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Addio a BILL MILLIN
ADDII Addio a BILL MILLIN Le suonò ai tedeschi nel giorno più lungo Uno di noi che spronava gli altri e un itinerario all’inferno e ritorno Bill Millin con la sua cornamusa (in primo piano) durante lo sbarco in Normandia. Lord Lovat è nell’acqua, a destra. E’ il 6 giugno 1944, D-Day, sbarco in Normandia. Morte e proiettili ovunque, sangue e corpi smembrati. E’ l’inferno in terra. C’è un uomo che attraversa l’inferno. Non si abbassa, non tenta di ripararsi dalle pallottole. Non è neanche armato. Solo il suo kilt, la sciabola cerimoniale e la cornamusa. Suona lo strumento trascinando all’assalto i compagni. E’ William “Piper Bill” Millin, la “Cornamusa di Dio”. 1a Brigata Speciale Britannica, commandos. Milita agli ordini di Lord Lovat, scozzese pluridecorato. I due si erano incontrati a Fort William, dove Millin si stava addestrando. Lovat gli offre di diventare il suo attendente personale, ma lui rifiuta. Lovat lo ingaggia allora come cornamusiere. Quel 6 giugno 1944, Millin sta suonando “The Road to the Isles” sulla spiaggia di Sword Beach. “Sono sorpreso di essere ancora vivo”, disse ai prigionieri tedeschi catturati dalle truppe britanniche. “Non ti abbiamo sparato perché ti credevamo pazzo. Non volevamo sprecare colpi”, gli risposero quelli. Dopo lo sbarco in Normandia, i commandos di Lovat avevano l’ordine di dirigersi verso il fiume Orne e sostituire i parà inglesi che intanto avrebbero conquistato i ponti nell’immediato entroterra. “Non dimenticherò mai il lamento della cornamusa di Bill - disse molti anni dopo il veterano Tom Duncan -. E' difficile da descrivere l'effetto che faceva. Ci tirava su il morale e aumentava la nostra determinazione. Ne eravamo orgogliosi e ci ricordava la patria e i motivi per i quali stavamo combattendo, per le nostre vite e per quelle dei nostri cari”. Dopo la guerra, Millin svolse diverse attività. Alla fine si qualificò come infermiere e lavorò negli istituti psichiatrici. L’unico cornamusiere del D-Day, una leggenda vivente, è scomparso mercoledì 18 agosto, all’età di 88 anni. Il sindaco di CollevilleMontgomery, cittadina affacciata su Sword Beach, ha deciso di onorare la sua memoria dedicandogli una statua a grandezza naturale. L’inaugurazione è prevista per il 6 giugno 2011. Realizzata in bronzo, la statua raffigurerà un uomo in kilt che suona la cornamusa. Verrà posta di fronte al punto in cui “Piper Bill” sbarcò in Normandia, in quel lontano 1944. Bill Millin nel 1944, ad un recente raduno sulla sedia a rotelle e il suo libro “La cornamusa del D-Day”. Bill Millin nasce a Glasgow, in Scozia, e nel 1941 incontra Lord Lovat, anch’egli scozzese e capo ereditario del clan Frasier, quando entrambi sono nelle truppe speciali. Come piper, cornamusista, Millin partecipa a diverse battaglie, dalla Normandia all’Olanda e fino a Lubecca, una delle città tedesche più importanti conquistate dagli Alleati. Il Ministero della Guerra, in seguito al primo conflitto mondiale, aveva vietato l’impiego dei cornamusisti in battaglia, falciati dai nemici con estrema facilità. Per Millin, Lord Lovat fece un’eccezione: “Quello è il ministero della Guerra inglese - disse Lovat . Tu ed io siamo scozzesi, per noi non vale”. Fu così che Millin partì per la Normandia. Omaha Beach, oggi. Dopo la guerra, “Piper Bill” torna alla vita civile. Ma la sua cornamusa suona ancora nel 1995, ai funerali dello stesso Lord Lovat, al quale era stato legato tutta la vita. D’altronde, la Great Highland Bagpipe, la cornamusa scozzese, è il simbolo di un paese e dell’orgoglio della sua gente. Fin da quando le truppe scozzesi vennero inquadrate nell’esercito britannico dopo durissime guerre con gli inglesi, e costituirono le loro bande reggimentali di cornamuse. Dal 1800 circa le cornamuse scozzesi hanno accompagnato le truppe britanniche in ogni angolo del mondo, ovunque esse abbiano combattuto. In molti paesi questo strumento musicale è persino più diffuso che nella stessa Scozia, la quale resta comunque il luogo di raduno di tutti i pipers del mondo. La cornamusa sostituisce in origine, o si affianca, al tamburo di guerra, il suono che produce è udibile da molto lontano. Fu così che nacquero le military pipe band e le prime scuole per imparare a suonarla. Ancora ai nostri giorni, migliaia di cornamusieri provenienti da tutto il mondo si ritrovano a Edimburgo: vengono dagli Usa, dal Canada, Australia, Nuova Zelanda, Medio Oriente, Sud Africa, Italia, Francia. Ancora oggi, la cornamusa affascina migliaia di appassionati. Il suo lamento rievoca la nostalgia per sogni infranti e libertà perdute. E incita a riconquistarle. Come per Bill Millin, sulle spiagge del D-Day. Michele Mornese La cornamusa, il kangoule e il pugnale di Bill Millin esposti al “Musée des trois planeurs” presso il ponte Pegasus di RanvilleBenouville, sul fiume Orne . ITINERARI NELLA STORIA 6 giugno 1944: il giorno più lungo. Normandia: sui luoghi del D-Day. Un viaggio in silenzio, nel rispetto di tutti coloro che morirono per la libertà dell’Europa L’operazione Overlord “Il lamento dei violini d’autunno ferisce il mio cuore di un monotono languore”: questi i versi di una poesia di Paul Verlaine che, trasmessi da Radio Londra, annunciavano alla resistenza francese (il “maquis” – “cespuglio”, attivissima con migliaia di combattenti in armi) che il momento dell’invasione era giunto. Iniziava l’operazione Overlord (Signore supremo), decisiva per le sorti della seconda guerra mondiale. All’alba del 6 giugno 1944, in un momento di relativa calma durante la tempesta che stava investendo le coste della Manica, agli occhi delle sentinelle tedesche che scrutavano l’orizzonte dai loro bunker di cemento armato apparve quasi all’improvviso, facendosi breccia nella nebbia sull’oceano, una visione che mai si era presentata e mai più si ripresenterà nella storia: 5.400 navi si avvicinavano alla costa francese, per condurre allo sbarco la più grande armata di sempre, che alla fine conterà più di 3 milioni di uomini. Dai cannoni sulle navi un inferno di fuoco si riversa sulle difese di Rommel, il famoso “Vallo Atlantico” che nelle intenzioni di Hitler avrebbe dovuto risultare insuperabile. Si trattava di una linea di fortificazioni lungo tutta la costa nord francese ed europea, con milioni di ostacoli anticarro sulle spiagge (spesso minate), bunker e casematte, batterie di cannoni e nidi fortificati di mitragliatrici sulle alture immediatamente prospicienti. Eppure, nonostante tutti i piani e i preparativi tedeschi, la sorpresa ideata da Eisenhower e dallo stato maggiore alleato stava per avere successo, seppure a carissimo prezzo: si è calcolato che sugli oltre due milioni di soldati alleati sbarcati in Normandia tra il 6 giugno e il 31 agosto del ‘44, 38.400 sono morti, 19.300 dispersi e 158.000 feriti. I tedeschi ritenevano molto più probabile lo sbarco ben più a est, presso il Pas de Calais ove la Manica presenta la minore distanza dalle coste inglesi presso le quali si era concentrata l’armata d’invasione alleata, e certo non si aspettavano lo sbarco stesso proprio quel giorno, nel pieno di una furiosa tempesta la quale tuttavia, come avevano potuto prevedere i meteorologi alleati, avrebbe goduto di circa 36 ore di tregua relativa, consentendo condizioni minime adatte allo sbarco stesso. Così Eisenhower e lo stato maggiore alleato avevano deciso: si va. Per i 200.000 uomini della forza d’urto articolata in varie ondate fu quasi una liberazione dalla snervante attesa, perché molti di loro già aspettavano da qualche giorno sulle navi in mezzo alla tempesta presso le coste inglesi. Il D-Day era arrivato. Truppe d’assalto americane attendono l’ora X sui mezzi da sbarco. Soldati americani sotto il fuoco a Omaha Beach cercano riparo dietro una “rosa di Rommel”, in una foto del celebre inviato di guerra Robert Kapa. Nella foto grande: Omaha Beach con le circostanti colline ove si erano trincerati i tedeschi. Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword I più di 100 chilometri della costa sabbiosa della Normandia erano stati suddivisi in cinque settori, i cui nomi in codice per sempre resteranno incisi nella storia: da ovest a est Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword. Le spiagge Utah e Omaha vengono affidate alle truppe da sbarco americane, Gold ai britannici, Juno ai canadesi, Sword ad una forza congiunta anglo-francese. Cosa aspettasse questi soldati, ammassati sui mezzi da sbarco, prima nei diversi chilometri del tratto di mare percorsi sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca, poi all’aprirsi del portellone sulla spiaggia, lo si può capire solo visitando i luoghi e rendendosi conto di quanto siano profonde le spiagge di Normandia nelle condizioni prescelte di bassa marea, necessarie per evitare che i mezzi da sbarco fossero annientati dalle barriere minate poste sulle spiagge stesse. “Il giardino delle rose di Rommel” veniva chiamato il sistema di elementi in cemento armato o segmenti di rotaia ripiegati a “x”, collocati a milioni sulle spiagge dai lavoratori francesi e di altre nazioni tratti in condizioni di schiavitù dall’esercito tedesco. Su queste distese di sabbia dorata, parecchie decine di metri dovevano essere percorse allo scoperto, senza alcuna protezione dal fuoco incrociato nemico, prima di potersi gettare in un precario riparo ai piedi dei terrazzamenti naturali su cui erano le postazioni tedesche. Sono caduti a migliaia e migliaia su queste spiagge, e in particolare la situazione degli americani a Omaha Beach si fece talmente critica che alcuni comandanti a un certo punto si posero il problema della ritirata, finché un grande muro difensivo di cemento armato non fu fatto saltare da valorosi genieri combattenti utilizzando tubi esplosivi Bangalore, creando così il varco vitale, decisivo. Le spiagge del D-Day e un mezzo da sbarco delle truppe alleate. Colleville sur Mer Omaha Beach e il sovrastante cimitero militare americano di Colleville sur Mer sono pertanto il momento iniziale più giusto per un itinerario in Normandia, attraverso la memoria del D-Day. All’entrata del cimitero di Colleville, che appare nelle riprese iniziali del famoso film “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg, un piccolo cartello chiede silenzio e rispetto. E qui davvero silenzio e rispetto si avvertono tangibilmente: il respiro del tempo muta il suo ritmo. La spiaggia Omaha è lì sotto, una dolce distesa a perdita d’occhio che incontra l’Atlantico come da sempre, come se nulla fosse successo. Lo sguardo cerca l’immensa spiaggia e il mare, ma prima, nel verde scintillante di prato inglese, 9.387 croci e stelle di Davide bianche ti guardano, mute. Sono lì a dirti: noi c’eravamo e abbiamo fatto il nostro dovere. Tra le file bianche, persone anch’esse in silenzio, e alcune donne piangono sommessamente anche ora, dopo tanto tempo. Il silenzio di Colleville parla da allora. Nel Memoriale annesso al cimitero una vasta documentazione storica con filmati e reperti di grande rigore e interesse, compresa la vera storia dei quattro fratelli Niland che hanno ispirato la fantasia di Spielberg nel famoso film “Salvate il soldato Ryan”. Una vasca di acqua immobile si protende dall’edificio verso l’oceano di Omaha Beach, verso quel mare da cui tanti giovani sono venuti e verso il quale le loro tombe guarderanno per sempre. Fanti della “Big Red One” in azione in Normandia e il “badge” della famosa divisione. Piccoli musei Nei pressi di Colleville, due minuscoli musei dimostrano che la memoria storica dello sbarco in Normandia non è custodita soltanto da grandi opere volute dai governi e dagli Stati, ma anche da iniziative più piccole di privati e cooperative. Uno è il Museo D-Day Omaha a Vierville sur Mer, con molti reperti in uno spazio angusto, tra cui una torretta blindata tedesca e un mezzo da sbarco LCVP. L’altro è il piccolo Museo della Big Red One, dedicato alla prima divisione americana di fanteria, una unità distintasi su molti fronti nel corso della seconda guerra mondiale, e protagonista dell’omonimo, celebre film con Lee Marvin. Torretta blindata tedesca e la celeberrima Jeep Willis presso il Museo del D-Day a Vierville sur Mer. Bayeux Ma la Normandia è disseminata di cimiteri di guerra, sia alleati che tedeschi. A Bayeux, ridente cittadina con una straordinaria cattedrale gotica e la celebre Tapisserie de Bayeux (un arazzo dell’XI secolo lungo parecchie decine di metri che racconta le gesta di Guglielmo il Conquistatore), con le sue antiche case a graticcio, i suoi allegri bar ove si degustano sidro, pommeau e calvados, il Cimitero di guerra del Commonwealth contiene 4144 lapidi di soldati inglesi e alleati che, a differenza delle croci di Colleville, recano anche brevi, struggenti iscrizioni dei familiari di ogni caduto. E una zona del cimitero accoglie anche le spoglie di soldati tedeschi, testimonianza reale di una giusta “pietas” che supera l’antagonismo dei conflitti. Il Memoriale di Bayeux presenta anche diversi carri armati e pezzi di artiglieria, oltre che vari mezzi utilizzati dalle truppe alleate. Bayeux: cimitero del Commonwealth. Bayeux: il Memoriale. La Cambe Il principale cimitero di guerra tedesco è quello di La Cambe, con 21.300 tombe. Qui i visitatori sono molto pochi: la morte degli invasori sconfitti suscita evidentemente meno pietà. All’esterno, il “giardino della pace” reca una frase di Albert Schweizer (1875-1965): “Le tombe di guerra sono i grandi predicatori della pace”. All’interno, una collina con una grande croce e due figure umane domina la distesa di prato disseminata di lapidi orizzontali sul terreno, qua e là intervallate da gruppi di 5 croci sempre uguali, quasi a sottolineare la banale monotonia della morte. Longues sur Mer Quasi intatta nella verdeggiante campagna sovrastante le grandi falesie, rimane, completa di cannoni, la batteria tedesca di Longues sur Mer, con i suoi cinque bunker da cui si colpivano le navi alleate e si battevano le spiagge seminando la morte fra le truppe da sbarco, e il bunker avanzato, proprio sopra la falesia a dominare l’orizzonte, per l’avvistamento e le coordinate di tiro. Fu conquistata con un’audace azione dagli inglesi del Reggimento Devonshire il giorno dopo lo sbarco, il 7 giugno. Era una delle 12 batterie similari installate dai tedeschi a dominare le spiagge. Da qui, l’incantevole panorama che si protende fino ad Arromanches, bianche falesie sull’oceano azzurro e smeraldino incanto di prati incontro al giallo del frumento, confligge brutalmente con l’idea stessa che esso possa essere stato alterato e violentato da installazioni di morte come questa. Arromanches Ma lo sbarco in Normandia fu anche – e questo è un aspetto tra i meno noti – una grande impresa tecnologica. Problema fondamentale era quello di far affluire nel più breve tempo possibile centinaia di migliaia di uomini e di tonnellate di armamenti e materiali subito a ridosso della prima ondata, per consolidare la testa di sbarco nel più breve tempo possibile. Gli strateghi alleati avevano però deciso di evitare la conquista diretta dei porti, fortificati dai tedeschi e difficilissimi da attaccare con buone probabilità di successo. Inoltre la Normandia non ha porti utili nella zona degli sbarchi, e in più presenta maree molto grandi. Perciò gli inglesi “si portarono” i porti dall’Inghilterra, ad una velocità di 4 miglia l’ora: si trattava di ingegnosi porti mobili chiamati Mulberry, composti da vari, giganteschi elementi. C’erano enormi cassoni di calcestruzzo denominati “Phoenix”, pesanti tra le 3000 e le 6000 tonnellate ciascuno, lunghezza 72,60 m, altezza 19,80 m, larghezza 17,16 m. Ed altrettanto grandiosi elementi in ferro, tra cui piattaforme basculanti e strade componibili galleggianti. Da tre anni erano stati progettati e da due erano in fase di costruzione ad opera delle maggiori industrie pesanti del paese, con enorme impiego di manodopera. I resti del Mulberry di Arromanches visti dall’alto della falesia, e un cannone antiaereo. Nell’attraversamento della Manica trainati da rimorchiatori, dei 115 Phoenix 75 andarono perduti per il maltempo, ma 40 giunsero a destinazione e furono installati due Mulberry, uno per le truppe inglesi l’altro per quelle americane. Quello di Arromanches fu chiamato “Port Winston”. Formavano una linea di molo lunga 7 miglia, quanto il porto di Dover e con una capacità di tonnellate uguale a quello di Gibilterra. Prima si creò una diga alle maree affondando vecchi navigli e gli stessi rimorchiatori che erano serviti al traino, poi a ridosso si posizionarono i grandi cassoni (che montavano anche batterie antiaree per difendersi dagli attacchi della Luftwaffe), quindi le piattaforme basculanti a circa mille metri dalla riva: quattro piloni mobili poggiavano sul fondo e si sollevavano o abbassavano insieme alle maree garantendo la stabilità delle piattaforme. Da qui partivano vere e proprie strade galleggianti realizzate in elementi componibili, una per i veicoli leggeri, una per le munizioni, una per i mezzi pesanti (tanks compresi) e gli approvvigionamenti e l’ultima per recuperare i mezzi che riportavano da terra i feriti da reimbarcare e trasferire in Inghilterra). Il Museo dello Sbarco ad Arromanches e i resti del Mulberry sulla spiaggia. Nella pagina seguente: Il Mulberry in azione e uno dei suoi elementi componibili. Talvolta si trovarono all’interno dei Mulberry 280 navi contemporaneamente. Churchill scriverà che questi porti mobili furono decisivi per le sorti della battaglia di Normandia. Ad Arromanches sono tuttora visibili di fronte alla costa i resti di uno dei due Mulberry (avrebbe dovuto durare 5 mesi, durò 28 anni), e il Musée du Debarquement è interamente dedicato ad illustrarne tecnologia e storia, anche con esaurienti plastici. Nonostante una furiosa tempesta che li danneggiò, i Mulberry funzionarono perfettamente, e alla fine di ottobre ne erano sbarcati 220.000 uomini, 39.000 veicoli di ogni sorta e 110.000 tonnellate di merci. Museo del radar A Douvres-La-Délivrande, anche la tecnologia tedesca rimane documentata nel Museo del radar, una postazione che monitorava i voli alleati e fu uno dei primi obiettivi dei bombardamenti alleati sulla costa della Normandia. Due bunker ben conservati ospitano la storia dell’evoluzione della tecnologia del radar e del suo ruolo nel secondo conflitto mondiale. Caen Fino a qui, la sommaria descrizione dei luoghi più importanti al centro del teatro di guerra dello sbarco in Normandia. Per tale ragione logistica, a chi volesse intraprendere questo itinerario, si consiglia di fare base a Bayeux, da cui si raggiungono agevolmente anche i lati estremi del teatro della battaglia. Verso est, c’è il più grande memoriale di guerra di tutta la Normandia, il Memoriale di Caen visitato da milioni e milioni di persone dal 1988, anno dell’inaugurazione, fino ad oggi. Una visita minimamente accurata richiede un giorno intero. La città fu distrutta al 73% durante la guerra, e ha voluto un memoriale dedicato alla pace e alla riconciliazione, una struttura imponente e ricca di filmati e reperti sui temi guerra-pace fino ai nostri giorni. Tra i più toccanti, un abito da sposa confezionato con la seta di un paracadute. All’esterno, una riproduzione in grande scala della scultura “Non violence” di C. F. Reutersward, di cui un’altra copia è davanti al palazzo dell’ONU a New York. All’interno, accoglie i visitatori un modello a grandezza naturale del cacciabombardiere Typhoon, utilizzato dalla Raf durante la battaglia di Normandia. Cacciabombardiere Typhoon e postazioni di razzi Katiuscia presso il Memoriale di Caen. Entrata del Memoriale di Caen con la scultura “Non violence” di C. F. Reusterward. Abito da sposa realizzato con la seta di un paracadute. Ouistreham A est di Caen c’è un luogo molto interessante, Ouistreham e il suo circondario. Uno dei principali bunker del Vallo Atlantico qui posizionato è diventato il Musée du Grand Bunker, la cui guarnigione resistette con successo al primo attacco del 4° commando anglo-francese agli ordini di Kieffer: un quarto degli effettivi, cioè 177 commandos caddero nella battaglia il 6 giugno 1944, e il Memoriale del 4° Commando ne conserva la memoria. Nel bunker a più piani, restano intatti gli impianti di ventilazione e alcuni sistemi per l’avvistamento a distanza, mentre sono perfettamente ricostruite alcune scene della penosa vita che la guarnigione conduceva in spazi angusti e angosciosi. Suggestivo scorcio del Memoriale del 4° Commando. In alto: il Memoriale del 4° Commando. Qui a fianco: il bunker di Ouistreham divenuto Museo del Vallo Atlantico. Nelle foto piccole: dotazioni dei tedeschi e riproduzione del temibile missile-bomba nazista V1. Suggestivo scorcio del Memoriale del 4° Commando. Memorial Pegasus Nei pressi, c’è il piccolo borgo di Ranville-Benouville, teatro di un’azione ricordata oggi con il Memorial Pegasus. L’invasione della Francia in realtà era cominciata qualche ora prima che le navi apparissero all’orizzonte, cioè in piena notte. Gli alleati dovevano affrontare preventivamente il problema di impedire l’afflusso sul teatro dello sbarco delle divisioni tedesche, in specie le Panzerdivisionen, di stanza al Pas de Calais a est, a Cherbourg e dintorni a ovest. Perciò nella notte il compito di prendere i ponti e i villaggi strategici doveva essere assolto dalle truppe aviotrasportate e dai paracadutisti lanciati dietro le linee nemiche. Uno di questi ponti in particolare, doveva essere conquistato, mantenuto integro e difeso da parte di truppe atterrate in loco con alianti finché fossero giunti i rinforzi: erano commandos della 6a divisione aviotrasportata britannica. Si trattava del ponte mobile sul fiume Orne che sarà poi ribattezzato Pegasus. Tre alianti carichi di commandos atterrarono silenziosamente a poche centinaia di metri e dopo un furioso combattimento il ponte fu preso e tenuto. Il maggiore Howard aveva rispettato l’ordine ricevuto: “Prenderete il ponte e lo difenderete finché non vi sostituiranno”. I contrattacchi tedeschi furono respinti finché si udì il suono della cornamusa di Bill Millin che accompagnava l’arrivo di Lord Lovatt e dei suoi commandos a rinforzo: Lovatt si scusò con Howard per i 4 minuti di ritardo. Oggi il ponte Pegasus, sostituito sul fiume Orne da un ponte analogo, è diventato il Memorial Pegasus, ove si possono conoscere le gesta dei coraggiosi commandos e ove gli alianti sono protagonisti. All’interno, è custodita anche la cornamusa di Bill Millin. Nell’area del memoriale sorge inoltre il monumento ad uno dei commandos, il primo caduto della battaglia di Normandia. Nel 2004, in ricorrenza del 60° anniversario, anziani signori provenienti dall’Inghilterra, con i loro baschi rossi e i loro capelli bianchi, tornarono al ponte Pegasus. I reduci dell’impresa dei “trois planeurs” (i tre alianti), con il comandante Howard alla testa, lo riattraversarono di nuovo tra ali di folla francese commossa e plaudente. Il ponte originale sul fiume Orne, rimosso e collocato a breve distanza, è la principale attrazione del Memorial Pegasus. Memorial Pegasus: monumento al primo caduto dello sbarco in Normandia, un dettaglio tecnico del ponte mobile e la struttura del museo che ricorda la forma di un aliante. Sainte Mère Eglise All’estremità ovest del teatro di sbarco, le cose erano andate peggio. Qui toccava ai parà della 82a e 101a americana (“Streaming eagles”, le aquile urlatrici, così si chiamano le truppe d’assalto “Airborne”, aviotrasportate) prendere i punti strategici. Ma il lancio era andato male, molti erano discesi in mezzo alle pianure allagate da Rommel e annegati, molti altri dispersi e lontanissimi tra loro, e addirittura molti parà scesero direttamente nel villaggio di Sainte Mère Eglise, accolti dai tedeschi che li falciavano ancora in aria. Una carneficina. Ma John Steel a suo modo fu fortunato: col suo paracadute restò impigliato sul tetto della chiesa proprio al centro del paese, vi restò per ore e si salvò fingendosi morto. Più tardi, il villaggio fu conquistato dagli americani. John Steel è tornato qui, accolto dalla gente, nel 2004. Anche adesso c’è un parà americano col paracadute impigliato nel tetto della chiesa, ma è… un fantoccio. E anche i fantocci furono a loro modo protagonisti dello sbarco in Normandia: i Rupert, piccoli paracadutisti meccanici lanciati in molte zone della Francia nelle ore precedenti lo sbarco vero, esplodevano colpi come se sparassero quando toccavano il suolo, impegnando così e distogliendo le truppe tedesche dai veri obiettivi. Ci sono anche loro nel Museo Airborne di Sainte Mère Eglise, dedicato in particolare all’aliante Waco e all’aereo C-47 utilizzato per i lanci di parà. La vetrata della chiesa di Sainte Mère Eglise oggi riproduce la madonna col bambino che benedice i parà americani. Qui a lato, i “badge” delle truppe aviotrasportate USA. Il manichino che riproduce John Steel aggrappato al suo paracadute sul tetto della chiesa. A fianco: Rupert e riproduzione di commandos americani. Sotto: i padiglioni dell’Airborne Museum dedicati all’aliante Waco e all’aereo C-47. Pointe du Hoc Infine, tra i punti di maggior interesse della memoria storica legata allo sbarco, c’è Pointe du Hoc, ove i rangers americani furono protagonisti di un’impresa leggendaria. Protetti da casematte di cemento incassate nel terreno, numerosi pezzi d’artiglieria pesante stavano a guardia di questa punta rocciosa, situata proprio sopra le spiagge dello sbarco. I cannoni non potevano essere distrutti dal cielo; dovevano essere neutralizzati dalla fanteria. Per la missione viene scelto il corpo d’assalto del 2° Ranger del colonnello Rudder. Gli uomini si portano ai piedi dello sperone roccioso, sotto il fuoco nemico, e scalano la parete con funi e scale di corda munite di ancorette metalliche lanciate alla sommità della falesia. I tedeschi si difendono accanitamente. Usano anche molte bombe a mano, che scagliano contro gli americani con effetti devastanti. E’ una carneficina. Le perdite sono ingenti, ma i rangers, a costo di enormi sforzi e atti d’eroismo, conquistano infine la postazione. Per accorgersi però subito dopo che i tanto temuti pezzi d’artiglieria che avrebbero dovuto distruggere, sono spariti. Si verrà a sapere solo più tardi che erano stati trasportati, prima dello sbarco, nell’interno della costa dai tedeschi. Conquistata la posizione a carissimo prezzo, i due battaglioni di rangers dovettero fronteggiare un pesante contrattacco nemico, e alla fine solo 90 rangers, di cui molti feriti, erano rimasti in vita. Ma la postazione era stata tenuta. Un’impresa di coraggio e sacrificio, costata la vita di molti giovani, che si rivelò tuttavia sostanzialmente inutile. Ma i soldati avevano portato a termine la loro missione, avevano conquistato la Pointe du Hoc, e il Ranger Memorial ricorda quest’impresa. Il Memoriale è lo stesso luogo della battaglia. Un bassorilievo in bronzo spiega in estrema sintesi, all’inizio del percorso, che cosa è successo in quel luogo il 6 giugno 1944. Al centro del pannello il simbolo dello storico corpo d’assalto, ai lati immagini incise dei soldati che scalano la parete della Pointe du Hoc, e l’illustrazione del loro equipaggiamento e delle corde e scale con le quali salirono. Superato il pannello, è la storia stessa che parla attraverso il luogo, il quale porta le indelebili cicatrici della guerra. Nel terreno sono disseminate buche larghe e profonde diversi metri, segno dei bombardamenti alleati. Le casematte sono in larga parte distrutte, tutta la zona è devastata e desolata. E’ ancora in piedi il filo spinato tra le fortificazioni e la scogliera, che doveva impedire alle truppe alleate di invadere la zona. Quello stesso filo spinato che gli americani dovettero superare per portare a termine la missione aprendo un ulteriore varco nelle difese tedesche, secondo il motto di questi soldati americani: “Rangers lead the way”, i rangers aprono la strada. Il Museo dei rangers di Grandcamp-Maisy ricorda questa battaglia, e alla Pointe du Hoc, tra i crateri provocati dal bombardamento alleato e i resti dei bunker tedeschi, un cippo è stato innalzato alla memoria dei rangers caduti. Reca questa iscrizione: “Noi non dimenticheremo mai”. Corrado Mornese Casematte tedesche distrutte o danneggiate. All’intorno, sono ancora visibili le buche provocate dalle bombe. Rangers lead the way. I rangers aprono la strada. Omaha Beach. Noi non dimenticheremo. Testi e foto: Michele Mornese – Corrado Mornese