liquidare così la carriera discografica di una della band più influenti dell’intero panorama odierno potrebbe sembrare limitativo, ma non siamo poi così distanti dal vero. Un nome, quello dei Gang Of Four da Leeds che è irrimediabilmente legato ad un’unica release: Entertainment. Un album epocale che, con le sue dissonanti ruvidezze chitarristiche, i suoi ritmi spezzati e singhiozzanti, quell’insana fusione tra l’irruenza del postpunk e il calore algido del funk bianco al servizio di un’anima riottosamente pop e di un messaggio politicamente schierato, si riverbera a distanza di decenni. Influenzando cioè band geograficamente e stilisticamente tra le più varie (dai Fugazi ai Big Black) e finendo col segnare una pietra angolare per il fenomeno del p-funk d’inizio terzo millennio (da !!! ai Rapture è un florilegio di citazioni al limite del plagio). Per comprendere il portato di una band del genere, a questo punto bisognerebbe infilarsi in un imbuto ideologico che ci allontanerebbe dall’aspetto puramente musicale. Chiamarsi in piena guerra fredda e sotto l’ala più dura del tatcherismo britannico come la “banda dei quattro” postrivoluzione culturale cinese non era cosa da poco e faceva il paio con altri “dissidenti” politically uncorrect del calibro del Pop Group e di là dall’oceano Dead Kennedys. Avendo già sfiorato l’argomento nel nostro speciale di qualche tempo fa e riprendendolo adesso nella nostra intervista, ci limitiamo qui a uno sguardo d’insieme sulla discografia dei marxisti from Leeds. Dopo l’exploit di Entertainment, una manciata di 7” – un paio di pezzi, Outside the Trains Don’t Run on Time e He’d Send in the Army confluiranno nel full-length – incendiano gli stage inglesi e fanno da riempipista in attesa del sophomore. È il 1981, le strade bruciano ancora di sommovimenti arty e post-punk così come di rivolte proletarie e scioperi bianchi, ma Solid Gold non attecchisce in pieno. Quello dell’appeal commerciale non è sicuramente un parametro attendibile per una band come i GOF, ma se il debutto aveva raggiunto il posto n. 45 nelle charts inglesi e il comeback si superò il 190, un motivo dovrà pur esserci. Solid Gold è un buon album, che mantiene i tratti caratteristici del suono GOF specie nell’opener Paralyzed, nel citato singolo He’d Send in the Army (molto devono i Fugazi del secondo periodo a queste chitarre) e in altre tracce, ma che nel suo complesso risulta meno d’impatto, poco vibrante e più cerebrale. Merito (o colpa) di una produzione più curata e “laccata” che ripulisce le asperità e l’ala naif del 24 suono del debutto. Pecca però forse più evidente è quella di non tentare vie di fuga alternative, riproponendo un suono stabilizzato sulle coordinate di Entertainment. Ciò che a confronto con Entertainment risulta meno brillante, diventa oro se paragonato ai passi successivi. All’altezza di Song Of The Free Dave Allen se ne è già andato da un po’ e l’attacco di Call Me Up fa subito capire perché. Concessioni al pop più becero, trovate che più assurde non si potrebbe (dai coretti alle enfatiche voci in falsetto, i peggiori cliché dei patinati suoni 80s ci sono tutti) e un impatto corrosivo vicino al nulla, segnano uno dei dischi più brutti mai prodotti non solo dai GoF, ma dalla musica inglese del periodo in toto. L’ultimo vero “successo” (I Love A Man In Uniform, posto n. 27 per Billboard) o l’ultimo graffio (le chitarre affilate e il cantato da paranoia urbana di It Is Not Enough) non possono però risollevare le sorti di un album e una band ormai al tracollo. È possibile fare peggio?, ci si chiede al cospetto di un album vuoto e innocuo. Sì, i quattro ci riescono con Hard (EMI, 1983) insulso disco di pop anni 80 virato synth-funky che si ha vergogna anche a recensire. Spetta però a At The Palace (Mercuri, 1984), testimonianza live del farewell tour, mettere la parola fine sulla prima fase dei GoF. 25 Le Anticipata dalla release del Peel Sessions Album (Strange Fruit, 1990), che colleziona le tre, ruvide sessioni avvenute tra ’79 e ’81, e dalla compila A Brief History Of The Twentieth Century (EMI, 1990), la “fase due” comincia con la realizzazione di Mall (Polydor, 1991) e prosegue quattro anni più tardi con Shrinkwrapped (Castle Face, 1995). La pochezza musicale di questi due album, vergati su un pop synthetico, accessibile e deprimentemente al guado tra slappati funky, coralità d’accatto e pomposità tardo-ottanta, rende perfettamente l’idea di come una reunion possa essere intesa come mero tornaconto economico: far fruttare cioè un “nome” guadagnato con un passato di impegno politico e avanguardia musicale. Tutto ciò che manca in Mall e Shrinkwrapped. Di tutt’altro spessore, ma - va detto - più per importanza storica che per risultati intrinseci, la carriera di Gill produttore per altri, che proprio da metà anni Ottanta si fa curatore di dischi per gente come Red Hot Chili Peppers, Jesus Lizard, Killing Joke, Stranglers e Therapy?, mettendo insomma la firma su un suono che ha brevettato e che risulterà imprevedibilmente efficace e influente per tutta una serie di band d’assalto come Minutemen, Fugazi, Rage Against The Machine e Jane’s Addiction, e di cui saranno debitori anche gran parte della scena metal rap e band diversissime come Inxs, U2 e addirittura R.E.M.. Per non dire di tutta la scena nu-new wave Duemila dai Franz Ferdinand in giù. 26 botte live e la nostra intervista Se dal vivo la Banda di Gill e King ci ha stupito con uno show (Ypsigrock Festival di Castelbuono, Palermo, 6 agosto) sì da “vecchiacci che si comportano da ragazzini”, ma memorabile nel trasformarsi in un attimo da pagliacciata a sabba rock, devastato e devastante (merito di certo vino siculo e con conseguente infinito repertorio di spintoni e cadute, cavi staccati, attacchi sbagliati e chitarra massacrata, con i due giovani Thomas McNeice al basso e Mark Heany alla batteria a mantenere - con molta difficoltà - il controllo musicale della situazione), su disco il ritorno ha tutt’altro sapore. Si ribaltano le percentuali tra professionalità e sacro fuoco e Content ne viene fuori come un lavoro freddo, stitico, sottotono, da sottofondo. Avremmo dovuto incontrare Andy Gill prima o dopo il concerto estivo: ma è stato clamorosamente impossibile (chi ha visto il live ha la testimonianza autoptica del perché). Lo abbiamo allora raggiunto telefonicamente qualche tempo dopo, trovandolo insospettabilmente disponibile, loquace ed esplicito. L’uscita di Content è stata posticipata da ottobre a gennaio 2011. Cosa è successo, c’è un motivo particolare per questo rinvio? Molto semplicemente, non volevamo dare l’album in mano a gente come la Emi, gente che non fa bene il proprio lavoro e soprattutto si prende tutti i tuoi soldi. Se vuoi agire così ed essere indipendente spesso sei costretto a ingegnarti e a prendere tutto il tempo necessario per fare le cose per bene. Il disco in pratica è finito, il master è già pronto, ma abbiamo rinviato a gennaio per via di tutto il contorno e per la promozione. Vogliamo fare un’edizione speciale, con un vero e proprio libro in allegato, pieno di foto, e un artwork molto elaborato la cui realizzazione è abbastanza complessa. Avete scelto di lavorare con Pledge, una piattaforma musicale basata finanziata dai fan e che promuove iniziative benefiche. Puoi dirmi qualcosa in più su questa scelta... Era una scelta quasi obbligata, per poter riuscire a fare un disco al di fuori dei soliti circuiti. Si spendono tanti soldi se fai musica fuori dalla tua cameretta, con una vera band e in un vero studio di registrazione. Poi, oggi, se fai un disco e basta, se stampi il cd e basta, nessuno lo ascolterà davvero, si perderà in mezzo al resto. Tutto si muove attorno alla promozione, ed è proprio la promozione che costa davvero, portare il tuo disco in giro per le radio e cose così. Certo, se dai il disco alla EMI ci pensa lei a promuoverlo, paga la EMI per tutto, ma poi si prende anche i soldi dei concerti, e sei a tutti gli effetti ingabbiato. Devi essere fantasioso oggi per uscire da questo giro, e Pledge è davvero ottimo da questo punto di vista. Attraverso questo social media abbiamo deciso di comunicare direttamente con la nostra gente, con i nostri fan. E’ anche una specie di controllo sulla qualità, perché il fan paga fin dall’inizio per quello che sa di voler ascoltare e ti controlla passo passo. Un’ulteriore forma di garanzia. Avete annunciato delle iniziative promozionali abbastanza peculiari e stravaganti: giri con voi in elicottero, un walkman realizzato appositamente con dentro la musicassetta del bootleg del vostro primo concerto di sempre. Sembra teniate molto ai vostri fan e li vogliate coccolare. Nel mondo dell’industria musicale è tutto così piatto e inflazionato, soprattutto nella promozione. Queste iniziative sono studiate e pensate per i nostri veri fan. E poi ci aiutano a tirare su soldi: 50 pound per vederci registrare il disco in studio a Londra mi sembra onesto, è un’occasione unica tanto 27 per i fan quanto per noi. E’ stato davvero eccitante far entrare la gente in studio, spiegare cosa stavamo facendo, commentare e sottolineare certi passaggi. I giovani ascoltatori d’oggi, che siano nerd o meno, scaricano tonnellate di musica attraverso le piattaforme di file sharing e dai blog musicali. E’ una specie di industria musicale parallela e sommersa. Come giustificazione per questa pratica diffusa, si tira spesso fuori la retorica della conoscenza condivisa. Ma gli artisti come dovrebbero vivere? Il pioniere di internet Ted Nelson, per quanto utopista e anarchico, aveva teorizzato un sistema di retribuzione automatica per gli autori i cui materiali fossero circolati in rete… E’ una situazione molto complessa e difficile… Come tutte le altre persone che svolgono il proprio lavoro, anche i musicisti hanno bisogno di essere pagati. Se tutti finiscono col procurarsi la musica gratis scaricandola da internet la questione si fa davvero seria. Nessuno sopravvivrà di questo passo. Questa retorica del free a tutti i costi è pericolosa e i ragazzi particolarmente dovrebbero essere sospettosi, perché riflettendoci un attimo è chiaro che qualcuno ci resta fregato, e il prossimo potresti essere tu. E’ una questione politica in fondo, e proprio in politica c’è la più completa confusione o peggio ancora indifferenza al riguardo. E intanto c’è un intero settore della società nella crisi più totale. E’ davvero fantastico che oggi si possa mandare la musica ovunque, che tu possa mandare la tua musica ovunque. Ma la parte in cui scopri che non vieni pagato per la tua musica, quella non è fantastica. E poi la qualità degli mp3 non è buona! Sono altri oggi i colossi dell’industria musicale. Il potere è passato dalle major alle compagnia telefoniche e ai giganti tecnologici come Apple e il suo iTunes. Quello che non è cambiato è che gli artisti sono sempre tagliati fuori... Hai assolutamente ragione. iTunes è di fatto un monopolista adesso, Apple è la Microsoft di questo settore. Ti offrono una tecnologia eccezionale, dei servizi eccezionali, ma se non stai con loro sei tagliato fuori. Vendere e promuovere la propria musica da soli è un nuovo - necessario - trend. Vedi anche il proliferare di edizioni speciali, di packaging speciali, che fanno ri-apprezzare le qualità materiali, fisiche dell’oggetto-disco... Sempre in opposizione alla digitalizzazione e delocalizzazione della musica, c’è la questione dei concerti. E’ fondamentale farli, per tenere il rapporto con un pubblico sempre più chiuso nella propria cameretta, ma anche per guadagnare. Oggi è stimato che il 60% degli introiti di un artista provenga dai live. Ma è sempre stato così? Assolutamente no. Prima si tirava perfettamente avanti con i dischi e i diritti, prima concerti non erano così importanti dal punto di vista economico. Oggi è esattamente il contrario. Passiamo a questioni più squisitamente musicali. Come è stato il tuo primo approccio al funk. Ho parlato con Mark Stewart qualche tempo fa e lui dice di avere avuto 14 anni quando è stato folgorato dal funk, è stata una botta. A Bristol si ballava il funk ed era una cosa rivoluzionaria, nelle sue parole. Del funk mi interessava il groove. I Heard It Through The Grapevine e altri classici della Motown erano veramente roba cool e hip. Io ero e sono innamorato di quel groove. Semplicemente eccitante. Tutta l’american stuff di 28 quando ero un ragazzino per me era roba magica, James Brown su tutti. Allo stesso tempo però capivo anche che gli Stones erano cool e così pure i Velvet Underground con le loro textures e il loro vero e proprio noise ante-litteram. Io e Jon [King; il cantante dei GoF] siamo amici da quando avevamo 13 anni e siamo cresciuti con questa musica. Anche con il reggae di Desmond Dekker, che a quel punto era già ska. La cosa bella è che gli unici che in Inghilterra nei primi anni Settanta ascoltavano quella musica erano gli skinhead, quindi se l’ascoltavi anche tu, anche tu passavi per stupido e rozzo come loro. Dopo Marley ci fu la mia infatuazione per il reggaedub di Lee Scratch Perry, ma anche per cose come Kool & The Gang, e quel suono divenne per me un’ossessione. Non potevo più interessarmi al solo vocabolario del rock bianco. E d’altra parte non volevo semplicemente copiare il vocabolario nero. Volevo creare un innesto tutto mio, qualcosa di personale e di nuovo, trovare una mia via. Fare di tutti i suoni che erano dentro la mia testa un nuovo linguaggio. Il funk come rivoluzione… E la politica? E’ sempre stata importante per te. Sì, ma in un modo nuovo, e a modo mio. L’elemento politico nei nostri testi non è mai stato orientato a strombazzare in giro il punto di vista della sinistra parlamentare. Cosa significa politica? non significa niente di preciso. Ti dico cosa abbiamo cercato di fare come GoF: volevamo parlare non soltanto 29 di emozioni e di sentimenti personali come ha sempre fatto la musica pop usando il contesto amoroso. Abbiamo cercato di abbandonare in maniera radicale questa idea a una sola dimensione e proporre canzoni che fossero dialoghi interiori a due voci, che esponessero e analizzassero ciascuna il proprio punto di vista. Analizzare come e perché la gente si trova costretta e si costringe a fare qualcosa, si sottomette a qualcosa. Non abbiamo mai voluti essere noiosi, seriosi, freddi, intellettuali, accademici. Abbiamo sempre e solo cercato di seguire il nostro modo di vedere le cose, anche con un certo humour, giocando alle volte con l’ascoltatore. Molti jokes inseriti nei testi però possono essere colti quasi soltanto da un ascoltatore pratico di un certo slang di East London… Guarda, Cheeseburger è un pezzo sull’american way of life. Una presa i giro vista con gli occhi dell’uomo della strada inglese, quindi abbiamo dovuto adottare un certo linguaggio. Abbiamo cercato di dire alcune cose molto serie in maniera divertente, di fare un ritratto di una porzione di società. Nel 2005 avete pubblicato Return The Gift, un doppio disco celebrativo in cui ri-suonavate in studio alcuni dei vostri classici e in cui artisti e band vostri fan remixavano e coverizzavano vostri brani. Tutti si sono chiesti perché non c’erano Rapture, LCD Soundsystem e !!!, cioè gli artisti più fortemente influenzati dal vostro suono... Noi ovviamente li abbiamo contattati e ci hanno detto molto semplicemente “No, grazie”. Credo per non fare troppa pubblicità alla cosa. Insomma, forse semplicemente non volevano che i giovani capissero il giochetto e dicessero: “Hey, ma sono uguali! Andiamoci ad ascoltare gli originali!”. Per dire, i Bloc Party hanno sempre negato nelle interviste anche solo di conoscerci. Ma ragazzi, non vi abbiamo mica chiesto indietro i nostri soldi! Almeno diteci la verità! [ride] Anche i Liars sono fortemente influenzati dai Wire. Ecco, secondo te perché gruppi come il vostro, i gruppi di tutta quest’ondata funk-punk Settanta, sono ancora oggi un’influenza così forte? I Wire sono una band influentissima... Guarda, capisco perfettamente che la gente sia tornata ai Gang Of Four, ma sinceramente non so perché. Forse in un’epoca di stasi musicale hanno trovato nei GoF qualcosa di interessante, di genuino, di genuinamente nuovo. C’è troppa roba nelle radio davvero inoffensiva. E noi sicuramente non siamo stati e non siamo inoffensivi. Ma il vostro stile è stato catapultato in un altro contesto, non siamo negli anni Settanta, non siamo nel post-punk. Adesso siamo in un mondo completamente diverso eppure lo stile ritorna. [ride] Il nostro è stato un modo di fare musica inaspettatamente fortunato. Andiamo all’Andy Gill produttore. Conosciamo molto bene le tue produzioni “storiche”, dai Red Hot Chili Peppers ai Jesus Lizard. Per adesso di chi ti stai occupando? L’ultima band che ho curato è una band di Dublino, Fight Like Apes, esce fra poco il disco, al momento sono al numero uno su iTunes. Suonano completamente senza chitarre, sono fantastici, solo batteria, basso, synth e voce, molto molto orientati al ritmo. Il tuo metodo come produttore per altri è diverso da quello che adotti quando lavori come GoF? E’ sempre diverso. Ci vuole la giusta esperienza per trovare ogni volta il giusto approccio. Per esempio, questi Fight Like Apes sono bravi musicisti 30 ma magari hanno bisogno di una mano anche per costruire la canzone, proprio a livello di composizione, di struttura. Produrre non è quasi mai soltanto infiocchettare dei pezzi già pronti, per questo il produttore è così importante. Ma ti chiedono proprio “Voglio il suono GoF”? Sì, sì. Ricordo quando ero al lavoro con i Futureheads. “Vogliamo quel suono, quella cattiveria, quell’intensità”. E’ di poco tempo fa anche la reunion del Pop Group. Voi e loro eravate i due grandi gruppi funk-punk, il loro Y è uscito pochi mesi prima del vostro, nell’aprile 1979. Quando lo hai sentito, che hai pensato? E adesso che ne pensi? Mi è piaciuto molto. Ma il suono del Pop Group era troppo da jam. Noi volevamo un clear groove, come in I Heard It Through The Grapevine [ride], loro invece avevano un groove più scomposto, indefinito, impastato. Il che va benissimo, ma non è quello che volevo io. E dei Wire che mi dici? Mi sembrano più simili al vostro mood... Sinceramente non saprei... In Content ci sono pezzi nuovi di cui sei particolarmente orgoglioso? Alcune delle cose che stiamo già testando dal vivo sono molto buone. You Don’t Have To Be Mad è interessante, parla di ubriachezza, di un rapporto fatto di sesso e alcol. E’ in qualche modo una celebrazione, ma anche un avviso contro una società che ti costringe a fare certe cose e allo stesso tempo ti fa credere di essere libero. Mi sembra una cosa importante da dire. Com’era e com’è vivere adesso in Inghilterra? E’ in atto un grande cambiamento, anche se in generale qui in Europa occidentale sembra esserci una strana stasi. Il “blocco occidentale” sembra interessato solo ai cambiamenti tecnologici, non a quelli sociali. Un possibile paragone tra Inghilterra e Italia? Per quanto siano molto diversi credo pure che ci siano persone in entrambi i paesi che non si trovano bene e preferirebbero di magari fare uno scambio. Londra è una metropoli incredibile che si spande per tutta l’Inghilterra, non è una città, è molto di più, è cosmopolita, la metà della gente che incontri per strada parla polacco, italiano, turco, è una società veramente mista e non sempre questa cosa viene tenuta in conto. Ti interessi di musica elettronica? Che ne pensi dell’hardcore continuum teorizzato da Simon Reynolds? L’elemento culturale e meglio ancora sotto-culturale è centrale in musica. Oggi la cosa mi pare persino più evidente che negli anni passati, perché musica e pubblico sono sempre più frammentati. E questo oggi è inevitabile. E l’influenza della disco-music nella musica dei Gang Of Four? I GoF sono sempre stati influenzati dalla dance. I nostri ritmi sono heavy disco beat, in un certo senso. Tutta la nuova musica elettronica, intendo quella realizzata al 100% al computer, mi piace molto, ma non credo che nella nostra musica ci sia spazio per questo tipo di influenza. E poi non voglio invadere territori che non mi appartengono. Non voglio mai far perdere quelli che sono i caratteri di base della nostra musica:l’interazione delle voci, la mia cutting guitar, il basso e la batteria che pulsano belli tosti. Magari però mi metterò a pasticciare qualcosa di elettronico per i fatti miei... 31 Il suono in cui vivremo 32 Drop Out Opportunità vs. catastrofe, legale vs. illegale, pirateria vs. nostalgia, apocalittici vs. integrati. Timori, entusiasmo, nostalgia, ipotesi e confusione: l’indie-rock ai tempi del post-web Testo: Stefano Solventi La sindrome del grisù Avete presente la storia dell’uccellino in gabbia nelle miniere di carbone? Ce lo portavano perché, prima che esistessero i moderni rilevatori, era il modo migliore per accorgersi della presenza del micidiale grisù. L’uccellino, grazie alla sua fragilità, moriva per primo. Smetteva di cantare e schiattava. I minatori avevano così qualche chances per cavarsela. Se fuggivano in tempo. Se niente andava storto. Stavo raccogliendo le idee per buttare giù il presente articolo e mi è venuta in mente questa storia che non c’entra nulla, o forse sì. Mettiamo che la musica sia l’uccellino del caso, il nervo sensibile che lancia per primo (o tra i primi) l’allarme, quando la situazione inizia a precipitare. Ed il resto segue a ruota: cinema, tv, letteratura, informazione...Ok, è una visione romantica e perciò distorta, parziale. Del resto, siamo rockofili impenitenti. Tendiamo a mettere sempre la musica al centro e prima di tutto. A farne una questione vitale. Figuriamoci invece chi la musica la fa. Vedi le quasi contemporaneee e convergenti dichiarazioni di due pesi massimi del rock più o meno indipendente italiano: Cristiano Godano sul Mucchio Selvaggio e Francesco Bianconi sulla nostra webzine. Il rocker di Cuneo, chiosando l’ultimo lavoro dei Marlene Kuntz, ha sostanzialmente condannato il free download che compulsivamente fa stivare negli hard disc pacchi di mp3 che non verranno mai ascoltati come dovrebbero e meriterebbero. Il leader dei Baustelle si colloca sulla stessa lunghezza d’onda, allargando il discorso ai social network fino a chiudere un’argomentazione che sa di condanna: “negli anni Novanta, prima 33 che esistessero i nuovi mezzi di comunicazione, band come i Non Voglio Che Clara o Le Luci Della Centrale Elettrica sarebbero forse anche più famosi di adesso, anche senza il tam tam mediatico di internet. Voglio dire che tutto questo gran parlarne, questo circolare di informazioni serve, fa bene, ma non agli artisti. Sui blog e sui social network si parla molto di una band, ma questa, se vuole far uscire un disco, deve pagarselo coi propri soldi. I dischi venduti sono pari allo zero. Le etichette indipendenti chiudono.”. E ntusiasmo e timori Due uscite di questo tenore nel volgere di pochi giorni ci hanno, per così dire, insospettiti. Le coincidenze non sono mai davvero casuali. D’un tratto quei due musicisti ci sono sembrati gli esponenti di un mondo forse sul punto di evaporare, con nessuna intenzione di farlo senza combattere. Godano proveniente dai Novanta pre-internet; Bianconi dal giro di volta del millennio che tra un’esplosione e l’altra di bolle new economy ha visto il web propagarsi nel quotidiano: testimoni emblematici di una transizione che farà - sta già facendo - morti, feriti e prigionieri. Che stiamo vivendo, nella quale galleggiamo entusiasti e anche un po’ intimoriti. Spaesati. All’alba degli anni dieci, augurandoci che non ci sarà bisogno di chiamarli “questi cazzo di anni dieci”, ci siamo chiesti: di cosa stiamo davvero parlando? Possiamo fin da adesso ipotizzare una nuova situazione con codici e valori accettabili da tutte le parti in gioco? Innanzitutto, a proposito di codici: con buona pace dei fautori del copyleft, il copyright è tutt’altro che in disarmo. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) si è mossa per tempo, promuovendo nel 1994 l’accordo TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), tutt’ora in vigore, che vincola i paesi firmatari a tutelare le leggi sul copyright. Proprio così: da questo punto di vista, le multinazionali ebbero lo sguardo lungo e si pararono il culo per tempo. Le leggi ci sono, sono blindate, e qualificano come illegale il comportamento pressoché quotidiano di milioni di persone. E’ questo che stiamo chiosando, l’inadeguatezza di una situazione che provoca dissidi a molti livelli: ideologici, morali, economici e - appunto, ovviamente - legali. Però, gettando cuore e mente oltre l’ostacolo, è giusto fare il tentativo di guardare a ciò che accade per ciò che accade. Per come lo stiamo vivendo e come ci sta cambiando. Lo abbiamo fatto chiedendo in giro, a chi come noi lo sta vivendo sulla propria pelle ma da un’altra angolazione, quella degli “addetti ai lavori”. Quella che si prende in faccia oneri, onori e tutti i ceffoni del caso. Tra i musicisti regna la diversità di vedute. Questione - chissà - di retroterra, di scelte di vita, di aspettative. Enrico Molteni, bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti, la butta sul nostalgico dichiarandosi “d’accordo con Bianconi, forse perché, come lui, ricordo bene com’era prima. Compravi un mensile ed imparavi ad avere fiducia in una firma. Ascoltavi alcuni programmi radio ed il giorno dopo ordinavi il disco in America. A scuola ci si passava i dischi sottobanco. Guardavi tanti video in tv alla ricerca di nuovi stimoli. Andavi ai concerti con una curiosità maggiore. C’era una preselezione, è vero, ma mi sembra di ricordare che fosse tutto più bello. La situazione attuale è molto eccitante, c’è una possibilità maggiore di arrivare alla gente, ma non ci sono più regole e a volte i nuovi successi sono solo fuochi di paglia. Sono uno di quelli che sostiene che Artic Monkeys avrebbero comunque avuto successo, anche nel 1987”. 34 U no spettro ( vuoto ) si aggira Si stava meglio quando si stava meglio, insomma. Che è un po’ il solco nel quale s’incanala il discorso di Fabio De Min dei Non voglio Che Clara: “da adolescente compravo i dischi e li ascoltavo fino a farmeli piacere, per la paura di aver buttato i soldi. Può sembrare sciocco e romantico oggi, ma era un processo che in fondo asseconda la natura del nostro cervello, che non può accontentarsi di un ascolto frettoloso ma ha bisogno di più tempo per relazionarsi con la novità. Oggi l’ascolto è distratto, superficiale proprio a causa della sua gratuità”. Per quanto riguarda il download “selvaggio”, ci va giù durissimo: “è un po’ lo spettro di quello che siamo diventati: dei contenitori vuoti, senza una vera coscienza critica, da riempire con informazioni spesso di dubbia importanza. Siamo la generazione del file under. Assomigliamo sempre più a degli hard disc, dove il materiale salvato non conta nulla se non si è capaci di risalire alla cartella che lo contiene”. Mentiremmo se sostenessimo di non esserci mai posti questioni simili. Ma non possiamo fare a meno di sentire un retrogusto d’idealizzazione del passato. La pratica degli ascolti ripetuti e approfonditi era una scelta o una costrizione? Probabilmente entrambe le cose. Ovvero: quanti dischi mediocri o pessimi ci siamo fatti piaciucchiare solo per mancanza di alternative? Chiunque stia leggendo queste righe con in tasca una carta d’identità che indica all’incirca i 40 anni, probabilmente ricorderà un amico o magari se stesso che rinunciava di buon grado a rifarsi il guardaroba o alle cene con gli amici per garantirsi i due o tre vinili settimanali. E poi, altrettanto cari anzi di più, i cd. La rinuncia era implicita nella passione. Ogni rockofilo sapeva di non poter accapararsi che un frammento dell’Eden, e a caro prezzo. Ma andava bene così perché era un sistema ad isole, ognuno faceva i conti col proprio immaginario, pasturato a riviste cartacee e rinvigorito dal confronto con quello degli amici compagni di merende rockettare. Oggi quel sistema è esploso. Fare parte di una comunità è una norma da cui è difficile esentarsi. Prima i forum e poi i social network hanno ritessuto la maglia delle relazioni interpersonali rendendola formidabilmente più complessa e potente. Questa appartenenza “virale” comporta un costante aggiornamento delle proprie conoscenze provocato dal feedback continuo tra gli “utenti”. Da questa angolazione, il “download compulsivo” assume un aspetto diverso, senz’altro meno patologico. Puoi vederla come un’esperienza socializzante. Tu chiamala, se vuoi, cultura. Ed è anche una potentissima piattaforma promozionale, ovvio. “Per un sacco di artisti alle prime armi la rete è una risorsa fondamentale, non è necessario che lo spieghi io in questa sede perché è un fatto evidente”, sostiene Michele Bitossi dei Numero 6, fresco d’intervista su SA. “Sono convinto che, stando così le cose, sia importante che un progetto goda di diffusione anche gratuita se poi ciò porta gente ai tuoi concerti. Noi per esempio abbiamo avuto più di diecimila download gratuiti per l’ultimo ep. Non li baratterei certo con 2000 copie vendute nei negozi”. E allora, le affermazioni di Godano e Bianconi? “Per quanto sulla carta possano essere condivisibili, nascono da presupposti forse un po’ snobistici e arrivano dall’alto di una notorietà piuttosto consolidata data la quale, evidentemente, si può tranquillamente evitare di autopromuovere il proprio progetto usando la rete”. 35 pre-web. Ma di fatto è accaduto attraverso la rete, che non è una struttura accidentale o estemporanea, ma sarebbe, tra le altre cose, “l’attuale frontiera della musica. Di fronte a questa evidenza occorre prendere parte”. Chi parla è Alessandro Calzavara, musicista indipendente in senso totale. Fa musica in perfetta autarchia sotto il moniker di Humpty Dumpty, distribuendola gratuitamente dal proprio blogspot. “Mi pare di poter dire che internet sia un mezzo fantastico di diffusione. Certo, molto difficile è che si possa diventare delle star. Questo ci dispiace?”. Ma c’è di più. Non è possibile limitare l’argomentazione alla musica. Secondo Calzavara, l’avvento di internet ha provocato “un rivolgimento qualitativo dell’esistenza. Una sostanziale modifica qualitativa del tempo: l’uso quotidiano del pc ci modifica nella nostra essenza di uomini. Internet funziona proprio perché è internet; un suo uso dimidiato non è ipotizzabile, perché al di là del mezzo fisico è proprio la mentalità della gente ad esser stata modificata. La musica, da sempre immateriale, ha compiuto l’ultimo passo di separazione dalla materia del suo supporto. Il musicista che aspiri a una qualche forma di permanenza dovrà saper accogliere in sé questo mutato spirito dei tempi, e adattarsi ai canali disponibili come essi si presentano. Modificandoli, se se n’è capaci, a partire da ciò che è, non da ciò che dovrebbe essere. Perché poi ciò che dovrebbe essere non appartiene a questo millennio”. O bsolescenze S figati e star Il punto è proprio questo: la promozione. Parola chiave che scardina i lucchetti della raggiungibilità nella rete, che è sì interconnessa ma anche immensamente dispersiva. Non è certo un gioco ad armi pari, malgrado l’uniformità delle piattaforme. “Internet non è un luogo di libertà”, sentenzia Alberto Scotti, membro dei Maisie e patron - in entrambi i casi assieme all’impagabile Cinzia La Fauci - dell’occhiuta etichetta siciliana Snowdonia. “Chi era sfigato prima (piccoli musicisti, piccole etichette) sarà sempre più sfigato, sempre più marginale. Sono i potenti che riempiono di merce questo scintillante scatolone. A te, sfigatello, concedono gli scaffali in fondo, in basso, di là. Fila nello sgabuzzino, rospaccio!”. Concetto ribadito da un laconico che più laconico non si può Giuseppe Laricchia, in arte Superfreak, musicista e socio fondatore della free netlabel Lepers Produtcions: “si avvicinerebbe un futuro grandioso per le netlabel (leggasi noi), se non fosse che l’obesità e l’assenza di sport nella scuola italiana hanno creato esseri che risentono della stanchezza digitale (leggasi delle dita), e cliccare su nomi sconosciuti è una fatica non da poco”. Tuttavia, è pur vero che ogni tanto, oltre il desolante quadro della situazione, qualche sfigato riesce ad alzare la testa. Galleggia sulla spuma del “mormorio virale” della rete e s’impone all’attenzione dei più, finché da fenomeno virtuale non esonda nel reale. E’ il caso del già citato Vasco Brondi da noi o degli Arctic Monkeys in Gran Bretagna. I quali forse, è vero, possono vantare numeri che gli avrebbero garantito di sfondare anche in era 36 e profezie Uno che ha accolto il mutato spirito dei tempi con notevole disinvoltura è Umberto Palazzo, musicista, insegnante e DJ, leader dei Santo Niente e degli El Santo Nada. Attivissimo su Facebook, ha praticamente distribuito gratuitamente tutto il suo repertorio alla vasta corte di “amici” sul grande social network blu. “Non si può che essere realistici: l’industria discografica, come la conoscevamo, è finita per sempre. Le stesse multinazionali che possiedono le case discografiche producono e vendono lettori mp3 e telefoni ‘intelligenti’, il che la dice lunga sulle loro previsioni di mercato. I dischi sopravvivono come feticci, come oggetti da collezione, come souvenir, però in compenso i lettori cd stanno molto peggio. Sono oggetti praticamente scomparsi dai negozi e mio nipote che ha undici anni non ne ha mai usato uno e probabilmente mai lo userà. Per lui e per i suoi coetanei la musica si ascolta con l’iPod, ma è prevedibile che anche questa sia una situazione transitoria”. Sì, perché se è vero che iTunes domina il mercato del download, secondo alcuni osservatori è una situazione destinata a mutare presto. “La notizia è che in molti paesi l’mp3 sta diventando obsoleto e viene rapidamente sostituto dallo streaming istantaneo di Spotify. Non c’è neanche più bisogno di scaricare: devi solo compilare la tua playlist oppure scegliere quella già fatta da un altro e la musica scorre nel tuo smartphone come se venisse da un hard disc interno”. Sarà “cloudcast” la parola chiave del nuovo decennio? Lo scopriremo solo vivendo. Casomai, si tratterebbe di una profezia che si autoavvera, caldeggiata da tempo e da più parti. State a sentire cosa si augurano quelli dello Staff Trovarobato, dinamicissima label alternativa bolognese: “il futuro? Speriamo arrivi il celestial jukebox, una piattaforma online in cui tutte le etichette mettono a disposizione tutti i propri brani e l’utente paga un piccolo abbonamento annuale/mensile in modo tale da poter accedere in ogni momento ad un archivio totale di tutta la musica disponibile al mondo. iTunes è uno strumento interessante in generale ma il prezzo imposto diventa una limitazione per le piccole e medie etichette che vendono normalmente il CD fisico 37 ad un prezzo che varia tra i 10 e 12 euro. Come possiamo chiedere all’utente di comprare a circa 9 un album digitale quando può, con un euro in più, comprarsi la stessa cosa in formato fisico e poi digitalizzarla?”. Messa così assomiglia anche ad una ricerca (disperata) del metodo migliore per far quadrare i conti, perché c’è qualcosa di intrinsecamente - oserei dire moralmente giusto - nel farli tornare. “Il rientro economico è una componente importante. La musica non può e non deve diventare un’attività solo per coloro che possono permetterselo”. Questo imperativo categorico paventato dall’etichetta felsinea trova agile sponda nel pensiero di un illustre quasi-conterraneo, Max Collini degli Offlaga Disco Pax. “Pagare meno e pagare tutti sarebbe un bel modo di ripensare la faccenda. Quando puoi avere qualcosa gratis, scegliere di pagare diventa un gesto a suo modo ‘politico’. Ai nostri concerti, come a quelli di qualunque altro gruppo di area indipendente viene gente che il cd o il vinile se lo compra anche se potrebbe evitarlo, perchè sa perfettamente di sostenere un progetto che gli piace e che non gode di alcun altro tipo di aiuto economico, se non quello del concerto e del supporto fonografico”. Si torna così al senso di appartenenza, capace di determinare (e risolversi in) una partecipazione vitale. Ovvero, si conta sul fatto che il pubblico sia pronto a sostenere la musica ed i musicisti che ama pagando per un contatto concreto, il biglietto del concerto o il “feticcio” del gadget e del cd, acquistati sotto il palco o via web. Al capezzale ( denaro incluso ) Detto che il metodo dell’up to you sperimentato tra i primi dai Radiohead funziona giusto se ti chiami Radiohead, dal pianeta USA ci giungono tuttavia segnali incoraggianti: negli ultimi anni il fatturato dei circuiti live ha registrato un incremento impressionante, pari a circa tre volte rispetto agli anni Novanta. Un balzo provocato soprattutto dall’aumento del prezzo dei ticket. Sorte simile ha avuto il commercio dei gadget a seguito di un processo di “industrializzazione”, controllato e diretto dalle stesse compagnie discografiche. Dati macroeconomici che trovano puntuale conferma in una provincia d’impero come la nostra. “I ragazzi sono ancora interessati a vedere le band sul palco e a vivere il concerto al 100% e i biglietti venduti in prevendita aumentano sempre di più. Ultimamente abbiamo confezionato infatti un bel po’ di sold out. E non solo di artisti affermati, anche di giovani rivelazioni”. A parlare è Rosario Leo, promotion manager di Live Nation. Ci conferma che è vero, i biglietti costano sempre di più, e la causa sta nell’aumento del cachet da parte dei gruppi. “Dicendola molto semplice, vuol dire questo: se vendi meno dischi, allora ti rifai sui live e aumenti il tuo compenso”. D’altronde è vero che “i gruppi con contratto discografico e con un CD pubblicato nei negozi europei (ormai) trovano maggior reddito nei tour anziché nella vendita dei dischi”. E’ una dinamica a doppia spinta, offerta e richiesta, che sta provocando la crescita del circuito dei live club. “Noi lavoriamo storicamente con i locali più importanti di ogni regione, ma quotidianamente riceviamo richieste da parte di altri locali nuovi appena aperti ed in crescita”. La gente accorre eccome al capezzale del rock, quella stessa che non compra più dischi ma è disposta a sobbarcarsi viaggi chilometrici e sostenere spese ragguardevoli per vivere l’evento live e indossarne testimonianza. Situazione solo apparentemente idilliaca, per uno come Scotti: “Dicono che il vero artista viene fuori dal vivo. Cazzate, cazzate, cazzate. Una delle 38 conseguenze, a mio modo di vedere, più tragiche è la morte del disco, non inteso come oggetto/feticcio ma come opera, come testimonianza sonora del percorso di un artista (vogliate scusare la volgarità del termine). Il disco è un’opera d’arte perché è artificio, manipolazione, genialità e artigianato. Il concerto è un festa. Può essere una bella festa, una brutta festa ma sempre una festa resta”. Il punto è decidersi dove rivolgere lo sguardo. E’ facile per chi è cresciuto senza l’idea della musica come un manufatto acquistabile. Per i più attempati - che restano pur sempre un target significativo - esiste assieme la consapevolezza di un presente di straordinarie opportunità e d’un passato meritevole di rimpianto. “Il sistema che dovrebbe bruciare e scomparire”, si rammarica Scotti, “è quello che ha prodotto i Pere Ubu, i Throbbing Gristle e i Talking Heads. E’ il sistema dei grandi dischi, dei grandi fonici, delle grandi etichette. Quel sistema produceva molti capolavori, buona musica leggera e anche spazzatura. Un disco diventa un capolavoro anche perchè è ben registrato, ben curato, perchè dietro c’è un lavoro. Un lavoro che oggi nessuno (o quasi) si può permettere di fare, perchè non ci sono rientri”. L’appassionato grido d’allarme di Scotti contiene molti elementi di verità. Ma è altrettanto vero che pure gli autarchici con budget di pochi euro sono in grado di produrre buone scosse sonore. Spesso migliori di tante produzioni blasonate, che con gli anni hanno subito un processo di raffinazione e inevitabilmente di formattazione, confezionando sonorità impeccabili e anche iperstrutturate ma spesso prive di una vera ragion d’essere. Detto fuori dai denti: lo stesso sistema che ha prodotto i dischi imprescindibili di cui sopra è responsabile di una montagna di dischi di merda, spesso firmati da autori degni di tutta la nostra fiducia. Come al solito è possibile interpretare la crisi come un’opportunità. Di rifondare la naturalezza degli intenti, ad esempio. Sentite Calzavara/Humpty 39 Dumpty: “io dico che realizzare un’opera d’arte in musica è possibile anche senza vendersi a chi ti fornisce i mezzi di produzione e diffusione. E me ne rallegro. Mi sono convinto che chi vuol fare l’artista pensi a ciò come all’equivalente di un lavoro in banca, e ciò non mi piace. Mi piace pensare che un artista vero non possa fare a meno di fare arte e viverci dentro. Il che implica cercare i mezzi per sopravvivere con e della propria passione”. E terni ritorni ( al futuro ) Una posizione che riecheggia nelle parole di Palazzo, che si chiede: “quello che c’interessava una volta più d’ogni cosa non era forse la libertà artistica? Oppure per qualcuno il punto d’arrivo era il salario garantito? Dovremmo chiarire questo punto una volte per tutte e accettare il fatto che le case discografiche, fra un po’, non pagheranno più salari a nessuno, e neanche recording budget e promozione”. Certo, tutto diverrebbe più facilmente ipotizzabile con un piccolo aiuto da parte di chi - lo Stato - dovrebbe incaricarsi della cosa con l’importanza e la dignità che merita. Esiste anche una difficoltà peculiarmente italiana, che sconta il non aver mai davvero fornito cittadinanza culturale alla cosiddetta musica leggera. “Noi crediamo che perno 40 della questione sia la gestione della musica come entità culturale importante,” suggeriscono quelli di Trovarobato. Quindi, in pratica, sovvenzioni. Sulla forma delle quali il dibattito è aperto. “La legge francese che impone un minimo di musica ‘nuova’ nella programmazione radiofonica nazionale potrebbe essere una buona partenza”. Altra ipotesi su cui abbiamo ponderato ed è giusto continuare a farlo. Il quadro resta tuttavia confuso, stante tutta la sua complessità. Paolo Naselli Flores è il titolare della Urtovox, etichetta che può vantare un premio ricevuto al MEI 2009 quale miglior label indipendente italiana. Sostiene che in pochi scorgono il vero punto della questione, “che è e sarà sempre di più - data per ormai imminente anche se progressiva la morte del cd - quella delle edizioni musicali. Oggi si ascolta musica come mai prima, e se ne utilizza altrettanta tra spot, suonerie e via discorrendo. La musica continua a muovere un sacco di soldi. Chi deterrà le edizioni continuerà ad avere in mano il pallino della situazione”. Si tratterebbe di una sorta di ritorno ad una situazione antica, in realtà. Il boom delle società di edizioni musicali fu infatti un fenomeno precedente l’industrializzazione. L’azienda proprietaria delle edizioni deteneva i diritti di sfruttamento del repertorio musicale, inizialmente con la vendita degli spartiti (ciò che caratterizzò l’epoca aurea di Tin Pan alley), quindi con le royalties vere e proprie, affidandone l’interpretazione a musicisti spesso al soldo, un tanto a canzone. Le major, una volta costituesi, ovviamente si impadronirono del meccanismo, emanando proprie società di gestione delle edizioni. Oggi sarebbero quindi spinte a portare a termine la metamorfosi, trasformandosi in enormi - onnivore, pervadenti - società di edizioni musicali, nella cui orbita graviterebbero - satelliti o antagonisti? - un nugolo di piccole battagliere aziende col compito di scovare i talenti al dettaglio, più un più vasto e disperso nugolo di cani sciolti padroni di se stessi, tra i quali magari ogni tanto pescare il futuro peso massimo capace di scalare le gerarchie fino a consegnarsi alle case madri, spuntando il prezzo più alto possibile. Che poi sarebbe mutatis mutandis più o meno come adesso, salvo la pressoché totale vaporizzazione del mercato discografico, ridotto a lussuose produzioni di nicchia - vedi gli iper-feticci tipo il recente box deluxe Darkness On The Edge Of Town di Springsteen - o rivolto ai reduci delle fascinazioni viniliche. D iscontinuità e reazioni Resterebbe da considerare il mercato “brevi manu”, già ampiamente in auge, destinato forse a diventare l’unica forma di commercializzazione diffusa di compact disc. “Gli unici clienti delle case discografiche sono i musicisti stessi e gli artisti sono gli unici finanziatori dell’industria discografica minore”, ci ragguaglia Palazzo. “L’artista paga la produzione, il discografico stampa il cd, l’artista compra dal discografico i dischi da rivendere ai concerti. E finisce lì dove è iniziata, con l’artista che rientra nel suo investimento iniziale e ci guadagna, se è capace, una piccola cifra. E’ una rivoluzione copernicana e a me va bene così e dovrebbe andar bene a tutti quelli che sono indipendenti per scelta, non per convenienza o impossibilità di essere ‘dipendenti’”. Forse il futuro, quello che tanto ci fa incazzare, quello che ci esalta e intimorisce, è più vicino di quanto non si creda. Forse è già moneta corrente. E se abbiamo già parlato di ritorni a situazioni pre-industriali, possiamo farlo di nuovo, più dettagliatamente. Possiamo permetterci di tornare col 41 pensiero alle figure leggendarie di musicisti be-bop ed errebì, per i quali l’incisione del disco era l’anello di una catena di prestazioni, un espediente tra gli altri per stare a galla con la propria arte. Era poco prima che la scossa elettrica del rock’n’roll innalzasse su montagne di 45 giri e denaro la figura della star. Va detto che l’esplosione dell’industria discografica negli anni cinquanta fu dovuta principalmente ad un fatto tecnologico, la messa a punto cioè delle tecniche di incisione e l’alta fedeltà di riproduzione. Prima di allora la musica incisa poteva considerarsi un’eco debole ancorché suggestiva della musica eseguita (e ascoltata) dal vivo. Non a caso i musicisti jazz consideravano il disco un’esperienza poco eccitante, “un po’ come leggere il giornale di ieri”. Quando divenne manufatto hi-tech, le prospettive si rovesciarono: il disco conteneva una dimensione d’ascolto spesso inarrivabile - perché aliena, perché altra - in sede di esecuzione live. Infine, il disco poteva arrivare ovunque, e ovunque arrivò. Acquistarlo significava tra le altre cose pagare un ticket tutto sommato equo per un’esperienza di partecipazione all’ultimo sogno collettivo. La smaterializzazione del supporto è un balzo tecnologico altrettanto significativo (forse molto di più), rispetto al quale è lecito attendersi una cascata di inevitabili cambiamenti. Uno dei quali sarà probabilmente la fine di un’epoca, quella della rockstar. In questo ipotetico scenario, il musicista torna ad essere tale, implode in una dimensione un po’ più umana, per quanto sempre baciata dalla specificità “sciamanica” del dono artistico. Individui con l’esigenza di sbarcare il lunario, di cavarsela più o meno bene secondo il talento. E comunque di lavorare - di recuperare il lavoro come componente irrinunciabile e continuativa - per sostenere la possibilità di esprimersi. Intendendo come lavoro anche una costante promozione di sé, del proprio messaggio. I grossi calibri continuerebbero a campare di rendita, come e più di prima, ultimi rappresentanti di un’epoca che glorificava il nome sulla copertina. In ogni caso, nel lungo termine è prevedibile che prevalga una “democraticizzazione” dell’immaginario, che significherà appiattimento soprattutto in ordine alla fenomenologia pop. Sono ipotesi sconvolgenti per chi come noi pone l’ordine costituito del rock in posizione centrale. Ma allargando la prospettiva al punto di vista di uno storico, potrebbe trattarsi di una normale discontinuità tra le tante di questo inizio millennio, e neppure tra le più significative: una parentesi che si chiude dopo qualche decennio, un paragrafo appena a fine capitolo, sezione costume. Sintomatologia ed avvisaglie di un processo più ampio e profondo, che riguarda ogni aspetto della trama culturale che ci tiene uniti come specie senziente organizzata in comunità più o meno circoscritte. Accadrà, sta già accadendo, anche per il cinema, per la televisione, per la letteratura. Per l’informazione. Le recentissime novità introdotte dalle webTV, dalle piattaforme per e-book e soprattutto la deflagrazione del sistema delle news operata da Wikileaks, sembrano i segnali convergenti di una rivoluzione che riguarderà ogni interfaccia tra noi ed il “mondo”. Sono sfide culturali a cui i vecchi codici dovranno adeguarsi. Occorre riposizionarsi su tutto, riposizionare tutto. R ozza utopia Chi paventava una reazione in senso repressivo del sistema non ha sbagliato a profetizzare, ma forse ne ha sopravvalutato le possibilità. O forse ne ha equivocato le procedure: se è ragionevole attendersi una repressio42 ne - una rivoluzione comporta sempre una qualche forma di reazione - che aspetto avrà? Sarà più un gendarme o un PR? Somiglierà ai tanti “amici” che collezioniamo su Facebook? O a un improvviso blocco della connessione? Mentre scrivo, arriva la notizia di un’ennesimo giro di vite. L’AGCOM, la non sempre puntuale Autorità garante delle comunicazioni, ha messo a punto un testo che potrebbe obbligare siti e provider a rimuovere i contenuti non legalmente autorizzati sulle piattaforme di download e persino di streaming. Annunci del genere si ripresentano ciclicamente. Che sia davvero la resa dei conti? In ogni caso, e comunque la pensiate, immaginarsi un domani prossimo venturo in cui svanisca la possibilità di scaricare - o ascoltare in streaming - illegalmente apre ad ipotesi interessanti. Ad esempio, i primi a rallegrarsene potrebbero essere quelli che già oggi e da qualche tempo mettono a disposizione gratuitamente e legalmente materiale che qualitativamente ha poco da invidiare alle medie produzioni indie. Un esempio? La “musica collettiva italiana” dei Klippa Kloppa, da Caserta con estro imprevedibile, una scossa di creatività scaricabile gratuitamente dal loro sito, dove è attivo anche uno streaming. Oppure, se preferite, c’è il loro canale youtube con centinaia di video. Una sorta di Tin Pan Alley (ah: cerchi che si chiudono...) del sud-Italia. “In effetti abbiamo sempre diffuso le nostre cose gratis”, ci dice l’ineffabile Prete Criminale, “a parte un cd per Snowdonia (Klippa Kloppa/ Soundish/Tottemo Godzilla Riders del 2003), anche in virtù del fatto che abbiamo venduto tante copie del cd Snowdonia quante me ne chiedono comunque dei cd che si possono scaricare gratis. Facciamo i cd anche se diffondiamo le cose gratuitamente, chi compra compra comunque”. Già: chi compra, compra comunque. Di che tipo di mercato stiamo parlando? Può esistere un mercato affettivo, che giochi sulla solidarietà emotiva? E, soprattutto, può sostenere un sistema come quello delle free netlabel? Forse sì, visto che già oggi stanno in piedi, contando sulla sola passione e sul pizzico di folle cocciutaggine di chi le gestisce. La più grossa difficoltà con cui devono fare i conti è la promozione, riuscire a dimostrare la propria esistenza nel web dominato dai soliti grossi potentati. Per assurdo, una stretta efficace sul download illegale - caldeggiato proprio dalle major - potrebbe proiettarle d’improvviso al centro delle attenzioni degli affamati rockofili alternativi, innescando un circolo virtuoso che sposterebbe - di poco, di tanto - il baricentro artistico della scena, compensando e forse sbaragliando la “stanchezza digitale” cui accennavano da casa Lepers. Siamo nel regno delle pure ipotesi, certo. Di contro, però, ipotizzare grossi benefici per il mercato tradizionale, indie o mainstream, non sa di rozza utopia? La crisi è una questione industriale. Che si risolverà con i codici e i meccanismi propri dei sistemi economici complesssi. A noi basti la seguente, semplice, quasi banale considerazione: il motivo per cui la fotocopiatrice, il registratore e il videoregistratore non passeranno alla Storia come marchingegni-killer è che, in qualunque scenario, ci sarà sempre l’esigenza incontenibile di scrivere, di fare musica, di girare film. P.S. Le dichiarazioni citate nell’articolo sono state per la maggior parte reperite via Facebook. Un paio via mail. Una telefonicamente. Un’altra infine è frutto di un colloquio faccia a faccia. Per quel che può significare. 43 Recensioni — cd&lp highlight 4 fiori per Zoe - Musiche per film mai visti (Garrincha Dischi, Novembre 2010) Genere: strumentale Terza release per i 4 fiori per Zoe che riassumono il lato strumentale della loro musica: ventidue composizioni, quasi tutte brevi, scritte nel corso dell’ultimo quinquennio per film, cortometraggi, documentari, installazioni e mostre. Il titolo si riferisce alla poca visibilità delle opere in questione, inaccessibili alla maggior parte del pubblico, problema che affligge non solo i lavori a cui il gruppo ha dato il proprio contributo e che rende poco visibili queste stesse musiche. Una simile raccolta cade quindi a puntino e posiziona il trio formato da Matteo Romagnoli (Le-Li), Nicola Manzan (Bologna Violenta, Il Teatro degli Orrori) e Francesco Brini (Pinktronix, Swayzak) lì da qualche parte lungo le vaste lande che separano i Dirty Three da Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo. Bozzetti elettroacustici insomma, che si abbeverano a seconda delle circostanze alle fonti del folk europeo, del post-rock, della musica da camera e del rumorismo (Nancy et sa cuisine), mescolando tango e klezmer, balafon africani (Il Mali migliore) e trucioli elettronici, archi setosi e strepiti elettrici (Tuo padre non è tuo padre), e arrivando perfino a virare su queste tonalità variabili l’aria Un bel dì vedremo di Puccini. Il gradiente immaginifico è alto e il tutto viene condotto con perizia strumentale e senza eccessi. Da sottolineare il contributo di Domenico Loparco al basso, Vincenzo De Franco al violoncello, Enrico Gabrielli (Calibro35, Mariposa) ai fiati, Pasqualino Nigro (Il Parto delle Nuvole Pesanti) alla fisarmonica ed Alessandro Grazian alla melodica. (6.7/10) Luca Barachetti 7 Walkers - 7 Walkers (Response, Dicembre 2010) Genere: Americana Vecchi instancabili freak: i Sette Camminatori hanno origine nel 2009 da una serie di collaborazioni all’inizio informali tra Bill Kreutzmann - ex tastierista dei Grateful Dead, per i più distratti - e il chitarrista roots Papa Mali. E’ accaduto, a un certo punto, che Bill fungesse 44 da ospite di lusso alle esibizioni di Mali, suscitando in modo spontaneo la voglia di un progetto divenuto realtà con l’inserimento di Matt Hubbard (già con Willie Nelson, presente nella preziosa tessitura King Cotton Blues) e Reed Mathis. Rodato da un paio di tour, il materiale che qui sfila in un’ora e spiccioli vede inoltre la presenza di liriche vergate da Robert Hunter ed è un secondo cerchio deadiano che si chiude. Essendo il primo nonché principale quel guardare ad American Beauty e Workigman’s Dead, allorquando la psichedelia faceva spazio alla riscoperta delle radici tuttavia trattenendo un sottile gusto per la dilatazione strumentale e lo stupore acidulo impossibili da cancellare. Che per l’occasione avverti nella sbilenca Chingo! e nell’oceanica Evangeline, negli omaggi a Dr. John (notturno in una Louisiana Rain tra palude e cosmo; ripulito nel dì festivo all’altezza della squillante, fiatistica New Orleans Crawl), tra le pieghe di un funk surreale in scia ai Little Feat e negli echi di The Band. Con tutta la personalità e l’ironia di chi con queste sonorità da sempre vive ma, volendo, le sa rivoltare come calzini. Cosa che sulle prime non t’aspetti e poi, in un lampo di estasi oppiacea, afferri come del tutto naturale. (7/10) Giancarlo Turra Ensemble - Excerpts (Fat Cat, Gennaio 2011) Genere: chamber retro-pop Mente e cuore che si parlano, il progetto Ensemble, gestito dal ’98 dal francese Olivier Alary come ponte steso tra sperimentazione e organicità. Sai che novità, oggi che a ogni cosa abbiamo fatto il callo: prima di liquidare la faccenda con un’alzata di spalle - e per comprendere meglio il valore di Excerpts vale però la pena riassumere le puntate precedenti. Trasferitosi a Londra dopo aver mollato la facoltà di architettura (da lì la cura meticolosa del suono, mai a scapito di un più ampio e armonico quadro), Olivier esordiva per la Rephlex a inizio millennio e Bjork lo teneva in rotazione fissa durante la registrazione di Vespertine. Il passo successivo un paio di remix per l’islandese e la collaborazione compositiva per Desired Constellation, su Medulla, laddove nel 2006 il Nostro aggiustava il tiro in un secondo lavoro che ospitava Cat Power e Lou Barlow, il batterista dei Mice Parade e un’orchestra tedesca arrangiata da Johannes Malfatti. Il quale ritorna a chiudere il cerchio in un’opera infine risolutiva nei confronti di un artefice attento a mescolare tecnologia e sentimento. Forma adatta a rendere il contenuto, cioè una canzone di silicio e nervi - prevalgono comunque questi ultimi: ascoltare per credere la Valse des Objets Trouvés degna del miglior Yann Tiersen, se no il Momus ringiovanito ed emotivo da Mirages - che colma i vuoti della memoria tramite orchestrazioni sottilmente spigolose e costantemente evocative. Benissimo integrate alla composizione (la leggiadra complessità di Things I Forget, una Imprints sospesa ed elegante) come gli echi di chanson rinnovata (En attendant l’orage, Envies d’Avalanches) e il senso di “futuro antico” ereditato dagli Stereolab (Les saisons vienennt, la sublime title-track). Come il romanticismo, l’umanità e la classe di cui vive e respira la creatura Ensemble. (7.4/10) Giancarlo Turra AA.VV. - La Leva Cantautorale degli Anni Zero (Ala Bianca, Novembre 2010) Genere: canzone d’autore Club Tenco e MEI si uniscono per questa raccolta in doppio disco che mira a rappresentare la nuova generazione cantautorale nelle sue varie sfaccettature. Trentasei i nomi coinvolti, tutti sotto i quarant’anni, e una buona occasione per testare lo stato di salute del novello songwriting italico seppur con qualche inevitabile mancanza (Brondi in primis), anche se sono gli stessi promotori a smentire qualsiasi pretesa di esaustività. Scorrendo la tracklist i nostri lettori troveranno parecchie conoscenze, alcune protagoniste delle indiecronache degli ultimi anni (Brunori SAS, Samuel Katarro, Dente, Dino Fumaretto, Patrizia Laquidara, Beatrice Antolini, Ettore Giuradei, Mariposa, Amor Fou), altre con ruoli mediatici più di contorno (Jang Senato, Pe- trina, Denise, Giancarlo Frigieri, Simona Gretchen) e altri ancora decisamente da scoprire. Non volendo ridurre questa recensione ad un mero elenco segnaliamo fra gli appartenenti a quest’ultima categoria alcune proposte da tenere d’occhio. Vedasi in apertura di primo cd Roberta Carrieri in un tre quarti folkeggiante dalla melodia ariosa intitolato Il valzer dei tre giorni - migliore rispetto alle cose ascoltate nel debole esordio - e più in là lo spaurito e lievemente surreale Matteo Castellano con l’acustica e gli schizzi di korg della breve, a dispetto del titolo, Innamorato lungo; mentre la chiusa è di un tradizionalissimo ma emozionale Alessio Lega con I baci. Più fecondo il secondo disco, che contiene peraltro gran parte dei nomi citati prima: l’apertura è di Piji, archeologo dei repertori di Natalino Otto e compagnia qui in spleen Modugno-Bacharach con l’elegante Un vestito di canapa; a metà scaletta Paolo Simoni stupisce a fronte di un esordio scialbo con la dalliana Fiori su sassi - ovvero quando l’intensità annichilisce l’essere derivativi; subito dopo i Bastian Contrario, sotto l’egida di Maroccolo, iniettano sensazioni ipnagogiche nella vibrante Parla tu per me; non ultimo Alessandro Orlando Graziano, un disco nel 1999, vibra anch’egli con la sontuosa Aiutami a innamorarmi di te, piccola perla commuovente di una controparte maschile della Patty Pravo più angelica e disperante. Presa nel complesso, La Leva Cantautorale degli Anni Zero paga qualche ancoraggio di troppo ad 45 una tradizione satura(ta) e qualche scelta opinabile sul fronte delle liriche, vittime di quel brutto corto circuito che sacrifica l’urgenza ad una non meglio precisata idea di Poesia - mentre la poesia è solo con la p minuscola, un genere come gli altri, e maiuscole dovrebbero essere invece le parole: segni inattesi e trafiggenti. Tuttavia il livello generale è buono e i due dischi scorrono piacevolmente, il secondo più che il primo. La canzone d’autore italiana sta vivendo una lunga fase di transizione, nella quale è vitale che la classicità venga rimescolata e rinnovata nei linguaggi. Plauso a chi ha organizzato e promosso, seppur un filo in ritardo sui tempi in mutamento, un’opera che si rivela promettente senza essere sconvolgente. E che il titolo degregoriano sia di buon auspicio e non diventi una sempiterna zavorra. (6.8/10) Luca Barachetti Alan Vega/Marc Hurtado - Sniper (Le Son Du Maquis, Novembre 2010) Genere: hypno-techno Alan Vega lo ribadisce in ogni occasione: per fortuna che ho imparato a usare il fiato suonando il sassofono; altrimenti non sarei riuscito a urlare per tutti questi anni. È dal primo atto come vocal che il nostro fa la stessa cosa, ossia riempire di angoscia prettamente umana gli incubi sonori di chi lo accompagna. È rauco di maturità, Alan in veste 2010, ma sempre intenso nella declamazione, figlio e padre di se stesso, protagonista in primo piano e borborigmo intimista della società industriale. A Marc Hurtado degli Étant Donnés, in Sniper, è toccato il compito di acuire la tensione - anzi tenerla viva dall’inizio alla fine - e di creare il tappeto su cui Vegababà possa planare sulle nostre teste. Noi, a testa bassa, Alan con lo sguardo assente (o concentratissimo?), come un matto che si lamenta sull’autobus senza che nessuno capisca con chi ce l’abbia. La techno ipnotica allestita da Hurtado centra l’obiettivo. Fungere da base e da battito cardiaco per il flusso di linfa declamata da Vega. Farsi rave, procrastinarsi, in una maniera che a volte risulta una versione tecnologico-androide dei Silver Apples (come nella title-track). Nascondere la propria personalità (nell’ultima traccia, Prison Sacrifice, forse la migliore, subire l’ombra di ben due pilastri, Alan e l’amica strega tabaccosa Lydia Lunch). La questione è piuttosto quanto tale obiettivo sia oggi ancora urgente da rincorrere, quanto riesca ancora a destare attenzione e scuotere la sonnolenza. La risposta è nello spirito e nella ricettività di chi ascolta, e non più nella potenza del suono - a cui, a queste condizioni, siamo 46 oggi immuni. Oppure, se lo vogliamo, malati volontariamente cronici. (6/10) Gaspare Caliri Antonio’s Revenge - Times Square Lights (Produzioni Dada, Dicembre 2010) Genere: brit folk Inizialmente erano un duo basso (Giovanni Boscaini) e chitarra (Alessandro Razzi) con la voglia di fare i menestrelli brit-pop, desiderio concretizzatosi grazie anche all’ingresso in formazione di Fausto Zanardelli (percussioni e tastiere) più Gianni Nuzzi alla batteria. Il risultato è appunto una sorta di indie folk che si rifà agli struggimenti appassionati e consolatori di calibri quali Stereophonics, Damien Rice o Travis. Lo fanno bene, col giusto spirito e dimostrando un buon physique du rôle a partire dalla voce. Tuttavia non saremmo qui a parlarne non fosse per certe arguzie di tastiera e un piglio sopra le righe che animano rispettivamente Shining Star e Better Than Myself, le due tracce centrali di questo mini d’esordio Times Square Lights. Viene da pensare che oltre al cliché ci sia di più, in forza del quale è lecito sperare in lavori futuri che osino una calligrafia personale. E quindi interessante. (6.2/10) Stefano Solventi Arthur’s Landing - Arthur’s Landing (Strut Records, Gennaio 2011) Genere: indie-funk A forza di ristampe, documentari e soprattutto di un recupero sistematico di inediti preziosissimi, pian piano lo sfortunato Arthur Russell s’è visto riconoscere il ruolo di contaminatore sonoro totale. Di quelli sempre irrequieti nell’accezione assolutamente positiva, capaci di passare da spartane, oblique ballate country a un cantautorato visionario, da un funk splendidamente mutant all’avanguardia colta senza perdere di vista il gusto comunicativo, annullando con rara e amabile disinvoltura la distanza tra accademia e club. Roba possibile solo a New York e oggi neanche più col medesimo spirito pionieristico, come dimostra il progetto Arthur’s Landing, otto strumentisti e collaboratori di vecchia data di Russel capitanati dal chitarrista Steven Hall e dal fedele Peter Zummo che riprendono una dozzina di pagine del nutrito romanzo. Scriviamo strumentisti ed è lì la questione, nella differenza tra chi possedeva la visione e chi ha contribuito ad attuarla: di fronte a materiale come pochi altri sin- golare, l’ensemble (forse schiacciato dal compito?) si è difatti spinto solo occasionalmente oltre una parata di educate suggestioni funk e jazz intessute d’elettronica di sottofondo, conferendo alle canzoni vere e proprie una legnosa aura indie anni ’80. Pura e laccata forma dove latita l’anima di Arthur, il quale viveva la sua epoca e al contempo immaginava il Duemila e un tributo così non lo meritava, perché mai si sarebbe arreso al mestiere. Del quale è viceversa colmo Arthur’s Landing, a fronte di motivazioni lodevoli e nondimeno insufficienti ad assolverlo. (5.5/10) Giancarlo Turra Atomika Kakato - Old Wave Prophets (Lo Scafandro, Gennaio 2011) Genere: nostalgia wave La neonata etichetta Lo Scafandro da alle stampe un disco molto diverso dal cantautorato pop di Fabrizio Tavernelli e ci porta indietro di trent’anni, scagliandoci nell’Inghilterra degli anni Ottanta. Fin dal titolo gli Atomika Kakato, anche qui c’è lo zampino di un ex AFA, mettono in evidenza quali sono le loro intenzioni e le mantengono per tutti i dieci episodi di questo album. In un periodo di grande (eccessivo?) revival delle sonorità che hanno reso immortali band come i Joy Division (ma qui non c’è quel pathos), XTC (ma qui non c’è quella scrittura tagliente), i Cure (ma qui non c’è quell’atmosfera) gli Atomika Kakato sembrano voler ricordare ai gruppi di oggi come si suonava allora. L’operazione riesce solo in parte e si rischia l’effetto karaoke nostalgico, perché l’inglese è così così, perché si atterra più che altro dalle parte dei Duran Duran e del synth pop da Top of the Pops, perché non è vero che la cover di Hello I Love You dei Doors ha lo stesso sapore di quella - storica - che i Devo fecero di Satisfaction. (5.5/10) Marco Boscolo Barbagallo - Quarter Century (24, Dicembre 2010) Genere: mutant rock Barbagallo si è guadagnato da un pezzo un posto di rilievo nel mio ventaglio di aspettative. Questo venticinquenne da Siracusa con un curriculum già corposo (Suzanne’s Silver, Tempestine, Albanopower...) ebbe modo di suscitare curiosità ed entusiasmo già coi lavori precedenti, un EP e quel Floppy Disk che lo proponevano quale fratellastro zuzzurellone e genialoide dei Jennifer Gentle, con evidenti filiazioni Syd Barrett e Damon Albarn stemperate da affinità Richard Swift. Un estroso totale insomma al cui repertorio il qui presente nuovo ep Quarter Century, disponibile in free download sul suo bandcamp, introduce ulteriori sbalestramenti stilistici, azzardando rimandi art rock e come dire? - post prog in grana lo-fi, un po’ come se Faust e Pere Ubu si dilettassero a destabilizzare siparietti Giant Sand (molto bello il rigurgito folk-rock nel finale di Show), lasciando fluire liberamente memorie Teenage Jesus e Nino Rota, ammiccando la destrutturazione lounge di Cibelle (splendida la rumba mutante di Clouds Behind The Moon) e la dissacrazione lucida di Frank Zappa. Cinque pezzi per venti minuti circa come d’uopo per la serie degli ep 24 della 42 Records, aventi l’intenzione di omaggiare - anche da un punto di vista audio - le vecchie musicassette C25. Una stuzzicante follia cui hanno partecipato una pletora di amici della scena siciliana, membri sparsi e vari di Colapesce, Tellaro, Cpt. Quentin e Music For Eleven Instruments tra gli altri. Come antipasto al nuovo lavoro lungo, previsto per le prime settimane del 2011, è proprio niente male. (7.1/10) Stefano Solventi Bardo Pond - Bardo Pond (Fire Records, Dicembre 2010) Genere: psichedelia Partirei da un aneddoto, che mette insieme il buono, il brutto e il cattivo della saga Bardo Pond, della promozione e del loro pensionamento post-lisergico agli occhi e alle orecchie del pubblico nostrano - forse appartenente a una generazione già avanzata rispetto agli ascoltatori più recenti, ma di fatto quella che da sempre è l’interlocutore preferenziale del super-trip ben oleato. Piero Scaruffi riceve in maggio 2010 un’email da un Gibbons, dove il Bardo Pond-iano gli intima di smettere di stroncare le ultime produzioni della band di Philadelphia. Immediatamente il critico ormai californiano pubblica la missiva in rete e la fa diventare cosa nota. Sembra l’ultimo atto della vicenda del combo psichedelico, una grottesca conferma dello stato di melma in cui le composizioni e le azioni del gruppo versano da anni. Ciò nonostante, ascoltando il self titled con cui Isobel Sollenberger e soci timbrano il cartellino al fotofinish del 2010 si sente solo tanta concentrazione e voglia di replicare se stessi, e poca paura e pretesa di piacere all’esterno. Se in Just Once Isobel ci prende per mano nella pastoralità folk (temutissima, visti i trascorsi, ma in questo caso riuscita) e ci conduce nella sabbatico maelstrom che conosciamo, i venti minuti di Undone 47 fanno da immobile karma, da baricentro pachidermico di rumore psichedelico, senza l’intenzione di sperimentare nulla ma ricercando unicamente il trip rassicurante. Sembra impossibile, ma il viaggio della coscienza può essere anche qualcosa di noto, un territorio dove si vanno a ritrovare sensazioni conosciute. L’ultima frontiera della psichedelia oltranzista è un contratto con l’ascoltatore. Tu non ti preoccupare di nulla, non ti stupiremo né cercheremo di mettere nulla fuori posto, e comunque pensiamo a tutto noi. Detto fatto: ecco The Stars Behind, volenti o nolenti (altri) tredici minuti di passo lento verso una landa fumosa e scura, senza novità ma perfettamente allestita, crescendo al ralenti, di fatto un non-crescendo. L’alternativa sono i toni da tarda cosmische finto-ingenua di Waynes Tune, e a questo punto tifiamo per la prima mossa. Più che l’ennesima alterazione, la coscienza di un saper fare. Al ribasso, forse ma di qualità rinnovata. (6.8/10) Gaspare Caliri Blugrana - Self Titled (Autoprodotto, Dicembre 2010) Genere: rock L’esordio dei Blugrana è una sorta di sussidiario piuttosto didascalico di quelli che sono stati i Novanta adolescenziali del sottoscritto (e credo anche di tanti altri). Desmael rimanda a Jeff Buckley, Comemaledire e L’apparenza citano gli Afterhours di Non è per sempre (la seconda arriva a parafrasare una Oceano di gomma fin troppo riconoscibile), Babel ricorda i Jane’s Addiction, Origami orbita dalle parti dei Pearl Jam, La verità della carne passa in rassegna i Timoria più melodici e i vecchi Ritmo tribale. Con in più una tendenza all’impalcatura in crescendo un po’ à la Negramaro. Va da sè che, viste le premesse, si tratta di materiale con qualche limite, quantomeno dal punto di vista del tempismo. Ciò che vent’anni fa avrebbe avuto un senso, infatti, ora arranca sotto la scure di un revivalismo appassionato ma gratuito, con pochi spunti davvero interessanti. (5.4/10) Fabrizio Zampighi British Sea Power - Valhalla Dancehall (Rough Trade, Gennaio 2011) Genere: epic rock Strana sensazione, ascoltando il quinto album dei British Sea Power. Bel disco, innanzitutto, che risolve gli eccessi di pathos dei lavori precedenti sgranando at48 mosfere tanto ispirate quanto cangianti, mettendosi per così dire al servizio di un’ispirazione che esige ora impeto nevrastenico (la foga quasi Pixies di Thin Black Sail) e ora enfasi adrenalinica (la cavalcata Manic Street Preachers di We Are Sound), rammentando il Billy Corgan in fregola ciber-wave (Mongk II) o quello della ballad oniriche (Cleaning Out The Rooms, Baby). Senza scordare la tipica teatralità albionica capace di cucire languori Patrick Wolf e David Bowie (Luna, Georgie Ray), così come l’ardore springsteeniano di Observe The Skies e i tremori post-pop (?) della lunga Once More Now, tipo i Go-Betweens stregati Sigur Ros. Strano, dicevo, perché questa mischia di rimandi sonici è carburata da un’attitudine che ce li fa collocare direttamente in scia Arcade Fire, dei quali sono praticamente coevi. Quasi che nella parabola ascendente della band canadese avessero finalmente intuito la propria direzione poetica, quella cioè d’un indie-rock epicamente contemporaneo, appassionato e globale. Di tutto ciò sono davvero felice: è un turbillon teso e coinvolgente, questo Valhalla Dancehall. (7.1/10) Stefano Solventi Bug (The) - Infected EP (Ninja Tune, Novembre 2010) Genere: dubstep Due inediti e due remix firmati per questa nuova miniuscita targata The Bug. Kevin Martin sembra voler riposizionare il proprio progetto grime & Co. alla luce delle stilizzazioni post-dubstep/soul brevettate con King Midas Sound. Non a caso, sul pezzo migliore del lotto, Catch A Fire, canta suadente Kiki Hitomi. I Roots Manuva colorano invece il lento cerimoniale di Tune In. Gli Autechre, glaciali e spietati come sempre, disinnescano completamente (esperimento interessante ma non riuscito) Skeng. Scratcha DVA accentua le radici dancehall di Poison Dart. A detta di alcuni, Martin il dubstep lo avrebbe addirittura inventato, nel 1997, con un Tapping The Conversation che si voleva immaginare colonna sonora ideale de La Conversazione di Coppola (da cui anche il moniker The Bug); quel disco, seppure privo del tipico anticipo di rullante dubstep, ne anticipava invece in pieno l’immaginario (metropolitano), le atmosfere (opprimenti) e - in parte - anche il suono (con la combinazione fantasmi trip hop + industrial + rumori concreti/ambient spettrale). Qui la carne al fuoco è troppo poca e comunque non sposta di una virgola l’approccio di Martin al genere. highlight Fauve! Gegen A Rhino - Namegivers’ Avenue (Tannen , Dicembre 2010) Genere: ambient-noise Un rumore bianco memore di brutture nippos o whitehousiane che si apre verso lande ambientali dall’aroma classicista. Si presenta così il comeback dei Fauve! Gegen A Rhino, nome ambiguo per un trio di ventenni irriverenti e ambiziosi che già con l’esordio autoprodotto dell’anno scorso, Geben, aveva inaugurato un canale preferenziale nelle musiche meno ortodosse. Citando qua e là rimasugli dello Smell sound e della new tribal america - da Aa a Mahjongg, passando per Health - virati però elettronica multiforme - krauta, mitteleuropea, minimalista, alla Kompakt, Moor, Mego e in ogni salsa - i tre imbastiscono anche nel comeback (o esordio ufficiale che dir si voglia) un suono originale, multiforme e cangiante. Se la base di partenza è quella di Geben, in Namegivers’ Avenue si va di dada-architettura e spazi borgesiani. Minimal techno in modalità raga sciolta in arpeggi di chitarra liquidi e al sapor di post- (Work In Progress), atmosfere diafane e ambientali come un Brian Eno marcito e ossessivamente reiterato (A Bridge For The Sky (To Yona)), idm rivoltata a botte di tribalismo industrial e Orbital in viaggio su Metropia, slanci di disco-house liquefatta e imbastardita con la cerebralità del post-rock e la fisicità del noise, non sono che accenni di ciò che offre Namegivers’ Avenue. Musica concettuale e insieme fisica, innovativa eppure riconoscibilmente rock, che sceglie percorsi meno battuti e di una avventurosa ambizione. L’unica definizione non banale ma onnicomprensiva degli zigzaganti orizzonti del terzetto, che ci viene in mente è quella che essi stessi ci offrono: tribal psych noisetronica. Da seguire, senza alcun dubbio. (7.3/10) Stefano Pifferi Aspettiamo sue nuove metamorfosi.(5.9/10) Gabriele Marino Casa - Peggioramenti (Dischi Obliqui, Ottobre 2010) Genere: rock/elettronica I Casa scoprono le due carte delle loro anime, dividendo esattamente a metà il quarto disco della loro produzione: da una parte le canzoni, dall’altra l’elettronica. Canovaccio - anzi, disegno architettonico - molto semplice ed evidente, forte come concept, come sempre, nei vicentini, efficace nel produrre conseguenze, riflessioni, movimenti di ragionamento musicale. Nella prima parte di Peggioramenti, i Casa replicano le intenzioni del primo disco, Vita Politica Dei Casa, vale a dire cercare quel riff. Epperò qui indulgono nel replicare i risultati della ricerca, manifestando a volte le nervature a vista, procrastinando una pratica di standardizzazione. Ci riferiamo all’elemento vocale dell’arrangiamento, straordinariamente evidente, mobile, tecnico, raffinato nei rimandi, ma anche, a voler vedere le cose da un al- tro punto di vista, forse legato ad alcuni stilemi. Fanno parte dell’eccellenza, i Casa, le lyrics lo dimostrano, le composizioni, gli arrangiamenti, anche, ma allora forse Bordignon potrebbe essere il nostro Arrington De Dyoniso, sulla strada della complessità, e sempre e comunque gli vorremmo veder evitare di “preferire l’ordine all’equilibrio”, come lui stesso si suggerirebbe. Il passaggio alla seconda anima è il folk di Attraverso Le Stagioni, non a caso più misurato, e apre il campo al B Side dei Casa: i venti minuti di omaggio a quel mondo che tiene insieme Tony Conrad (Caltrano) e Juan Atkins e Derrick May, minimalismo americano (scuola NY) e cassa dritta. Basta guardare i nomi delle tracce, luoghi vicentini (Pianezze, Villaga), tappe di un viaggio palladiano, punti di una mappa continua, colonna sonora da automobile con occupanti che non chiacchierano. Un modo per mettere l’ascoltatore in un mondo a sé, senza ancora mostrare una sintesi, dopo aver allestito, con Peggioramenti, tesi e antitesi. (6.8/10) Gaspare Caliri 49 Cold War Kids - Mine Is Yours (Downtown, Gennaio 2011) Genere: Indie Rock Bello scherzo a chi aveva creduto che Behave Yourself, l’ep registrato dal combo californiano nel corso della tournée estiva, segnasse un ritorno alle atmosfere waitsiane del classico esordio di tre anni fa. “Volevamo fare qualcosa di ricco e classico” ha dichiarato Nathan Willet in occasione della presentazione del nuovo Mine Is Yours. Detto fatto. I Cold War Kids perseverano pervicacemente ad esplorare le pieghe oscure dell’animo umano, ma la loro poetica della sconfitta riluce di un sound epico ed estremamente levigato. Le ambizioni, non certo celate, sono quelle di inserirsi nell’alveo della tradizione americana di band come R.E.M., affiancarsi a quegli autori ispirati e dolenti come i Buckley (papà Tim e figlio Jeff ). Lo fanno colorando di accese tinte pop il loro soul bianco, facendo di brani come Louder Than Ever e Sensitive Kid il grimaldello melodico per scardinare le resistenze di chi non si era lasciato irretire dalle asperità di Hang Me Up To Dry. Sanno di giocarsi molto con questo album, per questo ci mettono l’anima, in tutti i sensi: innalzando potenti preghiere laiche, rilassando i nervi sulle ritmiche esotiche e liberatorie di Matt Aveiro, mostrando, in generale, un pò di quell’ottimismo e di quella pace interiore senza le quali si fatica a vendere dischi. Facile parlare di abdicazione al gusto popolare. La verità è che da un eventuale successo di Mine Is Yours sarebbe il mainstream a trarne giovamento, sollevandosi almeno un pò da quella palude in cui giace. (6.9/10) Diego Ballani Cristio - Adult Taste (Lepers Produtcions, Novembre 2010) Genere: math-funk neo-psych Un duo che invita molti amici nella mischia sonica, i Cristio. Tanto che a questo loro debutto alla fine hanno partecipato altri otto musicisti, tra cui è d’uopo segnalare il buon Fabio Magistrali che si alterna tra microfoni e tastiera. I responsabili di questa riunione sediziosa sono Cristiano Alberici, vocalist degli X-Mary, e Michele Napoli, batterista dei Peawees. Un bel giorno di primavera del 2009 decisero di scozzare le idee e un anno più tardi è uscita questa congettura math-funk contagiata neo-psych con qualche colpo di testa hardcore-pop che non ci sta affatto male.Sentiteli come fanno fibrillare estro Primus tra bailamme Minutemen e - giuro! - indolenze catchy Belle And Sebastian in Granito, o intenti a fomentare la giga intossi50 cata e accomodante Jane’s Addiction via Soft Boys in Above The Tree, e ancora alle prese con ruffianerie insidiose in Stereogirl e Magic Piper, con la mestizia armata di So Sad o con gli aromi crepitanti di Violini. Chitarre spasmodiche e crepitio d’ hammond, tromba e corno francese, un senso di energia che si libera angolosa, premeditata e sferzante, come uno scherzo ridanciano giocato terribilmente sul serio. Dieci brani acidi sì ma senza cupezza aggratis, perché affilati di prepotente vitalità. Ce li fornisce la benemerita Lepers in regime di free download, ma se preferite potrete ordinarne la versione fisica dal sito della altrettanto lodevole Hysm. Un bel gesto, in ogni caso. (7.4/10) Stefano Solventi Dargen D’Amico - D’ (parte seconda) (Giada Mesi, Ottobre 2010) Genere: poesia tamarra Dopo avere confessato i propri peccati, avere recensito Fabri Fibra, avere fatto innamorare Iosonouncane, Dargen ci toglie l’impiccio e si recensisce da solo. Inspiegabilmente, se la (parte prima) suona decisamente più estiva (uscita il 2 giugno 2010), la (parte seconda) suona decisamente più autunnale (in uscita l’8 ottobre 2010). Lo scarto tra le parti è quindi soprattutto nel - sarebbe inconsueto se fosse diversamente per un oggetto che si ascolta - suono: se nella (parte prima) sfociava non senza vergognarsene - nel bassofondo del reggae più miserabilmente abusivo passando per la dance più giostresca, il suono vira nella (parte seconda) - seguitando a vergognarsene - verso l’elettronica più scura fino alla nostalgia sudamericana passando per lo scremo più emo. I temi sono però sempre quelli ormai familiari amorosi, illustrati da un artista infelice che poi sono io, che nessuno mi capisce quello che dico, che però quando cerco di farmi capire o in effetti si capisce e non sono quindi più così bravo o non si capisce lo stesso e però divento commerciale, che però sono più commerciale degli altri perché con tuffo carpiato mortale rovesciato riesco a essere commerciale senza nemmanco fare lo sforzo di vendere i dischi e comunque ti rimane sempre il dubbio di non aver capito comunque un cazzo e così si riprende il giro dal via. Odio Volare, amore e jetlag (e Dio), sole agrodolce; Anche se il mondo ha, apocalisse, rap a rotta di collo, refrain praticamente neomelo’; D’ cuore, cardiopatia totale, Annarella (superemo carillon e spernacchi), uno dei capolavori di Jacopo D’Amico; L’amore è quell’intertempo, enfasi e ricordi di voci trip hop; In Loop, musica & (non) dischi, rockelectroclash, un refrain che quasi qua- highlight Hanggai - He who travels far (World Connection, Dicembre 2010) Genere: country mongolico Dopo annate di bluesman e folksinger provenienti dal continente nero a riunire in splendide forme due alvei separati alla nascita era inevitabile che ad un certo punto accadesse anche questo. C’è meno epica antropologica nel suono degli Hanggai ma gli esiti dicono comunque di una musica dalla grande potenza narrativa ed evocativa, laddove è la globalizzazione ad avviare un paradosso che contrappone il locale alla massificazione delle culture. In poche parole: le ultime generazioni di cinesi ascoltano il rock d’importazione occidentale e lo riproducono. Ma se siete mongoli emigrati a Pechino e volete andare a recuperare (e salvaguardare) le vostre radici quando il sistema riconosce tutte le culture per poterne imporre meglio una sola, allora potete fare qualcosa di più. Ovvero unire il blues, il folk-rock, addirittura il country e il punk ai suoni tradizionali delle lande immense del Gobi. Dunque le chitarre elettriche e il canto gutturale; il violino morin khuur e il banjo; il basso e il flauto tsuur. He who travels far è il secondo lavoro di questi sei musicisti mongolici e cinesi dopo l’Introducing di due anni fa che li presentava come una sorta di epigoni asiatici del Morricone all’opera per Sergio Leone ma anche come fautori di un blugrass muscolare e alcolico, tutto chitarre impazzite e bordoni vocali. Qui produce Ken Stringfellow (R.E.M., Neil Young) che assesta e rinvigorisce il suono, mentre Marc Ribot mette la sua sei corde su una Dorov Moraril dall’impatto granitico come pedata di cavallo. Le altre sedici tracce (tre di bonus-track) si muovono tra scampoli cinematici (Gobi road), country-folk caracollanti (Uruumdush) e anthem mistico-battaglieri (Hanggai), con liriche che spostano velocemente il focus da una realtà pastorale ritratta con toni mitologici a un presente di immigrati in cerca d’identità molto meno edificante. Se i Pogues fossero nati tra Ulan Bator e Pechino probabilmente suonerebbero come loro. Fate spazio al country mongolico. (7.5/10) Luca Barachetti si Gli Atroci; Mi piacciono le donne, Crookers-o-rama, la mutazione tamarra è conclusa, autotune pimperia e rullante, l’omicidio del buon gusto; Briciole colorate, piano, archi, autotune. Spleen. Nello spazio interstiziale tra distacco critico e innamoramenti privati, uno dei dischi dell’anno. (7/10) Gabriele Marino De Curtis - Baciami Alfredo (Tannen , Novembre 2010) Genere: oltre-rock Eleganti e distaccati come il principe della risata da cui apparentemente traggono il nome, dietro i De Curtis non si nascondo debuttanti, ma solide realtà del rock italiano. Bruno Vanessi, ad esempio, chitarra dei Rosolina Mar, o Riccardo Orlandi, batterista negli Hell Demonio, che insieme al pianista Andrea Gastaldello, e Luca e Davide Bronzato (al sax il primo, al basso il secondo) completano l’organico veronese. Un quintetto vario e mobile come il background dei singoli componenti, abile nel muoversi in agilità tra post-rock strumentale e imaginary soundtracks, atmosfere cinematiche e jazz-rock “adulto”, con eleganza, sobrietà e almeno un paio di ganci destri diretti in bocca: la fanfaresca malinconia quasi Black Heart Procession di Lugana Addio e il post-africanismo di Nigeria ’70 (The Black President). I cinque viaggiano liberi e non disdegnano di infarcire il proprio suono di svarioni soul e capitomboli noir, aperture bluesy, lounge e addirittura rimandi fusion, a dimostrazione di una conoscenza della materia e di capacità creativa che a queste latitudini non possono non essere apprezzate. Soprattutto chi rimpiange il versante Caboto et similia troverà in Baciami Alfredo un gran bell’esordio, fuori da schemi prestabiliti, fiero 51 del proprio essere atipico e godibilissimo all’ascolto. (7.1/10) Stefano Pifferi Dead C (The) - Patience (Ba-Da-Bing, Novembre 2010) Genere: free-noise Un paio di lunghissimi minimal-raga in salsa kiwi-lo-fi che si spappolano gelatinosi mano a mano che procedono nella loro reiterata fattanza (l’iniziale Empire e la chiosa South), uno sgorbio di impro slabbrata da un minuto e mezzo (Federation), un acido e incompromissorio movimento rock che si sfalda sotto i piedi (Shaft). Si presenta così Patience, l’ennesimo passo del terzetto neozelandese: roba sempre corrosiva e sfiancante, menefreghista e disturbante, seppur alleggerita in un impatto frontale non più incompromissorio come i tempi che furono. È forse però soltanto un errore di prospettiva, il nostro, viste le tonnellate di rumore che emuli più o meno certificati stanno buttando ormai da qualche lustro nelle nostre orecchie. A ben vedere i 3 vecchietti qui si fanno rispettare su un terreno che, volenti o nolenti, essi stessi hanno contribuito a forgiare. Che è quello del free-noise più dilatato e nichilista, fatto (anzi sfatto) di lentezza, feedback, reiterazione, bassa fedeltà, destrutturazione, ecc. in cui l’attenzione, come nel precedente Secret Earth, sta più nella grana del suono che altrove. Una aurea e rumorosa mediocritas che tanto può ancora insegnare. (6.8/10) Stefano Pifferi Dean McPhee - Brown Bear EP (Blast First, Novembre 2010) Genere: guitar solo Chitarra sola di scuola evidentemente John Fahey-iana, ed elucubrazioni in loop e delay anche alla Robert Fripp (la title-track) - secondo una formula che - su una percorrenza ben più lunga - abbiamo ravvisato di recente anche in Dusting Wong. Un perfetto sfondo ai pensieri, che lascia, come spesso in questi casi, una domanda aperta: in che modo può riaffiorare nella nostra attenzione? Perché e come, se questa è l’intima espressione di un momento strappato al resto della vita, deve e può essere altrettanto per noi? Dean McPhee probabilmente non si è posto queste domande, ma in maniera irriflessa ha imbracciato la chitarra e ne ha tratto un prodotto che è espressione sua e soltanto sua. Il mondo del fingerpicking di provenienza Fahey è oggi sovente un momento di pausa nel52 la carriera di un musicista. Nel caso di McPhee siamo invece in presenza di un primo atto (fatta esclusione per uno split 7” con Chapters), e questo sposta un po’ le cose. Eppure, suona come un intermezzo, apprezzabile, ma pur sempre come un’incursione nella vita altrui, più che un’opera per un pubblico vasto. La replica, se mai ci sarà, sconfesserà o confermerà quanto diciamo. (6.5/10) Gaspare Caliri Death In June - Peaceful Snow (NER, Novembre 2010) Genere: Neo Folk Certe saghe sembrano infinite e quella di Douglas P., indiscusso padre fondatore della musica neo-folk, è senz’altro una delle più longeve e durature. Dai primissimi anni Ottanta il cantore inglese intreccia torbide ballate folk e umori da desolante scenario post-industriale, amalgamando gli elementi con fascinazioni pagano-militaristiche e il corredo iconografico per cui è celebre. Innumerevoli gli episodi secondari, le collaborazioni, le deviazioni dal percorso durante gli anni di carriera e, dopo l’onesto Rule Of The Thirds di due anni fa, questo nuovo Peaceful Snow sembra andare ad iscriversi proprio nella categoria collaterale appena definita. Una nuova manciata di brani in cui per la prima volta viene abbandonata la storica chitarra acustica in favore di un pianoforte suonato dal musicista slovacco Miro Snejdr, in cui il piglio mesto ed intimista del Nostro rimane sostanzialmente immutato. Certo alcuni potrebbero storcere il naso di fronte a questo inaspettato cambiamento, ma l’idea in sé è lodevole, specialmente dopo trent’anni di dischi spesso sostanzialmente simili. È piuttosto l’esito prettamente musicale a non convincere a fondo. Le melodie, semplici ma coinvolgenti, sono da sempre il punto forte della musica dei DIJ, data anche la sua innegabile scarnezza, e quando mancano o sono poco efficaci il castello comincia a vacillare. Esattamente la sensazione che traspare dai tredici episodi: non bastano le corde pizzicate del piano e gli spoken vocals di Douglas a fare di Peaceful Snow un lavoro solido. Come non basta Lounge Corps, bonus CD allegato alle prime 3000 copie, in cui il pianista ospite rilegge diversi classici della Morte In Giugno: un esperimento carino, ma nulla più, che potrà catalizzare l’attenzione dei soli fanatici del Totenkopf 6. (6/10) Andrea Napoli Demon’s Claws - The Defrosting Of... (In The Red Records, Dicembre 2010) Genere: Garage Psych Hai voglia ad accapigliarti sull’artista più importante e/o innovativo di questo primo scorcio di secolo, quando in giro ci sono gruppi come Demon’s Claws, gente che sforna album formidabili ed estranei a qualsiasi concetto di evoluzione. Questo, almeno, se li si guarda dal di fuori. A volersi confrontare con il loro immaginario, o volendo usare i loro paradigmi (codificati quasi esclusivamente nel triennio 65-67), quello che avviene con quest’ultimo album è una vera e propria rivoluzione copernicana. Jeff Clarke e compagni inoculano quel tanto di acido lisergico che basta a trasformare il loro garage sferragliante, in una psichedelia scheletrica. Con un meccanismo analogo a quello dei precedenti lavori, i brani vengono scarnificati nella loro essenzialità e i meccanismi del rumore messi allo scoperto da una produzione impietosa. La novità sta nel fatto che questo procedimento è oggi al servizio di composizioni meno convulse, in cui le melodie trovano sbocco fra i detriti elettrici, gli spazi vengono riempiti da riverberi lunari e le sonorità rese meno ostiche da una registrazione, per una volta, degna di tal nome. Il risultato non è poi così lontano da quanto ottenuto recentemente dai Fresh & Onlys, sebbene l’approccio dei Claws sia più ortodosso e filologico. Il blues atmosferico di Trip To The Clinic e il folk drogato di Anny Lou sono una versione ai raggi X della psichedelia texana dei 13th Floor Elavator; le ritmiche elementari di Fed From Her Hand incontrano al minimo comune denominatore tutte le band dimenticate dei vari Pebbles e Back From The Grave. Nel finale, la ballad Weird Ways sfodera un basso tondo e chitarre liquide inedite per il combo canadese. Lungi da rappresentare il suono del millennio in corso, quello dei Claws è materia viva e pulsante: quanto basta a tenere inchiodati all’ascolto dal primo all’ultimo minuto e a fare di Defrosting il pinnacolo della loro esigua ma sfolgorante discografia. (7/10) Diego Ballani Denise - Dodo, do! (Al-Kemi Records, Ottobre 2010) Genere: folk-pop Più primaverile che zuccheroso, più incantato che infantile, l’esordio sulla lunga distanza di Denise Galdo conferma quanto ascoltato nei due ep degli scorsi anni e in una manciata di altre apparizioni sparse. La ragazza salernitana ama un immaginario bambino ed onirico, fatto di dolcezze e luccichii, di cui la voce da elfo seduto su una nuvola è diretta conseguenza, un timbro che potrà piacere o meno ma che è caratteristica determinante (e dunque anche deterrente). La produzione di Gianni Maroccolo per Al-kemi Lab raffina allora le influenze note, che vanno dai Múm ad Emiliana Torrini, sbirciando da lontano Björk e Joanna Newsom, mentre il folk-pop di Denise viene rivestito soprattutto di corde acustiche (chitarra ma anche violino e ukulele) con qualche importante intervento elettrico ad emanare bagliori (la chitarra di Lorenzo Corti su Ageless). Traccia dopo traccia non mancano episodi notevolmente emozionali (Flowers in the drawer, Sunny Lovers con referenza Bacharach), da metà in poi però Dodo, do! risulta leggermente monocorde, sempre soleggiato, sempre gentile. E’ probabile che un pizzico di sangue in più non avrebbe guastato, così scelte d’arrangiamento maggiormente multiformi. Si veda il pianovoce finale di Diamond, una possibilità da crooner al femminile che andava perseguita anche altrove e che potrebbe essere un innesto rafforzante per il futuro. (6.3/10) Luca Barachetti Dimartino - Cara maestra abbiamo perso (Pippolamusic, Novembre 2010) Genere: indie pop Pippola Music continua la sua opera di diffusione della buona canzone italica con l’esordio di Antonio Dimartino, palermitano per l’occasione prodotto da Cesare Basile, nome quasi sorprendente visto il contesto. Dimartino recupera infatti il pop nostrano dei Settanta e Ottanta nella sua accezione più obliqua dando legittimità alle citazioni di Lucio Dalla, Rino Gaetano e Franco Fanigliulo della cartella stampa e con citazionismi da tutta la storia del nostro cantautorato un po’ ovunque. C’è Gaetano nel drumming irruento alla Arcade Fire di Cercasi anima e c’è Dalla in Ho sparato a Vinicio Capossela, ballad morbida scontornata d’organo con punte di sarcasmo comuni al compagno d’etichetta Brunori Sas. Ma Dimartino sa anche verseggiare punk-rock in Cara maestra e accodarsi agli ultimi Mariposa in La lavagna sporca, dove il riferimento ai bolognesi non è dato solo dalla presenza di Alessandro Fiori alla voce e di Enrico Gabrielli. Altrove l’ospitata de Le Luci della Centrale Elettrica, con nuovo ritorno dalliano (Parto), è forse l’esempio migliore di un disco piacevole ma affaticato dalla 53 mancanza di una direzione precisa su cui innestare una scrittura dalle ottime potenzialità (Marzo ‘48). Questione che torna nelle liriche, ennesima narrazione con discreto disincanto del no future odierno. D’altra parte se cantare (con Basile) La ballata della moda di Tenco ha ancora senso allora diamo ragione al titolo: abbiamo perso, e da tempo. (6.7/10) Luca Barachetti dios - We Are Dios (Buddyhead Records, Giugno 2010) Genere: pop-psych Sembra facile, fare un disco così. Nascere a Hawthorne, ricordare, riagganciare magistralmente ma con leggerezza i Beach Boys. I californiani dios partono di certo da qui: fanno pop songs euforiche e lievemente psichedeliche, usano delle penne che tratteggiano solo parole e disegni spesi bene, arrangiano divertendosi e mantenendo la sostanziale supremazia della melodia, quella vocale, che li accomuna tanto ai Flaming Lips quanto ai migliori Blur (Ojay), così come alle varie british invasion. Ma che la band dei fratelli Joel e Kevin Morales fosse in grado di scrivere canzoni già era fatto noto, almeno dall’esordio self-titled - strombazzato da Pitchfork - e dalla questione legale successiva con Ronnie James Dio, che li costrinse (fino a cause di forza maggiori, la morte di quest’ultimo) a cambiare nome in dios (malos). We Are Dios è una conferma della nonchalance con cui i dios riescono a essere inequivocabilmente indie, leggeri e frizzanti, mai banali, e scientifici a entrare nei neuroni - quelli più scanzonati - e convincerci a fischiettare e a riascoltare il motivo killer. Dietro a tutto questo, c’è una sicumera nella proposta, che non invecchia e anzi viene rinfrancata da esperienze vicine e lontane (gli Akron/Family in Tell Me Thing) e riprende un discorso interrotto cinque anni fa, con il sostegno odierno della sgamata Buddyhead. Esemplari e divertentissimi l’articolazione e il gioco di temi (lievi, ma furbi) di I Don’t Wanna Marry You, pregevole nell’esplorare tutte le possibilità di ritmo, atmosfere e cuciture arrangiative che possono essere prese a fronte di un’invenzione tematica “semplice” nella cosiddetta musica popolare. Niente di strabiliante, tutto di guadagnato nella freschezza dell’ascolto; qui sta l’esempio e la metonimia, e il motivo per cui recuperare sul finire del 2010 un buon frutto dell’annata. (7.3/10) Gaspare Caliri 54 Eighties Matchbox B-line Disaster - Blood And Fire (Black Records, Novembre 2010) Genere: Punk, dark Mentre a Southend-on-Sea una scena di nuovi e creativi darkettoni doveva ancora fiorire (The Horrors, These New Puritans, The Violets, Neils Children), nella ricca e ridente Brighton di mod-iana memoria, giusto qualche anno prima, si aggiravano codesti stilosi ragazzotti, forti di un solido punk rock innestato horror punk e psychobilly, che ne precorrevano, di fatto, le mosse. Due album tra il 2002 e il 2004, tonnellate di aperture per altre band britanniche e internazionali, proverbiali cambi di formazione e, infine il classico stallo con i due chitarristi (Andy Huxley e Rich Fownes) a mollare la nave fanno precipitare il resto della band in una spirale di droghe e party (tanto più che Fownes se ne va per i Nine Inch Nails...). Ne sono usciti soltanto ora, un lustro dopo, con questo Blood & Fire, un album che li ritrova affamati, ancora sanguinanti, eppure con il giusto nerbo per ristabilire il karma. Nel 2010, gli EMBLD rappresentano una versione noelectronics dei Klaxons rivisti dall’angolazione cingolata di act come Killing Joke. Suonano un po’ cyber (quasi) senza tastiere in pratica, e possiedono un frontman carismatico come Guy McKnight che, tra glamdark à la Bauhaus, certe prose medievaliste del metal e aggiornamenti indie ’00, si muove piuttosto bene senza scimmiottare pedissequo gli abusati stereotipi. Molto buona, infine, la nuova sezione ritmica. Anni di live act hanno ripagato, così come la discreta varietà di stili, tempi e modalità d’esecuzione compressi nella breve ed efficace scaletta sono il perfetto tornaconto di come si possa condensare anche cose lontane come i Guns’n’Roses più coriacei (Man For All Seasons), il grunge plumbeo degli Screaming Trees in combutta Aerosmith (Dont Ask me To Love You) e dei Maxïmo park (Homemade) cadaverici. Ascoltate, infine, il tiro Scratch Acid/Horrors di una Monsieur Cutts: così vorrei sentir suonare Il Teatro Degli Orrori ogni tanto. Unica pecca: dopo tutto questo tempo avrebbero potuto pensarsi più in grande. Ora, a livello di formula, sembrano degli esordienti promettenti. (7/10) Edoardo Bridda Ettore Giuradei - La Repubblica Del Sole (Novunque, Novembre 2010) Genere: songwriting “La Repubblica del Sole ci sarà per forza. Scomparirà la vergogna e la vita scoprirà finalmente il suo senso di highlight Iron & Wine - Kiss Each Other Clean (4AD, Gennaio 2011) Genere: avant folk Ci ha pensato quasi quattro anni Sam Beam per dare un seguito al bellissimo Shepard’s Dog, e non lo biasimiamo. Quando si azzecca così bene il fatidico terzo album, il gioco si fa duro. Coefficiente di difficoltà: altissimo. Come le probabilità di deludere. Ma il cantautore texano non sembra tipo da perdere la bussola per certe piccolezze. C’è un sentiero da percorrere, in compagnia di canzoni calde e sbrigliate, di folk che s’impastano di blues, di jazz, di pulsazioni etno. Perché il mondo ci è dato in prestito tutto intero e una trepidazione non sa - o serenamente se ne fotte dei - confini. La naturalezza è il segreto: una tradizione reinventata e credibile, come se accanto al front porch ci fosse sempre stata un’accolita black fornita di ammennicoli tribali - flauti atavici e percussioni a spalleggiare clavinet e sax - e ce ne accorgessimo solo adesso. Metabolizzati i moventi primari Will Oldham e Calexico, gli Iron & Wine sono oggi una sintesi nuova e particolare, celebrano affinità e convergenze di coordinate musicali dalla psichedelia bucolica di David Crosby all’avanguardia serica dei Beach Boys, dal sincretismo dinoccolato Steely Dan all’errebì mercuriale di Stevie Wonder, sfiorando le intuizioni paniche di David Byrne, l’estro ecumenico di Sufjan Stevens e certe retronostalgie blues dei migliori Gomez - che la sensibilità di Beam fonde in una prospettiva lucida, visionaria e accogliente. Stemperata la mistura, l’espressione esce calda e fluente, accesa e in qualche modo necessaria. Come può essere necessario un raccontare capace di fare perno su se stesso, il punto d’appoggio su cui sai di poter contare. Se Shepard’s Dog vantava una scrittura più intensa, Kiss Each Other Clean ha il merito di guadagnare agli Iron & Wine il livello espressivo successivo. Se quello era un capolavoro, questo è una conferma che non si siede sugli allori. (7.6/10) Stefano Solventi gioco, d’assoluta perdizione nel piacere del pensiero e dell’azione”. Ettore Giuradei arriva al traguardo del terzo album, presentato dal brano omonimo e qui commentato dall’autore bresciano. Un video eloquente accompagna questo singolo, in cui si omaggiano alcune delle figure italiane (e non solo) culturalmente più rappresentative, da Pier Paolo Pasolini a Giorgio Gaber, da Federico Fellini a Rino Gaetano, auspicando una possibile rinascita. Con La Repubblica Del Sole Giuradei torna a graffiare alla sua maniera, raccontando come sempre la vita di provincia con i suoi manierismi e tic, e riempiendo di sarcasmo le sue canzoni. È questo un album più narrativo del solito, con un clima musicale da songwriter piuttosto che da teatrante quale l’avevamo conosciuto sin qua. La sua cifra stilistica resta intatta e le canzoni acquistano ancora maggiore forza espressiva, sintomo di una raggiunta maturità, di chi ormai somiglia solo a se stesso. Realizzato con la consueta collaborazione del fratello Marco, l’album mantiene la vena surreale e onirica del Nostro, che qui si fa più esplicita e viscerale. Un gran bel ritorno. (7.2/10) Teresa Greco Everybody Tesla - Self Titled (On2Sides, Dicembre 2010) Genere: elettronica Il duemiladieci sarà ricordato come l’anno dei sardi. Colpa del “botto” di Jacopo Incani con il suo progetto di cantautorato sintetico Iosonouncane ma anche di questi Everybody Tesla, che del “cane” sono pure compaesani. Oltre che affezionati cultori dello stesso immaginario, quello che fa capo ai vari Kaoss Pad, Microkorg, SP404 e MPC 500. Loop stations e drum machines, insomma, con cui incrociare suoni e traiettorie, campionare e decontestualizzare spunti rumorosi, generare nuova materia musicale grazie a tastiere giocattolo, kazoo, Game Boy, ukulele e una miriade di altri stru55 menti. Alessio Atzori e Dario Licciardi tengono bene a mente la lezione di Fuck Buttons, Animal Collective, Silver Apples, Black Dice e po’ di tutta quell’elettronica psichedelica che fa del collage schizoide una ragion d’essere, arrangiandola nelle atmosfere sognanti di Sleep Here, nelle batterie acide di Be Twin Mountain, nel funk “castigafannulloni” di Federico ha ragione e nei Bran Van 3000 sotto LSD di Narvali. “In ultima analisi consideriamo la psichedelia come l’ala “coraggiosa” del pop”, ci dicono. “Ci poniamo sempre l’obbiettivo di scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa di originale. A volte ci riusciamo, altre volte no. Ma l’importante è che sia sempre presente un certo spirito di ricerca durante l’elaborazione dei pezzi.”. Per ora ci basta. (7.1/10) Fabrizio Zampighi Everything Everything - Man Alive (Geffen, Novembre 2010) Genere: indiepsychdiscopop Dicevano gli antichi:”in medio stat virtus”, indicando con questa locuzione che per ricercare la verità è sempre bene diffidare degli eccessi, sia positivi che negativi. Si tratta di una adagio che si adatta perfettamente all’accoglienza dell’album di debutto degli Everything Everything, arrivati su major dopo tre anni in cui si sono fatti notare grazie a singoli e release minori varie. Alcuni lo hanno reputato una schifezza senza mezzi termini, altri (anche in Italia) lo hanno incensato come il pop del futuro. Ecco, la verità probabilmente sta nel mezzo. La band di Manchester è la creatura di Jonathan Higgs che nella sua cameretta ha giocato con tutti gli strumenti, computer e amenità varie che hanno reso famosi nel mondo gli slacker di ogni latitudine. Evidentemente la fantasia di Higgs è più vicina alla bulimia che alla sana fame di conoscenza musicale, così ogni brano di Man Alive è un tale miscuglio di generi e suoni da lasciare esterrefatti. Ogni brano comincia in un modo, ma è difficile capire dove andrà a parare, un po’ come se gli Of Montreal avessero messo un turbo indie-disco travestendosi da Bee Gees. Ma le influenze sono ancora molte e ricordano la magniloquenza, anche se non centra quasi nulla sul fronte musicale, dell’ultimo Sufjan Stevens. Se solo Jonathan HIggs capisse quando è il momento di fermarsi, di chiudere i brani senza esagerare, avremmo di fronte un album di pop ultramoderno e futurista con un graffio che i Futureheads si sognerebbero la notte. Per il momento Man Alive rimane una buona 56 prospettiva per il futuro, ma non è detto che Jonathan Higgs riesca a guarire dalla sua bulimia. (6.5/10) Marco Boscolo Faun Fables - Light Of A Vaster Dark (Drag City, Novembre 2010) Genere: Alternative/Folk Archiviati il lavoro più noto Family Album e le sperimentazioni della colonna sonora The Transit Rider, il ritorno del collettivo mutante Faun Fables, cui fa capo essenzialmente il fortunato incontro tra Dawn McCarthy e Nils Frykdahl, si presenta come una folle commistione di derive neo-folk. Che, se da un lato non trascurano le necessarie e ineludibili radici USA, dall’altro non sanno slegarsi da un profondo sound dai tratti scandinavi e dell’Europa orientale. Molteplici fascinazioni tra paganesimo e misticismo rendono così Light Of A Vaster Dark un prodotto sfaccettato e di non facile fruizione ai non cultori del genere, i quali, ben introdotti nelle sonorità e nei riferimenti del caso, sapranno invece concepirne ombre e più o meno riusciti tentativi di distacco. I Faun Fables sanno infatti quello che fanno: trattano in modo articolato, disinvolto e ricco di sfumature l’approccio a una strumentazione ottimamente assortita (dall’armonica agli archi...) e a strutture folk capaci di sperimentare senza trascurare le tradizioni, pregio che in parte deriva dalle numerose collaborazioni maturate nel tempo, su tutte quella con l’ultima Will Oldham. Accanto a inattesi momenti d’avanguardia come Parade e la sinfonica Housekeeper, i suoni affondano le proprie radici in una ben celata classicità folk, abile tavolta nel contaminarsi con ritmiche che guardano al nuovo (Violet; la visionaria, archetipica Sweeping Spell. Non sfuggiranno la perizia e la cura nella produzione del disco, dal quale emergono un’ottima capacità di concepire e strutturare le composizioni senza trascurare i particolari e la stratificazione sonora che rappresentano la cifra espressiva della band. Un buon lavoro per cultori, in definitiva, che non strizza l’occhio a enfasi modaiole. (6.2/10) Giulia Cavaliere Flying Lotus - Pattern+Grid World (Warp Records, Settembre 2010) Genere: wonkygame Dovremmo un po’ tutti (musicisti, etichette, ascoltatori, giornalisti) ricalibrare il nostro interesse verso il formato breve. Steven ha marchiato a fuoco il 2010 con un album importante e ingombrante come Cosmogram- ma, ma non è capace di starsene fermo un secondo, non si accontenta mai (e menomale) e lo dimostra ancora una volta con questo EP tardo-estivo, una delle sue prove migliori di sempre, bignami now del suo mondo e piccolo passo avanti nelle sue ricerche. Per di più, graziato dal perfetto bilanciamento tra sperimentazione e godibilità immediata. Pattern+Grid World è il rovescio di Cosmogramma: asciutto diretto conciso. Steven abbandona quella jam-o-rama esagerata e torna a scrivere piccole canzoni elettroniche, concentrandosi non solo sui suoni ma anche sulle melodie. Parola chiave incisività in un carosello wonky tutto gommine tastierine computerini figli naturali della Nintendo e di Squarepusher (l’uptempo Kill Your Co-Workers, le contorsioni di PieFace). C’è il wonky sinestetico e scuro di Los Angeles (Time Vampires), ci sono la percussività (la dispari Jurassic Notion/M Theory), la fusion suonato/prodotto e le tastiere elettriche in odor di prog Settanta (Clay) di Cosmogramma. C’è anche una nuova fortissima sensibilità melodica, colorata e giocosa come forse non accadeva dai tempi dei bumps per Adult Swim o dei cd-r di inizio carriera, sensibilità che diresti pop (l’orientaleggiante Camera Day) e che è capace di farsi così spinta e aggressiva da trasformarsi addirittura in un assalto nu-rave (Physics For Everyone!). Goduria. (7.4/10) Gabriele Marino Gang Of Four - Content (Yep Roc, Gennaio 2011) Genere: gangoffour Abbiamo sviscerato altrove il contesto del ritorno su disco dei Gang Of Four, esplicitando anche alcuni nondetti importanti (la qualità della discografia post-Solid Gold, i debiti non saldati degli alfieri post-punk teen Zerozero). E non nutrendo alcuna particolare aspettativa, Content non si può neppure definire una delusione. La sensazione di stanchezza, di fiacca, è forte, evidente, esposta in primo piano: ben più del rullante schiaffeggiato da Mark Heaney (batterista asciutto, iper-tecnico, godibilissimo) in una produzione essenziale e scoppiettamente dal suono supercompresso e iperrealista. Ecco, il suono - che ad alcuni potrebbe non piacere perché effettivamente “troppo chiuso” - è una perfetta sintesi di domestico e industriale, a metà tra il montaggio home recording e il lavorìo di studio su lunghi banchi mixer. Il resto però non c’è. Mancano le canzoni (ma ci è piaciuta particolarmente la ballad tutta sincopi di basso, voce inaspettatamente affusolata e schizzini di chitarra A Fruitfly In The Beehive), i pezzi tutti appiattiti su una retroguardia post-punk/funk di mestiere ma mai davvero impeccabile. Dicevamo della fiacca e, su tutti i buoni cliché della band (chitarra grattugia o con effettistiche noisy, ritmiche a tratti marziali, intrecci vocali e cantato monocorde-salmodiante, colpi di rimshot reggae), si impongono all’orecchio le novità e le storture, soprattutto sul versante Jon King, da quelle stonature che più che di stile sono proprio stecche, a certi falsetti Ottanta esagerati (e mal controllati), a certi filtri come l’autotune applicato al desert rock di I Was Never Gonna Turn Out Too Good. Ma ancora più dei dettagli, vince - facendo perdere - quel generico retrogusto come di “U2 iper-muscolari” che resta nelle orecchie a fine ascolto (retrogusto che, ruotando di almeno 180 gradi la boccia di neve, intrigava invece in alcuni pezzi epici degli ultimissimi Chemical Brothers). L’edizione speciale limitata è racchiusa in una scatoletta di metallo tipo scatola di sardine... (4.5/10) Gabriele Marino Gerardo Attanasio - Vivere lento (Autoprodotto, Dicembre 2009) Genere: canzone d’autore Cantautore tradizionale non troppo smosso dai soliti riferimenti (De André, De Gregori, Guccini ecc...), Gerardo Attanasio appartiene a quella vasta schiera di nuovi songwriter che paiono intrappolati in una sorta di gabbia temporale-espressiva i cui pregi e difetti - i primi spesso saldamente legati ai secondi - sono arcinoti a tutti. Cura ossessiva delle liriche spesso sconfinante in un atteggiamento solo all’apparenza poetico e al contrario scarso rilievo della parte musicale, infarcita di didascalie pop-rock prive d’inventiva e imprevisti. Insistenza su tematiche amorose fotografate da punti di vista linguisticamente ricorrenti o su tematiche socio-politiche ritrite. Infine poca rilevanza all’elemento vocale, con interpretazioni senza nerbo e timbri anonimi. Attanasio, presente nella cinquina degli esordienti dell’ultimo Tenco, queste caratteristiche le ha quasi tutte, fra una A colei che è troppo gaia che tira in ballo senza troppi esiti Baudelaire (mentre altrove, ma con gli stessi risvolti, è Dino Campana ad esser coinvolto), fino a una In video veritas che rimastica uno spirito anticatodico certo legittimo ma non nuovo, passando per una Billy the Kid con compitino folk-rock degregoriano al seguito. Tuttavia a salvarlo dal baratro è la consapevolezza, ancora sotterranea ma avvertibile, che è di un rinnovamento dei linguaggi lirici e non solo ad aver bisogno 57 highlight Hanno Leichtmann - The African Twin Towers Suite (Dekorder, Novembre 2010) Genere: psych soundtrack Head Of Wantastiquet - Dead Seas (Conspiracy Records, Novembre 2010) Genere: weird-folk Dismette temporaneamente i panni di componente del collettivo Sunburned Hand Of The Man, Paul Labrecque, e riesuma il suo alter ego in solitaria col quale aveva incantato un paio di anni addietro nell’esordio ufficiale Mortagne. Da poco trasferitosi in Belgio, nuovo e indiscusso eldorado delle musiche off, Labrecque a.k.a. Head Of Wantastiquet non si allontana dalle lande sonore della casa madre e si muove in splendida solitudine sui terreni scoscesi e avventurosi di una nuova e rinvigorita weird america. Primitivista e in totale comunione con la natura, spirituale e fatata, a volte quasi posseduta dai demoni delle foreste, la musica che esce dalle poche corde toccate dal musicista americano è quanto di più toccante ascoltato negli ultimi anni. Inni psichedelici per solo banjo, space-folk dai toni apocalittici e crepuscolari, chitarrismo psych riverberato e ipnotico sono di volta in volta gli strumenti usati dalla mano di Labrecque: una mano e una sensibilità sincere e sentite, mosse in una sorta di preghiera rituale alla grandezza della natura che lo porta a dedicare l’album alla memoria di Jack Rose e a immortalarsi in copertina mentre celebra un panico funerale per un albero secolare abbattuto. Se ci si chiede cosa ne è della weird America più intima e solitaria, in Dead Seas si troverà una ottima risposta. (7.3/10) dola di un package tutto nuovo. A testimonianza il dub della title-track, il Robyn Hitchcock in sbornia lisergica di Enter Any Question o di B.J. Core, gli Arcade Fire di Liza Show, gli Ottanta sintetici via Soft Boys di Rifles o i Clash stile Rock The Casbah di Monochrome Elvis. Brani che hanno l’indiscutibile pregio di sviluppare inedite devianze verso il crooning Eighties più contaminato, pur mantenendo una coerenza e una riconoscibilità di fondo. Se buona parte del merito è da ricondurre all’ottimo lavoro in fase di arrangiamento e produzione del decano Giovanni Ferrario, il resto è da ascrivere a una scrittura - spesso responsabilità diretta dell’altra metà del progetto, Andrea Fusari - che guadagna in elasticità e credibilità ascolto dopo ascolto. Posizionandosi qualche passo in avanti rispetto a un esordio ugualmente efficace ma decisamente meno personale. (7.2/10) Fino al 2005 Hanno Leichtmann si era fatto conoscere come Static e la sua era un’arte -tronica che poteva essere declinarsi tanto nell’indie targato Morr quanto nell’electro di scuola Tarwater e To Rococo Rot. Il progetto condivideva con questi ultimi un gusto propriamente germanico d’unire l’elettronico al suonato, il pop urbano al folk campestre. Ma le capacità e i gusti del compositore tedesco, come del resto quelli di tutta questa generazione “elettronica”, non si limitavano certo qui. Un anno dopo Re: Talking About Memories, ultimo album degli Static fino ad allora, Hanno stava lavorando al proprio esordio solista Nuit Du Plomb quando il regista tedesco Christoph Schlingensief gli chiede di musicare The African Twintowers, il suo ultimo film. Il lungometraggio, girato in Lüderitz/Namibia dodici mesi prima, era un trip psichedelico in piena regola nello stile dei vecchi film hippie degli anni ’60, recitato come attori protagonisti da Irm Hermann, Klaus Beyer, Robert Stadlober e Patti Smith. Al musicista Schlingensief commissiona l’equivalente sonoro di quell’esperienza. Hanno si cimenta calandosi esattamente nel modo in cui si sarebbe fatto in quegli anni: dopo aver reclutato John Nijenhuis (Sir Henry) e un non ben precisato trio di musicisti (alle tabla, sitar, tampura), Leichtmann, con le immagini del film proiettate sul muro in loop, si chiude in studio per quattro giorni e quattro notti e partorisce un viaggio ethnopsych virato sepia di sedici brevi tracce che, senza informazioni alla mano, ora potrebbero tranquillamente passare per un album Ghost Box. Se, all’epoca, sfortuna volle che il regista trasformò il film in un’installazione per 18 monitor, con il pochissimo audio in secondo piano, oggi la lost soundtrack rivive attraverso la presente pubblicazione su Dekorder, che comprende una selezione rieditata e rielaborata delle registrazioni originali. Più per i fan di Investigate Witch Cults Of The Radio Age che per quelli appassionati ai lavori solisti di Stefan Schneider a nome Mapstation (The Africa Chamber) o all’estetica pulita e chic dei Lippok, The African Twin Towers Suite è un oscuro collage psych che a tratti ricorda (nei dialoghi) il surrealismo dei primi Monty Python, ma anche certe wave oscure di fine Settanta (vedi alla voce falsi etnomusicologici à la Residents). Non imprescindibile ma decisamente affascinante (anche nei difetti). (6.8/10) Fabrizio Zampighi Edoardo Bridda John Vanderslice - White Wilderness (Dead Oceans, Gennaio 2011) Genere: chamber pop Bisognerebbe lasciarle ai padri padroni della farsa che la gente ancora chiama “gioco del calcio”, la fretta di arrivare e l’ansia di risultato. Così che almeno gli artisti possano ancora, in questo povero mondo affondato dalla voglia di appagamento immediato, trovare e soprattutto volere il tempo per crescere. Finora, di fatto, John Vanderslice aveva “soltanto” accennato doti e potenzialità innegabili lungo sette album, quale più e quale meno ispirati a modelli autoriali da spezzar le ossa a pressoché chiunque. Saliscendi non privi di pregi in cui Magnetic Fields, Eels e Stuart Murdoch indicavano un altro americano con Albione nel cuore, pieno di buoni propositi epperò irrisolto e in cerca di personalità. Che diresti infine giunta in queste nove tracce, allestite in collaborazione con la ventina di membri dalla Magik*Magik Orchestra e costruite attorno a un pianoforte in ascendere melanconico, a qualcosa che rammenta un Eric Matthews di nuovo brillante giunto a scacciare i demoni di Elliot Smith. Senza tralasciare arguzie e improvvise incursioni in un dopo-folk urbano senza pretese di algido intellettualismo, come il rimanente arrangiate e condotte da Minna Choi in quel di San Francisco sotto la supervisione di un John Congleton per una volta misurato. Mezz’ora che scorre in un battito di ciglia e trasmette calore nello spirito e dove una Sea Salt d’imperiosa, mossa drammaticità anni ’50 e il sensazionale commiato 20K (una Pyramid Song ridotta all’osso e illeggiadrita, nientemeno) sigillano esuberanza sposata a complessità (Convict Lake, The Piano Lesson), umori meditativi (English Vines, White Wilderness) e un ragionar d’esistenza in buccia di canzone (Alemany Gap, After It Ends). Desidereresti indagare i perché e i percome di siffatta uscita dal bozzolo, non sorgesse il sospetto che, a volerla spiegare ad ogni costo, la magia potrebbe svanire. Non sia mai, con la fatica fatta per raggiungerla. (7.6/10) Giancarlo Turra la sua musica come quella di altri colleghi. Altrimenti non si spiegherebbe la chiusa, bella ma soprattutto inaspettata, con l’eterea e liberatoria Il tuffatore avventato. Non un capolavoro ma un segnale importante, a cui speriamo verrà dato un seguito. (6.2/10) Luca Barachetti GuruBanana - Karmasoda (Shyrec Records, Gennaio 2010) Genere: rock-psichedelia I GuruBanana riescono nell’arduo compito di suonare identici a sé stessi e al tempo stesso profondamente diversi. Ci eravamo preparati a una copia dell’omonimo esordio - ottimo esempio di rock velvettiano, vintage nella concezione ma creativo nella sostanza - e invece con Karmasoda ci troviamo di fronte a un disco che rimescola ulteriormente le carte. Riprendendo la solita terna Bowie/Reed/Stones (Unscheduled) e rivesten58 Stefano Pifferi Horsepower Productions - Quest for the Sonic Bounty (Tempa, Novembre 2010) Genere: dubstep Se andate su wikipedia e vi studiate la tecnicissima scheda sul 2 step in inglese, noterete che per spiegare alla gente cosa si intende per un more experimental 2-step rhythm gli autori riportano il frammento di una traccia, uscita nel 2000 su Tempa e poi raccolta nell’album In Fine Style due anni più tardi. Si chiama Gordon Sound ed è un pezzo, a dir poco, fondamentale: triangola almeno tre elementi come il garage, il ragga e il sub-bass, con quest’ultimo a far da spola con la tradizione tremula del bleep’n’bass primi Novanta, ma anche con la futura cricca di Croydon. Più di qualcuno ha visto negli Horsepower i veri padri dei canoni elettronici prediletti degli anni zero, ed è un fatto che i loro dischi giravano sia negli zaini di Skream quanto in quelli di Loefah e nei circuiti che daranno origine al grime. Rispetto alle future scuole, nel sound di 59 highlight I Was A King - Old Friends (Sounds Familyre, Gennaio 2011) Genere: 60s rock/pop Wooden Wand - Death Seat (Young God, Dicembre 2010) Genere: country-folk Davvero difficile tenere dietro a James Toth, il songwriter del Kentuky che dal 2004 si è fatto conoscere come Wooden Wand and The Vanishing Voice. Qui la seconda parte del nome è definitivamente caduta, ma nel 2007 aveva già annunciato che non avrebbe più usato alcuna sigla, per cui aspettiamoci ulteriori cambiamenti. Quello che, invece, non cambia nel corso degli anni è l’incapacità di stare fermo: in sette anni di attività discografica ufficiale, gli album (se abbiamo contato bene) sono una decina, ma se ci mettiamo anche i CD-R e i vinili di diversi formati, perdiamo facilmente la bussola. Altro pilastro inamovibile della produzione di Toth è la qualità media dei suoi lavori: tutti sopra la media e c’è da chiedersi che cosa sarebbe in grado di fare se si fermasse un attimo e scremasse ulteriormente. Forse sarebbe la morte della sua creatività, perché crediamo che molto del suo folk/country polveroso e sanguigno sia da ricercarsi nella tradizione girovaga dei musicisti che hanno guardato al Midwest americano come la fonte di un’epica e di un’estetica, di tutti quelli che non sapevano stare fermi. Nelle note stampa vengono chiamati semplicemente per nome: Willie (Nelson), Waylon (Jennings), Merle (Haggard), Hank (Williams). Tutta gente nata tra gli anni Venti e Trenta. Gli anni della Grande Depressione, delle migrazioni interne verso la California cantate nelle Dust Bowl Ballads di un altro gigante come Woody Guthrie. Per questo Death Seat, Toth ha messo insieme dodici brani tra i migliori della sua carriera, coadiuvato dall’attenta produzione di Michael Gira e da uno stuolo di amici che comprendono membri dei Lambchop, dei Silver Jews, dei Mercury Rev e altri. In comune: gli orizzonti senza confini delle praterie e il deserto. Difficile scegliere tra i brani: tra il ritratto movimentato di Bobby e il Bob Dylan da giovane di The Mountain, la tradizione di Servant To Blues o l’intimismo di Tiny Confessions. Tutte potrebbero essere state scritte in qualsiasi epoca. (7.3/10) Marco Boscolo Gordon dominava ancora lo spirito dei Novanta al tempo del 2 step e non quel tipico odor di tombini, smog e zolfo che sentiremo in Terror Danjah e Shackleton. Di più, le citazioni cinematografiche (sci-fi, timbriche etno) tipiche delle loro production, conducevano l’ascoltatore nelle metafore londinesi dell’evasione (la solita Ibiza) più che nelle desolanti vie urbane di Benga, Burial e Skream. Il sub bass però, aveva un peso specifico determinate. Specie quello contenuto nelle B side dove la crew spogliava letteralmente il proprio sound enfatizzandone le asprezze e, appunto, il giochi d’angolo del Sound System. Oggi a sei anni di distanza dallo scioglimento, Benny Ill si presenta con un nuovo collega, Jay King (ma anche con Matt HP, Nassis, Loefah e Orson) e ci consegna l’album che avrebbe dovuto recapitare allora, e siamo sicuri che questi pensieri devono essergli sfiorati, oltre a rappresentare la cornice imprescindibile per inqua60 drare criticamente quest’album: godrà di momenti dark experimental, eppure è così miope nel recapitare ai posteri quegli stessi scintillii garage che dieci anni fa ne fecero un combo 2 step evoluto e oggi, in epoca di ripescaggi pop/soul (Mount Kimbie e James Blake), avrebbero potuto portarlo oltre, nel futuro, e non nella maniera del dubstep perpetuata qui. Sul buon artigianato etno degli Horsepower 2010 fatevi un bel parallelo con lo Shackleton del Fabric 55, come pure quello con la techno dello Scuba di Triangulation. Non c’è partita con loro. Ce n’è nel quadro più generale delle produzioni del genere dove è paragonabile, per certi versi, all’ultimo Scorn. (6.7/10) Edoardo Bridda Nel sempre vivo filone del rock/pop nostalgico di un decennio dorato come gli anni Sessanta si inseriscono anche gli I Was A King dalla Norvegia, paese da cui provengono anche i Jessica Fletchers, nostalgici pure loro. Per gli I Was A King si tratta della seconda prova, a distanza di un anno dal precedente Losing Somenthing Good for Something Better, nel quale cercano di sfruttare la spinta positiva ricevuta dalle testate soprattutto inglesi. Per raggiungere lo scopo, la band si è spostata a New York per registrare al Marlborough Farms di Brooklyn e ha potuto così contare su una serie di amici dai nomi importanti che sono passati a dare il proprio contributo al disco: Sufjan Stevens, Gary Olson (Ladygub Transistor) ed Emil Nikolaisen (Serena Maneesh). Il risultato di questo vai e vieni dallo studio, pur senza eccessi picchi negativi, è un disco disomogeneo e meno personale rispetto all’esordio. Ci sono gli echi continui della stagione musicale preferita dai norvegesi, sebbene l’apertura del disco sia affidata a un tiro rock quasi nu-wave. Ma è solo un’impressione passeggera e il resto del programma si snoda nei classici territori Sixties: un po’ di sani Beatles (Unreal, Snow Song), i R.E.M. più retrò di Shining Happy People (Forgive and Forget), i Big Star (Wylde Boys). Della combriccola hanno fatto parte anche un compositore di classica moderna come Joshua Stamper e il batterista jazz Kevin Shea. Non si sa in cosa sia consistito il loro contributo, avendo Old Friends tutte le stigma del nostalgic pop più classico e meno d’azzardo che si possa immaginare. Stramberie dei norvegesi, probabilmente. (6.3/10) Marco Boscolo Ike Yard - Nord (Desire, Luglio 2010) Genere: minimal / post-punk Gli Ike Yard approdano nel nuovo millennio. Vecchie conoscenze di una new wave oscura e minimale, i nostri si ripresentano sulle scene con questo nuovo disco a quasi trent’anni da quella piccola gemma che fu Untitled (conosciuto anche come A Fact A Second), mistura post-punk/proto-techno dal groove ridondante e ossessivo, che rimane l’unico full-length dato alle stampe prima dello scioglimento datato 1983. Da lì in poi solo una raccolta di successi e inediti nel 2006 (1980-1982 Collected), e adesso questo Nord, con cui gli Ike si propongono al pubblico praticamente nella formazione originaria (eccezion fatta per la defezione di Fred Szymanki). La continuità di identità in questo caso è anche garanzia dal punto di vista musicale, che cambia la forma ma non la sostanza del proprio essere, vale a dire un’elettronica poliritmica, fredda, che spesso recupera l’eredità lasciata dal sopracitato Untitled. E’ il caso della cavalcata Orange Tom di piena ispirazione Suicide o di Oshima Cassette, brano tessuto da una linea di basso ipnotica ad incastro con la batteria digitale, in cui si innesta la voce strascicata di Stuart Argabright che sembra fare il verso a Ian Curtis. Ad ampliarsi dunque è il panorama, che diventa più variegato, fatto di derive dubstep sapientemente rielaborate come nell’iniziale Traffikers, in Mirai (cover di un brano dei giapponesi Back Horn capace di avvicinare i Massive Attack ad un clima post-apocalittico alla Vex’d) o Beautifully Terribly, che accenna anche ad un tiepido calore emotivo. Poi un paio di episodi avantfolk, come l’elettroacustica percussiva diShimmer e Metallic Blank, che alla tipica struttura voce-chitarra sovrappone un basso elettrico pieno di riverberi, elementi drone, echi vocali orientaleggianti. Un disco ibrido quindi, che non guarda troppo avanti ma piuttosto si impegna a riattualizzare il proprio sound costruendo un ponte tra passato e presente, tra le radici electro-post-punk e le ultime tendenze made in London. E se il risultato finale non passerà agli annali, sicuramente rimane un buon viatico per la resurrezione della band. (7/10) Stefano Gaz Kinzli & The Kilowatts - Down Up Down (Polkadot, Dicembre 2010) Genere: folk Bel personaggio, Kinzli Coffman: origini coreane, è cresciuta in adozione nel Colorado e da un po’ ha preso domicilio stabile in quel di Londra, dove al folk alterna l’insegnamento a tempo pieno della matematica. Da qui invia la replica all’esordio del 2007 Going Just To Be Going tramite un pugno di brani in origine pensati come demo e poi sviluppati dagli amici kiloWatts con l’aiuto del produttore Gigi Piscitelli. Alla luce della biografia ne deriva una canzone d’impianto folk-rock matura e consapevole, fatta di pensieri e parole che mai cadono nel comizio pur affrontando tematiche che anni fa avremmo definito “impegnate”. La musica si accoda avvicendando delicatezze (la desertica Distant Shore e un’accorata Watery Air) a episodi più accesi ed elaborati (We Walk For Peace; il piano e 61 i cambi di passo in I Read Your Letter; la malinconica innodia di Safe Place For Us) senza scordare per strada le sfumature nel mezzo, evitando ad eccezione di qualche leggera ruffianata che le buone maniere divengano maniere e basta. Una classicità di piccole cose che lascia intuire capacità superiori alla media nei sapori mitteleuropei di The Land Of Il e nell’esotica Oahu, e che con le adeguate spinte potrebbe raccogliere consensi addirittura più ampi. Con merito, pensando come l’ultima cosa di cui questo mondo abbia bisogno siano delle novelle Norah Jones o KT Kustall. (6.8/10) Giancarlo Turra LA Vampires/Matrix Metals - So Unreal (Not Not Fun, Novembre 2010) Genere: Sunbleach Disco Dopo il primo e più umbratile capitolo collaborativo con la reginetta del dark-pop Zola Jesus, Amanda Brown (già Pocahaunted, Topaz Rags e cotenutaria dell’inarrestabile NNF) torna con un nuovo lavoro a quattro mani. Questa volta a dare sostegno all’iperattiva ragazza californiana c’è Matrix Metals, già apprezzato per l’album Flamingo Breeze e noto anche per i lavori a nome Outer Limits Recordings. Se in LA Vampires Meets Zola Jesus le due fanciulle si sfidavano a colpi di cantici spettrali sul manto di beat sub-hiphop, So Unreal è una centrifuga che inzuppa la disco ammoniacata di Metal Matrix con le nenie ossessionate della Brown, propagando l’effetto come di un vinile che giri fuori asse sul piatto. Sei episodi dilatati e fuori fuoco, sbiaditi come da una candeggina assunta per endovena ed indelebilmente persistente. Si vedano How Would U Know e la title-track con i beat di scuola Washed Out e il mantra strafatto di Berlin Baby per capire come Amanda stia superando se stessa. In arrivo a breve anche un nuovo maxi-singolo per la neonata 100% Silk, label di soli 12 pollici a 45 giri gestita da indovinate chi: proprio lei. (7.3/10) Andrea Napoli ta, grazie a un beat secchissimo, un mare di distorsioni e qualche rimando ai Nirvana di Bleach. Il tutto in un disco fondamentalmente di genere ma nemmeno troppo fedele alla linea, assemblato con cognizione di causa. Nei dieci strumentali di Dromomania spicca, oltre alla discreta manualità di fondo del duo, la voglia di non prendersi troppo sul serio, come dimostrano anche certi dettagli incoerenti - ad esempio il carrillon posto in apertura di Il filo di lana - che Angelo Mirolli e Mario Serrecchia disperdono un po’ ovunque. Segno di una consapevolezza che rinuncia agli schemi prefissati e al tempo stesso non vuole prescindere da un percorso di apprendimento lungo ma costruttivo. Per ora, siamo sulla sufficienza. (6.1/10) Fabrizio Zampighi Lia Ices - Grown Unknown (Jagjaguwar, Gennaio 2011) Genere: Folk, Pop Allontanandosi un po’ dal pop acustico, con Grown Unknown Lia Ices prende anche vaghe distanze dal mood à la Cat Power che aveva caratterizzato il precedente Necima e si avvicina a un sentire etereo simil-Enya. Accentuati gli esotismi e aumentato lo spazio degli archi, l’album si caratterizza per una spiccata assenza di pezzi portanti. Nonostante la vocalità precisa della Ices ne esca confermata, nulla davvero eccelle, ma soprattutto quasi nulla resta ad eccezione di una Little Marriage prossima alla Sea Of Love cantata da Ms. Chan Mashall. Niente di nuovo, a pensarci bene, considerando come anche in Necima sembrasse esserci la sola Many Moons a reggere le regole base del folk sulle quali la cantautrice sembra costruire i suoi album. Sospensioni vocali, stacchi e quel pianoforte che troppo spesso pare soltanto accompagnare i risvolti del cantato finiscono alla lunga per appesantire l’ascolto senza sostanziarlo. Grown unknown è un lavoro piccolo, ben prodotto ma con buone probabilità di finire nel dimenticatoio. Anche in quello dei cultori del genere. (5.3/10) Giulia Cavaliere Le scimmie - Dromomania (Autoprodotto, Dicembre 2010) Genere: stoner I White Stripes che rivangano gli psicodrammi dello stoner a marca Kyuss, del grunge e dell’hard psichedelico. Le scimmie sono un duo batteria e chitarra elettrica capace di materializzare in meno di mezz’ora loschi figuri da deserto californiano primi anni Novan62 Lilies - We Are The Lilies (V2 Music, Dicembre 2010) Genere: neo-tropicalia Così va la vita: la spendi in gioventù da artista di culto; alla mezz’età ricevi omaggi da Geni tuoi pari e torni sulle scene pieno d’entusiasmo, così che il villaggio globale ti permette di lavorare praticamente con chiunque. Questa in sintesi la vicenda dei Lilies, ovvero David - a capo dei francesi Tahiti Boy - e Sergio Dias di Os Mutantes, incontratisi dopo che in un’intervista radiofonica il primo aveva espresso la propria adorazione per questi ultimi e scopriva che il miglior amico del dj era il genero di Sergio. Una settimana dopo il giovane David riceveva una richiesta di collaborazione, concretizzata nel marzo 2009 da una manciata di confetti popedelici impreziositi da ospiti d’eccezione (Iggy Pop per la rutilante, autoironica Why?; Jane Birkin nella delicata ballata Marie). Tra una citazione colta e l’altra, piacciono il livello costante e il taglio sixities di scrittura e arrangiamenti, solo talvolta macchiati da qualche perdonabile scivolone. Se oggi l’insieme non può più stupire, nondimeno regala cose belle assai: su tutte i Beatles del ’67 che infilano universi in micro-punte (Over My Head), James Brown che si riappropria del telaio ritmico di Taxman (O Mar), l’acid-beat venato lounge di Meninas e del tradizionale brasiliano Oh Bahia. Pop acuto e policromo per grandi, piccini e tutti gli altri che stanno nel mezzo. (7/10) Giancarlo Turra Live Footage - Willow Be (Autoprodotto, Novembre 2010) Genere: elettronica Classicismo in salsa minimal-electro? Musica da camera nell’era del 2.0? Forse. O forse qualcosa in più di definizioni che possono essere fuorvianti o per lo meno limitative. Mike Thies e Topu Lyo (già con Quitzow e Setting Sun) vanno di minimalismo strumentale - solo batteria/tastiere per il primo e violoncello, loops e effetti per il secondo - per imbastire un album di elettronica in bassa battuta elegante e raffinato, dal taglio ovviamente cinematico e fortemente evocativo. Siamo sulla falsariga della Cinematic Orchestra dei bei tempi o di ciò che i nostrani Dining Rooms fecero tempo addietro, ma in più c’è una particolare predilezione per aperture cameristiche (la title track, Mong De Rida) dai tratti quasi neoclassical, a dir poco stranianti e personali. Le strutture mobili dei pezzi si fanno apprezzare anche in virtù di un processo creativo che vede i due interagire per stratificazione di input: auto-samples e loops creano atmosfere orchestrate al guado tra post-rock da imaginary soundtrack (Sad Love Story), bassa battuta elettronica, a volte malinconica e umorale (Big Mind), altre piuttosto movimentata a sfiorare lande wavey (See The Reflection), altre ancora limitrofa a certo jazz d’ambiente (Working Man Is Always Poor). Musica che può suonare datata ma risulta indubbiamente intrigante e godibilissima. (6.8/10) Stefano Pifferi Lloyd Turner - Hints (Face Like a Frog Records, Settembre 2010) Genere: ambient-minimalista L’immagine in copertina di una natura verde in modo rigoroso e altero rispecchia le tonalità della prima prova dei Lloyd Turner, al secolo Paolo Tornitore e Donato Loia, quest’ultimo tra le file dei Lento per il disco Eathern. Il duo amministra pianoforte e chitarra (elettrica o acustica) in strumentali dal passo corto, eterei e reiterati, dove tasti e corde dialogano in una specie di meditazione autunnale di chiaro stampo ambient-minimalista. Il risultato è buono, specie quando entrambi gli strumenti espandono il loro suono in lande di silenzio magari con il supporto di un livido fondale elettronico. A tratti è inevitabile che si materializzi la figura di un Loren Mazzacane Connors insolitamente seduto al piano, con un’altrettanto inevitabile sensazione di già ascoltato. Ma i Lloyd Turner sanno dare forma ai Suggerimenti (Hints) che la natura comunica loro. (6.8/10) Luca Barachetti Lone - Emerald Fantasy Tracks (Magic Wire Recordings, Novembre 2010) Genere: glo-breaks Se fosse l’esordio grideremmo al miracolo, ma il secondo disco di Matt Cutler non si discosta dalla celebrazione del mito balearico tagliato con l’ambient dei Boards Of Canada e della cricca glo-fi di qualche tempo fa (Washed Out, Toro Y Moi e soci). Non per scoraggiare i possibili ed eventuali ascoltatori, ma è tutta farina già utilizzata in modo eccelso da altre electroheadz pensanti: le tastierine di Zomby (Aquamarine), i bbreaks techno di Four Tet (Moon Beam Harp), le visioni in salsa balearica che ricordano la prima techno dei Cobblestone Jazz (Ultramarine) e un buon gusto per gli arrangiamenti che crea un’ambient calda e piacevole. Un disco che non dice nulla di nuovo nella costruzione di una palette ambient innovativa, ma che si lascia comunque ascoltare. Trompe l’oreille per Lone. (6.2/10) Marco Braggion 63 manzOni - Manzoni (Autoprodotto, Dicembre 2010) Genere: canzone d’autore L’esordio dei ManzOni è canzone d’autore imperfetta ma dai significati forti, con un vissuto personale che stravolge le estetiche consolidate a far da chiave interpretativa. Un grumo di intensità poetica mascherata da sfogo prosaico e quantomai terreno, come terrena è anche la disperazione sfibrata che si respira nelle nove tracce della scaletta. I cinquantasette anni di Gigi Tenca (già Maladives) generano testi lineari e poco inclini a perdersi in metafore gratuite, citano una quotidianità lontana dalle rime, affittano una voce roca e sgraziata che sa di troppe sigarette fumate. Spigolosi e umani come i giorni dell’Edda solista - stilisticamente lontano anni luce ma ugualmente pregnante -, del Pasolini intensissimo degli Ultimo Attuale Corpo Sonoro o magari del Ciampi più amaro. Paragoni che possono poco, se non sottolineare le virtù involontariamente catartiche di materiale che rimane comunque instabile, da interpretare, a metà strada tra il racconto e lo sfogo personale, il climax e l’autoterapia. In quest’ottica la musica fa quello che deve, ovvero traghettare le parole dando loro una scenografia semplice in cui muoversi. Un ripetersi a oltranza costruito sulle chitarre, la batteria e i loops di Fiorenzo Fuolega, Carlo Trevisan, Emilio Veronese, Ummer Freguia che rimanda al blues ma al tempo stesso è legato al folk, al post-rock, alla musica d’autore. Tanto per sottolineare che anche per la parte strumentale non si ragiona per generi o schemi prefissati, ma per umori momentanei, crescendo, spunti quasi naïf che deflagrano (ascoltatevi Tu sai e capirete cosa intendo). Il risultato non è solo un bel disco, ma anche un disco onesto. Con tutti i pro e i contro del caso. (7.2/10) Fabrizio Zampighi Marlowe - Fiumedinisi (Seahorse Recordings, Dicembre 2010) Genere: rock Fanno dieci anni più o meno che i Marlowe stanno sul pezzo, sbattendosi tra Caltanissetta e dovunque li porti la passione. Nel 2006 ebbi modo di recensire Mai perdonati per la rubrica dei demo, il loro secondo album autoprodotto in cd-r. Fu un bell’ascoltare quella specie di cantautorato rock dalle atmosfere cupe, benedetto dalla presenza di Marta Collica e Cesare Basile. Vedi un po’ come vanno le cose, in questi anni di velocissima persistenza di modi e mode: ci sono voluti cinque anni 64 per l’esordio “ufficiale” su etichetta Seahorse. Fiumedinisi è il titolo, come il paese dove - nello studio Eye&Ear - è stato registrato, quasi a suggellare una complicità col territorio, a suggellare radici locali malgrado la inevitabile forza d’attrazione globale (il disco è stato mixato a Chicago). Undici tracce che testimoniano il tentativo - sostanzialmente riuscito - di approdare ad un ibrido tra il passo melmoso e grave di cui sopra (coi grovigli letterari e l’aura noir) e una foschia incandescente in bilico sullo shoegaze, più ammennicoli e trame angolose che pescano liberamente dall’alt-country agli ultimi sussulti dell’ormai redento post-rock. In sintesi, è una specie di indie-emo adulto e cinematico, che potrebbe mettere d’accordo i seguaci di Smog, Black Heart Procession e Mogwai, così come i reduci del verbo CSI e dei Marlene Kuntz “sonici”. C’è un finale magmatico in 2 Maggio che ammicca derive noise senza smarrire la rotta, ed è forse il momento migliore del disco. Molto buona anche la febbrile Devo tutto alla notte, così come Dei tuoi miracoli è tanto tesa quanto liberatoria, mentre In fondo alla gola convince grazie all’incedere da deserto metropolitano e all’ospitata di Angela Baraldi. C’è anche un tentativo in lingua inglese, The Last Day Swimming, che non spiace ma paga pegno ad una pronuncia un po’ legnosa. A proposito di testi, Salvo Ladduca scrive e canta col taglio enigmatico/attonito d’un Panella tenebroso. Buona band, i Marlowe.(7/10) Stefano Solventi Matteo Toni - Qualcosa nel mio piccolo (Still Fizzy, Dicembre 2010) Genere: pop-blues Il rischio maggiore per Matteo Toni è quello di finire ancor prima di iniziare. Un destino che i tempi veloci e spietati in cui viviamo riservano a chi si innamora di dettagli passatisti o legati a un personaggio fortemente contestualizzato, costruendoci sopra tutto uno stile. Certo Ben Harper non ha l’esclusiva sulla Weissenborn (slide guitar hawaiana) che suona anche Matteo, ma è altrettanto vero che qualsiasi cosa esca da quel tipo di strumento dovrà fare i conti, volente o nolente, con la produzione passata e presente del musicista americano. Tanto più in un EP d’esordio in cui si ascoltano brani come Fluir, con un trio tiratissimo batteria/percussioni, basso, chitarra che sembra rivendicare una filiazione diretta con l’Harper di Fight For Your Mind. Un paragone scomodo e che fa storcere il naso, ma che alla fine - a vederla in modo davvero obiettivo - non influisce più di tanto sulla qualità media sopra alla media dei cinque brani di Qualcosa nel mio piccolo. Un buon campionario di blues-pop con venature soul prodotto da Gilberto Caleffi e Moltheni, con quest’ultimo a chiosare come autore nella conclusiva - e decisamente “moltheniana” - Tutti i miei limiti. (6.4/10) Fabrizio Zampighi Mike Adams At His Honest Weight Oscillate Wisely (Saint Ives, Gennaio 2011) Genere: rock Poco si sa di Michael Dwayne Adams, ma quello che si viene a sapere da queste dieci tracce è che è un signor musicista. Per questo Oscillate Wisely fa tutto da solo: suona, registra nel retro della cucina di casa, arrangia, produce e realizza a mano le copertine (nella miglior tradizione della piccola etichetta che lo licenzia). L’idea che sembra stare dietro a questo piccolo gioiello di rock senza frontiere è prendere quelle che più appassiona dalla discoteca di casa e mescolarlo insieme a una voce calda e fascinosa per mettere in musica dieci storie che Mike Adams conosce bene perché sono quelle che vengono fuori da un uomo che affronta una crisi esistenziale. La sua. Dentro vi si ritrovano le polveri del country del Tennesse, la California di Roy Orbison, le atmosfere pop dei Big Star, lo spettro del Johnny Cash dell’ultimo frammento di carriera, il manierismo del crooning americano. Tutto suonato e presentato con estremo gusto. Certo, realizzando solamente 200 copie in vinile per tutto il mondo non crediamo che di Mike Adams sapremo presto molto, ma lo sforzo di andarlo a cercare, in futuro, lo faremo volentieri. (6.8/10) Marco Boscolo My Disco - Little Joy (Temporary Residence, Gennaio 2011) Genere: techno-math-rock Senso del ritmo, chitarre aggressive e krauta ossessività circolare e limitrofa al dance-hall alternativo. Questa la proposta dei 3 australiani My Disco, band non di primo pelo, visto che sono al terzo album, si avvalgono della produzione di mister Steve Albini e per questo Little Joy si è scomodata addirittura la Temporary Residence. I fratelli Liam e Benjamin Andrews (rispettivamente a basso/voce e chitarra) insieme a Rohan Rebeiro (batteria) danno vita ad un math-rock piuttosto eclettico e viziato da una ossessione per il motorik krauto virato dance che trova la sua quadratura nei momento più espansi e reiterati. Young, (8 e passa minuti di cassa e basso inarrestabili, da sfasamento cerebrale simil-tech- no), il tour de force di Rivers (chitarre taglienti e affilate su un acidissimo tappeto ritmico), o, per i momenti meno dilatati ma ugualmente centrati, la conclusiva A Turreted Berg, sono esempi ben calibrati di un suono groovey e corposo che mantiene in nuce l’idea aggressiva del rock e la mixa con quella ritmica tipica del dance-hall. È il batterista Rebeiro il vero perno del trio: metronomico e mobile, innesta spesso sensazioni altre al canone di genere finendo con l’inventare ibridi apparente astrusi ma perfettamente funzionanti come in Turn, un esotico procedere math-rock mutato samba che sembra uscito da una session degli Shipping News nel mezzo del carnevale di Rio. Per gli amanti della reiterazione e dei ritmi ossessivi, una vera e propria little joy. (7/10) Stefano Pifferi Offlaga Disco Pax - Prototipo EP (Autoprodotto, Dicembre 2010) Genere: elettronica L’etica alla base dell’ EP Prototipo è decisamente in linea con il pensiero Offlaga Disco Pax. Lo è perché le tastierine Casio che qui rileggono in maniera ortodossa e rigorosa parte del catalogo della band sanno di anni Ottanta esattamente come l’immaginario ideologico-nostalgico del gruppo. E lo è perché l’operazione ribadisce ancora una volta quel senso di appartenenza (politico, emozionale, passatista) che lega pubblico e band e che da sempre rappresenta un po’ il valore aggiunto dell’esperienza Offlaga. Come dimostra anche il fatto che il disco in oggetto si potrà comprare esclusivamente ai concerti - tiratura limitata a cinquecento copie - e una scaletta che con le sole Ventrale, Robespierre, Fermo, Lungimiranza, Tono metallico standard, e Onomastica non è che un antipasto del Prototipo Tour 2010. Prendiamo appunti sulla lezione di marketing e ci godiamo un Eppì che non sarà nulla di nuovo ma intanto suona che è un piacere. Grazie a un lo-fi volutamente codificato che appiattisce i brani ma al tempo stesso fa guadagnare punti a quell’impalpabile vintage legato indissolubilmente all’immagine della band di Max Collini, Daniele Carretti e Enrico Fontanelli. Non un semplice vezzo da artisti arrivati, insomma, ma un passaggio coerente e tutto sommato comprensibile. (6.8/10) Fabrizio Zampighi 65 Ovlov - Margareth, Frank and the Bear (Casa Molloy, Ottobre 2010) Genere: new-wave Un tempo a nome Black Eyed Susan circuitavano il post-rock in dilatazioni elettriche di buona fattura con deviazioni spesso rumorose e perizia strumentale. Oggi Luisa Pangrazio (voce e chitarra) e Luigi Ancelotti (basso) tornano con Michele Marelli alla batteria a nome Ovlov ed è proprio un’altra vicenda. Identica l’impressione esecutiva - con in più un drumming dalla presenza nevrotica o muscolare a seconda dei casi - del tutto diversa l’attitudine, rimodellata su una scioltezza pop che naviga fra new-wave, post-punk e rock’n’roll molto rotolante. Non ci vorrebbe nulla a risultare derivativi già alla prima traccia, tuttavia Margareth, Frank and the Bear si gioca le proprie carte sullo spessore di una serie di episodi in grado di tenere alta la tensione per una mezz’ora scarsa (minutaggio ideale quando si va su questi lidi) e soprattutto grazie alla verve della voce di Pangrazio (già nelle Mulu) che mescola teatralità e appeal, ombre scure e leggerezza, Siouxsie e Tracey Thorn. Niente male. (6.6/10) Luca Barachetti Pete Yorn - Pete Yorn (Vagrant, Dicembre 2010) Genere: rock Cantautore del New Jersey classe ‘74, Pete Yorn sembra il prototipo di quell’Americana in bilico tra mainstream e rock alternativo che si garantirà sempre un bel seguito statunitense mentre dalle nostre parti gli toccherà al più un apprezzamento tiepido. A meno che non azzecchi il singolone che spacca le playlist e cavalca lo spot giusto. Ci provò seriamente lo scorso anno licenziando Break Up, album in collaborazione con quel bel bocconcino di Scarlett Johansson, evidente tentativo di saltare sul vagone giusto anche se i risultati - artistici e commerciali - furono tutto sommato deludenti. Intendiamoci: è uno che sa dannatamente bene il fatto suo. Ma che dannazione non sembra in grado di metterci davvero del suo. Il qui presente album omonimo - quinto a suo nome lo conferma: ascolti le veementi Velcro Shoes e Badman e ti sembrano i Counting Crows che vorrebbero essere i Pearl Jam. Prendi la battente Precious Stone e pensi ad un nipotino di John Mellencamp che si è ascoltato troppe volte Jakob Dylan. Ti fai cullare dalla caracollante Wheels ma la grana Gram Parsons ha una irriducibile patina Hootie & The Blowfish... E via discorrendo. Il fatto che sia stato prodotto da quel buontempone di 66 Frank Black più che un valore aggiunto diventa una piccola aggravante. (5.9/10) Stefano Solventi Phoenix Foundation - Buffalo (Memphis Industries, Gennaio 2011) Genere: emul indie-pop Sconosciuti nel nostro emisfero, i neozelandesi Phoenix Foundation sono in giro dal ’97 e in carniere vantano tre lp e diversi premi nazionali: all’altezza di questo quarto disco - pubblicato in madrepatria nell’aprile 2010 - la Memphis Industries tenta di introdurli sul mercato europeo e chissà. Un tour d’inizio annata già è programmato e l’etichetta è ben conosciuta agli appassionati di indie-pop. Termine che peraltro definisce uno spazio vuoto nel quale la gente oramai infila di tutto e sovente senza ragion veduta, così che anche Buffalo tanto darsi da fare non lo spiega. Decolla con una certa classe, infatti, sulle ali del sinuoso retrogusto popedelico di Eventually sull’omonima giostrina da James caramellati che si immaginano Coral o viceversa; siccome però far dischi resta ancora una scienza all’incirca esatta, successivamente si smarrisce in epica folk-rock, in ballate sconsigliate ai diabetici e in un’elettronica “rock” male integrata. Noia interrotta solo dalla frugalità melanconica di Bailey’s Beach, dolce oasi in un pastrocchio che ricorda chi, nei famigerati ’80, provò a fare il salto nel modo major e ne restò stritolato. Del resto, da chi trae il nome dal telefilm “MacGyver”, non pretendi mica la luna. (5.5/10) Giancarlo Turra Polar Bear/Jyager Maktwist - Common Ground (Leaf, Ottobre 2010) Genere: hip-jazz I Polar Bear dimostrano una grande malleabilità, e, dopo un album di jazz venato come il marmo, leggono la realtà e cercano di rappresentarla in alcune delle sue sfaccettature. La band di Seb Rochford, Mark Lockheart, Tom Herbert e Leafcutter John decide di recuperare materiale da Peepers e farne dei sample da rielaborare, su cui suonare da capo. L’approccio del mini Common Ground non è dunque così lontano dai Broadcast, soprattutto per la certosina - e non sanissima - cura del break di ambiente, che poi è il beat degli spettri di Birmingham, specie da un po’ di tempo a questa parte. L’impatto è sconcertante: una band jazz che affronta nastri e rumori quasi weird e attacca il secondo pezzo con un rappato d’antan. È la voce - fin troppo stilizzata - di Jyager (nome intero Jyager Maktwist), rapper portoghese trasferitosi a Londra a sette anni, testimone per così dire di una tradizione, un modo di intendere l’hip hop non d’eccezione. Don’t Think I Won’t ha un refrain da potersi appiccicare a una classifica, ma niente di ruffiano. Da bravi jazzisti, i Polar Bear sperimentano conoscendo l’importanza dei binari su cui farlo. Non esiste caso ma esempio, prova. Non è una corsa folle ma un passo felpato. Per fare sistema, c’è la dimensione LP su cui puntare. E non è questa l’occasione. (6.8/10) Gaspare Caliri Quivers/Chora - Split Lp (Ultramarine, Novembre 2010) Genere: psych & jazz-noise L’ennesimo passo targato Ultramarine è uno split vinilico come da tradizione curatissimo graficamente e avventuroso nelle forme sonore. A dividersi il 12” due realtà del sottobosco weird-psych che si stanno facendo sempre più largo in un panorama inflazionatissimo: da un lato i Chora, duo inglese (Rob Lye e Ben Morris) allargato a quartetto per l’occasione (Ben Nash e Karl Brummer) che si diletta con una psych-gamelan drogatissima nella oceanica I Met An Oaktree, As Tall As My Finger, And It Was Suffering: venti minuti di gorgoglii free-form in modalità impro e dal taglio primitivista e haunted che faranno la gioia di chi apprezza la weird america più dilatata e freak. Sull’altro lato, risponde una formazione a noi già nota, i Quivers del chitarrista Ninni Morgia accompagnato dal basso di Jordon Schranz e dalla batteria di Mike Pride. Un terzetto sul versante più evanescente e informale del jazz libero, guidato dalla chitarra avant del siciliano, tutta ricami e curve a gomito (sorretto magistralmente dall’interplay tra Schranz e Pride) che non disdegna la sperimentazione sonora pura (come nella Climbing limitrofa ad una sorta di elettroacustica noisy e disturbante) o l’ambient elettrostatica (Starting A Campfire), come se nel Midwest avessero preso a trafficare col free-jazz per crearne ibridi deformi. Due modi lontani nei risultati e nelle forme, ma simili negli approcci, per evocare alterati stati della mente. (7/10) Stefano Pifferi Recs Of The Flesh - The Threat Remains And Is Very Real (Raising Real, Gennaio 2011) Genere: wave rock Due anni abbondanti dopo il buon debutto Illusory Field Of Unconsciousness, i Recs Of The Flesh tornano a ribadire il loro verbo tirato e allarmante. Nel frattempo sono accaduti aggiustamenti di formazione (escono Xavier Dilme e Jutin Woode) nonché, per i “reduci” Massimo Usai e Sara Melis, un viaggio a Praga, città magica dove può capitarti di incrociare il cammino dei Killing Joke, soprattutto se bazzichi gli studi Faust Records dove Coleman e soci stanno incidendo le loro cose. Facciamola breve: assistiti dal produttore Derek Saxenmeyer e con l’ingresso in formazione del batterista Petr Studihrad (già nei Visacì Zàmek, eroica punk band ceca), i Recs incidono le tracce del sophomore The Threat Remains And Is Very Real. Che è ancora un rollercoaster ghignante Stranglers, la wave fatta fibrillare ai limiti di hard e industrial (i Joke insegnano), una minaccia che non demorde appunto e picchia instancabile sul tasto dell’urgenza (la micidiale The Threat, la cupa e indolenzita Headfake), senza tirarsi indietro quando l’estro sonico esige più meditate complessità atmosferiche (vedi una No Big Deal che sembra impastare Sonic Youth e Ultravox!, o gli effluvi Bauhaus/Cure di Musings Of Days To Come). Non resta che segnalare la sorprendente - ma sorprendente davvero - apertura indie della bonus track Peace, melodia stropicciata in brodo semiacustico che è un piacere, tipo i Notwist pizzicati Triffids. Ci riprendiamo dallo stupore, e convinti approviamo. (7.2/10) Stefano Solventi Saluti da Saturno - Parlare con Anna (Goodfellas, Novembre 2010) Genere: canzone d’autore Mirco Mariani è stato per anni multiforme batterista di Vinicio Capossela. Vederlo oggi a capo di un progetto in proprio, con tanti colleghi a schierarsi con lui per assetti che variano da traccia a traccia, è (ri)trovare un musicista prezioso perché animato dall’indole dell’artigiano che scopre e sperimenta. Immaginatevelo, dunque, questo artigiano dei suoni, ma rimasto chissà come su Saturno, da cui ci invia dodici cartoline in forma di canzone o strumentale brevilineo. Brani da cui scaturiscono i suoni impalpabili ma non inconsistenti di optigan, mellotron, celesta, cristallarmonio e delle ondes martenot dell’ospite Nadia Ratsimandresy (una sorta di fata di tale marchingenio). Brani tutti cesellati sull’impronta di una nostalgia diffusa eppure non sempre triste: come se anche là sul pianeta d’idrogeno ci fosse la possibilità di una vita, magari volatile e immaginifica come un fantasma, una fiammella spersa nello spazio, una bolla di sapone, però viva. 67 Parlare con Anna potrà ricordare a qualcuno il Capossela di Da solo e tutto sommato il riferimento non è fuorviante, tanto che lo stesso Vinicio canta in tre brani regalando a Luce una specie di disequilibro sull’intonazione che nel contesto è perfetto. Tuttavia qui le canzoni sembrano nate più al bagliore di una stella che di un camino, e c’è una surrealtà di fondo che riporta ai Mariposa (Enzo Cimino si occupa delle percussioni insieme a Diego Sapignoli degli Aidoru) sconfinando talvolta nello spirito giocoso di Pascal Comelade. Insomma: cose non nuove, ma pervase da un calore cosmico che, pur provenendo da lontano, riscalda e ci avvicina tutti. (7/10) Luca Barachetti Sand Band (The) - All Through The Night (Deltasonic, Gennaio 2011) Genere: folk rock Un quartetto da Liverpool con la voglia di costruire piccole scenografie folk come polaroid tra deserto e giardini d’inverno. Come se Paul Simon volesse prendersi un tè coi Mojave 3, come dei nipotini indolenti di Leonard Cohen via Jeff Tweedy, come dei Willard Grant Conspiracy coi giri al minimo o una versione minimale dei Verve più struggenti. Piazzano un paio di colpi notevoli con Open Your Wings e con Set Me Free, ma la scrittura non va oltre l’aura mediocritas. Se sono interessanti è giusto per quel senso di ossessione morbida che era già della band di Neal Halstead. O perché si vociferava sulla loro “elezione” a backing band di Noel Gallagher. Bah. (6/10) Stefano Solventi Soft Moon (The) - The Soft Moon (Captured Tracks, Novembre 2010) Genere: kraut-wave Ad ingrossare le fila dell’inarrestabile catalogo Captured Tracks, già artefice dei primi due singoli, arriva il full-length di debutto di questo oscuro progetto con base a San Francisco. Come prevedibile, Soft Moon rilancia sulla lunga distanza la proposta già anticipata nei solchi dei vinili corti, imbastendo una scaletta fluida e compatta in cui ritmiche metronomiche in perfetto stile kraut-wave reggono escoriazioni di chitarre muriatiche dallo spiccato retrogusto gaze e dense linee di basso di scuola dichiaratamente Factory. Brani cantati (Breate The Fire, Dead Love) si alternano con scioltezza a diversi episodi strumentali (Parallels, Sewer Sickness) rendendo ancora più palese il senso complessivo di colonna sonora asettica e angolare, mi68 nimalista ed opaca proprio come le geometriche grafiche che campeggiano sulle copertine dei dischi. (7.2/10) Andrea Napoli Steve Wynn - Northern Aggression (Blue Rose Records, Dicembre 2010) Genere: rock Cos’altro dire di quest’uomo che non sia stato detto? Antieroe rock per eccellenza, uno che gli vuoi bene per l’onestà e l’intensità, e pazienza se non è originale, se non prefigura il nuovo che avanza. Ad ognuno il suo, ed il suo Wynn lo fa bene da un pezzo, lasciandoci sempre un po’ di cuore. Non a caso la seconda giovinezza artistica di questo splendido cinquantenne è iniziata quando, ormai dieci anni fa, imbastì questa nuova band, i Miracle 3, trovandocisi così bene da sposarsi addirittura la (bella) batterista. Fu davvero una specie di miracolo, il doppio Here Comes The Miracle, anno 2001, ovvero l’annuncio della persistenza del graffio paisley negli anni zero. Quanto al nuovo decennio, ci pensa questo Northern Aggression: undici tracce dalla pensosità aggressiva, dall’inquieta disinvoltura, dal palpitante abbandono. Ok, è il suo solito rock’n’roll travagliato e letterario che paga pegno all’arte dei Dylan, dei Petty, dei Reed, declinandone il verbo in una caligine psichedelica dove aleggiano spettri Buffalo Springfield e Gun Club, ma anche ectoplasmi kraut e new wave. E va benissimo così. Ballate come la mesta St. Millwood e la strascicata Consider The Source, spasmi funky-errebì come We Dont Talk About It, cavalcate acide come Resolution e up-tempo trepidi come No One Ever Drowns faranno la loro porca figura accanto alle gemme di un repertorio che si avvia a diventare leggenda. (7.1/10) Stefano Solventi Super Burritos (The) - Two Monkeys Fight For A Banana (Mia Cameretta, Dicembre 2010) Genere: lo-fi surf garage Dueville fa meno di quindicimila abitanti dalle parti di Vicenza. E’ lì che All e Ayz hanno dato vita ai Super Burritos, ed è probabile che il casino l’abbiano sentito tutti il casino. Sono un duo garage-surf a bassa fedeltà, tosto e acidulo quanto basta. Dai Sonics ai Ramones passando da Stooges e Pixies, più tutta una cultura di slabbrature noise dovuta a devozione Sonic Youth e fregola Mudhoney. Una brutalità cazzona e liberatoria, una sporcizia innocente e selvaggia, una vena sì balza- na ma meno folle di quanto appaia. Quando attaccano Waiting For The Summer End è un po’ come se Syd Barrett e Joey Ramone si fossero dati appuntamento sugli Appalachi. You’re Driving Me Insane surfa adrenalina sonica che è un piacere. Two Monkeys Fight For A Banana è una scossa ribalda e scanzonata che ribadisce l’esorcizzante opportunità di dischi - di band - così. Se vi pare poco. (7/10) Stefano Solventi Surf City - Kudos (Fire Records, Novembre 2010) Genere: lo-fi pop Pochi ma buoni i gruppi che provengono dalla lontana ed esotica Nuova Zelanda. Specie quelli che si muovono sul versante lo-fi pop e raggruppati sotto l’egida della Flyng Nun: dai The Clean ai Chills, passando per le antiche glorie dei Tall Dwarfs o dei riformati The Bats. Non sfuggono questi quattro da Auckland (Davin Stoddard e Josh Kennedy, entrambi a chitarre e voci, il fratello di quest’ultimo, Jamie al basso e Logan Collins alla batteria) nati come Kill Surf City, nome che li metteva da subito in scia Jesus And Mary Chain, prima di perdere un pezzo per questioni di omonimia. A kiwi guitar buzz masterpiece, lo definisce la label e l’ascolto degli 11 pezzi di Kudos conferma la bontà della definizione: partenza sulla falsariga di un twee-pop alla B-52s, solare e divertito (Crazy Rulers Of The World) che piega su fuzz, feedback e distorsioni spacey rientrando nei ranghi di una psichedelia chitarristica e rumorosa. Roba in grado di rievocare indistintamente Spacemen 3 e i citati fratelli Reid mescolati a un gusto melodico tipicamente power-pop (ICA distrugge Strokes et similia sul proprio terreno), a elaborazioni strumentali non lontane dal versante indie-90s più psych-pop oriented e a una voglia di sperimentare che li smarca dal calderone revivalista (l’ottima Zombies che sembra tirare in ballo degli Animal Collective meno astratti). Su tutto, un pezzo come Icy Lakes (sette e passa minuti di splendide reiterazioni targate Spacemen 3, tutte riverberi e delays), uno di quelli che si starebbe lì, estasiati e un po’ inebetiti, ad ascoltarlo per una intera esistenza. (7/10) Svarte Greiner - Penpals Forever (and Ever) (Digitalis, Novembre 2010) Genere: dark drones L’edizione limitata che si “autolimita” anche nella sua ristampa. Dalla cassetta al vinile, snobbando la pubblicazione in cd, che avviene dopo un bel po’ di rinvii. Le prese di posizioni di Steve Albini che una decina d’anni fa si ostinava a pubblicare i dischi degli Shellac prima su supporto vinilico e poi con abbondante ritardo su compact disc, fanno ormai sorridere. A questo punto si è giunti alla summa della gioia per gli onanisti nerd delle “Ltd. Editions”. Un’esigua ma agguerrita truppa, che chiede di essere servita. Tanto ormai è tutto relativo e qualunque limitazione alle edizioni, prima o poi finisce annullata nel grande mare magnum della rete e dell’offerta globale. Erik K. Skodvin e Brad Rose tutto questo lo sanno e infatti ne sono tra i principali protagonisti. L’uomo di Foxy Digitalis decide ad un certo punto che il revival del formato cassette è sufficientemente maturo perchè ci provi anche lui con la sua Digitalis aprendo la sua serie di cassettine. Tra queste svetta per carisma e appeal commerciale una firmata da Svarte Greiner con il titolo di Penpals Forever. L’edizione va sold out all’istante e giustifica la presente ristampa che aggiunge un intero secondo lato di materiale nuovo disponibile in “Vinyl Limited Edition” rimbalzando, come di consueto, dai mailorder affiliati come Boomkat e Forced Exposure. Cosa sia contenuto nel disco e che tipo di musica si ascolti è cosa quanto mai ovvia, giacché il norvegese della Miasmah non sposta di una virgola una formula che lo vede ormai sempre più sicuro nocchiero in un torrente che si alimenta tanto alla classica moderna, quanto all’ambient, secondo uno stile che in questi ultimi anni tanta parte ha avuto nella definizione del nuovo gotico acustico del nord Europa. In sintesi, una faccenda per completisti e feticisti del disco per un lavoro che non aggiunge e non toglie nulla allo charme oscuro del musicista norvegese. Un piacevole passatempo, in attesa che ad inizio 2011 arrivi finalmente l’attesissimo secondo disco dei Deaf Center previsto su Type per febbraio. (7/10) Antonello Comunale Stefano Pifferi 69 Tapso II - Tapso II (Autoprodotto, Novembre 2010) Genere: noise-rock È irrimediabilmente legata al suono chitarristico noise&post americano, la proposta di molti gruppi siciliani. Specialmente quelli provenienti dalla zona di Catania - non a caso definita nei 90s come la nuova Seattle o la Chicago d’Italia a seconda dei gusti - hanno spesso un suono corposo, aggressivo e mobile, declinato di volta in volta sul versante mathy, post o noise-rock. Non sfuggono alla regola nemmeno i tre Tapso II, proprio da Catania city: Stefano Garaffa Botta (chitarra, voce), Giancarlo Mirabella (batteria) e Giovanni Fiderio (violino, organo elettrico) di quella scena fanno parte da tempo, avendo suonato a vario titolo con realtà molto attive negli anni passati come Jerica’s, Mashrooms, 100% e Theramin. E a rinsaldare legami e fratellanze con animi affini d’oltreoceano ci sono anche il caro Sacha Tilotta (Three Second Kiss) dietro i pomelli e Bob Shellac Weston al mastering. Non è tutto emulazione, però, ciò che riluce, e infatti i tre si sganciano dal suono nudo e crudo d’ascendenza citazionista per evolversi su un piano piuttosto personale. La presenza del violino li colloca infatti - rimanendo al catalogo T’n’G - sul versante di una sorta di Dirty Three virati math-noise, ma i tre hanno un suono più ondivago, vario e sostanzioso. In cui cioè passaggi “a vuoto” (la zona centrale de Il Mostro) tratteggiano paesaggi desertici incredibilmente romantici, evidenziando un interplay violino/chitarra che sa essere robusto e cattivo e non solo d’atmosfera. O come quando esercizi lontanamente slintiani si colorano di sabbia e aride suggestioni da lontano west (Almond Galaxy). Lì, in quella apparente schizofrenia tra geometrie e romanticismo, distorsioni e corde pizzicate, c’è il segreto di questo ottimo esordio autoprodotto. (6.9/10) Stefano Pifferi Teeth Od The Sea - Your Mercury (Rocket, Novembre 2010) Genere: post-rock Tutti coloro che si approcciano ai Teeth Of The Sea dichiarano problemi di definizione. Non è post-rock, lo sarebbe stato qualche anno fa, forse (la dimostrazione è in lì pronta in You’re Mercury, semi-title-track), non è metal, non ha tra le corde quel target di riferimento, non è avanguardia contemporanea, per quanto i pezzi occhieggino a più non posso verso quel mondo. È un modo di costruire delle composizioni - di comporre dei costrutti musicali - che fa leva su effetti emotivi, quindi 70 popolare, che agisce in Your Mercury. Questo non è evidentemente un difetto ma una possibilità di pubblico. I Teeth Of The Sea - alla seconda prova in full lenght non sembrano preoccuparsi di essere ostici, ma nella magniloquenza e grandiosità dei crescendo e delle fasi preparatorie del “mood” centrale di ogni brano finiscono per strappare alla radio commerciale chi ha bisogno di essere stupito e cerca un suono ostinato ma poco modaiolo. I londinesi sofisticano senza perdere il focus timico della propria missione, l’animo che devono mantenere vicino di cuore e di mente. In questo sono ovviamente molto inglesi, come lo sono i Fuck Buttons, e (anche se non proprio geograficamente) anche i Mogwai (Red Soil). Europei come lo sono Vangelis (Midas Rex), Jean Michel Jarre (A.C.R.O.N.Y.M.), mittel-, si sarebbe detto negli anni Ottanta, ma di certo non in questo caso. Il problema di definizione, ancora una volta, non è nella musica, ma in chi ascolta. I Teeth Of The Sea fanno una musica tanto keyboard quanto guitar-oriented che si perde nella metà del decennio della pillola indorata. Va ad accostarsi a quell’elettronica di consumo (ma non da ballare) che diventò popolare nell’onda lunga dei Settanta che si propagava nel decennio successivo, ma oggi va a innestarsi in quegli esperimenti che uniscono post-rock europeista dell’imbrunire e metal. La vera emancipazione, il che non ci stupisce, arriva quando a tutto ciò aggiungiamo un pizzico di Fennesz (Mothlike), esattamente come allora serviva l’ingrediente Brian Eno. Dopo tutto, sanno cosa serve ai propri obiettivi, i TOTS. (6.9/10) Gaspare Caliri Terror Danjah - Undeniable (Hyperdub Records, Novembre 2010) Genere: grime&dubstep Danjah su una Hyperdub sempre più vogliosa di modern classics, Danjah finalmente al debutto su un long playing tutto suo, con il quale si gioca il biglietto da visita del grande ritorno e nel quale infatti mette di soppiatto tre produzioni classiche opportunamente remiscelate (Bruzin, Sonar, Creepy Crawler). Il più grande produttore grime secondo mr. Reynolds torna dopo la collezione di gioiellini strumentali dell’EP lungo Power Grid con un disco decisamente più aggressivo e urban, meno orrorifico e meno noir, in cui mette assieme rappati d’assalto e strumentali sempre curatissimi ma meno concentrati sul cesello maniacale, più d’impatto. Aggira così l’impasse di fossilizzarsi in un ambito nel quale comunque è insuperabile e sceglie di ampliare il ventaglio, tra pathos gangsta rap millenaristico (Grand Opening), breakbit acid techno (Acid, per non smentire il gusto del titolo autodescrittivo), vocoder Daft Punk-iano (I’m Feeling U), adulterazioni tribal pestatissime (Breaking Bad) e tastiere house oldie (la title track), cantati femminili che guardano alla downtempo Novanta (All I Wanna) o addirittura agli Evanescence (Story Ending, straniante), etereo electrosoul (Time To Let Go), jungle selvaggia (Creepy Crawler). I feat urban-UK spaccano (This Year, ma anche, in modo diverso, lo spoken dubstep Leave Me Alone) e l’uomo non rinuncia al proprio personalissimo corredo di risate maligne (l’incipit dei pezzi), effettacci spacey (Sonar), giochetti minimal (Minimal Dub, appunto; una SOS che fa suo il ralenti-reprise di French Kiss) e contorsioni ninjesche (Bruzin VIP). La classe trasuda da ogni produzione e il risultato globale ha tanto il sapore della sintesi di tutta una macro-area. Meno perfetto del Danjah autarchico di Power Grid, ma più divertente, polipesco, enciclopedico, decisivo.(7.5/10) Gabriele Marino The Liminanas - The Liminanas (Trouble In Mind, Dicembre 2010) Genere: Indie Pop I Liminanas sono il primo duo francese che abbia mai inciso qualcosa per la Hozac. Già questo basterebbe a garantire loro imperitura stima. Il singolo con cui esordinvano, I’m Dead, aggiornava la sensualità manifesta dei duetti Gainsbuorg/Bardot (o Gainsbourg/Birkin se preferite) con le smerigliate elettriche dei Jesus And Mary Chain e come tutte le idee semplici, funzionava alla perfezione. Ora arriva il disco omonimo per la Trouble In Mind di Chicago, che vede i due levigare il suono quel tanto che basta a farne un allettante bigino retrofuturista; una dichiarazione d’amore per dei 60s immaginari, che lancia occhiate d’intesa agli Stereolab e in cui il fuzz perfora senza tramortire. Il progetto, va detto, resta decisamente suggestivo, soprattutto per i fan dello yé-yé transalpino, che sbrodoleranno all’ascolto dell’idioma arrotolato di Marie e Lionel, le cui voci si rincorrono giocose, nello stile del duo di Bonny And Clyde. L’unica pecca risiede nell’irritante tendenza alla novelty song: fra brani parlati ed altri dal tiro più cinematico, poche sono le canzoni “vere”, quelle in cui Marie esprime al meglio le proprie doti di chanteuse. Quando questo avviene nascono pezzi memorabili come la malizio- sa Chacolate In The Milk o la velvetiana Funeral Babe. Il resto è costituito da affascinanti divertissment, con cui la band pare prendere dimestichezza con i propri mezzi in attesa, si spera, di sferrare la zampata decisiva. (6.3/10) Diego Ballani The The - Tony (Lazarus Limited, Novembre 2010) Genere: The The Soundtrack A dieci anni di distanza dal non eccelso Naked Self, Matt Johnson, il deus ex machina dietro al moniker The The, torna con la colonna sonora realizzata per l’esordio cinematografico del fratello Gerald. A quanto ne sappiamo il film, intitolato semplicemente Tony, non è stato distribuito in Italia e a leggere le note contenute nel sostanzioso libretto (68 pagine, dove si possono ammirare anche molte fotografie realizzate dallo stesso Matt) si tratta di un piccolo film autoriale (solo luce naturale, camera a spalla) che si inserisce nel filone dei serial killer psicopatici dalla personalissima visione della morale. Per chi ha amato e ama gioielli del pop britannico degli anni Ottanta come Dust e Infected, diciamo subito che qui la voce di Matt non c’è, in favore di 24 episodi totalmente strumentali intervallati da otto stralci di dialoghi estratti dalla pellicola. Vista la classe del suo autore, però, questo non è per niente un limite. Le composizioni, che inizialmente dovevano essere un’oscuro magma elettronico adatto alle tinte fosche del killeraggio, è invece stato stemperato in soundscapes agrodolci, con lunghe ombre che si allungano su melodie poco più che accennate. Matt Johnson come sempre fa tutto da solo, suonando piano, moog, basso e nastri, registrando in casa e autoproducendosi, in un’autarchia elevata a forma d’arte prima. Il risultato è un mondo sonoro popolato di fantasmi che ha la capacità di essere disturbante e reggere bene anche senza le immagini a cui si ispirano. Un disco non per tutti i palati, vista la natura particolarissima, ma indice di uno stato di forma compositivo che, assieme al fatto che venga indicato come Cineola Volume 1, fa ben sperare per il futuro. (7/10) Marco Boscolo 71 Tim Kasher - The Game Of Monogamy (Affairs Of the Heart, Dicembre 2010) Genere: Indie Pop Se con i suoi precedenti progetti, il cantautore trentaseienne Tim Kasher è stato uno dei più ortodossi interpreti dell’estetica Saddle Creek, con l’esordio solista punta ad imprimere una decisa svolta ai propri obbiettivi autoriali. Dopo una vita dedicata a reinterpretare i tòpoi della tradizione americana con Cursive e The Good Life, dipinge un’operina ambiziosa che si configura come una sorta di concept sulle relazioni uomo-donna: cinica, verbosa ma anche dotata di un certo fascino grazie all’(auto)ironia che il nostro dispensa con una certa nonchalance (“writers are selfish, writers are egoists”). The Game Of Monogamy si apre con un vera e propria overture cameristica (cosa abbastanza atipica per un album che si vorrebbe registrato in solitudine, ma tantè) e passa in rassegna un vasto campionario pop che Kasher modella su liriche gravide di disillusione, sortendo risultati altalenanti: se il suo songwriting acidulo si accomoda sulle delicatezze folk di Stray come in un paio di ciabatte sfondate, sorprende la freschezza di un up tempo dalle ritmiche solide come Cold Love e la slackness indie intrisa di archi di No Fireworks. Sul lavoro spira una salutare leggerezza che stinge in qualche episodio eccessivamente velleitario (i fiati di I’m Afraid I’m Gonna Die Here sembrano quelli di una ska punk band dei mid 90s) ma lascia intatta la sensazione di trovarsi di fronte ad un autore istrionico, in grado di muoversi agevolmente fra i diversi registri, ad uso e consumo di una narrazione densa e decisamente godibile. (6.3/10) Diego Ballani Timmy’s Organism - Rise Of The Green Gorilla (Sacred Bones, Dicembre 2010) Genere: mutant-punk Ci avverte da un myspace in completa decadenza, Timmy Vulgar che la musica del suo Organism è “stuff i do by myself on 4 track and a 3 piece band”, evidenziando la precarietà, l’irresolutezza, lo sfascio di un suono che è figlio degenere di una specie di space-punk sgraziato e ruvido. Dopotutto, da uno che viene dalla Detroit mutante di Clone Defects e Human Eye e che si dice influenzato da ugly glitter/glam-rock e loud disgusting music, non ci si può aspettare pulizia e compiutezza, tanto meno forme riconoscibili. A dar man forte nel triangolo rumoroso ci sono Colin Sick (Frustrations, Fontana) alla batteria e Jeff F. di 72 Heroes & Villians al basso, col saltuario raddoppio della batteria da parte dell’amico Fast Eddie (Clone Defects, appunto) quale garanzia di efferatezze sonore e pedigree da molestatori d’orecchi. Che sia, poi, la Sacred Bones ad apporre il proprio marchio da hype sotterraneo potrebbe essere l’ennesimo segnale della stima che Timmy si è guadagnato nel tempo. Rise Of The Green Gorilla è in tutto e per tutto figlio del proprio autore: un melting-pot ubriaco e claudicante tra space-punk distorto (Ugly Dream, sorta di protopunk stoogesiano from outer space) e electro-rock sgraziato e free (Oafeus Clods), bedroom-punk-rock tutto riverberi e dislessia che insegna ai pischelli di oggi (Give It To Me Baby), aggressive-rock ferino e tribale (Gorilla Garden Part 1, sono i Chrome attualizzati al terzo millennio), cosmico e acido spoken word synthsuicidiano (Silver Mountain), non tralasciando freakerie varie come Building The Friend-Ship, una ballad per piano alieno, (Move To The Sun Wave) un lento e macilento psych-folk stralunato, o il malinconico commiato postprog-pop strumentale di The Traveler. No barrers, no rules. Just punk. Gente come Timmy Vulgar è meglio aquistarla che perderla. (7.3/10) Stefano Pifferi Tiny Tide - MoonTalking (Kingem, Novembre 2010) Genere: lo-fi indie pop E’ da un pezzo che teniamo d’occhio il cesenate Mark Zonda coi suoi progetti sempre meno strampalati e sempre più a fuoco. Tiny Tide è la sua creatura “indie pop arcade rock”, un quartetto che mastica neo-neopsichedelia dalla grana lo-fi ora accomodante e ora sghemba, carezzevole e graffiante, una trottola di marzapane nel cervello guarnita di spezie e canditi, sogno tremolante tra cameretta, marciapiede e il prato delle delizie perdute.Dopo tre ep e un recentissimo album di cover (Diskovery) omaggiante l’immaginifico bestiario del Nostro (Left Banke e Arcade Fire, Lou Reed e Apples In Stereo, Beatles e Blur...), eccoci al debutto vero e proprio con questo MoonTalkin, divagazioni atmosferiche e smagliature adolescenziali, misticanza John Lennon e Boo Radleys, bozzetti Of Montreal e ghirigori Pecksniff, un Jens Lekman tra reminiscenze Aztec Camera e tentazioni Belle And Sebastian. E via discorrendo.La convulsa Manga Nurse e l’eterea Plain Little Game sono le gemme di una scaletta variegata che può anche permettersi una I Would Say dal ritornello quasi 883 senza risentirne troppo. Insomma, quando credi di averli inquadrati sono già da un’altra parte, a prometterti altre circostanze che forse un giorno manterranno. Forse prestissimo, visto che a febbraio è previsto un altro lavoro, Febrero, sembra più curato e meditato. Staremo a sentire, intanto questa versione “sbrigativa” dei Tiny Tide sa intrigarci più che abbastanza. (6.9/10) Stefano Solventi Tiromancino - L’essenziale (Deriva Productions, Ottobre 2010) Genere: rock wave C’è un’assenza che pesa nel nuovo disco dei Tiromancino. Manca il Sinigallia di Cadere, Io sono Dio e delle altre splendide polaroid dell’esordio omonimo (uno dei dischi electro-pop più sottovalutati ma non per questo meno importanti degli ultimi anni di pop italico). Zampaglione senza la metà storica del suo gruppo tenta di fare il botto. E quasi quasi ci riesce. Butta dentro il singolo L’essenziale, una cosa che è già nelle teste al primo ascolto: le ferite, il pop melò e le lacrime (ma anche il tempo che passa e le piccole poesie che questo rinnovato album propone) si infatuano di suoni wave, di chitarre con un eco corretto mai troppo spinto, di una vocalità che parla con l’accento romano e non se ne vergogna. Sarà che si ascolta velocemente, sarà che non è supponente e non è sdolcinato, non è quello che la quasi totalità degli album propone dai pulpiti glitterati della classifica. Il kitsch non è nelle corde dei Tiromancino, anche se le metafore sono troppo dirette e i ragionamenti non si spingono troppo in alto. Il bello sta nella medietà’. Il riconoscersi dentro a queste note e a queste rime, come avevamo fatto su altri lidi con gli ultimi ripensamenti degli Amari (no, non è così peregrino l’accostamento), è ancora una volta una possibilità di uscita da una condizione di stallo che la generazione di Zampaglione sperimenta quotidianamente. Il pop quindi come uscita dal vuoto di ogni giorno. Aiutata nella stesura dei testi dalla penna del padre Domenico, l’epifania del quotidiano ci travolge in poco più di quaranta minuti con delle schitarrate di pancia (Mondo Imperfetto, Migrantes), delle ballad intimiste (Esiste un posto, Quanto ancora), degli uptempo acustici (La strada da prendere) e il featuring con Fabri Fibra in hip-hop generazionale come solo l’uomo sa raccontare (L’inquietudine di esistere). Zampaglione sa parlare di quello che stiamo vivendo senza urlare, usando storie credibili e suoni personali. Scusate se è poco. (6.6/10) Marco Braggion Umberto - Prophecy Of The Black Widow (Not Not Fun, Ottobre 2010) Genere: Horror Soundtrack Umberto dall’oltre tomba, capitolo secondo. Era inizio 2010 quando recensivamo From The Grave, primo LP del progetto solista dell’ex-bassista degli Expo 70 Matt Hill e in quelle righe accennavamo alla passione del nostro per le colonne sonore dei classici del cinema horror, da Argento a Bava passando per Carpenter. Oggi, a neanche un anno di distanza, Matt raddoppia con un nuovo lugubre full-lenght stavolta per Not Not Fun. Le coordinate lungo cui si muove Prophecy Of The Black Widow non sono affatto distanti dal debutto su Permanent, ma ne viene accentuata la componente di scrittura e arrangiamento. Meno lineare e monolitico del precedente, il nuovo album aggiunge piccoli ma interessanti ingredienti alla pozione: ancora bassi di funk tetro come la notte (Temple Room, Night Stalking) al fianco di nuovi episodi che strizzano l’occhio all’hypna (Everything Is Going To Be Okay) e all’electro più ammodernata (Someone Chasing Someone Through A House). Per il resto, la proposta è chiara (anzi no, è assai oscura) e chi ha amato From The Grave troverà qui di che compiacersi nuovamente. A tutti gli altri ascolto consigliato senza batter ciglio. (7/10) Andrea Napoli Verdena - Wow (Universal, Gennaio 2011) Genere: psych rock Se Requiem staccava il ticket di una maturità prossima ventura e in progress, passati tre anni il balzo evolutivo ci obbliga a meravigliarci di nuovo. Ovvero, i tre bergamaschi hanno bruciato un bel po’ di tappe, fatto sbocciare conigli dai cilindri, scoperchiato vasi di Pandora e via tambureggiando. Ventisette le tracce per un disco doppio che nei codici rock significa pur sempre un turning point. La band, guidata anche in fase di produzione dal leader Alberto Ferrari, si è buttata a capofitto in un sentiero acido e spigoloso, tutto svolte, visioni e circonvoluzioni, dove tra i pezzi e nei pezzi t’imbatti in Motorpsycho e Jimi Hendrix, Kyuss ed Animal Collective, Jefferson Airplane e residui Radiohead, Flaming Lips e certi Beatles altezza White Album (esplicitamente omaggiati nell’incipit di Rossella Roll Over, che ricicla distorcendolo quello di Ob-La-Di, Ob-La-Da). Oltre ad un santino Lucio Battisti in qualche tasca e puntando idealmente forse alla bislacca velleità di quei Moby Grape che nel ‘68 licenziarono un sophomore intitolato anch’esso - guarda un po’ - Wow. 73 Molte ballate dall’incedere lunatico, ora dolciastre o d’un tratto focose. Iperblues che ruggiscono e crepitano con bruschezza valvolare/progressiva. Il piano che cuce trame appassionate e smarrite, mentre gli archi chiosano parentesi di abbandono. Eppoi synth tra il gotico e lo spacey, cori e coretti a pennellare suggestioni balzane, tutto un assedio di mostriciattoli sonici ad assediare gli interstizi. E’ una strategia di depistaggio sistematico, l’edificazione di una stranezza abbacinata dove la melodia è una nenia che pulsa appassionata e flebile, limitandosi a sciorinare parole disarticolate, spesso (volutamente) poco comprensibili, affondate nella bambagia lisergica. Un’autentica goduria auditiva, se si è in cerca di strattoni spasmodici, di vampe oniriche e aspre mirabilie. Diciamolo: i Verdena si sono cuciti addosso abiti dalla squinternata ricercatezza, e gli calano a pennello. Il problema è semmai portarli con naturalezza. Ed è un probema decisivo. Manca infatti alla loro musica una ragion d’essere forte e genuina, che s’imponga con la semplice evidenza e necessità di sé. La sensazione è che stiano spendendo energie ad afferrare un linguaggio - a dimostrarsene in grado - sempre più complesso e strutturato. Che in effetti padroneggiano e anche con disinvoltura, ma che 74 non gli appartiene. Ragion per cui si meritano un convinto: bravi, bravi davvero. Ma grandi no, non ancora. (7.2/10) Stefano Solventi Vincenzo Vasi - Braccio elettrico (Tremoloa, Dicembre 2010) Genere: archeo avant Angeli e demoni. Fantasmi del palcoscenico. Vibrazioni lunari. Brume cavernose. Tavolieri artici. Languori valvolari. Transitor fumiganti. Struggimenti di celluloide e piani sequenza esistenziali. E ancora, il grido di solitudine dei palombari. L’angoscia ridanciana dei patafisici. Il brontolio nascosto dei fuochi artificiali. Il romanticismo malsano degli alchimisti-stregoni. La solitudine sublime dell’astronauta. L’antichità della modernità. Tra Vincenzo Vasi ed il theremin c’è un braccio che unisce e separa l’immaginario dall’espressione, l’immaginabile e l’espresso. Un braccio-strumento, un braccio-mente, un braccio-cuore. Un braccio-ponte tra umano e macchina, tra disposizione e dispositivo. Un Braccio Elettrico. Nove le tracce, diverse per mood e destinazione (concepite per programmi radiofonici, spettacoli teatrali, per- formance solitarie o in ensemble), pochi ma suggestivi gli strumenti di contorno (omnichord, microfoni magnetici, eco a nastro...), due le cover (il tema di Halloween II di John Carpenter e quella Lil Darling portata al successo da Count Basie nei tardi Fifties). L’intenzione è omaggiare “il più antico strumento musicale elettronico”, con questo che è il primo volume di una serie ad esso dedicata. Oltre l’omaggio, si aprono squarci nel sipario del fantastico. Tra gli innumerevoli musicisti che hanno beneficiato dell’arte di Vasi (citiamone alcuni: Vinicio Capossela, Gianluca Petrella, Egle Sommacal, Ivan Valentini, Roy Paci, Marc Ribot, Vinicius Cantuaria, Gak Sato, Alessandro Stefana, Jacopo Andreini, Lukas Ligeti, John Zorn...) il buon Mike Patton è tra gli sponsor più entusiasti. Detto tutto, mi sembra. (7.2/10) Stefano Solventi Wire (The) - Red Barked Tree (Pink Flag, Gennaio 2011) Genere: post-punk adulto È la recente riedizione di Send Ultimate a spianare la strada al rientro in pista degli eroi del post-punk made in England. Similitudini e rimandi con l’aurea e disturbante fase degli Wire che furono, però, finiscono qui. Il terzetto è ormai distante dai brucianti sconquassi di fine settanta, così come dalla reprise accecante d’inizio 2000. Se si fa eccezione per un paio di momenti in cui l’antico ardore brucia ancora (l’incessante stomp-wave di Two Minutes, l’acido sing-a-long di Moreover) Red Barked Tree si configura come un album stilisticamente e musicalmente maturo, ma senza la scintilla della rabbia giovanile che ne contraddistinse gli esordi e ne segnò il mito. Argomentazioni poco interessanti, direte voi, soprattutto alla luce di reunion ancor più deludenti, anche di area post-punk inglese. È infatti innegabile che Red Barked Tree sia un disco ottimo sotto molti punti di vista: una produzione al limite della perfezione, canzoni equilibrate e solide, coesione interna eccellente. Manca però la scintilla che ce li aveva fatti apprezzare anche agli albori del terzo millennio e che evidenziava gli spigoli e le asperità di un suono caratteristico e personale. In Red Barked Tree troviamo un’eccessiva, voluta limatura delle curve a gomito, un adeguamento agli stilemi di una wave molto chitarristica e melodicamente pop da mid-80s, che ha abdicato alla complessità come già nel precedente Object 47, che sceglie l’anima easy-listening in molte delle sue frecce (Now Was, Adapt, Bad Worn Thing) ma che è innegabilmente legata al confronto col passato. E che irrimediabilmente vi soccombe. (6.4/10) Stefano Pifferi Zoon Van Snook - (Falling From) The Nutty Tree (Mush Records, Dicembre 2010) Genere: Indietronica, idm Zoon Van Snook da Bristol è uno che abbraccia due mondi solitamente abbastanza distanti tra di loro quali l’IDM (Boards Of Canada, Orbital) e la folktronica del primo Four Tet (vista però con gli occhi dei Múm) Benché in buona parte derivativo, l’esordio (Falling From) The Nutty Tree è ottimamente arrangiato ed evidenzia lo sguardo di un nerd perfezionista (vedi anche alla voce Jon Hopkins) con buone doti nel curare le timbriche più scintillanti (field recording catturati da oggetti di uso quotidiano), miscelare dialoghi simil Books-iani dal taglio lounge-conversazionale e tenersi sugli stessi toni rilassati nei confronti dell’insieme sonico. Il meglio glielo senti negli aggiornamenti più arditi, quasi come se giocasse a fare il Flying Lotus felpato (Pearl St Mess), mentre sul lato chamber trovi l’Islanda e il secchione che è in lui (Plainsong). Sono da menzionare i brani al piano, specie il delizioso finale con i campanellini Anni Zero e la buffa chiosa jazz (Le Fin). Classe e maniera che ci sono piaciute. Per sbilanciarci aspettiamo però quello che verrà, magari un mix che sublimi le parti in gioco. (6.8/10) Edoardo Bridda 75 Gimme Some Inches #12 Inauguriamo l'anno come al solito, facendo girare la puntina di Gimme Some Inches sui solchi del vecchio e caro vinile. Questo mese con ?Alos, White Ring, BUt God Created Woman e altri ancora. Tre vinili 10” made in Italy inaugurano l’anno nuovo qui a Gimme Some Inches. L’ennesimo volume della Phonometak series vede dispiegato un vero e proprio parterre de roi. Questa volta a dividersi i solchi del 10” sono formazione che sulle prime non diranno molto, ma una volta scoperto chi vi si nasconde dietro, un prurito lo provocheranno. Sul lato A troviamo Scarnella, ovvero Carla Bozulich e Nels Cline, un tempo coppia anche nella vita oltre che in musica (Geraldine Fibbers, ad esempio), che riesumano la vecchia sigla per 3 pezzi di acida neo-psych umorale e ondivaga, fluida ed emotiva che spazia dal dreaming all’haunted con nonchalance. Poi la voce della Bozulich è veramente qualcosa di unico, qualunque sia il contesto in cui si cala. Sul lato opposto rispondono i Fluorescent Pigs, duo che sulle prime dirà anch’esso poco o nulla 76 ma che a leggere i nomi dei protagonisti stupirà: Andrea Belfi (Rosolina Mar, per fare un nome) alla batteria e Alessandro “Asso” Stefana (dai Guano Padano a Mike Patton) alle chitarre, rappresentano una garanzia di qualità e Butanuku meeting 13 minuti di delirante cavalcata post-psych tribale. L’incedere forsennato di Belfi è il vero trascinatore del pezzo: selvaggio, a ruota libera, ancestrale quasi, mette il chitarrista nella condizione di poter librarsi in sperimentalismi di matrice ora avant-, ora psych, ora post- mostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, lo spessore di molti, sottovalutati musicisti nostrani. L’altro 10” è ad appannaggio di un progetto che da anni si muove fiero e incompromissorio per i palchi d’Italia e di mezzo mondo. ?Alos, sigla della metà femminile di OvO Stefania Pedretti, butta fuori un breve vinile che in consueto accoppiata vinile+cd introduce il nuovo interesse del progetto: indagare il mondo dello sciamanesimo al femminile, ossia della “donna come guaritrice e custode dei segreti della natura, delle erbe, dell’aldilà, della nascita e della morte”. Yomi. L’Oscura Terra Dei Morti si compone di tre pezzi: due lunghe tracce rielaborate dal precedente Ricamatrici – Fili Di Capelli e Taglio – che assumono screziature avant- possedute e ferine (la prima ossessivamente martoriata dall’elettronica di Claudio Rocchetti, la seconda con sfregiature di chitarre acide); mentre sul lato b fa capolino Panas. Anticipazione dell’album che verrà, la traccia prende il titolo dalla cultura ancestrale sarda che identifica come panas gli spiriti delle donne morte di parto, ed è qui presentata dopo il trattamento in remix di Kawabata Makoto di Acid Mother Temple. Lavorando di analogico, effettistica varia e sensibilità affine, il nippo-noiser ne devia ancor di più il senso creando un vortice di suono ipnotico e magico. Ottimo apripista per l’album di prossima pubblicazione. Il terzo vinile medio di questo giro è il comeback dei pugliesi But God Created Woman dopo un paio di album e lo split 7” coi Talibam! La crescita del duo-che-pareuna-moltitudine è notevolissima. Prendete l’opener del 10” uscito per l’attiva Musica Per Organi Caldi, Mark Twain: un puro distillato battlesiano innervato da potenza noise-rock e da furia strumentale al limite dell’omicida. I quattro personaggi, più o meno ambigui, più o meno controversi, a cui BGCW affidano l’ep – oltre al citato autore di Huckleberry Finn, ci sono Dario, Roberto Calvi e Giona – si mostrano sotto forme diverse, dalla wave più corposa e arty al semi-grunge alla Dinosaur Jr., ma tutte accomunate da una inusitata carica ritmica e da un malato e inatteso senso della melodia. Passando alle misure corte, ci spostiamo in America, versante dark-wave. In primis segnaliamo l’uscita, in realtà ultra-sotterranea e passata in sordina, del primo 12 pollici targato White Ring. Black Earth That Made Me è stato stampato poche settimane fa in sole duecento copie da Disaro ed è ov- viamente già sold out, ma chi ha la fortuna di averne una copia (o più semplicemente l’ha scaricato dai numerosi link presenti in rete) si è trovato tra le mani sei pezzi che sono la prima conferma su medio tratto del nerissimo duo newyorkese. Quindi bassi minacciosi come ombre, rullanti taglienti come lame, synth grevi e le sommesse nenie di Kendra Malia. La seconda uscita vede invece il debutto dei Group Hex, nuovo trio capitanato da quel Toby Grave che fino a pochi mese fa era il front-man dei Blessure Grave, prima che si sciogliessero. E proprio dove il precedente gruppo aveva lasciato, riprende il nuovo. These Are The Nights esce in 7 pollici per l’americana Talking Helps Records e consta di due pezzi che sono, per l’appunto, l’esatta continuazione del death-rock a base di drum-machine, torbide vocals e chitarre disperanti che aveva marchiato Judged By Twelve, Carried By Six. Spostandoci in Europa, e più precisamente in Danimarca, troviamo nuovi singoli in area brown & grey. Per festeggiare il Natale (pagano) Kim Larsen rilascia due 7 pollici, uno per ciascuno di suoi progetti. It’s Like Dying on Christmas Day, il primo, è appannaggio dello storico marchio Of The Wand And The Moon anche se le due facciate che lo compongono sembrano allontanarsi dal folk ancestrale del passato per buttarsi in ballate vorticose di stampo più tradizionale. A riportare in auge le sonorità di Sonnenheim (la cui ristampa in lussuosissimo doppio LP è appena uscita e assolutamente caldeggiata) ci pensa il secondo 45 giri del lotto, condiviso da Solanaceae (il nuovo side-project di Kim) e King Dude, il barbuto ragazzone di Seattle il cui Tonight’s Special Death abbiamo da poco recensito. Sul suo lato il danese regala Sorrow And Its Companions, tre minuti in pure stile :OTW&TM:, mentre TJ Cowgill ci consegna Werewolves, sussurrata filastrocca per il giorno del giudizio. Stefano Pifferi 77 Re-Boot #11 Un mese di ascolti emergenti italiani Vecchie e nuove conoscenze per un ruggire rock che ben conosciamo. I Novanta prevalgono questo mese, che è un po' come gettare il cuore oltre l'ostacolo degli anni zero. All'indietro. I False Friends sono una vecchia conoscenza di SA e sono anche pieni di difetti. Continuano a far uscire demo registrati malissimo (immaginiamo che i motivi siano di natura puramente economica), fanno un genere che l’indie lover di ultima generazione “sfancula” allegramente (rock chitarristico figlio dei primi Soft Boys - e quindi del Barrett più stoned -, degli Who e dei Pavement), non rientrano in nessuna scena modaiola (arrivano da Trento) e non posso nemmeno vantare un phisique du role alla Jim Morrison. Tuttavia il terzetto capitanato da Michele Bertamini è quanto di meglio si possa trovare in giro quando si tratta di conciliare psichedelia e immediatezza pop (QUELLA psichedelia e QUEL pop) in una sola soluzione. Only Rock Will Survive Us (autoprodotto, 6.7) lo dimostra ampiamente, a patto che non ci si fermi alla facciata un po’ da bloc-notes pieno di scarabocchi 78 e si tralasci qualsiasi preconcetto estetico, per indagare invece il parto creativo che sta dietro ai brani. Uno stile che, non lo nascondiamo, ci piacerebbe sentire per una volta disciplinato da uno studio di registrazione serio e da un produttore capace. Melvins, Soundgarden, Nirvana, Alice In Chains: le influenze dei Codeina sono palesi. Quel che non è scontato, invece, è l’ottima scrittura che sta alla base del disco d’esordio della formazione lombarda Quore Hidalgo Picaresco (Vacation, 7.0). Un incrocio di chitarre heavy, bassi distorti e batteria che potremmo avvicinare in parte al lavoro dei Ruggine, in parte a quello di formazioni di simile provenienza geografica come i milanesi Grenouille. Hard-grunge urticante e fortemente contestualizzato, insomma, e il rischio in questi casi di dar vista a un replicante dei bei tempi che furono. I Codeina invece riescono nell’impresa di prescindere dagli eccessivi formalismi e di suonare “italiani” anche coperti da quintali di feedback. Un po’ come accadeva – con le dovute differenze di genere - agli Afterhours del periodo Cocaine Head. Una presenza nei credits di Bellezza dei Marlene Kuntz e la produzione di Rob Ellis fanno da sigillo qualitativo per l’esordio di Giulia Villari. La romana continua sulla scia di alcuni dei nomi al femminile prodotti dall’inglese (Marianne Faithfull, PJ Harvey soprattutto), con la stessa energia essenziale e la stessa indole rockeggiante. Dedicated to you, via Alanis Morisette, è la canzone che Elisa non scrive da un po’, tuttavia i sei episodi di River (autoprodotto, 6.6) rimangono incollati ai nomi appena citati: più imprevedibilità per il futuro, ad alimentare una personalità bruciante. Non meno bisognosi d’imprevisto eppure capaci di una maggiore tensione i senesi Malvachimica, che si giocano tutto su una scrittura solidamente rock e autoriale. Lo sguardo è rivolto ai novanta, con attenzione ma a distanza di sicurezza dai Verdena, il quid è nella fattura delle canzoni: d’intensità intercostale Parlo alle allodole, smussata e penetrante I vigneti, madida d’epica disincantata Lo zio d’america. Dipende dai giorni (Forears, 6.8) è un ottimo punto di partenza verso una maggiore unicità d’espressione, ma sempre tenendo la schiena così dritta. Da Frosinone con fragore i tre Poptones c’impongono un ep omonimo (MiaCameretta Records, 7.0) nel quale si dilettano a mollare ceffoni indie-wave e lo-fi blues. Sono veementi e balzani, insidiosi ed arguti, covano un rumore stridente che addomesticano a morderti con un certo stile non privo di ubbie psicotiche. Clinic il riferimento irrinunciabile, ma anche qualcosa di Beck e Jon Spencer Blues Explosion. Più che gli ingredienti però sembra una questione di dosaggio, impasto e temperatura. Bravi. Vengono invece da Forlì gli MMK, quartetto all’esordio con l’ep Four Means Rise (autoproduzione, 6.6) dicendo la loro sulla questione stoner, ovvero dilatandone gli estremi formali dal wave/punk all’hard-rock, nel tentativo di azzeccare un linguaggio progressivo e magari inedito. Ci riescono solo in parte, ma alla fine l’intruglio suona godibile. Ai ragazzi - tutti classe ‘87 - non manca la convinzione nei propri mezzi, ingrediente fondamentale in casi del genere. Così come l’impudenza che li fa azzardare trame complesse (Reflection, la title track) senza che somiglino a velleità. Certi assolo e stop and go di stampo metal stonano un po’ nell’insieme, ma una volta lucidati intenti e obiettivi siamo (quasi) a posto. Ancora una vecchia conoscenza di SA, Panta da Ferrara (già recensito in We Are Demo nel 2007) batterista che vanta una ormai abbastanza lunga carriera in gruppi hard rock. Si ripropone con il quarto lavoro, Kaaamosmasennus (Autoprodotto, 6.8), composto, arrangiato e prodotto dal medesimo, pop rock di matrice e lingua ingle- se, con influssi blues e hard rock, vagante psichedelia settanta Pink Floyd e metodicità brit pop anzi beatlesiana. Quest’ultima caratteristica è quella che contraddistingue e qualifica il disco, mai eccessivo, con arrangiamenti e soluzioni melodiche non scontate e una bella personalità. Da Fano proviene invece Jolly Jolly Doowhacker, progetto che risale al 2009 e gira attorno a Stefano Gasparini, che poi si è trasferito in Australia, mantenendo comunque in Italia il gruppo. Si autodefiniscono “british pop post Blur Band” e la qualifica calza nel senso di un indie pop di derivazione bowianaiggypoppiana oltre che del gruppo citato prima. L’omonimo esordio (Giuda L’Onesto Records, 6.8) si mantiene abbastanza nei confini del genere, presentando una varietà di colori e una melodicità di fondo ben amministrata. Promettenti. Fabrizio Zampighi, Teresa Greco, Stefano Solventi, Luca Barachetti 79 Mickey Zhang China underground#2 Il percorso di vita di Mickey Zhang attraverso le trasformazioni della scena musicale techno in Cina “La techno? È come i miei amici più stretti, è il solo strumento che sa dispiegare la mia parte più vera” Siamo abituati a vedere fotografie di cinesi in fabbriche enormi coperte e affollate di persone, uno dietro l’altro in fila, tutti con lo stesso cappello bianco che producono qualsiasi tipo di oggetto utilizzabile. Ci sono cinesi invece che provengono da luoghi in cui lo spazio è ampio e dilatato, dove la terra gialla e infinita si congiunge con il deserto del Gobi e attorno c’è solo cielo. Questo è il nord ovest della Cina. Mickey Zhang viene da questa parte remota del paese più popolato al mondo. Il luogo di nascita spesso incide nel nostro essere, per cui è da qui, terra arida e impervia, che nascono sia il macho cinese con giacca di pelle alla guida del sidecar sia chi va sempre dritto per la propria strada senza mai lasciarsi scoraggiare, con quel sano moto dell’ego di chi è sicuro che riuscirà a diventare qualcuno. Mickey nasce nel Ningxia appena 80 trent’anni fa. Una Cina, quella degli anni Ottanta, in cui tutta la gamma di colori comincia a esprimersi nei vestiti delle persone, nei jeans e nelle musicassette. La Rivoluzione Culturale è finita, e dall’alto le sfere della politica spingono verso lo sviluppo economico. “Credo che sin da piccolo la mia famiglia abbia lasciato un’impronta notevole su me e mio fratello in ambito artistico, l’ambiente di casa era danzereccio, pieno di musica e di vita”. Mickey cresce in una casa di attori di opera cinese: sia il padre che la madre facevano parte del grande mondo del teatro tradizionale, in cui il canto ed il ritmo accompagnavano le giornate sferzate dal vento freddo e i meno venti gradi invernali riuscivano a passare sicuramente più in fretta. Sin da piccoli Mickey e il fratello Zhangwei (oggi chitarrista dei Buyi, rock band cinese) sono cresciuti così, e in un ambiente del genere è impossibile non ricercarla anche altrove, la musica. Siamo nell’Ottantanove, quan- Cina ed elettronica do esplode la rivolta in piazza Tiananmen e molti studenti fuggono all’estero; lui invece, ancora bambino, si trasferisce nella capitale per studiare danza, dopo aver superato il difficile esame di ammissione alla scuola media dipendente dall’Accademia di Danza di Pechino. Ignaro probabilmente di quello che succede a pochi passi dalla sua scuola, Mickey studia danza, si diploma e si tiene stretto la musica. “All’inizio ascoltavo rock e hip hop, poi mi sono trasferito con la compagnia di danza nel sud della Cina. È lì che ho cominciato a lavorare, ma la mia carriera di dj inizia nel 1999-2000 all’Orange di Pechino. Oggi i dj che stimo maggiormente sono Laurent Garnier, Jeff Mills e Richie Hawtin”. L’Orange è stato il primo club a mettere musica elettronica nella capitale cinese. “Il posto non era né grande né piccolo, la gente molto varia, c’erano i colletti bianchi dell’epoca, quella gente che stava facendo un po’ di soldi e poteva divertirsi e apprezzare qualcosa di diverso, non erano come quelli di adesso, all’epoca il cervello ce l’avevano, c’erano 81 anche stranieri e gente più giovane, ventenni”. A parlare è Gao Feng, proprietario del 2 Kolegas, locale affollato nei weekend pechinesi di adesso. La techno cinese quindi parte dall’Orange, Mickey si insinua nei pochi spazi liberi, fino a diventare resident dj del locale. Di poche parole e con determinazione, Mickey si mette alla prova, mettendo musica per pochissimi avventori. Quello che risulta complesso nell’arte del djing è instaurare una relazione con il pubblico, accorgersi di quello che succede oltre i piatti e le macchine, accorgersi degli occhi che cercano un ritmo diverso e i movimenti del corpo delle gente che pretende che tu, dj, li faccia ballare. In quella mediazione che c’è tra se stessi e chi ci sta di fronte, il dj deve essere un attento scrutatore, che trascina dove le persone senza che queste se ne accorgano. E per farlo bene ci vuole sensibilità e esperienza, tanta esperienza. “Faccio il dj da 15 anni, nei primi 82 cinque principalmente ho fatto il dj fisso nel business delle discoteche su grande scala, con uno stipendio mensile. Nel 2000 ho interrotto con questa vita perché facevo sempre le stesse cose, mettendo la solita musica e ho capito che non era ciò che volevo. In seguito ho iniziato a organizzare alcune attività di musica elettronica con alcuni amici e sono finito a mettere musica in diversi locali fino ad oggi”. Mickey Zhang oggi è diventato uno dei dj e produttori musicali più importanti del panorama technodance cinese. Della più che discussa antinomia tra digitale ed analogico afferma: “I vinili per me sono sempre quelli con maggiore sentimento e maggiore forza vitale, la qualità del suono ed il loro temperamento sono insostituibili, quando creo musica uso spesso strumenti analogici”, cosa non da poco per il mondo cinese, che troppo spesso propende per la pratica austera dei software di nuova generazione. In un altro locale molto rino- mato, tra il 2005 e il 2008 Mickey si sente come a casa: è il White Rabbit. Location particolare (un profondo scantinato), pareti e pavimento di cemento non lavorato, grande tanto da potervisi perdere dentro: “L’underground dell’elettronica era lì” racconta Dj Slide, altro resident del locale. “La gente arrivava tardissimo, verso l’una, dopo essere stata ovunque in giro per la città, non tanto per apprezzare quello che era il djing quanto per ritrovarsi in un locale che si dichiarava alternativo. La gente? Persone di tutti i tipi, dai giovani diciottenni fino agli over trenta”. Indiscussa la presenza di Mickey Zhang, che a testa bassa sui piatti, con le dita tra le manopole delle macchine e del computer, continua nella sua esperienza di vita. Osservatore, partecipa al cambiamento di quello che è e che sarà il panorama dell’elettronica nella capitale cinese. Senza troppe parole sa anche che crescere vuol dire sperimentare e immergersi in flussi sempre nuovi, cercando con- tatti con quello che viene fuori dalla Cina. Fare elettronica al mondo d’oggi non è troppo difficile, farla bene è tutt’altra storia, ci vuole arte. Internet aiuta, il digitale salva in corner un po’ tutti, ma Mickey sceglie la propria strada e alle serate del White Rabbit sceglie soluzioni sempre più personali. Unico dj cinese, è ospite al WIRE, edizioni 2008 e 2009 (festival internazionale di musica elettronica che si svolge in Giappone), accanto a figure di fama internazionale come Villalobos, Ellen Allien e Jeff Mills. Organizza inoltre, assieme a Kiko Su e Dio, un progetto per promuovere la cultura dance in Cina: la O2culture. Da qui escono i dance party più importanti che, regolarmente, popolano le serate pechinesi. Lo Yen Party, organizzato da O2culture è diventato il simbolo della movida giovane in Cina: paillettes, cocktails, musica elettronica (glitch, minimal techno, cassa dritta vecchio, ripescaggi drum’n’bass), divertimento. L’agenzia O2culture ha voluto prescindere dagli spazi pre-definiti e ha preferito crearli o ri-crearli appositamente. Location dal forte impatto visivo: la muraglia cinese nel 2004 e nel 2005, una ex fabbrica di un importante centro artistico della Pechino contemporanea, il 798, nel 2008. Artisti, video maker, creativi e aspiranti tali si radunano lì da tempo, ed è in questo tipo di spazi che Mickey con i suoi colleghi e amici decide di organizzare le sue serate. Adesso la formula vincente sembra essere questa: party fuori dai locali, in luoghi sempre nuovi, sempre diversi, più liberi, facili da gestire, con gli eventi che si “dissolvono” alla mattina senza lasciare traccia. L’Orange e il White Rabbit hanno chiuso definitivamente i battenti. “A Pechino adesso non ci sono posti per sentire buona techno, o vai al MIX (mega locale di dubbio gusto; ndr) oppure non c’è molto altro; non so perché, lo sviluppo dell’elettronica non segue quello della società cinese” suggerisce Gao Feng, ridendo. Questo è un altro punto chiave della società contemporanea cinese, perché ogni forma d’arte non si può produrre semplicemente a comando. “C’è bisogno di tecnica, di strumenti, di influenze e di un lento sviluppo”. A tal proposito Mickey Zhang afferma: “è molto difficile elencare tutti i cambiamenti che ha avuto la scena elettronica pechinese, uno di questi è stata la partecipazione dei giovani cinesi, sempre di più; in generale le trasformazioni sono state più lente di quanto pensassi”. Perciò, motivato da ambizioni personali e professionali, Mickey Zhang decide di guardare più da vicino quello che c’è oltre ai confini cinesi, spingendosi in uno dei centri di culto dell’elettronica, Berlino. “Nel 2004 ero già venuto a Berlino. Allora sentii che tra Pechino e Berlino c’erano un sacco di punti in comune, questa è una delle ragioni che mi ha attirato qui. Poi, oggi Berlino va considerata il centro della musica dance, con un ambiente interessante e molto libero; ci sono molte persone con origini diverse, ma con le stesse passioni e lo stesso talento artistico, è una città che artisticamente e musicalmente possiede spirito d’iniziativa e forza creativa. Differenze con Pechino? Credo che sia una questione di natura: a Berlino le persone vivono dentro questo tipo di musica, a Pechino non è affatto così”. Così Mickey, tra progetti personali, produzioni musicali e collaborazioni, continua nella sua evoluzione, che lo porterà nuovamente in Cina a breve. Per ora lo lasciamo a Berlino con la sua colazione, “che mi preparo da solo: uova con il bacon e spaghetti (cinesi)”. Links: www.o2culture.com soundcloud.com/minimalmouse www.wireweb.jp/10/ www.2kolegas.com www.nogodie.com/v1 Desiree Marianini 83 Rearview Mirror —speciale Par te 1 I potizzando Robyn Hitchcock L'uomo che inventò se stesso Una delle individualità più intensamente deviate del rock. Nel segno di Barrett, di Lennon, del folk revival, della new-wave. Senza mai perdere il gusto folle e lucido di un sé irripetibile. 84 Testo: Giancarlo Turra percorsi sonori in contromano Finché ci sono ristampe c’è speranza, o almeno non mancheranno i pretesti per tornare con la mente, col cuore, a certe situazioni che non dimentichi mai davvero, si fanno solo da parte per via del traffico. I due album dei Soft Boys - A Can Of Bees e Underwater Moonlight - escono in una nuova carinissima edizione, le scalette limitate a quelle originali (così da apprezzarne meglio l’essenza) e la confezione in digipack cartonato tipo mini-lp. I Soft Boys, porco cane. Una scossa nella cuspide tra settanta e ottanta e mannaggia non avere l’età per esserci stati a godere in diretta quel contromano formidabile, quell’iniezione ghignante di colori e spigoli. Poco male: li abbiamo recuperati più tardi, come no, quando ascoltarli era ancora un’esperienza vivida anche se ormai significava ricostruire la trama e la scenografia di un’epoca veloce e feroce, destinata ad evaporare in qualcos’altro. Riascoltandoli oggi, i loro Sessanta strappati a rimpianti e cartoline, innervositi e corruscati secondo la tradizione del dopo ‘77, suonano freschi perché raccolti in una dimensione “a sé”. Sono un ponte steso su due epoche, una psichedelia che neo lo fu per davvero se non addirittura post, rafforzata da canzoni di un livello medio da favola. Che sapevano fare, come i suoi artefici, i conti con la Storia, pregressa e contemporanea. Ad armi pari, però, e tanta della magia sta proprio lì. In un messaggio sonoro e attitudinale raccolto da moltissimi - parlano chiaro, oltreoceano, i fan sfegatati Replacements e R.E.M. - e fatto verbo senza passare dalla carne. Perché tante delle canzoni qui raccontate non senza difficoltà, posseggono la consistenza dei sogni e come tali si comportano. Vengono a visitarti quando più pare loro appropriato, le riascolti dopo anni e certi contorni sono come mutati ma non ne sei sicuro. Come pesci rossi nella boccia del mondo. I Soft Boys sono innanzitutto un nome, un modo di dire, locuzione sostantivale e gergale che significa, più o meno, mollaccioni. Gente che non regge due birre e soccombe al primo accenno di rissa. Stupisce nondimeno pensare che l’idea fece capolino nella mente del caro Robyn Hitchcock già nell’estate del ‘76, quando il punk iniziava a scorazzare come un virus minaccioso in attesa di profeti che ne certificassero la missione, rendendolo fenomeno sociale e sovversione rock per eccellenza. Figlio del romanziere Raymond - nel cui repertorio figurano tra le altre cose Percy (cui guarderanno i Kinks) e quel There’s a Girl in My Soup che diverrà un film con Peter Sellers - Robyn nasce il 3 marzo del ‘53 a Londra. I buoni studi al prestigioso Winchester College e un ambiente stimolante a Cambridge sono lo sfondo esistenziale di una curiosità che lo vedeva frequentare David Bowie e Fairport Convention, John Lennon e Captain Beefheart, John Cale e - beh, certo… - Syd Barrett. E’ appunto nel bel mezzo di quello sgarbato e benedetto uragano che tutto travolgerà al grido di “no future” che il Ragazzo ipotizza il proprio squarcio sonico dal quale irrorare di agra follia un mondo lanciato verso un grado zero che è premessa d’ogni edonismo prossimo venturo. Ebbe la fortuna e quel pizzico di sagacia d’incontrare le persone giuste: il batterista Morris Windsor si presentò come fan del leggendario magazine Creem, nonché fedele nei secoli ai verbi Beach Boys e Steely Dan. Inizialmente la chitarra fu affidata a tale Alan Davies, sostituito tempo pochi mesi dal ben più tracotante Kimberley Rew, che quanto ad attitudini condivideva la misticanza folk-psych-wave di Hitchcock. Infine il bassista Andy Metcalfe, sorta di collante che teneva unito il tutto ascoltando - e amando ascoltare - di tutto. Le premesse c’erano eccome: mancava la prova su strada che arrivò nel giro di pochi mesi, sotto forma di primi vagiti live poco elettrici, scarsi pubblico e entusiasmo. Più i Nostri si elettrificavano, però, e più acquistavano credito, giungendo in pochi mesi ad aprire i concerti di Steeleye Span, Fairport Convention e evento fondamentale nell’autunno ‘78 - gli statunitensi Pere Ubu. L’influenza di questi ultimi nel sound dei Soft Boys sarà difatti palpabile a gennaio ‘79 nel debutto A Can Of Bees (Two Crabs Records, 7.1/10), cui il quartetto stava lavorando proprio in corrispondenza dell’incontro con David Thomas e accoliti. Ricapitolando, gli ingredienti in ballo erano folk-rock, psichedelia, proto e new-wave. Il punk, ovviamente, era quello che si respirava, una spinta scorbutica e irriguardosa. Ma come quest’ultimo pescava dal garage il piglio basale e belluino, squadrandone gli istinti fino ad ottenerne un’immagine post-industriale, convertendone la furia antagonista in nichilismo meccanicistico già in possesso di un codice genetico conformista, i Ragazzi Molli sincronizzarono la poetica sul farsi psichedelico del beat, guardarono a quell’innocenza sul punto d’indemoniarsi e attraversare lo specchio, briosa d’eccitazione per le prospettive che si andavano squadernando come bambini sbocciati alla pubertà. Eppure, come è inevitabile per qualsiasi manifestazione artistica, recavano segni e modi del presente, compreso tutto quel che stava nel mezzo e che quel presente aveva - per 85 filiazione e reazione - determinato. La scaletta non può che aprirsi quindi con la sguaiatezza errebì di Give It To The Soft Boys (Iggy Pop ubriaco di Modern Lovers) e proseguire con lo sbraco metallico di Pigworker (una Come Together tra strali zappiani e spasmi Pere Ubu). Molta irruenza, l’aria di chi si diverte un casino ad incasinare le cose. John Lennon tornerà omaggiato in una graffiante e acidula resa live di Cold Turkey, mentre l’aura di Mr. Thomas aleggia sulla peraltro abbastanza barrettiana Leppo And The Jooves, il cui lato più onirico viene esplorato dalla dolciastra Human Music, nella quale scorgi un’indolenza quasi Lou Reed, la cui bile riaffiora acida tra i rigurgiti Barrett, le rasoiate Television, la boria lennoniana e i coretti stile Brian Wilson di The Rat’s Prayer. Un bailamme, una misticanza, un caleidoscopio intriso di avventatezza e sprazzi di sacrosanto genio. Che in Sandra’s Having Her Brain Out coglie l’acme, spedendo i primi Pink Floyd sul rollercoaster di Captain Beefheart tra saliscendi vaudeville Incredible String Band. E che dire della trafelata Wading Trough A Ventilator, chiusura di programma in versione live che sigilla il cerchio rispetto a questa prima, impulsiva fase, ammiccando un falso punk che si rivela convulsioni fifties e sixties a rotta di collo, un Eddie Cochran posseduto dai Velvet Undergorund (quelli di I Heard Her Call My Name) ed esorcizzato da un becero Iggy. Tutto, insomma, fuorché il calcolo d’una cifra estetica coerente. Uno strapparsi croste lisergiche dal cervello, musica lunatica e testi come giochetti evocativi ma impenetrabili, garruli e assurdi, per farne barricate contro il rischio - concreto - di una musica programma86 ticamente avversa al viaggio fantastico nell’other side. Un altro punk è possibile, sembrano dire i quattro da Cambridge. Non che fosse la migliore strategia per fare sfracelli commerciali. In compenso il tour promozionale fu un’esperienza frustrante. Venne l’ora di rimettersi in sesto e continuare a crederci. Matthew Seligman entrò in sostituzione di Metcalfe, aumentando il tasso di morbidezza e contribuendo a diffondere una propensione pop, pur sempre trasversale e stralunata; una voglia di organizzare in confini riconoscibili e fruibili come drink colorati quella smania d’altrove. La scrittura del leader ebbe buon gioco ad assecondare l’estro rinnovato, ed ecco uno dei tanti modi possibili per far sbocciare il capolavoro. Underwater Moonlight (Armageddon, giugno 1980, 8/10) coglie il punto d’equilibrio perfetto tra psichedelia graffiante e carezzevole, tra acido e orangina. L’abbrivio di I Wanna Destroy You è da brividi, piglio stradaiolo post-glam con distorsioni deliranti Brian Eno, una vena melodica che pulsa febbrile sotto la sordidezza affilata, il drink insomma che spiana la strada dentro a un classico. Una formidabile decina di pezzi dove s’agitano irresistibili come spettri di marzapane tagliato a benzedrina… - un febbrile Lou Reed (Insanely Jealous, col violino frenetico di Gerry Hale), dei truci Talking Heads (Old Pervert), i Kinks glassati di giocoso esotismo George Harrison (Positive Vibrations, benedetto dal sitar di Andy King), una fregola accomodante David Bowie (Tonight), residue convulsioni Barrett specchiate in ghignante power pop (Kingdom Of Love), e via discorrendo fino alla stupenda chiusa della title track, sorta di estro Roxy Music tra frenesie psych(iche) e tentazioni art-wave. Non poteva non funzionare, e infatti: in anticipo sull’ondata neo-psichedelica di Liverpool - gli esordi di Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes sarebbero arrivati rispettivamente in luglio ed ottobre - i Soft Boys proponevano un cocktail di adrenalina in technicolor e peyote mutante ad un pubblico bombardato perlopiù da residue salve punk e ingegnosi ordigni wave. Erano in definitiva una vena dissociata che affiorava da chissà dove e puntava un golosissimo ignoto. Una parentesi aperta per miracolo da tuffarcisi prima possibile, prima della inevitabile chiusura. Un varco temporale da varcare e farne poi ritorno cambiati. La fine arrivò di conseguenza prestissimo: un adattissimo e inglesissimo “ci siamo divertiti, abbiamo scherzato: ok, a posto così”. Ognuno per la propria strada, chiamati da progetti nuovi o preesistenti, con la promessa (mantenuta) di ritrovarsi per riallacciare i fili di questa splendida, breve avventura. Kimberley Rew aveva un appuntamento coi suoi Waves, i quali - con l’ingresso in squadra di Katrina Leskanich - divennero celebri come Katrina And The Waves grazie soprattutto al singolo Walking On Sunshine. Matthew Seligman andò a far cassa coi danzerecci Thompson Twins e con l’iperattivo Thomas Dolby. Strade divise da buoni amici, del tipo che si rincontra volentieri come lo scorso decennio per il discreto Nextdoorland (Matador, novembre 2002, 6.8/10). Anche in questo, una rarità. Par te 2 L’invenzione del sogno su rotaie Hitchcock accettò di buon grado l’offerta di Richard Bishop della Armageddon riguardo un album solista. Pareva, per questo osservatore di una realtà oltre il quotidiano ma in essa racchiusa, che il ruolo di leader di se stesso fosse un ruolo tagliato su misura fin dall’inizio: lo comprova la solidità di una discografia ricchissima e ottimamente gestita sebbene alle volte tortuosa (del resto si tratta di un viaggio nella mente di Robyn e bisogna tenerne conto). Una creatività libera di muoversi e svilupparsi come un organismo vivo, copiosa e per molti versi una favola tra sognante e freudiano (che più british si morirebbe: da Lewis Carroll a oggi, il club dei Cappellai Matti conta iscritti prestigiosi come la ghenga Monty Phyton, il santino Barrett, Kevin Ayers, Paul Roland, Julian Cope e via elencando), con due porte d’accesso/uscita, un folk traslucido da una parte e la sua coerente elettrificazione dall’altra. Poco da dire sulla biografia dell’uomo, che nulla aggiunge a quanto la musica non dica e anzi sottolinea la bipolarità: discograficamente, tra l’universo indie e quello major; geograficamente, nel muoversi tra Inghilterra e Stati Uniti; infine, in una storia d’amore piuttosto travagliata con Cynthia, risolta in un’altra lei (Michéle) ora moglie e fonte di tranquillità. Quella del visionario, però, che porge la sapienza di un punto d’osservazione inusuale e parla a chi desidera ascoltare. Come se fosse un vetrino irrazionale per spiegare la realtà, metaforizzata in faccende balzane di creme egiziane e mani di gelato, di tramvai dell’antica Londra e serate alla Raymond Chandler. Canzoni con la consistenza e la bellezza del vetro soffiato, roba rara che si conclude in se stessa, figlia di un individuo a suo modo “normale” e che possiede, dei veri Grandi, l’estrema naturalezza con cui si dovrebbe sempre maneggiare l’eccentricità in musica. In lui niente forzature, semmai qualcosa di sfocato ed è ovvio in un canone che si giova della bontà della penna e sarebbe impossibile evolvere più di così. Un percorso che resta per prima cosa umano - lo rimpiangi oggi, in tempi dominati dal famolo strano gratuito e superbo - che si prese tempi e spazi adeguati per maturare, inizialmente restando in famiglia perchè sì che bisogna crescere e svilupparsi, ma se accade per gradi è più salutare. Perciò l’esordio Black Snake Diamond Role (Armageddon, 1981, 7.2/10) si racconta propaggine dei Ragazzi Molli per line-up, produttore ed etichetta. E pure formalmente, smussando a ogni buon conto gli angoli e costruendo con ironia surreale e intrecci chitarristici: apici di una psichedelia prefissata “neo” (ma Hitch parlerà poi di retro-delic, vedendoci giusto…) stanno in The Man Who Invented Himself (dal saltellare beatlesiano) e Acid Bird (melanconia squillante già marchio di fabbrica), laddove altri assumono le sembianze di rigurgiti della “lattina d’api” (Brenda’s Iron Sledge, Why Do Policemen Sing?) e il traslucore di Love e The Lizard. Il rimanente sono gradevolezze sul tema e prove tecniche con melodie meno azzeccate, benché la ricerca di identità necessiti dell’incerto e in seguito disconosciuto Groovy Decay (Albion, 1982; 6.5/10). Affidato a pesantezze d’arrangiamento - che c’entri la mano del supervisore Steve Hillage? - e stanchezza compositiva, ottiene l’assoluzione per l’orecchiabilità un filo sinistra di Fifty Two Stations e il Bo Diddley krauto di The Rain, per i pieni e vuoti dell’incisiva America e il notturno quadretto St. Petersburg. Altrove, con qualche rimpianto per The Cars She Used To Drive e Young People Scream, sax chiassosi e scolorite venature funk faticano a integrarsi. La reazione al fallimento non potrebbe essere più 87 splendida: registrato per la nuova etichetta Midnight in solitudine, con pianoforti qui chopiniani e là cigolanti, acustiche odorose di legno e scintillanti d’oro, I Often Dream Of Trains (Midnight, 1984; 9.0/10) scrive un’elegia notturna alla stravaganza imbrigliata dal genio, dando del tu ai fantasmi (Sometimes I Wish I Was A Pretty Girl, My Favourite Buildings, Flavour Of The Night, I Used To Say I Love You) per farseli amici. Gemma di un lirismo aeriforme (Cathedral e Winter Love, Trams Of Old London e il capolavoro assoluto Autumn Is Your Last Chance) che non abbandona l’ironia (Uncorrected Personality Trails, You Sleeping Knights Of Jesus) e riduce all’osso Scott Walker, invita David Crosby dentro Pink Moon e Madcap Laughs; poi raccoglie cocci di gotico e musica popolare e incarta la follia nella saggezza come un equivalente sonoro di un disegno di Escher. Da qui l’ingresso negli annali mentre Robyn risponde organizzando gli Egyptians, band a tutti gli effetti in cui figurano Metcalfe, Windsor e il tastierista Roger Jackson. Ritorno a volumi e spessori maiuscoli tramite Fegmania! (Midnight, 1985; 7,5/10), latore di quadrature Byrds e Beatles dalla caratura elevatissima (Egyptian Cream, Heaven, Another Bubble, la cover di Bells Of Rhymney), talvolta ostaggio dei Can con Syd timoniere (The Man With The Lightbulb Head) o di un Ray Davies similmente accompagnato (Strawberry Mind) ma soprattutto e fortemente uniche (l’orientaleggiante I’m Only You, il racconto My Wife And My Dead Wife, la sensuale Glass). Ne segue un tour compendiato dall’entusiasmante live Gotta Let This Hen Out! (Midnight, 1985; 7,4/10) e spazia nel repertorio porgendo elettriche aggressive e sferragliare di metodica irruenza. Esaurito il contratto, è tempo di una parentesi meravigliosa prima di approdare sui lidi della A&M, stuzzicata da buone vendite nel circuito indie e collegiale come 88 dagli attestati di stima dei tanti giovani emergenti. Di Element Of Light (Glass Fish, 1985; 7,5/10) piace il senso di maturità e quel pop trasversale ma di schiatta nobile che si impone da qui in poi; un surrealismo che si giova di rotondità sonore e un senso di canone raggiunto e ottimamente sviluppato con pochi eguali nel fondere Sessanta e Ottanta, acidume e cantabilità: le lennoniane Somewhere Apart e If You Were A Priest e il gioiello leggiadro Airscape, la cupa Raymond Chandler Evening e l’impalpabile Winchester non hanno smarrito un’oncia di fascino a distanza di un quarto di secolo e vi basti a mo’ di garanzia. Il 1987 scorre tranquillo mentre si definiscono i dettagli del rapporto con la A&M, finalizzato l’anno seguente dal buon riassunto delle puntate precedenti (sia “tematico” che sonoro) Globe Of Frogs (A&M, 1988; 7,0/10), che ostenta ballate elettroacustiche e collaudate stramberie dove, trattenuta la raffinatezza, non si svende la cifra stilistica di Hitchcock, similmente a come avevano testé dimostrato quei R.E.M. che offrono un Peter Buck ospite fisso o quasi. Più delle tracce concitate restano nella memoria una sospesa Luminous Rose e una Flesh Number One da Top 10 di un mondo migliore, le sirene ammaliatrici Chinese Bones e Vibrating, l’impossibile orecchiabilità di Baloon Man e l’Incredible String Band in gita a Granchester Meadows della title-track. Considerazioni di natura simile possono essere fatte anche per Queen Elvis (A&M, 1989; 7,3/10), tasso di “devianza” più elevato, sezione d’archi dispettosa e jingle-jangle di Buck più presente; nonché una penna irrobustita da porgere malie fresche come il primo giorno: nella compatta scaletta citiamo di necessità la leggiadra Wax Doll, un’irresistibile Madonna Of The Wasps, i gioielli umbratili Swirling e Autumn Sea e le follie a briglia di nuovo sciolta The Devils Coachman e Superman. Nondimeno, l’autentico asso nella manica di questo periodo è il solitario e poco citato Eye (Glass Fish, 1990; 7,8/10): benché messo su nastro a San Francisco, frequenta ancora l’onirismo ferroviario e benissimo gliene incoglie, sfavillando di scaglie folk dentro una brezza commovente alternando sedute psicanalitiche (Cynthia Mask, Queen Elvis, An Agony Of Pleasure), brividi a occhi semichiusi (Raining Twilight Coast, College Of Ice, Glass Hotel) e un sublime assoggettato in Satellite, Linctus House e Aquarium. Di ben altra - più cremosa e laccata - pasta è invece Perspex Island (A&M, 1991; 6,8/10), tirato a lucido in un anno memorabile schiacciando a fondo il pedale della collaborazione con i quattro della Georgia, produzione (pure troppo) ricca di Paul Fox che nasconde dietro a pop d’impeto power e inchini di fronte a Church e Big Star il mesto meditare di She Doesn’t Exist Anymore. Frattanto il rapporto con l’etichetta stride e non aiuta il confuso - in questo assai hitchcockiano, cioè umano - Respect (A&M, 1993; 6,8/10), registrato da John Leckie nella casa di Robyn sull’isola di Wight in un periodo esistenziale non felicissimo. Lo pervadono tonalità meste e arrangiamenti contorti, così che anche le sregolatezze risultano affaticate nello svolgersi (The Moon Inside) o semplicemente noiose (Wafflehead); se piacciono il country in ansietà Woodentops The Yip Song e gli orientalismi di When I Was Dead, Arms Of Love è trattenuta da abiti pesanti; spiega il succo del discorso l’evidenza che il jazz folk ardimentoso Railway Shoes e una Serpent At The Gates Of Wisdom da Lennon immaginatosi Dylan, che la drakiana The Wreck Of The Arthur Lee e l’acusticheria obliqua Then You’re Dead sposino equilibrio e misura in un cento di gravità che salva il lavoro dall’imballare. Ora di mettere da parte anche gli Egiziani e affidarsi a un’altra scuderia, restando ancora un poco ai piani alti: nel ’96 la bussola ritrovata s’intitola Moss Elixir (Warner Bros.; 7,2/10), ennesima parentesi folk, urbanizzata (De Chirico Street, The Devil’s Radio, Beautiful Queen) e al contempo cameristica o blues in un modo tutto suo (Sinister But She Was Happy, Filthy Bird, la collaborazione con Calvin Johnson Man With A Woman’s Shadow). Irradia un calore sfuggente che piace e raggiunge vertici di bellezza sincera in Heliotrope, This Is How It Feels e You And Oblivion. Rimasto per conto suo, Robyn viaggia in economia e non si nega sfizi d’autore come il film Storefront Hitchcock (esiste anche il consigliato CD che ne fa tesoro), nel quale l’amico Jonathan Demme lo ritrae che suona dentro una vetrina a fine decennio e secolo. Arriva così alla mezz’età, senza pretese da patetico supergiovane né acciacchi da farsi rider dietro. Con dignità e un songbook che suscita invidia, invece, suggellando il legame Warner tramite un divertito Jewels For Sophia (Warner Bros, 1999; 7,0/10), forte della sardonica Mexican God e del caracollare dylaniano di Viva! Sea Tac, della ballata You’ve Got A Sweet Mouth On You, Baby e di una No, I Don’t Remember Guilford quintessenza di allucinata delicatezza. Siccome non si diventa mai grandi, stranezza va dietro a stranezza ed ecco lo spartano, discreto Luxor (Editions Paf!, 2003; 6,9/10), pubblicato in occasione del mezzo secolo di vita. Lo avrete successivamente visto, il Nostro, nel film di Demme The Manchurian Candidate e in giro per il globo a suonare; lo avrete gradito in Spooked (Yep Roc, 2004; 7,0/10), allestito con Gillian Welch e David Rawlings in una settimana trascorsa a Nashville. Oppure avvalersi in Olé! Tarantula (Yep Roc, 2006; 7,0/10) dei Minus 5 e concedersi il gusto della celebrazione, attraverso il documentario del 2007 diretto da John Edginton Robyn Hitchcock: Sex, Food, Death... And Insects, una serie di ristampe di vecchio materiale e le sempiterne cartoline da una mente altrove di Goodnight Oslo (Yep Roc, 2009; 7,1/10). Soltanto i capelli sono ingrigiti, l’anima è verde come un ragazzino: lo ribadiva lo scorso anno Propellor Time, con dentro al solito belle canzoni e sodali del calibro di Johnny Marr, Nick Lowe e John Paul Jones. Perché stupirsi? Dopotutto si tratta di Robyn Hitchcock: l’uomo che inventò se stesso. 89 (GI)Ant Steps #45 classic album rev Bill Evans Dexys Midnight Runners Interplay (Riverside, Settembre 1962) Searching For The Young Soul Rebels (EMI, Luglio 1980) Chi era Bill Evans in quel 1962? Il pianista che Miles Davis aveva voluto in Kind Of Blue per la sua abilità con le armonizzazioni modali, unico bianco in un sestetto all black, e qualcosa vorrà pur dire. Quello che pochi mesi dopo escogitò assieme a Paul Motian e Scott La Faro una dimensione nuova per il trio, scardinando i consueti rapporti tra ritmo e melodia, innescando tensioni inaudite nel rapporto “lucidamente anarchico” tra pianoforte, batteria e basso. E che, quasi cercando la chiave segreta dell’essenzialità, portava avanti una carriera votata alla sottrazione, come aveva appena testimoniato lo splendido Undercurrent in coppia col chitarrista Jim Hall. Un alieno in casa Riverside, pù o meno. Ma uno splendido alieno. Che comunque non si rivelò immune all’attrazione gravitazionale dell’hard-bop. E come avrebbe potuto, con tutto il bendiddio copiosamente elargito dalla Blue Note un capolavoro via l’altro, punteggiando i contorni d’un periodo aureo che significava modernità, successo, spuma dell’onda? C’era la sfida di un suono che era una disputa di equilibri, di forza ed elasticità, timbri che sgomitano per emanciparsi mentre s’impastano agli altri in una costante formidabile dialettica tra uno e molti, tra io e noi. Bill Evans raccolse la sfida. Eccome se la raccolse. Confermò Hall, il lirismo discreto, fluido della sua chitarra. Pretese una sezione ritmica di primissimo piano, Percy Heath già bassista del Modern Jazz Quartet e Philly Joe Jones, l’immenso Philly Joe, batteria ovvero turbine tribale e geometrico del leggendario quintetto di Miles. A proposito di tromba, entrò in squadra anche 90 Freddie Hubbard, reduce da un folgorante biennio appunto - per Blue Note, latore di uno stile esuberante, impeto giovane e genio febbrile. In scaletta cinque standard e un originale di Evans, ovvero la title-track, emblematicamente intitolata Interplay: incedere blues arguto e circospetto, sostrato sottilmente irrequieto per gli assolo che non sono mai lasciati a se stessi, sempre qualcosa che spinge, avvolge e sprona. Condizione ideale perché ai rispettivi talenti sia consentito sgranare numeri tanto brillanti quanto felpati. Che pure esigerebbero superlativi: quello vibrante di Hall, il solitamente pensoso Evans, un Hubbard munito di sordina e mai tanto davisiano. Il resto è uno swingare agile, dinamicissimo, talora impetuoso, di un’eleganza carezzevole ma sotterraneamente tumultosa. Che in When You Wish Upon A Star rallenta i battiti, s’illanguidisce amarognola, disperde malanimo in un alone di morbidezza opaca, come il ritratto sonoro di un intero modello di vita intimamente malato. E’ il disco che consacra Bill Evans, lo completa conferendogli quel titolo di leader che fino ad allora poteva apparire inadeguato a causa della sua indole defilata, di quel porsi laterale e spesso refrattario alla logica delle (big) band. Amo pensare a Interplay come ad una contraddizione risolta, il culmine di una carriera che proseguirà senza cedimenti fino alla morte dannatamente prematura, nel 1980. Stefano Solventi Kevin Rowland, l’Enigma. Non basta certo dire che è quello di Come On Eileen, ché uno così non lo spieghi facilmente. Che poi, tra le sue tante disperate metamorfosi, basterebbe la tragicomica copertina del suo My Beauty (1999): quel cinquantenne oscenamente (s) conciato come la più triste e alcolizzata delle drag-queen, roba che forse nemmeno Marc Almond o Antony nei momenti di massima indulgenza. Eppure nella sua irrealtà fiabesca da Rodgers & Hammerstein, quel disco di cover - al momento l’ultimo in catalogo - dice molto di più sul personaggio che qualsiasi abbozzo di biografia, in quanto impietoso punto d’arrivo di una carriera lunga, altalenante e a dir poco atipica, condotta perlopiù combattendo pervicacemente contro se stesso per demolire sistematicamente quanto in precedenza costruito. Nessuno può sognarsi di congetturare, con precisione, cosa lo abbia spinto in tale direzione - basti dire che ancor oggi, senza nemmeno troppa convinzione, continua a predire un quarto album dei Dexys (“non hai ancora sentito il loro ultimo disco”: lo dice anche Homer Simpson nel celebre episodio dei BSharps). E però, invertendo la prospettiva verso il punto di partenza, tutto all’improvviso appare un po’ più chiaro, se non comprensibile. E’ sufficiente concentrarsi sullo scatto di copertina di Searching For The Young Soul Rebels: quel giovane profugo cattolico di Belfast aggrappato ai suoi pochi averi, cipiglio tra il rassegnato e l’indomito di chi cova eterna rivalsa pur nell’ineluttabile consapevolezza della sconfitta. Com’è che diceva Jimmy Rabitte, il manager dei Commitments? Gli irlandesi sono i negri d’Europa. Con la loro ortodossia soul degli esordi (talmente straight da essere definita “fascismo emotivo” da un detrattore di NME), i Dexys Midnight Runners - che poi erano di Birmingham, ma la differenza è sottile - incarnavano tutto questo. E lo facevano come nessun altro, cioè con un rigore che imponeva struttura alla ribellione, forma all’irruenza. Forzando un disagio punk tutto proletario in rigidi stilemi (i richiami all’etica northern soul, il look da gangster di strada alla Scorsese, l’impostazione parareligiosa della band proprio à la Commitments) Rowland non voleva altro che crearsi un’identità diversa, anzi migliore di quella degli altri. Di chiunque altro. Una hybris che alla lunga avrebbe dato frutti anche funesti, ma che ha altresì reso unici i suoi dischi (tanto il successivo Too Rye Ay con le sue infatuazioni celtic-gypsy quanto il bistrattato canto del cigno Don’t Stand Me Down del 1985). Pertanto la ricca ristampa del debutto non fa altro che dare a Kevin quel che è di Kevin, ribadendo la grandezza di un lavoro che in quel 1980 si presentava non men che rivoluzionario, per come confondeva i contorni tra capricciose e nervose istanze di indipendenza - artistica, etica, esistenziale - e innegabili brame pop: a trent’anni di distanza il numero 1 raggiunto da Geno, per quanto non abbia l’appeal dell’ecumenica Eileen, non suona affatto come un caso; i riff di fiati del trittico iniziale Burn It Down, Tell Me When My Light Turns Green e The Teams That Meet in Caffs mantengono intatta la loro potenza; la rilettura di Seven Days Too Long di Chuck Wood e Thankfully Not Living in Yorkshire It Doesn’t Apply rimangono irresistibili momenti pop; la citazione di Lee Dorsey in chiusura di There, There, My Dear (“everything I do gonna be funky from now on”) appare come il più appropriato degli epitaffi, non solo di un disco ma di un’epopea artistica e umana. Il secondo cd rilancia e raddoppia con tutti i singoli dell’epoca, b-side comprese, un demotape di cinque brani del gennaio 1980 più due session radio per John Peel e Steve Jensen: se nella loro euforia anfetaminica Breaking Down The Walls Of Heartache e The Horse sono dei sicuri highlight, non sono certo da meno le riprese dei superclassici Stax Hold On I’m Coming e Respect (rigorosamente nella versione di Otis). Un must. Definitivo. Antonio Puglia 91 www.sentireascoltare.com