terapia cognitivo comportamentale con i bambini e le famiglie
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terapia cognitivo comportamentale con i bambini e le famiglie
Firera & Liuzzo Publishing è un marchio di Firera & Liuzzo Group © 2010 - Firera & Liuzzo Group Via Boezio, 6 - 00193 Roma www.fireraliuzzo.com ISBN: 978-88-6538-001-7 Titolo dell’opera originale: Cognitive Behaviour Therapy for Children and Families - Second Edition © 2005 Cambridge University Press Firera & Liuzzo Group è un membro di TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE CON I BAMBINI E LE FAMIGLIE a cura di Philip Graham Institute of Child Health, London, UK InDICE 1 Introduzione Philip J. Graham 9 Prima Parte: Teoria dello sviluppo cognitivo e pratica clinica 2 Terapia cognitivo comportamentale per bambini e adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi Derek Bolton 17 3 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva Thomas ÒConnor e Cathy Creswell 33 4 Terapie psicologiche: una famiglia di interventi V. Robin Weersing e David A. Brent 55 SECONDA Parte: Coinvolgimento e processo diagnostico 5 Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale Ulrike Schmidt 73 6 La formulazione del caso nella terapia cognitiva Jonquil Drinkwater 91 TERZA Parte: Gruppi di clienti 7 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe 107 8 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale Paul Stallard 9 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero Jonathan Green 125 139 QUARTA Parte: Applicazioni in problematiche psicosociali 10 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze emotive e comportamentali dell’abuso sessuale Bruce Tong e Neville King 11 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori Martin Herbert 161 175 QUINTA Parte: Applicazione a disturbi specifici dell’infanzia e dell’adolescenza 12 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli Jo Douglas 191 13 I disturbi della condotta nei bambini piccoli Veira Bailey 211 14 Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker 229 15 I bambini con disturbi dello sviluppo Jeremy Turk 247 16 I disturbi depressivi Richard Harrington 265 17 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi John S. March, Martin Franklin e Edna Foa 281 18 I disturbi d’ansia Jennifer L. Allen e Ronald M. Rapee 301 19 Il rifiuto della scuola David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick 321 20 Il Disturbo Post-Traumatico da Stress William Yule, Patrick Smith e Sean Perrin 341 21 I disturbi dell’alimentazione Anne Stewart 357 22 La Sindrome da Affaticamento Cronico Trudie Chalder 383 23 I problemi interpersonali nei bambini Caroline L. Donovan e Susan H. Spence 24 Il dolore nell’infanzia Patrick McGrath e Julie Goodman 399 25 Il disturbo della condotta in adolescenza John E. Lochman, Nancy C. Philips, Heather K. McElroy e Dustin A. Pardini 437 26 Abuso di droga e alcool Renuka Arjundas e Eilish Gilvarry 453 421 SESTA Parte: Applicazioni della CBT in interventi preventivi 27 La prevenzione dei problemi della condotta Robert J. McMahon e Dana M. Rhule 475 CAPITOLO 1 Introduzione Philip J. Graham Institute of Child Health, Londra, Regno Unito Nel proprio resoconto sullo sviluppo della terapia cognitivo comportamentale (CBT), Rachman ha descritto tre stadi: la fondazione della terapia comportamentale nel Regno Unito e negli Stati Uniti fra il 1950 e il 1970, la fondazione della terapia cognitiva negli Stati Uniti nella metà degli anni sessanta e la fusione fra le terapie comportamentale e cognitiva nella CBT in Europa e nel Nord America alla fine degli anni ottanta. Lo sviluppo della CBT per l’infanzia e l’adolescenza ha seguito un corso simile, ma non identico. Innanzi tutto le terapie comportamentali per i bambini sono state sviluppate precedentemente rispetto a quelle per gli adulti. Per esempio, Mowrer e Mowrer (1938) avevano descritto un trattamento per l’enuresi notturna basato del condizionamento, prima della Seconda Guerra Mondiale. Ancora prima, Mary Cover Jones (1924) aveva trattato le fobie infantili con tecniche simili alla desensibilizzazione. Tuttavia, proprio come nel campo degli adulti, queste tecniche non si sono veramente consolidate fino agli anni cinquanta e sessanta, anni in cui vennero ampiamente sottoposte a verifica e applicate, soprattutto con i disturbi da dipendenza e con quelli fobici. Contrariamente al campo degli adulti, è difficile distinguere uno sviluppo separato della sola terapia cognitiva per i bambini prima della CBT. Questo forse perché si presumeva che i bambini non avessero una maturità cognitiva sufficiente per trarre beneficio da un approccio puramente cognitivo. Tuttavia, nella metà e alla fine degli anni ottanta, la CBT per i bambini e gli adolescenti si è rapidamente consolidata come forma di terapia distinta dalle altre, soprattutto dopo la pubblicazione dell’imponente testo di Philip Kendall sulla materia (Kendall e Braswell, 1985; Kendall 1991). Anche se potrebbe essere difficile distinguere uno sviluppo separato della terapia cognitiva per i bambini, gli anni settanta o ottanta hanno visto un aumento considerevole degli studi sullo sviluppo cognitivo. La psicologia Piagetiana, diffusasi ampiamente fra il 1930 e il 1950, è stata sottoposta a una notevole attenzione critica (Bryant, 1976). Le mediocri aspettative sulle capacità cognitive dei bambini che emergevano dal lavoro di Piaget vennero rivisitate; dopo che divenne chiaro che i bambini riuscivano 9 Philip J. Graham a svolgere determinati compiti cognitivi nel proprio ambiente naturale molto prima rispetto all’ambiente artificiale del laboratorio. Come Derek Bolton mostra chiaramente nel Capitolo 2 di questo testo, venne riconosciuta l’importanza di distinguere la competenza dalla performance; così come il ruolo che le esperienze precoci e il contesto giocavano nella performance che i bambini erano in grado di dimostrare. Come suggeriscono ÒConnor e Creswell nel Capitolo 3, esiste una variazione molto più grande nelle competenze possedute da bambini della stessa età rispetto a quella riconosciuta da Piaget. Nonostante le notevoli modificazioni apportate alla teoria Piagetiana, come evidenziato da ÒConnor e Creswell, il riferimento a questa teoria è ancora così diffuso da poter essere considerato automatico in coloro che si occupano di sviluppo cognitivo dei bambini. Tuttavia, come questi ultimi autori suggeriscono, è più appropriato considerare “quale atto cognitivo sia coinvolto nella produzione/mantenimento del problema in quel caso particolare”. Un simile approccio scoraggerebbe la tendenza a ignorare la possibilità che la CBT possa essere utile con i bambini solo a causa della loro immaturità cognitiva. Se, come indica Stallard nel Capitolo 8, esistono prove che dall’età di 7 anni i bambini sono in grado di riflettere con un certo grado di competenza sui propri processi cognitivi (Salmon e Bryant, 2002), non c’è ragione di pensare che non possano prendere parte a quelle tecniche utilizzate dalla CBT che prevedono questa particolare capacità cognitiva. Certamente, il capitolo di Stallard sull’utilizzo della CBT con i bambini piccoli suggerisce che, confrontando l’efficacia della CBT in bambini di età differenti, non esistono prove di minori benefici per i bambini più; addirittura a volte sembrano trarne di più. Dalla prima edizione di questo libro nel 1998, si sono verificati una serie di altri sviluppi nel campo della CBT per i bambini, alcuni dei quali la differenziano ulteriormente da quella per gli adulti. In particolare, e tutto questo non sorprende alla luce della crescita impressionante che ha avuto la terapia familiare fra gli anni sessanta e la fine degli anni ottanta, c’è una tendenza sempre maggiore a tenere conto, nel corso che assume il disturbo, dell’influenza degli altri membri della famiglia, soprattutto dei genitori. Wolpert, Doe ed Elsworth, nel Capitolo 7 enfatizzano soprattutto le questioni etiche che sorgono nella CBT quando i punti di vista e gli interessi dei bambini e dei genitori differiscono. Ma suggeriscono anche che le tecniche di terapia familiare, come l’intervista sistemica, potrebbero svolgere un ruolo utile agli stadi iniziali della terapia, quando si indagano le differenze nelle percezioni dei membri della famiglia su ciò essi considerano “il problema” e su cosa hanno fatto per affrontarlo. Questi autori riferiscono, sulla base della propria esperienza, che anche altre tecniche di terapia familiare, come il reframing, potrebbero essere utili nell’applicazione della CBT. La collaborazione con i genitori viene considerato un focus centrale nel trattamento cognitivo comportamentale di una serie di disturbi trattati in questo testo. Ma il coinvolgimento dei genitori non riguarda solo il trattamento del bambino. Molti degli autori di questi capitoli sottolineano la necessità di lavorare sugli aspetti cognitivi dei genitori per ottenere un risultato positivo con il bambino. Douglas, nel Capitolo 12, sui disturbi del sonno e dell’alimentazione nei bambini piccoli, indica per esempio la necessità di correggere i pensieri distorti o irrazionali dei genitori sul cibo, la pulizia e sui pattern di sonno. Bailey assume un punto di vista simile quando prende in con10 Introduzione siderazione il comportamento oppositivo nel Capitolo 13: all’interno del repertorio terapeutico necessario per aiutare i bambini ribelli e aggressivi include un training di gestione per i genitori. Similmente Allen e Rapee, nel Capitolo 18 sui disturbi d’ansia, individuano il circolo vizioso di trasmissione della paura dal genitore al bambino e dal bambino al genitore, cosa che spesso rende impossibile stabilire dove risieda il problema primario. (Per inciso, questi autori riconoscono anche il significato dei fattori genetici nella causa dei disturbi d’ansia e questa è un’altra prospettiva che distingue il campo infantile da quello degli adulti). Entrambi insieme a Heyne, King e Ollendick, nel Capitolo 19 sulla fobia scolare, sottolineano l’importanza di valutare i genitori e il funzionamento familiare nel corso del processo diagnostico dei sintomi. Turk, nel Capitolo 15 sull’utilizzo della CBT per la gestione di bambini con disturbi dello sviluppo, ipotizza che i membri della famiglia debbano sempre essere utilizzati come co-terapeuti nel trattamento del bambino, o che possano certamente essere essi stessi il focus della terapia. Infine Herbert, nel Capitolo 11, parlando della gestione dello stress e dei disturbi in bambini figli di genitori che si stanno separando, mette al centro del proprio approccio di gestione il counseling e il training ai genitori, con un’enfasi tale da chiedersi se rimane posto per la terapia dei bambini. Se desiderano avere una reale speranza di successo, coloro che utilizzano la CBT con i bambini sono anche obbligati a tenere conto del contesto in cui si verificano i disturbi. Mentre per gli adulti le terapie potrebbero essere applicate, per così dire, in un “vuoto sociale”, coloro che hanno a che fare con i bambini gestiscono allo stesso tempo il contesto e il bambino. Il coinvolgimento del personale della scuola nei casi di rifiuto scolastico e del personale delle unità di ricovero come quelle descritte nel Capitolo 9 da Green, è l’esempio più ovvio di situazioni in cui il contesto deve essere al centro dell’attenzione; anche se altri autori riservano una simile attenzione, alla famiglia, alla scuola e all’ambiente più vasto, per quanto meno decisiva. Non si devono tuttavia esasperare le differenze fra l’approccio della CBT per i bambini e per gli adulti.. Molti degli autori di questo libro descrivono approcci di CBT per bambini simili a quelli utilizzati con gli adulti. Leggendo i capitoli di Harrington sui disturbi depressivi (Capitolo 16), di March, Frankline Foa sui disturbi ossessivi (Capitolo 17), di Chalder sulla sindrome da affaticamento cronico (Capitolo 22), di Arjundas e Gilvarry sull’abuso di sostanze e di alcol (Capitolo 26), di Goodman e McGrath sulla gestione del dolore (Capitolo 20), si viene colpiti non solo dalla similitudine della sintomatologia fra bambini e adulti, ma anche dalla quella degli approcci terapeutici. Tutti gli autori sottolineano l’importanza del contesto e la necessità di utilizzare i pazienti come co-terapeuti; ma assegnano la priorità al trattamento della sintomatologia del bambino o dell’adolescente. Un’altra similitudine fra la CBT per bambini e quella per gli adulti è la continua tensione che si presenta nello scegliere di trattare il bambino come un individuo unico e seguire un protocollo mostratosi efficace, quando applicato in maniera standardizzata. Donovan e Spence, nel Capitolo 23, citando Hansen et al.. (1998) suggeriscono che, quando gli interventi non sono tagliati specificamente proprio su quel bambino: (1) è più difficile raggiungere un accordo e una collaborazione con il bambino, i genitori e gli insegnanti, sugli obiettivi scelti; (2) è più difficile illustrare a pieno il 11 Philip J. Graham trattamento e assicurarsi che esso sia stato compreso da tutte le parti coinvolte; (3) è meno probabile un accordo di tutte le parti sul trattamento; (4) è meno probabile avere procedure sensibili alla cultura e al genere sessuale e che (5) è più difficile fra coincidere il conseguimento degli obiettivi terapeutici con un miglioramento reale nella vita del bambino. La risoluzione di questo dilemma sembrerebbe incorporare, all’interno dei protocolli standardizzati di ricerca, aspetti individualizzati del trattamento. Leggendo i capitoli di questo libro, si viene colpiti dalla diversità degli approcci che si raccolgono sotto l’espressione CBT. Certamente, le sovrapposizioni fra la CBT, la terapia comportamentale, la psicoterapia interpersonale, il training delle competenze di problem-solving, il training delle competenze sociali e la terapia familiare sembrano significative. Non sono estranee alla CBT nemmeno le terapie psicodinamiche. Schmidt, nel Capitolo 5 sugli interventi motivazionali, parla di tecniche come l’ascolto riflessivo, per il quale sarebbe utile un training nell’intervista psicodinamica. Inoltre, sono convincenti anche le prove dell’importanza di fattori non specifici, fra cui l’autorevolezza, il calore umano e una relazione positiva cliente-terapeuta, così ben descritti da Weersing e Brent nel Capitolo 4. È anche evidente in molti contributi di questo libro la necessità di combinare la CBT con altre forme di terapia. Relativamente ai disturbi dell’alimentazione, per esempio, la CBT da sola potrebbe essere sufficiente per la bulimia, ma per l’anoressia nervosa la terapia familiare potrebbe dare un contributo di valore (Stewart, Capitolo 21). Nel disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, i farmaci sono la forma di trattamento primaria per i bambini che presentano una sintomatologia molto grave, ma la CBT, spesso in combinazione con gli stimolanti, può essere considerata l’approccio di elezione quando questi sintomi sono collegati a situazioni specifiche e sono associati ad altri disturbi (Pelham e Walker, Capitolo 14). I risultati molto promettenti riferiti nella prevenzione e nella gestione dei problemi della condotta da McMahon e Rhule (Capitolo 27) suggeriscono che la combinazione di approcci diversi, soprattutto con una presa in carico intensiva della famiglia che viene affidata a uno specialista, può essere efficace nella riduzione delle ricadute. Si potrebbe verificare la sovrapposizione fra differenti forme di terapia, ma in questi ultimi 6 anni dalla pubblicazione della prima edizione di questo testo, le conferme dell’efficacia della CBT e di approcci a essa collegati (spesso se confrontati con altre forme di terapia), in un’ampia varietà di condizioni (Carr, 2000; Fonagy et al., 2002), sono diventate sempre più autorevoli. Si spera che i prossimi anni vedranno un’espansione delle opportunità di training per i terapeuti che desiderano utilizzare questo approccio. Bibliografia Bryant, P. (1976). Piaget: causes and alternatives. In M. Rutter and L. Hersov (eds.), Child Psychiatry: Modern Approaches. Oxford: Blackwell Scientific Publications, pp. 239-54. Carr, A. (ed.) (2000). What Works with Children and Adolescents? London: Routledge. Fonagy, P., Target, M., Cottrell, D., Phillips, J. and Kurtz, Z. (2002). What Works for Whom? A Critical Review of Treatments for Children and Adolescents. London: Guilford Press. 12 L’evoluzione della mediazione e del divorzio familiare Hansen, D. J., Nangle, D. W. and Meyer, K. A. (1998). Enhancing the effectiveness of social skills interventions with adolescents. Education and Treatment of Children, 21, 489-513. Jones M. C. (1924). The elimination of children’s fears. Journal of Experimental Psychology, 7, 383-90. Kendall, P. C. (1991). Child and Adolescent Therapy: Cognitive-Behavioral Procedures. New York: Guilford Press. Kendall, P. C. and Braswell, L. (1985). Cognitive-Behavioural Therapy for Impulsive Children. New York: Guilford Press. Mowrer, O. and Mowrer, W. (1938). Enuresis: a method for its study and treatment. American Journal of Orthopsychiatry, 8, 436-59. Rachman S. (1997). The evolution of cognitive behaviour therapy. In D. Clark and C. Fairburn (eds.). Science and Practice of Cognitive Behaviour Therapy. Oxford: Oxford University Press, pp. 1-26. Salmon, R. and Bryant, R. A. (2002). Posttraumatic stress disorder in children: the influence of developmental factors. Clinical Psychology Review, 22, 163-88. 13 PRIMA PARTE TEORIA DELLO SVILUPPO COGNITIVO E PRATICA CLINICA CAPITOLO 2 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi Derek Bolton Institute of Psychiatry, Londra, Regno Unito Introduzione Il termine terapia cognitivo comportamentale (CBT) viene utilizzato per indicare numerosi interventi nell’ambito della salute mentale dei bambini e degli adolescenti, fra cui (senza un ordine particolare) metodi psicoeducativi, tecniche di gestione della rabbia e dell’ansia, procedure di condizionamento operante, tecniche comportamentali di esposizione allo stimolo, auto-istruzione, esercizio graduale, rilassamento, training delle competenze sociali, alcune forme di parent training e la ristrutturazione cognitiva simile a quella utilizzata nella CBT per adulti. Ci si chiede sinceramente se e in che modo questa varietà possa essere considerata espressione di un modello unificato. In ogni caso, tutti gli autori afferenti alla teoria e alla pratica della CBT nell’infanzia e nell’adolescenza indicano l’importanza di tener in considerazione le problematiche evolutive nel modello di trattamento, anche se è meno comune riscontrare indicazioni dettagliate di quali siano le problematiche evolutive cruciali per la CBT in questa fascia di età. A opinione dell’autore, la conseguenza è che alla base dell’aspetto evolutivo della CBT ci sono un insieme di domande teoriche complesse e una mancanza di dati. Dato che i metodi comportamentali possono essere utilizzati con i bambini e che in qualche caso funzionino, cosa si aggiunge con la terapia “cognitiva”? Qual è la reale differenza – nella metodologia o nei modelli – fra la terapia comportamentale per i bambini e la terapia cognitiva? Ha un senso dire che la terapia comportamentale modifica i pensieri ed è pertanto una (una forma di) terapia cognitiva? Cosa c’entra la verbalizzazione? Quali aspetti dell’attività cognitiva vengono affrontati dalla verbalizzazione e non dalla modificazione comportamentale? Quali atti cognitivi sono implicati nella CBT con 17 Derek Bolton gli adulti? I bambini hanno queste capacità cognitive e a quale età le conseguono? Tutte queste domande vengono affrontate in questo capitolo partendo prima di tutto dagli atti cognitivi implicati nella CBT con gli adulti e nei relativi modelli teorici della psicopatologia adulta e affrontando, in secondo luogo, le implicazioni della teoria e della ricerca dello sviluppo cognitivo. La letteratura disponibile a riguardo è certamente molto ampia e complessa; pertanto qui presentiamo un contributo selettivo e parziale che, piuttosto che dare risposte, fa sorgere ulteriori domande. La teoria della CBT applicata agli adulti Per resoconti dettagliati sulla teoria della CBT, vedere, per esempio Beck (1976), Beck et al. (1985), Clark e Fairburn (1997), Clark e Beck (1999) e Salkovskis (1996b). Un elemento comune alla teoria alla base della CBT, coerente con il background della psicologia cognitiva, è l’assunto secondo cui il comportamento sarebbe regolato dalla valutazione cognitiva degli stimoli, piuttosto che dagli stimoli in quanto tali. “Stimoli” sono eventi nel mondo, ma anche eventi all’interno del corpo; stati mentali degli altri o del sé. Le valutazioni possono essere di tipo verbale, ma possono avvenire anche sotto forma sensoriale o sensomotoria (per es. la percezione di una minaccia è una valutazione che non richiede una codifica verbale). Il “comportamento” include comportamenti motori, ma anche risposte affettive. Pertanto, la tesi fondamentale alla base del lavoro della CBT è che le valutazioni – ossia il significato attribuito allo stimolo, o il modo in cui questo viene rappresentato – hanno un’importanza critica nella regolazione delle emozioni e del comportamento. La CBT applica questa asserzione ai problemi clinici, supponendo che l’aspetto critico dei comportamenti e delle emozioni problematiche è la regolazione di questi da parte delle valutazioni. Questi giudizi disadattivi sono vari, relativi a livelli diversi e identificabili con alcune delle seguenti espressioni tecniche: pensieri negativi automatici, distorsioni cognitive, atteggiamenti disfunzionali, assunti cognitivi fondamentali e strategie di compensazione fra cui, per esempio, i comportamenti protettivi. Il contenuto varia a seconda del problema e delle differenze individuali. Alcuni giudizi disadattivi chiave, collegati a emozioni e comportamenti problematici, potrebbero per esempio essere: nel comportamento antisociale, l’attribuzione di intenzioni cattive all’altro e la svalutazione della vittima; nella depressione e nell’inattività la convinzione “Fallirò/Ho sempre fallito”; nell’ansia e nell’evitamento, numerose percezioni esagerate di pericolo e così via. Un altro aspetto cruciale di molti modelli di CBT è l’enfasi sull’importanza delle valutazioni secondarie rispetto ai comportamenti originari e sui relativi effetti. Per esempio, una persona potrebbe rimproverarsi di avere paura di uscire da sola e di essere dipendente dagli altri; o, di nuovo, un individuo potrebbe autocriticarsi perché è convinto di non essere capace di intrattenere una relazione durevole. I giudizi secondari portano a ulteriori emozioni e comportamenti, come la vergogna e la limitazione del proprio stile di vita, che, di solito, fra le altre cose, non fanno altro che esacerbare il problema originario. 18 Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi Il modello generale della CBT è applicabile a numerosi problemi fra cui la depressione (Beck, 1976); i disturbi d’ansia come la fobia sociale, il disturbo da attacchi di panico e il disturbo post-traumatico da stress (Clark, 1999); il disturbo ossessivo compulsivo (Salkovskis, 1996a), la bulimia (Vitousek, 1996), l’affaticamento cronico (Sharp, 197) e la schizofrenia (Garety et al., 2001). Dato il modello – almeno un modello generale, o meglio, quando possibile, un modello per ogni specifica condizione – come opera la CBT? Il processo diagnostico si conduce tenendo a mente il modello, per verificare se questo possa, almeno in parte, essere ragionevolmente adattato al caso particolare e, se sì, renderne chiari i dettagli espressivi. Questo significa cercare di identificare quali siano, nello specifico, i pensieri negativi e il loro contenuto, le situazioni critiche che li attivano, le distorsioni cognitive, gli atteggiamenti disfunzionali, gli assunti cognitivi fondamentali e i comportamenti protettivi, le valutazioni secondarie e le relative conseguenze e la relazione funzionale che collega tutti questi aspetti (o per lo meno tutti quelli che è possibile identificare). Si possono anche prendere in considerazione le origini degli assunti cognitivi fallaci - per es. se queste acquistano un senso nella famiglia di origine. Tuttavia, occuparsi dell’origine degli assunti cognitivi falsi è un obiettivo secondario nel processo diagnostico, il cui focus principale è invece identificare quali aspetti devono essere modificati, per indurre un cambiamento anche nelle emozioni e nei comportamenti problematici. Di solito, coerentemente con il modello, il cambiamento si incentra sui giudizi, una rappresentazione della realtà, del sé o degli altri che implica i pensieri e gli stili cognitivi descritti nel modello generale – forse un assunto cognitivo fondamentale, forse un pattern di pensieri negativi o entrambi. Mano a mano che la il processo diagnostico va avanti, si riformula il modello facendolo aderire alla situazione particolare di quella persona, in uno stile e linguaggio simile il più possibile a quello del cliente, che deve condividerlo con il terapeuta. Una volta giunti a una ridefinizione concordata del modello, si identificano i giudizi secondari più rilevanti responsabili del problema e si individua, quindi, il focus del cambiamento. Il cambiamento nella CBT prevede: prendere in considerazione alternative agli assunti cognitivi fondamentali fallaci (giudizi), riesaminare le prove e le contro prove evidenti alla luce di queste nuove alternative e verificare sperimentalmente le alternative individuate. Quest’ultimo aspetto include, ma non è limitato a, tecniche di terapia comportamentale quali l’esposizione allo stimolo, ridefinita alla luce del modello cognitivo. L’importanza dei modelli precedenti dello sviluppo cognitivo: Vygotsky e Piaget Per una rassegna dettagliata delle teorie evolutive vedere, per esempio, Demetriou (1998), McShane (1991), Sameroff e Haith (1996) e Weinert e Perner (1996). È piuttosto raro che la teoria cognitiva evolutiva venga applicata a disturbi infantili trattabili con la CBT, a eccezione di Ronen (1997), Holmbeck et al. (2000) e Piacentini e Bergman (2001). Due sono i modelli fondamentali che tuttora hanno una notevole influenza: quello di Piaget e quello di Vygotsky; ed entrambi sono molto importanti per la teoria alla base della CBT, soprattutto in relazione alla tesi sul collegamento fonda19 Derek Bolton mentale fra pensiero e azione. Nel modello evolutivo sviluppato da Vygotsky, il pensiero e l’azione sono visti come processi fondamentalmente sociali e in questa prospettiva troviamo un’intuizione molto vicina a uno dei principi teorici fondamentali della CBT, propriamente, che il linguaggio ha un ruolo chiave nella regolazione (o controllo) dell’azione. A riguardo, Vygotsky scriveva (1981, pp. 69-70): I bambini padroneggiano prima le forme sociali di comportamento e poi le trasferiscono alla propria sfera interiore. Relativamente all’area di nostro interesse, potremmo dire che la validità di questa legge non è mai così ovvia come lo è nell’uso del segno. Un segno è originariamente un mezzo utilizzato a scopi sociali, un mezzo per influenzare gli altri e solo successivamente diventa un modo per influenzare se stessi. Secondo Janet, la parola era prima di tutto una forma di comando indirizzata agli altri che poi è stata sottoposta a una complessa vicissitudine di rappresentazioni, cambi di funzione ecc. Solo gradualmente è stata separata dall’azione. Secondo Janet, resta sempre una forma di comando, proprio per questo che è lo strumento fondamentale del comportamento di dominanza. Pertanto, se vogliamo chiarire le origini genetiche della funzione volontaria della parola e del perché la parola prevale sulle risposte motorie, dobbiamo inevitabilmente arrivare alla reale funzione di comando nell’ontogenesi e nella filogenesi. In Piaget, il legame fondamentale fra pensiero e azione è chiarissimo nello stadio sensomotorio, in cui praticamente coincidono, ma resta tale anche negli stadi successivi, compreso quello più maturo delle operazioni formali. Questo stadio, che viene raggiunto con l’adolescenza, è caratterizzato da astrazione, logica formale, speculazione teorica e assunti su determinate convinzioni ed è alla base delle pratiche culturali della scienza, della politica e così via. Si può sostenere che, nel corso dello sviluppo, la direzione dell’influenza si sposta: all’inizio, il pensiero è strettamente collegato all’azione ed è proprio l’azione che lo rende possibile; mentre nella maturità è il pensiero a rendere possibile l’attività. Entrambe le teorie affermano l’esistenza di un legame stretto fra pensiero e comportamento, ma riconoscono anche che, nel corso dello sviluppo, il pensiero si sgancia progressivamente dall’azione, fino a staccarsi completamente. Questo è propriamente il caso del pensiero che si evolve dalle proprie origini sensomotorie grazie all’utilizzo del mezzo simbolico convenzionale, il linguaggio. Agli inizi dello sviluppo linguistico, il pensiero codificato verbalmente può librarsi, a livello di gioco grammaticale o lessicale, in voli di fantasia e nelle tradizioni culturali del racconto di fiabe, orali e scritte. Le relazioni di queste modalità di rappresentazione con la realtà sono complesse e variate. L’aspetto importante nell’ottica della CBT è che il pensiero codificato verbalmente, in alcune situazioni, potrebbe essere separato dalle risposte sensomotorie ed emotive e, in questo caso, la verbalizzazione corre il rischio di essere soltanto un insieme di parole che non innescano alcun cambiamento. Questo problema è importante per la CBT in generale, ma potrebbe essere particolarmente rilevante per la terapia con i bambini, fin tanto che stanno ancora plasmando legami fra il linguaggio, l’emozione e il comportamento. Alcuni fra i principali lavori di terapia cognitiva per bambini, si basavano chiaramente sulla psicologia evolutiva di Vygotsky e in particolare sull’idea che il pensiero, come discorso interiore, viene utilizzato per l’autoregolazione del comportamento. Questo era il principio alla base dello sviluppo della terapia “di auto-istruzione”, in20 Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi dirizzata per esempio a promuovere, in bambini impulsivi, abilità di definizione del problema e di problem-solving. Meta-analisi successive, relative agli esiti del trattamento, hanno tuttavia riscontrato che l’effetto di questi interventi era funzione dell’età dei bambini: scarsi miglioramenti fino all’età della pubertà e cambiamenti clinicamente più significativi dopo (Dush et al. 1989; Durlak et al. 1991). I risultati di questi studi meta-analitici sono stati interpretati alla luce della teoria piagetiana, inferendo di conseguenza che la CBT non può avere effetti significativi su bambini che non hanno ancora raggiunto lo stadio delle operazioni formali, ossia l’adolescenza. Nella teoria di Piaget, lo stadio delle “operazioni formali” include numerose competenze, collegate fra loro, fra cui la logica proposizionale e il calcolo dei predicati, l’astrazione concettuale, la meta-rappresentazione (riflessione sui pensieri) e una teoria sistematica (esplicita). Per esempio Inhelder e Piaget hanno scritto (1958, pp. 339-40): L’adolescente è l’individuo che inizia a costruire “sistemi” o “teorie”, nel senso più ampio del termine. Il bambino non costruisce sistemi. Il pensiero spontaneo potrebbe essere più o meno sistematico … ma è l’osservatore che vede questo sistema dall’esterno, mentre il bambino non ne è mai consapevole dal momento che non riflette mai sui propri pensieri … Il bambino non ha capacità di riflessione, ossia non ha pensieri di secondo ordine che operano criticamente nei confronti del proprio stesso pensiero. Non si può costruire alcuna teoria senza questo tipo di riflessione. Al contrario, l’adolescente è in grado di analizzare il proprio pensiero e di costruire teorie. Il fatto che queste teorie siano ipersemplificate, goffe e che di solito non siano per nulla originali non è una questione pertinente. Queste affermazioni sono molto importanti per la terapia cognitiva, soprattutto quelle relative alla meta-cognizione, la formulazione di riflessioni sui pensieri, che pervade i modelli cognitivi e quelle relative alla nozione di teoria sistematica, aspetto cruciale di alcuni modelli di terapia cognitiva per specifici disturbi – per es. il modello sulla depressione di Beck, che indaga le teorie che la persona ha sul sé, sul mondo e sul futuro (Beck, 1976). Questo lascito della psicologia evolutiva piagetiana, quindi, indica che ci sarebbe un certo scetticismo sull’applicabilità della CBT ai bambini più piccoli, prima dell’adolescenza. I pensieri di primo ordine, si può dire, sono stati riscontrati in numerosi esseri viventi e certamente nei giovani umani, ma la meta-cognizione, secondo la teoria piagetiana, arriva successivamente, e cioè nell’adolescenza. Questo indicherebbe che la CBT non può fare molto per i bambini più piccoli; conclusione teorica utilizzata, come precedentemente detto, per interpretare i risultati di studi meta-analitici iniziali sugli esiti del trattamento. Viceversa questa linea di pensiero, derivante dalle implicazioni della teoria piagetiana, supporterà anche l’idea che la metodologia più efficace per i bambini più piccoli sia la terapia comportamentale, BT, priva di aspetti (prettamente) C (cognitivi). Tuttavia, ci sono numerose ragioni che ci inducono a non accontentarci delle conclusioni negative della teoria piagetiana; prima fra tutte che questa teoria è datata e che la psicologia evolutiva ha fatto numerosi passi in avanti. Il processo scientifico non è stato solo lineare, ossia un miglioramento e una maggiore rifinitura empirica di una teoria che restava in linea con quella piagetiana. Sono stati fatti cambiamenti alle fondamenta del modello generale – per es. a quali età si raggiungono determinati stadi – ma questi dettagli sono stati inclusi all’interno di 21 Derek Bolton un cambiamento globale di tutto il paradigma. Si è affermato che la teoria piagetiana avesse confuso la competenza con la performance come dimostrato in esperimenti appositamente disegnati con bambini che avevano un’età minore di quella prevista. Questi risultati si sono abbinati a una crescente consapevolezza che la teoria piagetiana avesse ignorato le principali influenze ambientali che innescavano cambiamenti evolutivi negli atti cognitivi dei bambini, quali, per esempio, la famiglia e la scuola. Inoltre, i mutamenti paradigmatici nella psicologia in generale hanno influenzato anche la psicologia evolutiva e ci si riferisce nello specifico alla predominanza sempre più diffusa del paradigma dell’information processing, alla crescente enfasi sulla settorialità della conoscenza e alla modularità della mente. L’information processing suddivide i pensieri in una serie di routine e subroutine, mentre la settorialità e la modularità enfatizzano l’esistenza di differenti sistemi dedicati allo svolgimento di specifici compiti cognitivi. Entrambi questi nuovi paradigmi spostano, in molti modi, il focus dalle teorie generali e dalle affermazioni sull’intelligenza e sugli stadi evolutivi, a specifici processi di cambiamento. Come risultato di questi sviluppi, le teoria stadiale piagetiana dello sviluppo cognitivo ha lasciato l’apparente conclusione che l’applicazione della CBT a bambini preadolescenti sarebbe stata fortemente limitata e poi è sparita dalla scena. Si arriva così a una situazione curiosa – familiare nella CBT – in cui una tesi molto importante continua a esercitare il proprio effetto, ma non è più disponibile per essere sottoposta a verifica. Tale situazione rischia la paralisi, almeno nella teoria, e suggerisce la necessità di una revisione, soprattutto in relazione agli aspetti meta-cognitivi. Tipi di meta-cognizione La regolazione del comportamento attraverso la meta-cognizione (o riflessione sui propri atti cognitivi), di solito a mezzo del linguaggio, viene enfatizzata nella CBT per adulti, per quanto si riferisca invero a differenti aspetti. Sembra che il linguaggio sia criticamente coinvolto nei processi meta-cognitivi e, in particolare, nello sviluppo di una teoria della mente, ma i dettagli e anche la direzione della causalità restano ancora poco chiari (vedere, per esempio, Astington e Jenkins, 1999). Di seguito presentiamo alcuni aspetti di cui si occupa la CBT, a partire da ciò che Piaget enfatizzava di più. Riconoscere il legame logico o evidente fra asserzioni, per esempio che questo concetto deriva da quest’altro, o appartiene a quest’altro, o che questi pensieri differenti implicano tutti una proposizione generale, o che insieme formano una teoria Questo aspetto è cruciale in alcuni modelli e tecniche cognitive, in particolare quelli che utilizzano i concetti di teoria, assunti cognitivi fondamentali e così via; come, per esempio, alcuni approcci terapeutici cognitivi per la depressione negli adulti. Si potrebbe dire che questa capacità di teorizzazione si raggiunge relativa22 Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi mente tardi nel corso dello sviluppo; i bambini di 5 anni ne hanno pochissima, ma gli adolescenti iniziano a svilupparla. Ci sono per esempio prove che il concetto di validità inferenziale viene sviluppato e applicato nella tarda infanzia o nell’adolescenza (Moshman e Franks, 1986), ma ci sono anche prove che i preadolescenti, anche bambini di scuola elementare, in particolari ambiti di conoscenza, conoscono molto bene alcuni aspetti cruciali della costruzione e dell’implementazione delle teorie, come, per esempio, la differenziazione di teorie ipotetiche dalla realtà. (Sodian et al., 1991). Valutazione/giudizio dei pensieri (o affermazioni) come, per esempio, essere cattivo, stupido, inutile, vergognoso, imbarazzante, folle, ecc. Questo tipo di valutazioni sono ovviamente cruciali, se non in tutti, nella maggior parte dei modelli e metodologie di terapia cognitiva e includono molti dei così detti “pensieri automatici negativi” (NATs), considerati fondamentali nell’interpretazione dell’esperienza presente e quindi nella regolazione delle emozioni e dei comportamenti. Potrebbe non essere di particolare importanza se queste valutazioni sono precedute introdotte da pronomi personali – “essi penseranno che sono …” – fintanto che la distinzione fra ciò che essi pensano e ciò che io penso deve ancora essere compresa. Certamente, come molti clinici che lavorano con i bambini e le famiglie, l’autore si è spesso chiesto se in qualche modo, i commenti piuttosto critici, ripetuti nel tempo, che i genitori rivolgono al bambino diventano i NATs dell’adulto, mentre, al contrario, i commenti incoraggianti diventano i pensieri automatici positivi (ATs). Questo sarebbe coerente con gli elementi chiave della psicologia evolutiva di Vygotsky evidenziati in precedenza, ossia che la vita mentale è un’interiorizzazione della vita sociale e , nello specifico, che il pensiero è un dialogo interiore. Nei modelli cognitivi dei disturbi della salute mentale in età adulta, si ritiene di solito che i NATs vengano attivati da situazioni particolari ma anche da asserzioni e, molto probabilmente, da assunti cognitivi fondamentali disfunzionali. Sulla base delle considerazioni appena fatte è possibile che su un piano evolutivo esista una via diretta dalla situazione attivante ai NATs, costituita dai giudizi dei genitori, senza la mediazione di teoremi generali. In ogni caso, apparentemente non c’è motivo, dal punto di vista dello sviluppo cognitivo, di porre limiti più bassi all’età in cui i bambini possono avere, spontaneamente o in seguito a interiorizzazione, queste riflessioni su pensieri, opinioni o comportamenti; oppure sul proprio sé che ha o fa determinate cose. Ci potrebbero essere fattori evolutivi relativi al contenuto, così come alle differenze individuali. Per esempio, stati emotivi più complessi come l’orgoglio e la vergogna sembrano comparire nella fase di transizione fra la prima e la media infanzia (Harter, 1996; Stevenson-Hinde e Shouldice, 1996). 23 Derek Bolton Rappresentare la controllabilità degli stati mentali Riconoscere che gli stati mentali possono essere sotto il controllo della persona, anche se alcuni sono più facilmente controllabili di altri, è un’altra forma di metacognizione. Ci sono prove che questa capacità è presente già dai 7 anni, anche se si sviluppa maggiormente nelle fasi successive della prepubertà (Flavell e Green, 1999). Rappresentare gli stati cognitivi nell’atto di regolare il proprio o altrui comportamento Questo è un tipo di meta-cognizione particolarmente interessante, che implica quella che è stata definita “teoria della mente”. Questa viene utilizzata per lo più per costruire attribuzioni causali sulle motivazioni delle emozioni e delle azioni e si manifesta in affermazioni del tipo “Io (o egli) ho fatto ciò che ho fatto perché mi sentivo così o perché ero convinto di questo e quest’altro” e “Io (o egli) mi sentivo così per quello che mi era successo ed ero convinto di questo e quest’altro”. I bambini molto piccoli iniziano a fare qualche attribuzione dopo aver conseguito la capacità di produrre una frase di senso compiuto e, successivamente, nel corso dello sviluppo, la rappresentazione dei propri o degli altrui stati mentali si evolve per arrivare a una teoria del sé; una narrazione interpretativa che include una storia, una personalità e dei progetti; ponendo la base per i concetti di auto-consapevolezza, autonomia e responsabilità. In altre parole, questa competenza meta-cognitiva così importante va per gradi e inizia a svilupparsi molto prima dell’adolescenza; e propriamente nella prima infanzia (Chandler e Lalonde, 1996). Per rimanere nello stesso ambito, esistono prove che bambini piccoli di circa 6 anni sono in grado di superare compiti che implicano false convinzioni di secondo ordine della teoria della mente (“dove Jane pensa che John creda si trovi la palla?) (Sullivan et al., 1994). Tutte e quattro le tipologie di meta-cognizione appena descritte sono cruciali nella CBT. Il cliente di solito si rende in qualche modo conto del comportamento disadattivo e delle relazioni che ha con esso e tutte queste meta-cognizioni sono probabilmente esse stessa coinvolte nel problema. Questo perché la meta-cognizione, proprio come il pensiero in generale, genera emozioni e comportamenti. La meta-cognizione – indipendentemente dal fatto che sia corretta o sbagliata, ragionevole o non, giusta o fallace – genera nei fatti ulteriori attività, che vanno oltre il comportamento associato all’atto cognitivo originario. Per esempio, se riconosco che una serie di esperienze di rifiuto sono state collegate fra loro in modo da formare la generalizzazione “Io vengo sempre rifiutato”, allora potrò prevedere che “La prossima volta succederà la stessa cosa”. Questa nuova parte di informazione supera e oltrepassa le precedenti circostanze individuali. O, se giudico che le mie opinioni o i miei pensieri spontanei siano cattivi o folli, allora probabilmente mi vergognerò o avrò paura e agirò di conseguenza. Se credo – anche sbagliandomi – che l’ansia non si possa controllare, allora questa convinzione renderà più intensa la paura che provo. Sono possibili numerosi errori in relazione al quarto tipo di meta-cognizione sopra descritto, ossia rappresentarsi gli stati cognitivi nell’atto di regolare il proprio comportamento. Per esempio, un bambino 24 Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi potrebbe credere di essere stato arrabbiato con l’amico perché quest’ultimo era stato cattivo con lui, ma in realtà era arrabbiato perché l’amico aveva qualcosa che lui stesso desiderava; o qualcuno potrebbe credere che non esista elaborazione dell’informazione che regola un comportamento, come l’arousal fisiologico, mentre questa c’è, come nel disturbo da attacchi di panico; o che c’è quando invece non c’è, come nei primi esperimenti sulla manipolazione dei fattori sociali nell’attribuzione causale (Schacter e Singer, 1962). Ma anche se i giudizi meta-cognitivi di quarto tipo possono essere sbagliati (in qualcuno dei modi appena descritti), generano ulteriori comportamenti coerenti con essi. Nell’esempio appena dato, i comportamenti successivi potrebbero essere: un’ipocrita sicurezza delle proprie azioni o una rabbia incontrollata, panico ed emozioni appropriate alla situazione. Questi sono nuovi comportamenti generati dalle riflessioni sui pensieri, dai pensieri sull’elaborazione delle informazioni, o sulla mancanza di questa, che regolano il comportamento (di primo ordine) di un individuo. Di conseguenza, se i pensieri di primo e secondo ordine coincidono, se un individuo ha una rappresentazione corretta dell’altro, siamo in presenza di una certa integrità e certezza nell’azione, mentre, se questi differiscono, siamo in qualche modo di fronte a dei problemi, come quelli che la CBT e altre forme di psicoterapia cercano di risolvere (Bolton, 1995). “Che livello di sviluppo cognitivo è necessario per la CBT?” Questa sezione finale si occupa di considerazioni relative a questa domanda (vedere Capitolo 8), principalmente con l’effetto di decostruirla. La domanda prioritaria è piuttosto: “quali atti cognitivi sono implicati nella produzione e mantenimento del problema in questo caso particolare?” Il terapeuta deve affrontare solo quelli che sono realmente implicati, indipendentemente dal quello che potrebbe essere il “livello di sviluppo cognitivo”. Non c’è necessità di preoccuparsi della questione generale se, per esempio, i bambini di 7 anni, o questo particolare bambino di 7 anni, è o non è capace, per esempio, di atti meta-cognitivi che implicano l’utilizzo di teorie. Piuttosto, il terapeuta deve scoprire quali atti cognitivi sono coinvolti nel problema e affrontarli se ci sono; se no, non c’è alcuna necessità di occuparsene. Questa linea di pensiero suggerisce che si dovrebbe strettamente enfatizzare la valutazione del caso individuale, anche se ovviamente questa è guidata da una teoria generale. Sappiamo, principalmente dai modelli adulti, quali tipologie di pensieri ricercare in particolari disturbi. Per esempio, nel caso di attacchi di panico, si dovrebbe determinare se a innerscarli sia una situazione esterna o interna, quali siano i sintomi somatici e quali previsioni catastrofiche vengono fatte. Di fronte a un disturbo ossessivo compulsivo, bisognerebbe identificare i giudizi implicate nelle ossessioni, come per esempio valutazioni meta-cognitive che implicano un’esagerata percezione di responsabilità. Nella depressione, quali sono le situazioni esterne chiave (per es. una perdita) o le richieste da cui si è generata? Quali pensieri negativi ha la persona in queste situazioni, relativi per esempio alla solitudine e all’essere capaci o meno di fare fronte? L’aggressi25 Derek Bolton vità non motivata da quali fattori viene attivata, come, per esempio, la frustrazione o il conflitto, e come vengono valutati da uno stile attributivo esterno? L’esperienza clinica suggerisce che i bambini spesso riferiscono pensieri di questo tipo. Alcune delle più recenti e importanti ricerche sulla teoria della CBT per bambini, si sono focalizzate semplicemente su una domanda empirica cruciale: fino a che punto i bambini mostrano quegli stili cognitivi e quei contenuti propri del modello della CBT per gli adulti? I risultati sono promettenti: studi che hanno utilizzato campioni non clinici indicano che i bambini e gli adolescenti presentano giudizi cognitivi, associati alla depressione o all’ansia, simili a quelli riscontrati negli adulti (per es. Garber et al. 1993; Chorpita et al., 1996; Hadwin et al., 1997). Ovviamente, il processo diagnostico con bambini piccoli presenta problematiche peculiari. Porre semplicemente delle domande sui sentimenti e le emozioni presenti in determinate situazioni problematiche, con i bambini potrebbe non portare ai risultati sperati, dal momento che mediamente questi trovano le conversazioni lunghe più complesse e perché potrebbero essere maggiormente focalizzati sul presente. Questo non vuol dire che l’intervista clinica con i bambini non possa generare resoconti articolati delle situazioni problematiche – chiaramente, questo a volte succede. Il grado di successo potrebbe dipendere, fra le altre cose, dal grado in cui gli eventi e le emozioni a essi associati sono stati verbalizzati e ricordati in conversazioni con la famiglia, come succede nei casi non clinici (Nelson, 1996). Altrimenti, è utile applicare il principio in base al quale un pensiero attivo in un particolare contesto, è più facilmente accessibile all’interno di quel contesto stesso e, pertanto, potrebbe essere d’aiuto utilizzare una rappresentazione pratica – per esempio, l’esposizione a stimoli ansiogeni potrebbe facilitare l’espressione di specifiche percezioni di minaccia. Oppure, tenendo a mente che i genitori potrebbero aver osservato il bambino in queste situazioni chiave mentre il clinico no, si potrebbe semplicemente chiedere loro se il bambino abbia mai detto qualcosa a riguardo della situazione in questione. Alternativamente, si potrebbe utilizzare un paradigma a scelta multipla non forzata per facilitare il ricordo e il racconto. Il terapeuta potrebbe dire ad alta voce – “per es. “Bhé, quando mi arrabbio con mio fratello è spesso perché ha fatto questo, quest’altro e quest’altro ancora” – o il terapeuta potrebbe invitare i genitori a chiedersi perché sono arrabbiati e lo scopo di simili conversazioni, che non hanno il bambino come focus esplicito, è portare il bambino stesso a esprimere la propria opinione sul caso. Questo succede spesso, anche se non sempre. Ci sono molti altri modi ben noti ai professionisti della salute mentale, come il role-play, la narrazione di una storia e così via. Lo scopo principale del processo diagnostico nella CBT è scoprire, attraverso self-report spontanei o guidati, quali giudizi, quando presenti, siano nella realtà alla base delle emozioni e dei comportamenti problematici. La domanda principale della diagnosi è, pertanto, quali sono e che contenuto hanno i giudizi che nella realtà sono responsabili della generazione e/o del mantenimento dei problemi di quel particolare bambino. Quando questi valutazioni esistono e hanno un contenuto, possono essere affrontate nelle modalità familiari alla CBT per adulti; se invece nel bambino non sono presenti altre tipologie di pensieri o contenuti che di solito vengono riscontrati negli adulti e sono parte della teorizzazione di quel particolare disturbo negli adulti, non è importante. In altre parole, la risposta alla domanda 26 Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi generale – quale livello di sviluppo cognitivo è necessario per la CBT? – è: qualunque livello implicato nella generazione del problema in quel caso particolare. Il problema dello sviluppo cognitivo nella CBT quindi non riguarda tanto il livello necessario per l’applicabilità della terapia, ma piuttosto soprattutto le tipologie e i contenuti dei giudizi implicati nella generazione e nel mantenimento dei problemi clinici dell’infanzia, in generale e nei casi particolari. La ricerca evolutiva, fin dal periodo della teoria generale stadiale piagetiana, suggerisce, come precedentemente indicato, che le possibilità di variazione individuale sono molteplici, in qualunque età cronologica, e dipendono da numerosi fattori quali, per esempio, il temperamento e il contesto sociale e familiare. È anche probabile che più piccoli sono i bambini, minore è la probabilità che abbiano le capacità cognitive complesse e la performance caratteristica dell’età adulta. Tuttavia, le precedenti considerazioni rendono queste considerazioni irrilevanti ai fini dell’utilizzo della CBT per i bambini. Se alcuni aspetti della CBT non sono applicabili ai bambini perché essi non hanno ancora sviluppato i processi cognitivi richiesti – forse competenze meta-cognitive o una teoria sistematica esplicita – allora, sulla base di questa stessa considerazione, ci sarebbero i presupposti per credere che i processi cognitivi complessi implicati nei modelli adulti della salute mentale, non operino nei bambini. In altre parole, la stessa teoria evolutiva che non ritiene la terapia cognitiva adatta ai bambini, dovrebbe allo stesso tempo implicare che gli aspetti cognitivi centrali in questo tipo di terapia, non giocano un ruolo predominante nei disturbi dell’età evolutiva. Coerentemente con questa affermazione, per esempio, le meta-cognizioni sotto forma di teoria sistematica esplicita, non dovrebbero apparentemente avere un ruolo predominante nell’ansia infantile e nei problemi di comportamento, e, di contro, le condizioni cliniche che implicano chiaramente una qualche teorizzazione, come per esempio le allucinazioni paranoidi o gli stati depressivi che implicano una teoria sul sé, sul mondo e sul futuro, dovrebbero essere rare nei bambini. Potrebbero tuttavia esistere altri pre-requisiti, differenti dal livello generale di sviluppo cognitivo, all’applicazione efficace della CBT che sono particolarmente problematici per i bambini. La CBT assume che siano i pensieri a guidare il comportamento e le emozioni e che questi possano essere modificati attraverso un lavoro sulle informazioni e le istruzioni codificate verbalmente. Queste tesi potrebbero essere limitate precisamente dall’implicito affidamento sulla regolazione delle emozioni e del comportamento da parte di regole codificate verbalmente. Come già indicato, il linguaggio arriva ad assumere questa funzione, ma non automaticamente o necessariamente. Pertanto, nel processo diagnostico, come già precedentemente enfatizzato, è importante determinare quali sono le regole codificate verbalmente che il bambino utilizza nella realtà. Ma supponiamo che queste regole non ci siano? Supponiamo che il comportamento e le emozioni del bambino in quella determinata circostanza siano innati– per es. l’angoscia dell’estraneo nei bambini molto piccoli – o che siano regolati unicamente da principi di condizionamento classico od operante – come nel caso della paura dei cani dopo essere stati morsi – o dall’aggressione strumentale? Queste tipologie di comportamenti, negli animali e nei bambini, hanno un corso indipendente dalla parola. I bambini di solito possono imparare a controllare questi comportamenti attraverso informazioni e istruzioni mediate verbalmente, ma non esiste una ragione a priori per supporre che questo si verifichi in ogni caso. A livello teorico, resta possibile, a causa di disfunzioni 27 Derek Bolton biologiche o di un caso estremo di deviazione dalla normalità, che il comportamento di alcuni bambini sia regolato in gran parte da contingenze ambientali immediate, senza alcuna mediazione verbale. Teoricamente non è possibile prevedere se a questi bambini possa essere insegnata una mediazione verbale che controllerà le risposte motorie. Questo è ovviamente coerente con i risultati precedentemente citati, secondo cui i tentativi di correggere i “deficit cognitivi” nel comportamento impulsivo attraverso il controllo verbale, hanno avuto un successo limitato nei bambini piccoli (Dush et al., 1989; Durlak et al., 1991) e con l’attuale posizione secondo cui il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività non risponde bene alle terapie psicologiche, inclusi i metodi di auto-istruzione (Hinshaw, 2000; Nolan e Carr, 2000).Questa spiegazione sull’inefficacia della CBT nei bambini, tuttavia, è specifica per particolari tipologie di problemi e presuppone che determinati meccanismi (o la loro assenza) superino o siano al limite della normalità e non, piuttosto, un problema di “livello cognitivo generale del bambino”. In un’ottica positiva, potrebbero esserci indicazioni particolarmente positive per l’applicazione della CBT in infanzia e in adolescenza. Nell’età adulta, le persone hanno avuto il tempo, la capacità e la necessità di costruire stili e sistemi di assunti cognitivi alla base dei comportamenti problematici, fra cui apprendimenti secondari radicati che, sfortunatamente, esasperano e contribuiscono al mantenimento del problema. Poiché sono ancora in fase di sviluppo, invece, i bambini e gli adolescenti hanno visioni di sé e del mondo che sono più flessibili e quindi più aperte al nuove possibilità. Conclusioni C’è una discreta concordanza sotto molti aspetti fra le assunzioni empiriche della CBT e alcuni fondamentali principi dello sviluppo cognitivo relativa al legame molto stretto fra il pensiero e azione e al ruolo del linguaggio nella mediazione del comportamento. La teoria stadiale generale piagetiana sosteneva tuttavia che le competenze metacognitive, cruciali nella CBT, compaiono più avanti negli anni (ossia nell’adolescenza) e questa teoria è stata utilizzata per spiegare i risultati piuttosto scarsi ottenuti in alcuni primi studi sull’applicazione della CBT ai bambini. In generale, la teoria stadiale piagetiana è stata superata grazie a cambiamenti in diversi paradigmi e, pertanto, la domanda generale “quale livello di sviluppo cognitivo è necessario per la CBT?” non è più quella fondamentale. La domanda diventa piuttosto: “quali atti cognitivi sono coinvolti nell’insorgenza e nel mantenimento del problema in questo caso particolare?” Non sembrano esserci dunque ragioni del perché tutti, o la maggior parte, dei modelli e delle tecniche di terapia cognitiva non dovrebbero essere applicati ai bambini; una volta che questi sono in grado di utilizzare il linguaggio, con un range di età indefinitamente più basso. Potrebbero esserci casi in cui la CBT non dà buoni risultati, ma, per esempio, il fallimento nel caso del comportamento impulsivo, potrebbe meglio essere spiegato facendo riferimento a condizioni particolari, piuttosto a modelli generali di sviluppo cognitivo. La CBT per i bambini è ai primi stadi di sviluppo e c’è una necessità sempre maggiore di condurre ricerche in molte aree, non solo nell’ambito dello sviluppo cognitivo. 28 Terapia cognitivo comportamentale con bambini e gli adolescenti: aspetti teorici ed evolutivi Per esempio, si devono conoscere più approfonditamente le origini e le determinanti dello stile cognitivo e del contenuto cognitivo di bambini e adolescenti normali, appartenenti a popolazioni non cliniche. Fino a che punto la visione che il bambino ha di sé e del mondo viene appresa dalle figure di attaccamento significative e fino a che punto dalle informazioni verbali o dall’esempio? Fino a che punto si può parlare di “stile cognitivo della famiglia” in opposizione a differenti stili e punti di vista degli individui? In che misura il bambino acquisisce punti di vista da altre fonti di informazione e modelli, per es. a scuola o dai pari? Lo stile cognitivo del bambino e il relativo contenuto derivano maggiormente “dall’interiorità”, o sono invece, per esempio, un prodotto del temperamento e dell’esperienza personale? In ambito clinico, si deve fare ancora molto lavoro negli studi sui singoli casi e su serie di casi clinici focalizzandosi sui processi cognitivi e sui contenuti che regolano le emozioni e i comportamenti, sulle somiglianze e sulle differenze con i modelli creati per gli adulti e sulla costruzione di modelli cognitivi per problemi di salute mentale specifici dell’infanzia. Riconoscimenti Versioni precedenti di questo capitolo sono state presentate come intervento in un simposio sui “Nuovi sviluppi nella comprensione del pensiero dei bambini e degli adolescenti” alla BABCP Annual Conference, Glasgow, Giugno 2001 e al Children’s Department Seminar, South London e Maudsley NHS Trust, nel Febbraio 2002. L’autore è grato a numerosi colleghi per i suggerimenti utili forniti nelle versioni precedenti, e fra questi in particolare a Francesca Happé, Ulrike Schmidt e Ruth Williams. Gli errori rimasti sono tutti ascrivibili all’autore. Bibliografia Astington, J. W. and Jenkins, J. M. (1999). A longitudinal study of the relation between language and theory-of-mind development. Developmental Psychology, 35, 1311-20. Beck, A. T. (l976). Cognitive Therapy and the Emotional Disorders. New York: International Universities Press. Beck, A. T., Emery, G. and Greenberg, R. L. (1985). Anxiety Disorders and Phobias: A Cognitive Perspective. New York: Basic Books. Bolton, D. 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Cambridge: Cambridge University Press, pp. 207-22. 31 CAPITOLO 3 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva Thomas ÒConnor e Cathy Creswell Institute of Psychiatry, Londra, UK Negli ultimi anni, c’è stata una proliferazione di studi che hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale (CBT) con i bambini. I risultati di queste indagini forniscono prove chiare che la CBT è uno strumento clinico efficace per il trattamento di alcuni fra i più comuni disturbi psicologici dell’infanzia e dell’adolescenza, soprattutto l’ansia e la depressione (Kendall, 1985; Harrington et al. 1998). Una volta che è stato superato questo primo e principale ostacolo, si può dirigere l’attenzione a due domande successive: quali sono i meccanismi alla base di un trattamento efficace e come possiamo spiegare l’inevitabile variabilità nella risposta al trattamento? Questo capitolo cerca di rispondere a queste ultime due domande appellandosi alle teorie evolutive e alle ricerche più rilevanti nell’ambito dei pensieri sociali e dei disturbi psicologici dell’infanzia e dell’adolescenza. Gli scopi di questo capitolo sono: evidenziare perché è necessario un modello evolutivo della CBT e come può essere costruito; passare in rassegna i risultati esemplificativi della ricerca sui pensieri sociali nei bambini e vedere fino a che punto la CBT per questa fascia di età è a conoscenza di questi risultati; identificare alcuni ostacoli che impediscono una maggiore sintesi fra la ricerca evolutiva e clinica rilevante per la CBT con i bambini e trarre alcune implicazioni per la diagnosi e l’intervento. Cosa è un approccio evolutivo? Prima di considerare cosa può aggiungere una prospettiva evolutiva all’applicazione della CBT per i bambini, dobbiamo prima di tutto considerare cosa sia. Un approccio evolutivo, applicabile alla CBT per i bambini, può essere caratterizzato da 33 Thomas O’Connor e Cathy Creswell diversi aspetti fra loro distinti. La prima considerazione fondamentale è portare alla luce gli effetti e i meccanismi implicati o, in altre parole, la natura delle continuità e delle discontinuità nello sviluppo. In un’accezione più ampia, la psicopatologia è stata definita in termini di traiettoria di sviluppo individuale che ha subito una deviazione dal corso evolutivo normale (per es. Bowlby, 1988). In altre parole, piuttosto che (o forse oltre che) vedere la psicopatologia come una costellazione di sintomi, si potrebbe valutarla sulla base della capacità dell’individuo di rispondere alle sfide evolutive, quali la formazione di relazioni positive con il gruppo di pari nella media infanzia. In termini diagnostici, il focus non dovrebbe essere soltanto sull’espressione dei sintomi, ma anche sul corso evolutivo dell’individuo e sulle probabili proiezioni del disturbo. Questo approccio ha anche delle implicazioni nella concettualizzazione del trattamento. Così, per esempio, gli studi di prevenzione e intervento che mostrano miglioramenti più consistenti o addirittura costanti nell’adattamento dei bambini dopo il trattamento (Barrett et al., 1996; Silverman et al., 1999), potrebbero essere spiegati alla luce dell’intervento stesso che va a modificare la traiettoria evolutiva del bambino e non solo alla luce della riduzione della sintomatologia. Una seconda caratteristica dell’approccio evolutivo, applicabile alla CBT, è identificare gli elementi che, in quella fase evolutiva del bambino, potrebbero modulare la risposta al trattamento o la maniera in cui il trattamento deve essere condotto. La posizione alternativa (ossia “non evolutiva”) ritiene che, nello sviluppo cognitivo, linguistico o sociale del bambino, non ci sia nulla di pertinente all’applicazione dell’intervento o alla spiegazione degli effetti successivi. Pochi sarebbero concordi con quest’ultimo concetto, anche se si tratta di un’ipotesi che raramente è stata direttamente presa in considerazione e rifiutata. Così, per esempio, lo stesso intervento di CBT ha effetti differenti se erogato a bambini in differenti fasi dello sviluppo? Se sì, cosa spiega queste differenze? Rispetto alla media adolescenza, i bambini più piccoli hanno bisogno di una forma di CBT che usi meno la strutturazione cognitiva? Questo potrebbe essere, per esempio, il caso dell’ansia nei bambini molto piccoli che non è mediata dalla cognizione/linguaggio (per es. Prins, 2000). Più in generale, potremmo porci un insieme parallelo di domande relative all’espressione della psicopatologia nei bambini. Per esempio, il fatto che l’ansia generalizzata ha un’epoca di insorgenza più tardiva rispetto all’ansia da separazione cosa suggerisce sulla complessità cognitiva alla base della fenomenologia di questi disturbi? Forse l’ansia generalizzata richiede processi cognitivi più complessi, propriamente quelli necessari per una generalizzazione? Rispondere a domande di questo tipo non è semplice, ma ci sono alcuni risultati esemplificativi. Pertanto, la capacità dei bambini di generalizzare fra contesti o di mostrare una qualche comprensione dell’idea di costanza, è già evidente nella prima infanzia. Tuttavia, anche se la costanza di caratteristiche fisiche concrete e osservabili emerge nella prima infanzia e quella di genere compare leggermente più tardi (Gouze e Nadelman, 1980), fino alla tarda infanzia i bambini non sono in grado di rilevare la costanza di caratteristiche interiori (psicologiche) (per es. 8-9 per l’identità in Guardo e Bonan, 1971). Di conseguenza, prima della media infanzia, i bambini per descrivere se stessi e per spiegare il proprio comportamento raramente utilizzano terminologie riconducibili a tratti (Rotenberg, 1982). Similmente, rispetto a bambini ansiosi più piccoli, i bambini ansiosi più grandi (gli adolescenti) mostrano un maggior 34 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva numero di tratti ansiosi e un maggiore livello di preoccupazione (Strauss et al., 1988). Infine, l’insorgenza precoce di determinate paure e fobie suggerisce forse la presenza di un substrato cognitivo più debole rispetto ai sintomi d’ansia che sorgono più avanti (per es. la preoccupazione) e questo ha delle implicazioni per l’efficacia degli approcci cognitivi? La ricerca sui cambiamenti evolutivi nella manifestazione dei sintomi deve ancora chiarire quali potrebbero essere le applicazioni cliniche, ma anche in questo settore ci sono segnali di progresso. Per esempio, l’esperienza clinica e la ricerca empirica mettono sempre in dubbio che si possa definire la depressione in modo simile nei bambini e negli adulti (Garber, 2000). Il progresso verso una dell’applicazione del trattamento attenta agli aspetti evolutivi è stato molto lento. Una terza componente del modello evolutivo cerca di posizionare il bambino all’interno del proprio contesto sociale e di esaminare come i molteplici ambienti in cui il bambino è coinvolto (famiglia, scuola, quartiere e sottocultura locale) influenzano le emozioni, i pensieri e i comportamenti. Questo è in contrasto con il focus più “insulare” o individuale della CBT. Nel contesto clinico, tenere in considerazione il contesto sociale del bambino, potrebbe aiutare a spiegare perché le pensieri e i comportamenti sono resistenti al cambiamento nonostante l’applicazione di procedure cliniche piuttosto consistenti. Data l’importanza del contesto sociale, soprattutto familiare, nel lavoro con i bambini, questo argomento viene ulteriormente sviluppato in una sezione seguente. Una quarta componente del modello evolutivo enfatizza la necessità di considerare la continuità fra il comportamento normale e anormale piuttosto che dare per scontata una distinzione netta fra questi due aspetti. La comprensione della variabilità insita nella normalità potrebbe aiutare a spiegare il comportamento anormale e viceversa (Cicchetti e Cohen, 1995). È ormai ben noto che i “sintomi” centrali dei disturbi d’ansia, fra cui paure e fobie, l’ansia da separazione il comportamento ossessivo-compulsivo, mostrano tutti degli andamenti fortemente dipendenti dall’età; inoltre, l’influenza dell’età varia per ogni comportamento (Bolton, 1996; Evans et al., 1997; Garber, 2000; Rapee, 2001).Pertanto, la paura dei cani potrebbe essere considerata normale nella prima infanzia, ma la stessa paura (e il relativo comportamento di evitamento) potrebbero avere un significato clinico nella tarda infanzia o nell’adolescenza. L’ipotesi evolutiva è che i meccanismi implicati potrebbero essere similari e la paura normativa nell’infanzia potrebbe essere collegata a quella non normativa nella tarda infanzia. Sorprendentemente, a oggi, tuttavia, pochi studi hanno direttamente sottoposto a verifica questa ipotesi. Come viene integrato l’approccio evolutivo nella pratica e nella ricerca attuale sulla CBT? Il modello “non evolutivo” alla base della CBT è stato ampiamente descritto. Pertanto, non c’è nulla nella teoria (così come è definita nella sue parti generali) che lascia prevedere che i bambini piccoli sarebbero meno responsivi alla CBT rispetto ai bambini più grandi o, più in generale, come la variabilità nella risposta al trattamento 35 Thomas O’Connor e Cathy Creswell potrebbe essere espressione del contesto o della fase evolutiva del bambino. Inoltre, il focus è sempre stato tradizionalmente sul processo di cambiamento dei pensieri e dei comportamenti nel “qui-e-ora” e meno sulla comprensione delle loro origini (anche se una possibile eccezione a questo potrebbe essere il lavoro più recente basato sugli schemi in pazienti che hanno problematiche complesse). Malgrado la mancanza di enfasi sull’aspetto evolutivo nella CBT, non può sfuggire all’attenzione del clinico che lo sviluppo del bambino è rilevante ai fini del trattamento. Questa impressione clinica è rinforzata da una serie di recenti articoli teorici e di capitoli di testi che discutono le problematiche evolutive nella CBT. Tuttavia, gli scritti su questo argomento, di solito, fanno ricorso a concetti vaghi sullo sviluppo che non indicano particolari meccanismi o non portano con sé alcuna applicazione clinica particolare. Come risultato, l’aspetto evolutivo nell’applicazione della CBT o nella comprensione della relativa efficacia resta poco chiaro; ossia, mentre l’accordo sulla necessità di un modello evolutivo per la CBT è ampio, non c’è consenso su quale sia l’aspetto evolutivo critico e su come dovrebbe essere modificata, di conseguenza, la pratica clinica. Il problema dell’età rappresenta bene come rimanga ambiguo, nella CBT, il ruolo dello sviluppo cognitivo. Relativamente alla pratica clinica, sono state incoraggiate alcune considerazioni sull’età e sembra esserci un accordo generale sul fatto che i bambini più grandi potrebbero rispondere meglio ad approcci cognitivi, mentre i bambini più piccoli potrebbero richiedere tecniche più comportamentali. Tuttavia, a tutt’oggi non esiste una formulazione chiara del perché l’età del bambino dovrebbe moderare la risposta al trattamento o modellare l’applicazione dell’intervento stesso. Questa incertezza concettuale si riflette nei risultati empirici. Una meta-analisi sulla risposta al trattamento suggerisce che l’età potrebbe essere un importante predittore, con effetti più grandi per la tarda e la prima adolescenza rispetto alla pre-adolescenza (Durlak et al., 1991).In contrasto, studi più recenti hanno riferito che un’età più bassa (per es. pre-adolescenti versus adolescenti) era predittiva di una risposta più positiva al trattamento con una componente cognitiva (per es. Southam-Gerow et al., 2001). In questo caso, l’età più elevata potrebbe essere associata a risultati meno positivi perché le distorsioni cognitive potrebbero essere più radicate e più difficili da modificare (anche se gli effetti dell’età responsabili della durata e della gravità del disturbo non vengono spesso riferiti; vedere anche Cowen e Durlak, 2000); altri studi ancora non hanno riscontrato effetti dell’età sugli esiti del trattamento. In breve, il ruolo dell’età nella risposta all’intervento, non è consolidato e potrebbe differire in diversi disturbi dell’infanzia (Hudson et al., 2002). La ragione per cui l’età non fa progredire la ricerca in nessuna direzione sostanziale è che essa è solo rappresentativa di una serie di processi evolutivi, di cui solamente alcuni potrebbero essere rilevanti in una terapia cognitiva. Dobbiamo chiederci cosa nell’età potrebbe spiegare la variabilità nella risposta al trattamento. Inoltre, un focus solo sull’età oscura le differenze individuali nelle competenze socio-cognitive che potrebbero non essere così dipendenti da questo fattore, argomento discusso in seguito in maggiore dettaglio. Di conseguenza, non dovremmo sorprenderci di trovare che l’età è al massimo un predittore non sempre costante della risposta al trattamento, e non dovremmo nemmeno investire troppo nei risultati che dimostrano che c’è (o non c’è) un collegamento fra l’età e la risposta al trattamento. Cosa importante, i risultati ambigui 36 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva sull’età come predittore della risposta all’intervento non significano che non ci possano essere importanti vincoli evolutivi per la CBT, ma semplicemente che l’età non è un indice sensibile di quali siano questi fattori mediatori. La parte restante del capitolo esaminerà le ipotesi alternative all’età che potrebbero andare a costruire il modello evolutivo che spiega i meccanismi del trattamento e la variabilità nella risposta. La ricerca clinico-evolutiva rilevante per la CBT con i bambini: modelli e paradigmi Uno dei pochi elementi costanti, nei tentativi esistenti di formulare un approccio evolutivo alla CBT, è quello di fare ricorso a un modello normativo generale dello sviluppo cognitivo che possa spiegare la variabilità in funzione dell’età nell’applicazione e nella risposta al trattamento, come per esempio il modello stadiale piagetiano. Certamente, l’affidamento al modello piagetiano, in questo ambito, assume tutte le caratteristiche di un pensiero automatico: indiretto, pervasivo, resistente al cambiamento o al dubbio e, cosa più importante, privo di qualunque prova a proprio sostegno. Infatti, nella CBT, il numero di ricerche o di spiegazioni della sintomatologia che fanno ricorso al modello stadiale piagetiano, sono in numero decisamente inferiore a ciò che ci si aspetterebbe per una teoria così popolare. Numerose sono le ragioni che hanno portato a considerare il modello stadiale un approccio inadeguato, fra cui la priorità che esso assegna alle differenze normative nello sviluppo rispetto alle differenze individuali e al focus sui processi cognitivi “centrali” rispetto alla considerazione della variabilità intraindividuale e della natura contestuale dei pensieri dei bambini. Questo argomento generale è discusso in altri capitoli di questo testo (vedere i Capitoli 2 e 8) e quindi non sarà ulteriormente discusso in questa sede. Se i modelli evolutivi generali dello sviluppo cognitivo sono limitati nell’applicazione al contesto clinico, quali approcci alternativi esistono che hanno una maggiore probabilità di essere significativi? Prendiamo in considerazione i modelli e i paradigmi socio-cognitivi alternativi che sono stati ampiamente utilizzati nella ricerca evolutiva e che potrebbero essere trasferiti al setting clinico. Con l’espressione “socio-cognitivi” indichiamo i processi cognitivi relativi al mondo sociale del bambino. Questa terminologia generale include una serie di processi specifici, fra i quali la comprensione emotiva, l’empatia, l’attribuzione sociale e le rappresentazioni di attaccamento. I modelli dell’attribuzione sociale e del social information processing Una linea di ricerca molto utile ed estremamente produttiva sul piano clinico analizza l’elaborazione delle informazioni sociali nei bambini. Esistono numerosi esempi di ricerche di questo tipo, fra cui quella di Dodge e colleghi (Crick e Dodge, 1994) e altri (Garber e Flynn, 2001). Le componenti del modello di social information proces37 Thomas O’Connor e Cathy Creswell sing sviluppato da Dodge sono relative alla decodifica e all’interpretazione dei segnali sociali (per es. perché quel bambino è venuto a sbattere contro di me?), alla definizione di obiettivi per il proprio comportamento (per es. cosa desidero fare adesso – dato che penso che l’altro bambino sia venuto a sbattere contro di me deliberatamente e a scopo provocatorio?), alla generazione di potenziali soluzioni e alla valutazione dei relativi effetti (per es. cosa succederebbe se lo colpissi a mia volta?) (Dodge, 1993). Numerosi gruppi di ricerca hanno fornito supporto al modello di social information processing attraverso numerosi campioni clinici, anche se il modello sembra essere maggiormente applicabile a popolazioni aggressive o con disturbo della condotta (Dodge e Frame, 1982). Questa linea di ricerca è piuttosto vantaggiosa per il contesto clinico sotto numerosi aspetti. Primo, le metodologie utilizzate per individuare i pensieri distorti nei bambini sono facilmente importabili nel setting clinico. Pertanto, queste tecniche utilizzate nelle ricerche su citate potrebbero essere integrate all’interno di un processo diagnostico clinico standardizzato. Secondo, ci sono attualmente programmi di intervento e prevenzione sviluppati alla luce del modello di social information processing. Uno degli esempi più noti è il programma di prevenzione Fast Track (Conduct Problems Prevention Research Group, 1992; Gruppo di Ricerca sulla Prevenzione dei Disturbi della Condotta). Terzo, non per caso, all’interno di questa prospettiva, l’individuazione degli obiettivi di trattamento e delle strategie per raggiungerli è del tutto coerente con il modello della CBT. Certamente, questo approccio potrebbe essere considerato una particolare forma di CBT per i bambini. La teoria dell’attaccamento La teoria dell’attaccamento (Ainsworth et al., 1978; Bowlby, 1982) è stata sviluppata per spiegare come (e perché) le esperienze di un bambino con i propri caregiver modellino il successivo sviluppo sociale e di personalità e i pattern intergenerazionali di accudimento. Una componente chiave della teoria si occupa di come il bambino elabora cognitivamente le esperienze e come queste si stratifichino nel tempo, quelli che Bowlby (1982) definiva “modelli operativi interni”. Un modello operativo interno è una rappresentazione o uno schema cognitivo socio-emotivo che il bambino sviluppa in risposta alle esperienze di vita reale con i propri caregiver. Queste esperienze vengono interpretate alla luce di, filtrate da e organizzate in uno schema cognitivo che in seguito modella il modo in cui il bambino vede se stesso e gli altri. L’importanza di tutto ciò per la CBT sta nel fatto che, all’interno della teoria dell’attaccamento, c’è un modello esplicativo per lo sviluppo dei modelli rappresentazionali cognitivi distorti delle relazioni d’attaccamento, per il loro consolidamento e per il ruolo che hanno nella vulnerabilità alla psicopatologia. Fatto di ulteriore rilevanza è che i metodi utilizzati nella ricerca sull’attaccamento possono essere adattati al contesto clinico, anche se in alcuni casi questo potrebbe richiedere un training considerevole. La valutazione degli stili di attaccamento nei bambini molto piccoli e in quelli di età pre-scolare si basa su un metodo di misurazione costruita in laboratorio, volto ad analizzare le interazioni genitore-bambino in contesti mediamente e fortemente stressanti, questo è la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978). La valutazione degli stili 38 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva di attaccamento nei bambini con in età scolare si basa per lo più sull’utilizzo di storie proiettive e di giochi con bambole e/o pupazzi che riescono a creare un varco nelle rappresentazioni che i bambini hanno del sé e dei caregiver (Bretherton e Mulholland, 1999; Green et al., 2000). In queste valutazioni, si mostrano al bambino delle immagini con pupazzi e si racconta l’inizio di una storia con una tematica relativa all’attaccamento (per es. il bambino si fa male) e si chiede al bambino di completare la storia; si chiedono informazioni sui sentimenti del bambino e dei genitori e su ciò che succederà in seguito. Il contenuto della storia del bambino viene codificato sulla base delle seguenti tematiche: sicurezza (per es. il bambino racconta di cercare i genitori e di trarre da loro il conforto e di ritornare in seguito al gioco), evitamento (per es. il bambino non nomina proprio i genitori nella propria storia e sembra confortarsi da sé) e aggressività, controllo e caos. In alcuni casi, vengono codificate anche le caratteristiche della narrazione per individuare una storia con un chiaro inizio, una parte centrale e una fine (risoluzione) versus uno stile narrativo incoerente o confuso in cui la “l’evoluzione della storia” è difficile da seguire. Sono stati ideati numerosi protocolli di valutazione e di sistemi di codifica (Bretherton et al., 1990; Green et al., 2000). Diverse linee di ricerca mostrano come le rappresentazioni sull’attaccamento modellino le interpretazioni e le spiegazioni che i bambini assegnano alle esperienze sociali ed emotive. In uno studio, alcuni bambini di 3 anni, che si riteneva avessero un attaccamento insicuro (ossia non ottimale), mostravano una maggiore tendenza a ricordare le emozioni negative in un test di richiamo, mentre i bambini sicuri mostravano un maggiore ricordo di emozioni positive relative allo stesso stimolo (Belsky et al., 1996). La spiegazione potrebbe essere che i bambini insicuri presentano una tendenza distorta a fare attenzione e a focalizzarsi sulle esperienze negative; forse perché questo è più coerente con la propria esperienza o perché per loro questo schema, utilizzato nel passato, si è rivelato particolarmente adattivo. Un altro studio su bambini dai 2 ai 6 anni e mezzo, ha riscontrato che l’attaccamento insicuro era associato a una minore comprensione delle emozioni negative; rispetto ai bambini con attaccamento sicuro; i bambini con attaccamento insicuro avevano maggiori difficoltà a spiegare o a trovare un senso alle emozioni negative, in indagini sulla comprensione delle emozioni negli altri condotte in laboratorio e in contesti naturali (Laible e Thompson, 1998). Questi due studi hanno dimostrato come, fin da un’età precoce, le rappresentazioni dell’attaccamento influenzano il modo in cui i bambini elaborano le esperienze emotive. Se queste “distorsioni” cognitive sull’attaccamento hanno o meno una possibilità di inserimento diretto nel contesto clinico è un altro problema. Sarebbe prematuro e scorretto considerare i pensieri dei bambini con attaccamento insicuro come delle distorsioni; ossia, i pensieri dei bambini insicuri che vedono i propri genitori come non disponibili o incapaci di offrire un conforto e di supportarli con forza quando necessario, potrebbero essere accurati. Il concetto di “distorsione” potrebbe invece essere più pertinente alle situazioni in cui questi modelli o aspettative vengono riportati, o trasferiti ad altre relazioni, con i pari, gli insegnanti e altri ancora. Pertanto, il trasferimento ad altre relazioni di pensieri e di aspettative relative a genitori non disponibili/insensibili, è probabilmente una delle ragioni per cui i bambini con attaccamento insicuro mostrano maggiori problematiche nelle relazioni sociali e con i pari e sono a rischio di problemi emotivi e comportamentali. Ciò non di meno, nonostante l’esistenza di 39 Thomas O’Connor e Cathy Creswell distorsioni cognitive, non è consigliabile, e nei fatti sarebbe addirittura clinicamente inutile se non pericoloso, cercare di alterare o di mettere in discussione i pensieri di un bambino insicuro, sia che si tratti di un adolescente o di un bambino piccolo (ossia non c’è motivo di mettere in dubbio il modello genitoriale insensibile/psicologicamente non disponibile se, in realtà, questa è l’esperienza del bambino).Piuttosto, l’indicazione clinica è quella di aiutare il genitore a sintonizzarsi con maggiore sensibilità con il bambino e a rispondere alle sue necessità di attaccamento. In seguito a una maggiore sensibilità dei genitori, ci si aspetta che i pensieri del bambino sul genitore cambino nella direzione di una maggiore disponibilità. In un modello sull’attaccamento, si potrebbe ritenere che il disturbo clinico del bambino includa anche una forte componente cognitiva, ma non sono i pensieri del bambino il target diretto dell’intervento. Così la teoria dell’attaccamento fornisce un insieme di misure e di concetti per comprendere i processi cognitivi associati all’adattamento e ai problemi relazionali, ma propone strategie di trattamento opposte (l’eccezione è rappresentata forse da quei programmi di CBT che incorporano una componente familiare che si occupa dei comportamenti genitoriali verso il bambino).Nei fatti, si deve arrivare all’età adulta perché il focus di un trattamento individuale, all’interno di un modello sull’attaccamento, siano i pensieri relativi all’attaccamento in quanto tali. La comprensione che i bambini hanno della mente Nella ricerca psicologica sono stati generati numerosi modelli e paradigmi cognitivi per studiare come i bambini piccoli comprendono la mente – la propria e quella altrui (Flavell, 1999). Il focus di queste ricerche è l’età prescolare, dai 2 ai 6 anni circa. Inoltre numerosi sono i concetti ideati e operazionalizzati all’interno di questa cornice concettuale e di questa finestra di età: teoria della mente, assumere la prospettiva concettuale e interpersonale dell’altro, empatia e comprensione delle emozioni. Almeno agli inizi, la ricerca derivante da questa tradizione ha avuto un’importanza sostanziale nello sviluppo di modelli di CBT. Questo perché la maggior parte di queste ricerche e delle teorie soggiacenti cercano di identificare i processi rudimentali con cui i bambini arrivano a comprendere i collegamenti fra i pensieri, i sentimenti e il comportamento. Inoltre, come nel caso dei modelli dell’attaccamento e del social information processing, le procedure utilizzate nella ricerca possono essere adattate al contesto clinico, anche se la maggior parte delle misure identificate sono state sviluppate e validate su un’età che di solito non è presa in considerazione per la CBT (ossia sotto i 6 anni). Una domanda propria di questa linea di ricerca è se ci sia o meno un legame fra l’emergere delle competenze sociali chiave nei bambini piccoli (per es. l’emergere della comprensione emotiva), focus della ricerca, e le distorsioni dei pensieri e delle emozioni, focus della clinica. L’insorgenza di pensieri sociali nella prima infanzia e delle differenze individuali nei pensieri distorti (manifesti solo dopo che sono on-line) sembrerebbero essere scollegate su un piano evolutivo. Pertanto, i risultati di indagini formali sulla teoria della mente potrebbero essere irrilevanti al di fuori di un range di età 3-5 anni, dal momento che i bambini in seguito raggiungono normalmente questa abilità (a eccezione di quelli affetti da autismo e da quelli con ritardi cognitivi e del linguaggio, che 40 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva la acquisiscono più in là nello sviluppo). Così, per esempio, nelle ricerche formali che verificano la presenza di una teoria della mente, i bambini con disturbo della condotta sembrano non mostrare deficit (Happé e Frith, 1996). È necessario tenere sotto osservazione l’empatia e alcuni costrutti correlati alla teoria della mente, fino alla finestra temporale in cui i bambini vengono segnalati all’attenzione dei clinici. Il progresso in questo settore è lento, anche se gli sforzi per sviluppare tali misure per la tarda infanzia e l’adolescenza si sono intensificati negli ultimi anni (Happé, 1994; Bosacki e Astington, 1999). Per adesso, la ricerca nel campo della comprensione delle emozioni, della mentalizzazione e di concetti simili, nella tradizione della psicologia evolutiva, deve ancora essere collegata con le domande e i casi che all’attenzione dei ricercatori clinici. Così, per esempio, non sappiamo ancora se le differenze individuali nella risposta dei bambini al trattamento siano associabili a differenze individuali nei processi superiori di comprensione delle emozioni e di mentalizzazione. Ci sono chiaramente prospettive per una sintesi maggiore e questa è una linea di ricerca ancora più necessaria. L’elenco di questi tre modelli e paradigmi per lo studio delle cognizioni sociali nei bambini non è esaustivo. Piuttosto, questi sono stati scelti perché sottoposti a ricerche estese, perché hanno un valore pratico e possono essere tradotti all’interno di un processo diagnostico clinico e perché, rispetto ai modelli tradizionali dello sviluppo cognitivo, potrebbero fare più luce su come lavora la CBT. La ricerca clinico-evolutiva rilevante per la CBT con i bambini: componenti e meccanismi Mentre nella sezione precedente ci siamo avvicinati alla ricerca socio-cognitiva nel modo in cui gli studiosi dello sviluppo l’hanno concepita, nella sezione seguente esamineremo la ricerca basata sui processi cognitivi che si è sviluppata specificamente nella cornice teorica della CBT. Da notare che fra le idee e le metodologie di questi due c’è soltanto una lieve sovrapposizione. Le componenti e i meccanismi chiave della CBT La CBT è stata variamente interpretata e applicata nella pratica clinica. Dobson (1988) ha identificato 22 differenti tipologie di terapia cognitiva e comportamentale con principi logici e costrutti teorici differenti. Pertanto, prima di delineare i legami fra la letteratura di ricerca e la pratica clinica, è necessario definire quelle che sono alcune delle caratteristiche chiave della CBT e sono diversi. Per esempio, Beck et al. (1979) enfatizzano come gli assunti cognitivi e le strategie di elaborazione dell’informazione diano luogo a visioni caratteristiche (distorte) del sé, del mondo e del futuro. Di particolare interesse sono tre dimensioni della cognizione: schemi/assunti cognitivi disfunzionali (atteggiamenti fondamentali costruiti sulla base delle esperienze precedenti), pensieri automatici (brevi dialoghi interiori che consentono di valutare e interpretare le esperienze presenti e di fare previsioni sugli eventi futuri) e distor41 Thomas O’Connor e Cathy Creswell sioni cognitive o distorsioni nell’elaborazione delle informazioni (per es. il pensiero dicotomico, l’iper-generalizzazione, l’astrazione selettiva, ignorare gli eventi positivi e il pensiero catastrofico). Secondo questo modello, i principali effetti terapeutici derivano dall’identificazione, dall’analisi e dalla correzione delle distorsioni e degli assunti cognitivi disfunzionali. Ci sono sempre più ricerche che analizzano queste componenti del modello della CBT per i bambini. Di seguito passiamo brevemente in rassegna i risultati di alcune di queste. Numerosi studi hanno identificato la presenza di pensieri automatici in bambini che soffrono di ansia e depressione (Brown et al., 1986; Francis, 1988; Bogles e Zigterman, 2000). Tuttavia, esistono alcune prove del fatto che il significato delle auto-affermazioni e attribuzioni dei bambini, due delle potenziali forme del pensiero automatico, potrebbero variare con lo sviluppo. Nei bambini più piccoli, la mancanza di competenza, in spiegazione di una scarsa performance, potrebbe non riflettere una caratteristica stabile del sé – come sarebbe per esempio negli adulti – perché la competenza è considerata qualcosa che aumenta con un impegno maggiore (Nicholls, 1978). Similmente, nei bambini più piccoli, la fortuna non rappresenta un’attribuzione esterna, ma piuttosto qualcosa di cui ci si può prendere il merito (Weisz, 1981). I cambiamenti evolutivi nel significato delle auto-affermazioni dei bambini potrebbero spiegare perché Roles et al. (1980) hanno riscontrato che le attribuzioni sono meno significativamente correlate con i sentimenti di disperazione nei bambini piccoli (dai 3 ai 5 anni) rispetto ai bambini più grandi (dai 9 agli 11 anni). Le distorsioni cognitive e di elaborazione sono state investigate con maggiore dettaglio nei bambini con disturbi clinici o considerati a rischio di sviluppare simili disturbi, più spesso ansia e depressione (Vasey et al., 1996; Garber, 2000). Per esempio, in bambini e adolescenti ansiosi sono stati riscontrate distorsioni attentive nei confronti delle minacce, sulla base dello Dob Probe Task o dello Stroop Test e una maggiore attenzione a indizi di minaccia, ma non è ancora chiaro se ci siano dei cambiamenti evolutivi nell’attenzione visiva verso la minaccia, almeno nei range di età studiati fino a oggi (Taghavi et al., 1999). Un numero ancora maggiore di studi hanno preso in esame l’elaborazione delle informazioni. Numerose prove indicano che i bambini ansiosi interpretano le informazioni ambigue come minacciose e sottostimano la propria capacità di fare fronte alla minaccia (Kendall, 1985). All’interno di questo paradigma, si presentano ai bambini una serie di scenette in cui l’azione non è chiara; è necessario fare un’interpretazione per riuscire a rispondere alle domande che seguono. Per esempio, si dice al bambino: “Vedi un gruppo di bambini di un’altra classe che giocano a un gioco molto divertente. Quando ti avvicini per unirti a loro essi ridono”. Poi si chiede al bambino di riferire ciò che sta succedendo e gli si chiede di dire cosa avrebbe fatto (da Barrett et al., 1996). Tipicamente, si presentano anche una serie di scelte obbligate fra cui il bambino deve selezionare l’interpretazione che egli sceglierebbe come spiegazione di una situazione minacciosa, di una non minacciosa e di una neutrale. Gli studi che utilizzano questa e altre metodologie correlate, mostrano che i bambini con disturbi d’ansia o i partecipanti alla ricerca che non appartengono a un campione clinico, ma che sono fortemente ansiosi, hanno maggiori probabilità di dare interpretazioni di minaccia rispetto ai propri coetanei non ansiosi. Tuttavia, è meno 42 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva chiaro se la maggiore tendenza a dare interpretazioni di minaccia in queste scenette sia specifica dell’ansia o sia un segno generale della presenza di un disturbo clinico (Barrett et al., 1996; Bogels e Zigterman, 2000). Sono stati riportati risultati simili utilizzando scenette videoregistrate di interazioni fra coetanei (Bell-Dolan, 1995). Come nelle scenette delle storie, i bambini ansiosi mostravano una tendenza maggiore a interpretare intenzioni non ostili, come ostili e a proporre risposte più disadattive, facendo in particolare un maggiore ricorso all’autorità. Relativamente alla minaccia fisica, Prins (1986), in compiti che elicitavano ansia, ha riscontrato che bambini molto ansiosi riferivano auto-affermazioni che indicavano la presenza della preoccupazione di farsi male. Studi recenti hanno anche evidenziato un tendenza nei bambini ansiosi ad arrivare troppo in fretta a conclusioni minacciose (Muris et al., 2000), a sottostimare le competenze personali di fare fronte alla situazione (Bogels e Zigterman, 2000) e a sperimentare emozioni e pensieri più negativi in risposta alle scenette (Muris et al., 2000). Una metodologia alternativa per valutare le distorsioni interpretative, utilizza un parole omofone che hanno due significati differenti: uno minaccioso e uno non. Gli studi con questa metodologia suggeriscono che i bambini ansiosi danno interpretazioni minacciose a stimoli ambigui, molto più spesso rispetto ai bambini non ansiosi (Taghavi et al., 2000). Questo risultato rimaneva significativo anche dopo aver preso in considerazione la presenza di depressione, e questo è indice di una certa specificità. Inoltre, numerosi studi collegano lo stile meta-cognitivo alla depressione nei bambini. Gli stili che si ritengono associati al mantenimento e alla gravità dei sintomi depressivi negli adulti includono la ruminazione, il problem-solving e la distrazione (Nolen-Hoeksema, 1991; Nolen-Hoeksema et al., 1992). Pertanto, mentre la ruminazione sull’umore depresso prolunga e peggiora la depressione, il coinvolgimento nel problem-solving e nella distrazione sono associati con disturbi meno gravi e meno durevoli nel tempo. Abela e colleghi (Abela et al., 2002) hanno indagato fino a che punto questi stili cognitivi siano associati con la persistenza di sintomi depressivi nei bambini. Hanno riscontrato che sia per i bambini della terza classe (età media 8 anni e 9 mesi) sia per quelli della settima (età media 12 anni e 10 mesi) la presenza di pensiero ruminante, valutata sulla base di un questionario di self-report, prevedeva un self-report di sintomatologia depressiva per un periodo di 6 settimane, dopo aver controllato la stabilità dei sintomi depressivi. Non sono stati riscontrati effetti simili né per self-report di problem-solving o di distrazione. I risultati mostrano con decisione come alcuni stili meta-cognitivi osservabili negli adulti depressi, lo sono anche nella media infanzia e, come per gli adulti e gli adolescenti, sono in grado di prevedere la persistenza e il peggioramento della depressione. Ci sono molte altre caratteristiche della CBT che sono una parte egualmente importante del processo terapeutico, fra cui l’enfasi sul “qui-e-ora”, la collaborazione fra il paziente e il terapeuta e il focus empirico (Beck et al., 1979). Come queste componenti possano essere viste all’interno del contesto di un modello evolutivo e quali implicazioni queste idee abbiano per l’applicazione della CBT nei pazienti giovani, è un aspetto che richiede ulteriore attenzione. In sintesi, ciò che sappiamo ora è che molti dei processi cognitivi ritenuti alla base di disturbi clinici e del loro trattamento negli adulti sono stati riscontrati anche nei 43 Thomas O’Connor e Cathy Creswell bambini e negli adolescenti. Certamente, se paragonati con il numero sostanziale di studi che mostrano simili difetti cognitivi nei bambini, negli adolescenti e negli adulti, è sorprendente riscontrare quanto siano poco convincenti le dimostrazioni di differenze evolutive. Ciò non di meno, ci sono alcuni limiti importanti nella ricerca esistente che devono essere superati. Primo, gran parte della ricerca è cross-sezionale. Perciò non sappiamo se i processi cognitivi identificati in una popolazione infantile siano stabili e fungano costantemente da mediatori della sintomatologia. Secondo, la maggior parte degli studi si basano sul confronto di campioni numericamente esigui. Terzo, decisamente poche ricerche sono state progettate con una consistenza tale da poter verificare ipotesi evolutive; a causa di un campione con un limitato range di età, di un numero esiguo di bambini di età diverse o a causa del non aver incluso marker evolutivi dello sviluppo cognitivo (ossia quasi tutti gli studi considerano l’età il marker evolutivo e non esaminano quali caratteristiche dello sviluppo cognitivo associate all’età potrebbero rendere conto dei cambiamenti). Quarto, la gran parte degli studi su menzionati non si basava su un disegno di intervento e quindi sono in grado unicamente di stabilire un’associazione fra i processi cognitivi e la sintomatologia clinica. Inoltre, quegli studi sul trattamento che sono stati condotti, di solito non includevano i giudizi cognitivi i per gli studi osservazionali su citati. Pertanto, anche nell’area della ricerca clinica, c’è una sorta di divisione fra la ricerca sui processi cognitivi associati a un disturbo e la ricerca sull’efficacia del trattamento. A questo proposito, è interessante notare che ci sono prove che nei bambini i processi cognitivi simili a quelli su menzionati non si modificano necessariamente in risposta al trattamento. Per esempio, Silverman et al. (1990) hanno valutato gli errori cognitivi negativi dei bambini prima e dopo tre differenti interventi per le fobie infantili. Hanno riscontrato una diminuzione degli errori cognitivi in tutte e tre le condizioni, anche se solo un trattamento affrontava direttamente le componenti cognitive dell’ansia. Similmente, Barrett et al. (1996) hanno riscontrato che il cambiamento cognitivo si osservava quando la CBT veniva inclusa come parte di un modello di terapia familiare; i bambini sottoposti alla CBT individuale non mostravano un cambiamento simile. Questo lascia aperta la possibilità che la terapia familiare e non la CBT in quanto tale sia stata importante per il cambiamento dei pensieri dei bambini. Il contesto di trattamento Fino a che punto sia possibile incorporare con successo la prospettiva evolutiva nella CBT con i bambini, potrebbe avere meno a che fare con l’applicazione effettiva del trattamento e di più con il contesto in cui questo viene erogato. Questa è l’implicazione dei risultati ottenuti in numerosi gruppi di ricerche cliniche in cui era stata sperimentata l’aggiunta do una componente familiare alla CBT con i bambini (vedere il Capitolo 7). L’annessione di una componente familiare nel trattamento discende dalla constatazione che determinati processi familiari si accompagnano all’ansia del bambino. Dadds e colleghi (Dadds e Barrett, 1996; Shortt et al., 2001) identificano uno di questi processi nell’accrescimento, da parte della famiglia, delle risposte di evitamento. Si suggerisce di includere la famiglia come parte del trattamento sulla base dei processi familiari che 44 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva potrebbero essere coinvolti nell’insorgenza e nel mantenimento dell’ansia del bambino e sulla convinzione che la famiglia sia un contesto centrale per lo sviluppo del bambino. L’ultima considerazione suggerirebbe che la componente familiare potrebbe rappresentare un aiuto clinicamente utile, anche quando dovesse risultare che la famiglia non mostra processi disfunzionali associati all’ansia del bambino; ossia, la famiglia verrebbe considerata una componente importante per il trattamento del bambino soltanto perché rappresenta un contesto così centrale nello sviluppo. Numerosi studi hanno mostrato che i bambini che ricevono un trattamento di CBT associato a una componente familiare rispondono più positivamente rispetto ai bambini trattati unicamente con la CBT. Uno dei risultati pi interessanti è stato quello che i bambini (-7-10 anni), ma non i giovani adolescenti (11-14 anni), avevano maggiori probabilità di trarre benefici dell’inclusione della componente di terapia familiare (Barrett et al., 1996). Ne consegue che la ricerca che tenta di identificare come l’aspetto evolutivo possa mediare la risposta al trattamento potrebbe avere la necessità di focalizzarsi sul contesto in cui il trattamento viene erogato, proprio come sul trattamento in sé. Il focus sul contesto familiare potrebbe anche generare importanti intuizioni sui meccanismi con i quali l’ansia può essere trasmessa dai genitori al bambino. I risultati delle ricerche suggeriscono che esistono numerosi processi distinti operanti nelle famiglie che potrebbero rendere conto della natura familiare dell’ansia (Last et al., 1987); fra cui l’osservazione e l’imitazione, il modelling, l’apprendimento indiretto o sentire altri che parlano di sé e gli atteggiamenti genitoriali (Parsons et al., 1982; Goodman et al., 1995; Garber e Flynn, 2001; Gerull et al., 2002). Consigli per migliorare l’integrazione della teoria, della ricerca e della pratica evolutiva Questa sezione ha come punto di partenza lo scarso allineamento fra la ricerca sui pensieri dei bambini e la pratica della CBT con i bambini. Questa è una conclusione inevitabile, evidente sotto forma più indiretta nelle pubblicazioni di questo settore e in maniera più diretta nelle discussioni con i colleghi clinici e gli studenti. Questa sezione ha lo scopo di prendere in considerazione come si potrebbe raggiungere un migliore allineamento fra la ricerca e la pratica. Metodologie e valore della ricerca Una delle ragioni alla base del debole legame fra prove empiriche e pratica clinica della CBT con i bambini, è la difficoltà di misurare i processi socio-cognitivi. Per esempio, un’importante lezione metodologica derivante dalla ricerca è quella che la capacità dei bambini di dimostrare le proprie competenze socio-cognitive è influenzata dalla tipologia della valutazione. Un buon esempio si può trarre dalla misurazione della comprensione che i bambini hanno delle emozioni miste. Comprendere le emozioni miste, ossia capire che un evento può provocare reazioni emotive positive 45 Thomas O’Connor e Cathy Creswell e negative, è una pietra miliare dello sviluppo della comprensione emotiva e delle cause delle emozioni nei bambini, che ha implicazioni più ampie per il loro sviluppo psicologico. Stabilire con precisione il momento in cui, nel corso dello sviluppo, si può affermare che i bambini comprendono che gli eventi possono provocare emozioni positive e negative, potrebbe sembrare un compito semplice. Tuttavia, la capacità dei bambini di nominare le emozioni miste in risposta a un particolare evento dipende da come viene presentato il compito. Questo è mostrato in uno studio su 50 bambini di 6 anni condotto da Brown e Dunn (1996). Essi hanno riscontrato che, se si diceva ai bambini che un personaggio della storia aveva un atteggiamento sia positivo sia negativo verso un particolare evento, la maggior parte di essi (42 su 50) era in grado di dare delle motivazioni per questi sentimenti misti; mentre, se non si diceva ai bambini come si sentiva il personaggio e si chiedeva invece loro di dire come poteva sentirsi il protagonista della storia, solo 16 facevano spontaneamente riferimento a sentimenti positivi e negativi allo stesso tempo. Un numero ancora più esiguo di bambini (11 su 50) erano stati in grado di fare spontaneamente un esempio personale di un evento che li aveva generato in loro sentimenti sia positivi sia negativi. Così, anche per la domanda “quando un bambino è in grado di comprendere le emozioni miste?”, dovremmo supporre che questo avvenga circa a 6 anni. Tuttavia, questo potrebbe essere legato al modo in cui operazionalizziamo la comprensione delle emozioni ambivalenti. Se invece si pone la domanda in quest’altro modo “quando la comprensione delle emozioni ambivalenti può essere inclusa nel contesto clinico?” allora la risposta non sarà 6 anni ma piuttosto un’età successiva, in cui i bambini riferiscono spontaneamente sentimenti ambigui relativi a eventi delle proprie vite (che potrebbe essere più vicina alle indicazioni di ricerca precedenti). Un’ulteriore potenziale limitazione dell’estensione delle attuali ricerche sui processi socio-cognitivi al contesto clinico è che molte valutazioni sperimentali hanno una valenza emotiva neutra (per es. come nel caso dei compiti piagetiani) o, se ci sono delle emozioni coinvolte, questo avviene all’interno di un contesto ipotetico, che non ha nessun legame con il bambino (per es. come nel caso dei compiti di comprensione emotiva in cui si chiede al bambino di prevedere l’emozione del protagonista di una vignetta). L’applicabilità al contesto clinico delle metodologie più comunemente utilizzate e dei relativi risultati viene molto probabilmente compromessa in seguito “all’impersonalità” della valutazione. Ci si aspetta che i processi cognitivi relativi a eventi neutrali o ipotetici possano non essere tradotti nella psicologia individuale dell’adulto o del bambino. Dopo tutto, per un pò di tempo è stato considerato che la vulnerabilità cognitiva alla depressione (per es. l’attribuzione di eventi negativi a caratteristiche interiori e stabili del sé) potrebbe non essere sempre attiva, ma emergere unicamente in risposta a eventi negativi o in situazioni di umore negativo (per es. Teasdale, 1988). Prove recenti suggeriscono che si potrebbe accedere più facilmente ai pensieri dei bambini, fra cui alcuni ascrivibili a possibili disturbi clinici, in una situazione di umore negativo. Per esempio, nel proprio studio condotto su bambini di 5 anni, Murray e colleghi (Murray et al., 2001) hanno trovato che i pensieri negativi (espressioni di disperazione o di inutilità del sé) venivano si manifestavano spontaneamente quando si induceva un umore negativo; in questo caso attraverso un gioco a carte con un amico in cui la vittoria o la perdita venivano manipolate sperimentalmente. I pensieri negativi non erano presenti 46 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva quando il bambino vinceva, ma era possibile osservarli quando perdeva. Inoltre, risultava evidente un’associazione con l’esposizione a pensieri negativi e alla depressione materna solo quando in cui il bambino stava perdendo al gioco. I risultati di Murray et al. (2001) sono significativi nel dimostrare che i pensieri negativi (depressogeni) espressi spontaneamente vengono osservati in bambini già dall’età di 5 anni, che questi pensieri si osservano più comunemente fra coloro a rischio di depressione e che vengono elicitati in contesti di umore negativo e non positivo (non negativo). Un terzo esempio riguarda la distinzione fra la competenza e la performance nella valutazione delle abilità socio-cognitive e il ruolo del contesto. Alcuni buoni esempi sono forniti dal fatto che i bambini mostrano un’ampia variabilità intra-individuale nell’esibizione della propria complessità cognitiva, come osservabile nelle discussioni con i genitori, i coetanei e i fratelli (Brown et al., 1996; vedere anche Cole et al., 1997), proprio come i ragazzi della prima adolescenza nell’uso che fanno della comprensione emotiva e della capacità di mentalizzazione quando parlano di relazioni positive versus quelle conflittuali (ÒConnor e Hirsch, 1999). Ne consegue che, affinché la ricerca sui processi socio-cognitivi possa essere più utile su un piano clinico, deve essere posta un’enfasi maggiore sul contesto sociale, relazionale o affettivo in cui queste vengono condotte. Il divario generale fra la teoria evolutiva e la pratica clinica non solo non è necessario ma è anche è contro-intuitivo. Questo stato di cose si spiega probabilmente attraverso una serie di altri fattori che non hanno a che fare con il modo in cui viene condotta la ricerca. Per esempio, c’è una generale mancanza di influenza incrociata fra i risultati evolutivi e clinici nei giornali applicativi e di ricerca; i clinici tendono a non leggere i risultati delle ricerche e, dal loro lato, i ricercatori “puri” fanno fatica a spiegare il significato clinico dei propri risultati e a diffonderli al di fuori del contesto accademico. In ogni caso, sono necessari maggiori sforzi per porre rimedio a tutto ciò. Inoltre, includere una componente di teoria evolutiva nei corsi di addestramento alla CBT è un buon punto di partenza, proprio come includere una discussione concentrata sulla teoria evolutiva nei testi diretti ai professionisti e alla clinica applicata (come mostrato dal presente volume). Resta ancora da vedere i benefici che questi sforzi porteranno. La conoscenza della teoria evolutiva renderà più efficaci i terapeuti cognitivo comportamentali? La conoscenza della ricerca in ambito evolutivo permetterà ai clinici di identificare quegli individui che hanno maggiori probabilità di rispondere alla CBT? Forse. Al momento, l’argomentazione più forte a favore dell’adozione di una prospettiva evolutiva è unicamente la promessa di un trattamento più efficace. Implicazioni e raccomandazioni per la pratica clinica Trarre dalla ricerca delle conclusioni evolutive applicabili alla pratica clinica con i bambini è un compito, come già detto, tutt’altro che semplice. Ciò non di meno, questa sezione finale prende in considerazione alcune lezioni pratiche tratte dalla precedente discussione e dalle indicazioni su come la ricerca basata sulla clinica potrebbe giocare un ruolo particolarmente importante nel far progredire la teoria. 47 Thomas O’Connor e Cathy Creswell Diagnosi, trattamento e prevenzione Se esistessero dei pre-requisiti cognitivi all’efficacia della CBT, allora sarebbe possibile sviluppare una misura di screening per identificare quei bambini con maggiori probabilità di rispondere a questa forma di trattamento. Similmente, se fossero noti i fattori contestuali che ostacolano la CBT, allora sarebbe un lavoro ragionevolmente semplice distinguere quei bambini che più facilmente risponderebbero a un trattamento relativamente breve applicato all’interno di una cornice standard di CBT. Sfortunatamente, nonostante i molti anni di applicazione della CBT ai bambini, i progressi su questi due fronti sono stati scarsi. Di conseguenza, i suggerimenti per il contesto clinico sono necessariamente ipotetici. Ciò non di meno, delineiamo alcune ipotesi. Prendiamo come punto di partenza la necessità di accertarsi, il prima possibile nel corso del contatto clinico, della probabilità che il trattamento ha di riuscire o di fallire. Le tematiche gemelle sviluppate in questo capitolo prevedono di tenere in considerazione la complessità socio-cognitiva e il contesto del bambino. Non ci sono indicatori chiave del successo del trattamento. È importante tuttavia escludere alcuni fra i candidati più ovvi. Pertanto, potrebbe essere importante una valutazione delle competenze linguistiche e intellettive di base, utilizzando strumenti di valutazione cognitivi tradizionali, in particolare se si dubita dell’adeguatezza della CBT a causa dell’età del bambino. Tuttavia, i test standardizzati valutano unicamente le abilità intellettuali molto generali e potrebbero non essere sensibili al tipo di processi cognitivi utilizzati nella CBT. Fra le tipologie più specifiche di valutazione socio-cognitiva disponibili, quelle sviluppate da Dodge e colleghi citate precedentemente sembrano essere applicabili al contesto clinico. Le misure della comprensione delle emozioni in bambini più grandi, della capacità riflessiva e dell’abilità di utilizzare i propri e altrui stati mentali non sono state ancora completamente sviluppate, ma potrebbe essere utile esplorare questo campo. Per esempio ci sono prove, tratte da numerose fonti, che dimostrano come le misurazioni basate su interviste sembrano andare bene per i bambini dagli 8 anni in poi ed è possibile che questo sia il contesto ottimale per indagare questi processi sociocognitivi (per es. Target et al., 1998; Humfress et al., 2002). Inevitabilmente, tuttavia, in assenza di misure o di metodologie stabilite, i clinici si troveranno di fronte a dover sperimentare in prima persona come far venire fuori al meglio la capacità del bambino di collegare pensieri, sentimenti e comportamenti. I suggerimenti relativi alla valutazione del contesto del bambino sono più ovvi. Viene solitamente condotta una valutazione accurata della famiglia del bambino e delle relazioni familiari e l’importanza di questa valutazione è supportata dai risultati della ricerca. In aggiunta alla valutazione della sintomatologia nei genitori, che potrebbero entrambi alterare e complicare il trattamento, è utile effettuare un’analisi anche della qualità della relazione genitore-bambino. Fortunatamente, esistono linee guida specifiche sulle tipologie di relazione genitore-bambino che potrebbero suscitare interesse. I risultati che indicano come la famiglia accresca l’evitamento del bambino e pertanto contribuisca a mantenere e ad accentuare la sintomatologia sono veramente molti (Barrett et al., 1996; Dadds e Barrett, 1996; Hudson e Rapee, 2001); ci sono, inoltre, una serie di altre dimensioni relative alla relazione genitore-bambino, predominanti nella ricerca, e che è utile incorporare in un processo di valutazione clinica della relazione 48 La terapia cognitivo comportamentale in una prospettiva evolutiva stessa, fra cui il calore e il supporto forniti, il conflitto, il monitoraggio/controllo e l’autonomia psicologica (vedere ÒConnor, 2002). Per quanto teoriche possano essere le raccomandazioni specifiche per la diagnosi, quelle tratte dalla ricerca sul trattamento sono ancora meno chiare. A questo punto, forse la cosa più importante da sottolineare è che le i casi clinici vantano una storia illustre nella generazione di ipotesi e nel stimolare ricerche sistematiche cliniche e generali. I resoconti dettagliati di casi e la revisione di casi alla ricerca delle origini dei successi e del fallimenti raggiunti potrebbe essere un buon punto di partenza in questa direzione. Conclusioni In conclusione, presentiamo una serie di affermazioni riassuntive. Primo, a oggi l’allineamento fra la ricerca evolutiva “generale” nell’ambito dei processi socio-cognitivi e la ricerca clinica/applicata sulla CBT con i bambini è scarso. Inoltre, queste linee di indagine si basano su modelli e paradigmi ampiamente differenti. Secondo, e forse conseguente al del punto precedente, ci sono pochissime prove empiriche per un modello evolutivo alla base della CBT con i bambini. In base ai risultati pubblicati, i casi in cui l’aspetto evolutivo è stato inserito con successo all’interno di un approccio terapeutico, sono limitati all’attenzione al contesto in cui veniva erogata la CBT (propriamente, come parte di un modello familiare o meno) piuttosto che alla modifica della CBT di per sé. Sorprendentemente ci sono poche linee guida relative a quali cambiamenti sarebbero necessari per i bambini più piccoli versus quelli più grandi (vedere anche il Capitolo 8) o su quali valutazioni dovrebbero essere fatte per stabilire l’appropriatezza di tali modifiche. Terzo, la tesi alla base di questo capitolo sostiene che un approccio evolutivo alla diagnosi e all’intervento/prevenzione potrebbe essere d’aiuto nel chiarire i meccanismi di cambiamento nella CBT con i bambini e nell’identificare i predittori di una buona risposta versus una negativa. Rimane compito della ricerca futura verificare l’ipotesi secondo cui un modello evolutivo della CBT migliorerebbe il successo terapeutico. Bibliografia Abela, J. R. Z., Brozina, K. and Haigh, E. P. (2002). An examination of the response styles theory of depression in third- and seventh-grade children: a short-term longitudinal study. Journal of Abnormal Child Psychology, 30, 515-27. Ainsworth, M. D. S., Blehar, M. 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In meta-analisi ad ampio raggio, la grandezza degli effetti per la psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza andava da media ad ampia (Casey e Berman, 1985; Weisz et al., 1987; Kazdin et al., 1990; Weisz et al., 1995), alla pari con la terapia per gli adulti e con molti interventi medici (Weisz e Weersing, 1999). In aggiunta a queste buone notizie generali, negli ultimi anni il settore ha intrapreso numerosi sforzi per identificare i trattamenti con un supporto empirico (ESTs) dimostratisi efficaci per specifici problemi della giovinezza e per determinati profili diagnostici. Nel 1998, l’anno dell’ultima formale revisione degli ESTs, sono stati identificati più di due dozzine di trattamenti promettenti per l’ansia, la depressione e i problemi comportamentali in età giovanile (vedere Lonigan e Elbert, 1998). L’esistenza di questa crescente famiglia di interventi efficaci fa sorgere una domanda provocatoria: quale è il numero “sufficiente” di terapie per i ragazzi? O, per dirla diversamente, quanto è utile lo sviluppo di nuovi trattamenti, per la scienza e la pratica della psicoterapia oggi? Per alcune diagnosi, come il disturbo bipolare nell’infanzia e nell’adolescenza, lo sviluppo di un trattamento è ancora chiaramente una questione di primo ordine. Tuttavia, per molti altri problemi dell’infanzia e dell’adolescenza, c’è un accordo sempre maggiore sul fatto che espandere la famiglia degli interventi psicoterapeutici potrebbe essere meno utile rispetto ad acquisire nuovi livelli di comprensione dei trattamenti 55 V. Robin Weersing e David A. Brent attualmente disponibili (per es. Kazdin, 1995; Russell e Shirk, 1998; Weisz et al., 1998; Kazdin, 2001). Per esempio, si sa sorprendentemente poco di come le psicoterapie efficaci producano esisti positivi per i ragazzi e le loro famiglie. Nel 1990, Kazdin e colleghi hanno passato in rassegna la letteratura sui risultati dei trattamenti per i ragazzi e hanno riscontrato che più del 3% degli studi includeva misure del processo terapeutico (Kazdin et al., 1990).In una rassegna recente della letteratura sugli ESTs per i ragazzi, Weersing e Weisz (2002) hanno alzato la stima al 10% anche se hanno utilizzato una definizione in qualche modo differente dei meccanismi del trattamento. Comprendere in che modo lavora la terapia potrebbe essere una cosa di gran valore, per i ricercatori coinvolti nella verifica di modelli della psicopatologia e dell’intervento (per es. Judd e Kenny, 1981; Weersing e Weisz, 2002) e per i professionisti che cercano di applicare efficacemente trattamenti nella forma più consistente e “pura” possibile (per es. Scott e Sechrest, 1989). Le analisi sui meccanismi della terapia potrebbero servire anche a ridurre la lista di 300 e più trattamenti per i bambini e gli adolescenti in maniera utile. Sembra probabile che il numero dei meccanismi di azione terapeutica sia minore rispetto a specifici e identificati protocolli di trattamento e potremmo riuscire a organizzare, sintetizzare e snellire il nostro portfolio di interventi focalizzandoci su come i membri della nostra famiglia terapeutica siano collegati fra loro sul piano dei meccanismi in azione. Nel resto del capitolo, forniremo una rassegna della letteratura esistente che collega i processi terapeutici ai risultati del trattamento per bambini e adolescenti. Escluderemo gli “studi sulla modulazione del trattamento” – ossia, le analisi dei meccanismi d’azione terapeutici specifici di un singolo orientamento teorico o programma terapeutico (come gli studi che indagano il ruolo del cambiamento cognitivo nel produrre gli effetti propri della CBT su giovani depressi). I lettori sono invitati a consultare Weersing e Weisz (2002) per una rassegna recente sulla letteratura relativa alla modulazione del trattamento nell’infanzia e nell’adolescenza. La ricerca sul processo terapeutico, si basa, in gran parte, su un modello generico di azione terapeutica, in cui si ritiene che gli elementi comuni del trattamento, come sperimentare una relazione terapeutica accogliente, siano responsabili della gran parte dell’esito della terapia. Si ipotizza che differenti tipologie di terapia (comportamentale, psicodinamica) per differenti problematiche (ansia, delinquenza) lavorino attraverso gli stessi meccanismi fondamentali. In accordo con ciò, nella nostra rassegna della ricerca sul processo terapeutico per i giovani, includiamo trattamenti presi da un’ampia gamma di orientamenti teorici, trattando un insieme vasto di problematiche della giovinezza e della famiglia. Analisi del processo terapeutico con pazienti giovani Le indagini empiriche sul processo terapeutico con pazienti giovani hanno una storia di 50 anni (Landisberg e Snyder, 1946), un retaggio lungo come quello della ricerca sull’efficacia terapeutica per i pazienti bambini e adolescenti (Levitt, 1957). Tuttavia, queste due iniziative di ricerca sembrano essersi sviluppate su binari paral56 Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi leli, piuttosto che collegati. Come precedentemente menzionato, meno del 3% degli studi sugli esiti della terapia includeva misure generali dei processi terapeutici, come la relazione terapeutica (Kazdin et al., 1990). Similmente, pochissimi studi che si focalizzano sui processi terapeutici collegano questi meccanismi terapeutici generali agli esiti nella vita reale, oggetto tipico delle prove cliniche di ricerca (Shirk e Russell, 1996). La ricerca sui processi e sugli esiti della terapia per gli adulti è molto più estesa della letteratura sui giovani, con circa 2300 risultati all’ultimo principale conteggio (Orlinsky et al., 1994). I risultati di questo esteso corpo di ricerca sugli adulti sono stati sintetizzati in numerosi modelli concettuali, di cui forse il più importante è il modello generico della psicoterapia (Orlinsky e Howard, 1987). Nella sua forma originale, il modello generico includeva cinque dimensioni del processo terapeutico che erano considerate maggiormente responsabili degli esiti successivi: (1) la presenza di un contratto terapeutico (ossia il format, la durata, la frequenza); (2) procedure terapeutiche tecniche; (3) la creazione di una relazione terapeutica; (4) la sintonizzazione del cliente su se stesso (la motivazione e l’apertura al cambiamento) e (5) gli effetti seduta per seduta (le realizzazioni terapeutiche). Orlinsky e Howard hanno anche identificato, nel processo terapeutico, una serie di input relativi al terapeuta, al cliente e alla società (per es. l’etnia) e una serie di output o esiti del trattamento. Con una revisione nel corso del tempo (Orlinsky et al., 1994), il modello generico è stato un’euristica utile per organizzare questo corpo di ricerche, includendo nuovi risultati all’interno di un contesto significativo e generando nuove ipotesi per la ricerca. La ricerca sul processo terapeutico nei bambini manca di una simile cornice organizzativa. Una soluzione potrebbe essere esportare il ben noto modello generico della psicoterapia perché costituisca la base concettuale per la ricerca sul processo terapeutico nell’infanzia. Secondo gli autori, questo potrebbe introdurre soltanto più confusione che chiarezza, dal momento che il modello generico non coglie alcuni aspetti pragmatici chiave del lavoro terapeutico con i bambini e gli adolescenti. Per esempio, diversamente dagli adulti, i bambini e gli adolescenti raramente entrano attivamente nel proprio contratto terapeutico, collaborano per allineare i parametri del trattamento ai propri bisogni percepiti o arrivano al trattamento dopo aver identificato un problema o sono aperti al cambiamento. Piuttosto, i bambini e gli adolescenti vengono portati in terapia dai genitori – se non contro la propria volontà, spesso senza essere consapevoli che qualcosa non va in loro e con scarse aspettative sull’utilità della psicoterapia per la propria vita (Yeh e Weisz, 2001). Dato questo livello di influenza ambientale sulle vite dei ragazzi, il focus dei trattamenti potrebbe essere diretto solo in parti ai ragazzi stessi, come evidenziato dall’inclusione, in questa rassegna sulla ricerca sul processo terapeutico in età giovanile, del parent training (Patterson e Chamberlain, 1994) e della terapia familiare (Alexander et al., 1976). Dati i dubbi sull’applicabilità dei modelli adulti al processo terapeutico infantile, organizzeremo la nostra rassegna della letteratura sul processo terapeutico in aree tematiche piuttosto che sulla base del modello di Orlinsky e Howard. Limiteremo anche la rassegna agli studi puramente descrittivi e invece ci focalizzeremo sulle analisi che cercano di collegare i processi terapeutici ai cambiamenti nel livello di stress, dei sintomi e del funzionamento dei bambini e degli adolescenti. 57 V. Robin Weersing e David A. Brent Le prime ricerche sul processo terapeutico Dal primo studio sul processo terapeutico nei bambini condotto negli anni ’40 fino a tutti gli anni ’60, la ricerca in questo ambito si era focalizzata quasi esclusivamente sulla caratterizzazione del processo terapeutico del gioco non direttivo. La maggior parte di questi primi lavori sembra essere una codifica microanalitica di tutti i comportamenti che si verificano nel corso di quest’ora di ludoterapia, piuttosto che una misurazione selettiva di quelle interazioni terapeuta-bambino considerate, su un piano teorico, componenti significative del cambiamento. In questa prima letteratura e nei seguenti studi di follow-up, sono stati fatti alcuni tentativi per misurare come i comportamenti di queste gioco-terapie potessero variare nel corso del trattamento (Landisberg e Snyder, 1946), in base al livello evolutivo del bambino (Lebo, 1952), in bambini disturbati versus bambini “normali” in simulazioni di terapia (Moustakas e Schalock, 1955) e a seconda del tipo di ludoterapia, non direttiva e psicodinamica (Dana e Dana, 1969; Boll, 1971). In questi primi decenni di ricerca sul processo terapeutico infantile, non sono stati fatti tentativi per collegare le misure descrittive del processo terapeutico ai cambiamenti nella sintomatologia in seguito al trattamento. La direttività del terapeuta e la resistenza del cliente Fino dalla metà degli anni ’60, l’interesse nella classificazione esaustiva di tutti i comportamenti che si verificavano nel corso della terapia è scemato ed è stato sostituito da un’enfasi sull’analisi dei processi terapeutici che si riteneva facilitassero od ostacolassero direttamente l’esito positivo. Una serie di studi hanno analizzato i livelli di scontro, di guida, di insegnamento e di strutturazione del terapeuta includendoli tutti nella categoria più generale di “direttività” dello stile terapeutico. È interessante notare che tutte le analisi della direttività del terapeuta nella rassegna degli autori erano state condotte nel contesto di una terapia con bambini aggressivi, impulsivi o disfunzionali e le loro famiglie e pertanto si sa poco della direttività del terapeuta con ragazzi che hanno sintomi interiorizzati. Un’analisi della flessibilità del terapeuta nella CBT classica per bambini ansiosi (Kendall e Chu, 2000) non ha riscontrato relazioni significative fra la direttività e il risultato. Tuttavia, l’attinenza di questo studio con il problema della direttività è dubbia, dal momento che la flessibilità sembrava essere misurata attraverso una personalizzazione del protocollo in direzione degli interessi e delle competenze del bambino (per es. modificare il mezzo con cui si presenta un dizionario delle emozioni) piuttosto che da un atteggiamento interpersonale del terapeuta permissivo o guidato dal cliente. In terapie non comportamentali per problemi di comportamento disfunzionale, sembra esserci un effetto positivo del terapeuta che assume un atteggiamento direttivo con i propri piccoli clienti. Nell’unico studio pubblicato che mette in relazione i processi con i risultati per questo tipo di terapia, Truax e Wittmer (1973) hanno trovato che elevati livelli di scontro del terapeuta, rivolti a “meccanismi di difesa”, erano significativamente associati con esiti migliori nella terapia psicodinamica di gruppo con giovani delinquenti, fra i quali un minor tempo passato in prigione al follow-up di un anno. 58 Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi In tutte le tipologie di trattamento, i comportamenti direttivi del terapeuta designati a mantenere i bambini e le famiglie concentrati sul compito e focalizzati sulle tecniche della terapia sembrano dare dei benefici. Dopo aver precedentemente stabilito l’efficacia del proprio programma di trattamento dei sistemi familiari per la riduzione del comportamento delinquenziale, Alexander et al. (1976) hanno dato vita a un programma di ricerca per scoprire quali variabili interpersonali del terapeuta potessero massimizzare gli esiti positivi, all’interno della propria modalità di intervento. La strutturazione del terapeuta, una variabile composita costituita dalla direttività e dalla sicurezza personale (così come erano state valutate dai supervisori prima dell’inizio della terapia) spiegava il 15% (dopo aver eliminato l’effetto del calore interpersonale del terapeuta) della varianza di un indice composito del risultato del trattamento – basato sul tasso di recidiva, sulla continuazione del trattamento e sulla qualità della comunicazione familiare. Similmente, Braswell et al. (1985) hanno riscontrato che la correzione dei terapeuti cognitivo comportamentali (CBT) della performance di bambini impulsivi nel corso di esercizi svolti nella seduta e i tentativi direttivi del terapeuta per coinvolgere i bambini nei compiti propri della terapia, che generavano un feedback da parte dei bambini, erano significativamente relazionati con una riduzione del comportamento disfunzionale in classe alla fine del trattamento (sulla base del giudizio degli insegnanti). La quantità di tempo, all’interno di un protocollo cognitivo comportamentale e solo comportamentale, che i terapeuti permettevano di passare in attività non attinenti al compito della terapia, per es. dedicata all’auto-rivelazione del bambino, avevano una relazione significativamente negativa con il risultato della terapia. Anche se tratte da un numero molto piccolo di ricerche, le prove fino a ora sembrano a sostegno dei benefici di determinati tipi di comportamenti direttivi nel trattamento dei bambini. Tuttavia, un programma di ricerca sul parent training con famiglie di ragazzi gravemente antisociali, ha portato a un insieme di risultati quasi opposti. Negli ultimi 20 anni, Patterson e colleghi hanno esaminato i pattern di non-compliance con il proprio intervento di parent training comportamentale e hanno individuato sia le cause (caratteristiche familiari e comportamenti direttivi del terapeuta) sia le conseguenze (scarsi risultati e abbandono frequente) della resistenza genitoriale alla terapia. L’intervento psicoeducativo strutturato di Patterson insegna ai genitori a modificare le proprie vecchie strategie di gestione comportamentale e comunicazione familiare. In un precedente articolo sulla resistenza a questa forma di trattamento, propriamente sottotitolato “un paradosso per chi modifica il comportamento”, Patterson e Forgatch (1985) hanno dimostrato che comportamenti direttivi del terapeuta, nel trasmettere tecniche di gestione del comportamento e nel confrontarsi con i genitori sui problemi del loro stile disciplinare, portava a un accrescimento immediato della probabilità che si verificasse una resistenza nei genitori (che andava da sfide dirette all’autorità alla comunicazione di dubbi sulla capacità di aderire alle istruzioni fornite dal terapeuta). Questa relazione era dimostrata sia dalle analisi di interazioni naturali fra terapeuta e cliente, sia dall’utilizzo di un disegno quasi sperimentale del tipo ABAB in cui si manipolava la direttività dei comportamenti del terapeuta nel corso di sedute di parent-training. Altri studi hanno lavorato per stabilire: (1) i legami fra la resistenza al trattamento da un lato e l’abbandono o lo scarso risultato dall’altro (Chamberlain et al., 1984); (2) la relazione fra la resistenza e “la fase implementativa” del trattamento, in cui si chiede ai 59 V. Robin Weersing e David A. Brent genitori di iniziare ad applicare nuove modalità disciplinari a casa (Chamberlain et al., 1984; Stoolmiller et al., 1993) e (3) l’effetto reciproco della resistenza genitoriale sui futuri comportamenti del terapeuta, come per esempio astenersi dall’insegnamento dei principi dell’apprendimento sociale e provare scarsa simpatia per i genitori (Patterson e Chamberlain, 1994). L’apparente discrepanza fra i risultati di Patterson, relativi all’impatto negativo della direttività del terapeuta e gli effetti generalmente positivi di questo comportamento in altri studi, si presta a una serie di spiegazioni. Gli studi di Patterson sulla direttività potrebbero differire dagli altri in tre aspetti significativi: (1) la gravità della disfunzionalità del bambino e della famiglia; (2) l’intensità dei comportamenti direttivi del terapeuta e (3) il livello di strutturazione della terapia erogata. Primo, è possibile che i partecipanti agli studi di Patterson fossero particolarmente difficili e “tendenti” alla resistenza al trattamento. L’unico altro studio, in questo ambito, focalizzato sui genitori o sulla famiglia, è quello di Alexander e colleghi e questi autori indicano che gli adolescenti delinquenti del campione erano coinvolti principalmente in episodi “delinquenziali non gravi”, mentre un certo numero di partecipanti agli studi di Patterson (Patterson e Forgatch, 1985; Patterson e Chamberlain, 1994) erano stati inviati in terapia dal sistema giudiziario. In aggiunta alla disfunzionalità degli adolescenti, Patterson e colleghi hanno riferito anche alti tassi di disturbo genitoriale all’interno dal proprio campione, fra cui una diffusa depressione materna e comportamento genitoriale antisociale (con alcuni casi di maltrattamento fisico sui figli adolescenti), che erano entrambi significativamente correlati con forme di resistenza comportamentale nelle sedute e con il fallimento nel portare a termine i compiti assegnati a casa (Stoolmiller et al., 1993). Secondo, a parte l’impossibilità di paragonare i campioni di Patterson a quelli degli altri studi, i comportamenti di insegnamento e di scontro negli studi di Patterson potevano avere una maggiore intensità direttiva rispetto ai comportamenti strutturanti esaminati dagli altri gruppi di ricerca (ossia correzione di errori, indicazioni di attenersi al compito, individuazione dei meccanismi di difesa, sicurezza delle opinioni e dei consigli del terapeuta). Questa spiegazione, ossia che i terapeuti di Patterson erano effettivamente più direttivi o venivano percepiti come tali dai clienti, è strettamente collegata alla terza possibile causa dell’insieme divergente di risultati. La terza causa è relativa al fatto che gli effetti della direttività del terapeuta possono variare con la tipologia di terapia fornita. Il protocollo comportamentale di parenttraining di Patterson è direttivo per natura; i terapeuti vengono descritti come esperti di gestione comportamentale con i bambini e un obiettivo primario della terapia è quello di educare i genitori e addestrarli nel modello dell’apprendimento sviluppato dal gruppo di ricerca. I terapeuti molto direttivi all’interno di terapie altamente strutturate potrebbero superare la “dose ottimale” di direttività necessaria a produrre degli esiti positivi. I risultati di analisi non lineari dell’andamento della resistenza nei campioni di Patterson hanno portato sostegno a questa ipotesi; il predittore principale dell’esito positivo era la forma della resistenza più che la quantità; il risultato positivo si aveva quando la resistenza era maggiore nella fase mediana del trattamento e diminuiva nella fase finale (Stoolmiller et al., 1993). Alla luce di questi dati, sembra che, anche all’interno del protocollo strutturato di parent-training di Patterson, la direttività dei 60 Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi terapeuti potrebbe non essere del tutto negativa e che un certo livello di ribellione dal lato dei genitori, insieme a una quantità ottimale di stimolazione e di perseveranza da parte del terapeuta, sia non solo prevedibile ma addirittura desiderabile (Patterson e Chamberlain, 1994). Il calore umano del terapeuta e le condizioni facilitanti Un altro aspetto del comportamento interpersonale del terapeuta su cui in letteratura è stata posta una notevole attenzione, è il calore umano del terapeuta, definito attraverso i comportamenti supportivi ed empatici e la proiezione all’esterno di un atteggiamento di accoglienza, di accudimento e di profondo rispetto. Anche se questi costrutti sono chiaramente in relazione fra loro, il calore interpersonale del terapeuta non è sinonimo della relazione terapeutica fra il terapeuta e il bambino cliente (discussa più in avanti), in cui l’enfasi è sui sentimenti di calore umano reciproco, così come sulla collaborazione attiva, sul coinvolgimento e l’accordo di entrambe le parti sui compiti e gli obiettivi della terapia. Molti degli studi sul calore umano del terapeuta sono stati condotti dagli stessi gruppi di ricerca che hanno esaminato gli effetti della direttività. Alexander e colleghi hanno indagato il calore umano all’interno del proprio sistema di trattamento familiare per la delinquenza e hanno trovato che l’indice utilizzato, abilità relazionali positive del terapeuta (basato sulle valutazioni dei supervisori del calore umano, sull’utilizzo appropriato dell’umorismo e sulla capacità di riflettere e di collegare le emozioni e i comportamenti della famiglia), rendeva conto della maggior parte della varianza dell’esito della terapia rispetto alla direttività del terapeuta: il 45% contro il 15% (Alexander et al., 1976). Nello stesso studio che aveva all’inizio indagato la relazione fra i comportamenti direttivi del terapeuta e la resistenza genitoriale, Patterson e Forgatch (1985) hanno analizzato la relazione fra le affermazioni supportive e facilitanti e la compliance genitoriale con il protocollo di parent-training e hanno riscontrato che i comportamenti facilitanti e di accudimento diminuivano significativamente la probabilità di un’immediata resistenza genitoriale. Patterson e Forgatch non hanno esplorato a fondo questa relazione manipolando il calore umano e non hanno stabilito i collegamenti fra questi comportamenti del terapeuta e il risultato del trattamento, presumibilmente mediato dal livello di resistenza del cliente. Storicamente, gli effetti del calore umano del terapeuta sono stati massimamente centrali nelle analisi del processo e del risultato delle terapia infantili non comportamentali. La tradizione terapeutica centrata-sul-cliente considera meccanismi necessari e sufficienti per il verificarsi del cambiamento nel trattamento (Rogers, 1957): costanti livelli elevati di calore umano, la riflessione empatica attenta dell’esperienza del cliente (empatia accurata), il mantenimento dell’attenzione e il manifestare delle reazioni (genuinità o “essere presenti”). Questi tre comportamenti del terapeuta vengono spesso definiti con l’espressione “condizioni facilitanti” del trattamento e il loro effetto viene studiato considerandoli un tutt’uno. In questo capitolo, queste indagini vengono sintetizzate all’interno della categoria più generale del calore umano, poiché esistono numerosi studi che hanno indagato il calore umano del terapeuta al di fuori del contesto di altre con61 V. Robin Weersing e David A. Brent dizioni facilitanti, ma non abbiamo scoperto studi di terapia infantile che esaminassero la genuinità o l’empatia senza misurare anche il calore umano. Molti fra i primissimi sistemi di codifica descrittivi della ludoterapia, brevemente passati in rassegna precedentemente, includevano, nella classificazione completa dei comportamenti del terapeuta e del bambino, categorie, per il terapeuta, vagamente simili al calore, alla riflessione o rielaborazione e all’osservazione attenta (per es. Moustakas e Schalock, 1955). La maggior parte delle ricerche che analizzano il legame fra gli effetti delle condizioni facilitanti e gli esiti delle terapie infantili non comportamentali sono state condotte da Truax e colleghi nel corso della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, nel corso di terapie di gruppo con giovani delinquenti istituzionalizzati. Complessivamente, queste indagini supportano l’ipotesi che elevati livelli di condizioni facilitanti hanno effetti positivi sul concetto di sé degli adolescenti (per es. Truax, 1971) e in misure del livello complessivo di funzionamento, come per esempio il tempo passato fuori di prigione (per es. Truax et. Al., 1970). I risultati più consistenti e meno ambigui sono stati ottenuti da Truax et al. (1996) in una terapia di gruppo con ragazze delinquenti. Era stata sottoposta a valutazione la capacità dei terapeuti di fornire condizioni facilitanti, basandosi su osservazioni precedenti del loro lavoro con un campione similare di clienti, e i gruppi terapeutici erano stati classificati sulla base della presenza di un livello elevato o basso di condizioni facilitanti prima dell’inizio del trattamento. In media, i membri del gruppo con elevato livello di condizioni facilitanti dava risultati migliori in una serie di misure dell’esito terapeutico – concetto di sé, accettazione delle regole sociali, atteggiamento verso la famiglia e tempo passato al di fuori di istituti. La relazione fra le condizioni facilitanti del terapeuta e gli esiti positivi osservato con gli adolescenti potrebbe restare vero anche con i bambini. In uno studio descrittivo della ludoterapia centrata-sul-cliente, Siegel (1972) ha osservato che i bambini a cui venivano forniti elevati livelli di condizioni facilitanti, rispetto a quelli a cui venivano forniti livelli bassi di condizioni facilitanti, nel corso delle sedute, con il progredire del trattamento, rispondevano con affermazioni su di sé più positive e penetranti. In un’analisi processo-risultato sugli effetti delle condizioni facilitanti, Truax et al. (1973) hanno diviso i propri terapeuti in due categorie, alto e basso livello di condizioni facilitanti (sulla base del calore umano e dell’empatia; la genuinità si era rivelata una misura on affidabile). I bambini nevrotici che avevano ricevuto la terapia da terapeuti che mostravano un livello elevato di condizioni facilitanti, a giudizio dei genitori, avevano un funzionamento complessivo decisamente migliore alla fine del trattamento; mentre i bambini trattati da terapeuti che fornivano un livello basso di condizioni facilitanti, di nuovo secondo il giudizio dei genitori, erano peggiorati significativamente. La relazione terapeutica La nostra rassegna del processo terapeutico con i bambini, fino a ora si è focalizzata sugli stili interpersonali del terapeuta che sono stati collegati con l’esito del trattamento. Lo studio della relazione terapeutica come meccanismo di cambiamento prevede l’analisi dell’interazione fra gli stili del terapeuta e del cliente e l’analisi dei comportamenti, atteggiamenti e sentimenti che il terapeuta ha solo parzialmente il potere di manipo62 Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi lare. In quanto tale, la qualità della relazione terapeutica potrebbe essere influenzata da alcune caratteristiche dei bambini e degli adolescenti, come per esempio un passato traumatico (Eltz et al., 1995) e lo sviluppo di una relazione positiva potrebbe in parte essere un aspetto del processo terapeutico, facilitato dai comportamenti e dalle tecniche del terapeuta, e in parte funzione delle caratteristiche preesistenti, del bambino e del terapeuta, esterne al processo terapeutico in quanto tale. Come definita da Bordin (1979), la relazione terapeutica generalmente si intende costituita da due principali componenti: (1) il legame terapeutico, o i sentimenti positivi reciproci fra cliente e terapeuta e (2) la collaborazione attiva, che prevede una visione condivisa degli obiettivi del trattamento e una collaborazione sui compiti terapeutici necessari per il conseguimento di questi obiettivi. Nella letteratura sulla psicoterapia per gli adulti, la costruzione di una relazione terapeutica solida si è rivelata il migliore predittore singolo del processo terapeutico (vedere Horvath e Symonds, 1991), con una correlazione piuttosto affidabile fra 0.20 e 0.30 con gli esiti della terapia (per es. Martin et al., 2000). Shirk e Saiz (1992) hanno sostenuto che la relazione terapeutica potrebbe contribuire in maniera ancora più significativa all’esito della terapia con i bambini e gli adolescenti, a causa della condizione di “clienti involontari” in cui numerosi bambini e adolescenti si trovano all’inizio della terapia e dei deficit sociali che si suppongono alla base dello sviluppo e del mantenimento di numerose gravi difficoltà. Certamente, i bambini e i genitori indicano spesso l’esperienza di una relazione terapeutica positiva come una dimensione critica del trattamento, anche negli interventi a base comportamentale che hanno una dose piuttosto ingente di procedure tecniche e di esercizi da fare a casa. Per esempio, in uno studio di Motta e Lynch (1990), due terzi dei genitori i cui bambini avevano ricevuto una terapia comportamentale per problemi di acting-out, disattenzione e difficoltà scolastiche, avevano identificato la relazione terapeutica come la componente più importante del protocollo di trattamento dei propri bambini; nessun genitore aveva giudicate le tecniche comportamentali di primaria importanza per il risultato finale. Similmente, in uno studio di follow-up su partecipanti a una CBT, in una prova clinica per l’ansia, il 44% dei bambini e degli adolescenti avevano giudicato la relazione sviluppata con il proprio terapeuta l’aspetto più importante del trattamento (la risposta più popolare fra tutte; Kendall e SouthamGerow, 1996). Al contrario, la gestione della propria ansia era stato considerato il fattore più importante dal 39% dei partecipanti. I problemi nella relazione terapeutica si sono rivelati un predittore significativo dell’abbandono del trattamento nel corso di prove cliniche o di gruppi di parent-training per bambini antisociali (Kazdin e Wassell, 1998) e nel corso di terapie eclettiche prestate in centri comunitari di assistenza per bambini (Garcia e Weisz, 2002). Tuttavia, mentre l’importanza di una relazione terapeutica positiva sembra essere chiara per i clienti, gli effetti reali della relazione sui sintomi e sul funzionamento sono definiti con minore chiarezza. Nella rassegna degli autori, sono stati trovati dieci studi processo-risultato in funzione della relazione (vedere Tabella 4.1). In tre di questi studi, le correlazioni della qualità della relazione terapeutica con il risultato, in direzione positiva, erano in generale non significative (Motta e Lynch, 1990; Motta e Tobin, 1992; Kendall, 1994). I rimanenti sette studi forniscono alcune prove a favore di un collegamento fra la relazione e l’esito della terapia, ma i risultati sono 63 V. Robin Weersing e David A. Brent incostanti nel tempo, incoerenti fra i valutatori e nelle definizioni di relazione e di esito terapeutico. Per esempio, Florsheim et al. (2000) prevedevano che relazioni positive fra adolescenti delinquenti e i propri terapeuti fossero predittive di un miglioramento della sintomatologia e di una riduzione della recidività, indipendentemente dalla tipologia di programma in cui venivano inseriti (per es. case famiglia, contesti di cura terapeutica intensiva). Contrariamente alle aspettative, valutazioni positive della relazione terapeutica in un trattamento di 3 settimane in realtà erano predittori di un esito peggiore (maggior numero di sintomi interiorizzati ed esteriorizzati, maggiori arresti), mentre relazioni positive per un trattamento di 3 mesi erano predittori di una riduzione della sintomatologia e di un livello più basso di recidività. Per spiegare questi risultati, sono state condotte una serie di analisi esplorative per verificare gli effetti della traiettoria dell’alleanza terapeutica (peggioramento, miglioramento) e si è giunti alla conclusione che un cambiamento nella relazione terapeutica correlava con un cambiamento nella sintomatologia secondo una relazione logica: con il miglioramento dell’alleanza, miglioravano anche i sintomi e, con il deterioramento della relazione, gli esiti erano a loro volta negativi. Tuttavia, Florsheim et al. hanno raccolto le misure della relazione e dell’esito terapeutico su una griglia di valutazione che ha reso molto complesso determinare se il cambiamento nella relazione fosse predittore di un esito differente, oppure se i terapeuti e i ragazzi si piacessero di più mano a mano che i sintomi miglioravano. Green et al. (2001) hanno anche trovato che punteggi positivi nella relazione terapeutica presagivano esiti sia di benessere sia di malessere all’interno del proprio campione di ragazzi ricoverati in un ospedale psichiatrico. Le relazioni calorose fra i bambini e i terapeuti erano predittori di esiti positivi dopo l’ospedalizzazione, secondo quanto riferito da differenti fonti di informazione (incluse alcune valutazioni condotte a scuola sui comportamenti dei bambini), ma una relazione positiva fra i genitori e i terapeuti era correlata con un aumento nei sintomi interiorizzati del bambino. Il risultato di Kazdin e Wassell (1999, 2000) mostra una differente complessità. Nel proprio modello “barriere al trattamento”, hanno analizzato gli effetti di molteplici barriere pratiche e interpersonali alla partecipazione alla terapia, al logorio nel tempo e all’esito. Due di queste barriere corrispondevano a due componenti della relazione terapeutica descritte da Bordin (1979) – propriamente, la sperimentazione di un’alleanza terapeutica calorosa e supportiva e un accordo sull’aderenza del trattamento al problema presente (come dire l’accordo sui compiti e gli obiettivi della terapia). In due studi, la convinzione dei genitori che il trattamento fosse importante correlava significativamente con la riduzione del comportamento antisociale nei ragazzi, ma solo in uno di questi studi l’esperienza di una relazione calorosa era stata predittore di un buon esito. Sintesi La letteratura sul processo terapeutico con i bambini e gli adolescenti è scarsa e dispersa; tuttavia, da questo corpo di lavori, emergono poche tematiche costanti. Primo, per le famiglie è importante lo stile interpersonale del terapeuta. La qualità della rela64 Terapie psicologiche: una famiglia d’interventi zione terapeutica, in particolare, è molto importante sia peri genitori sia per i bambini. Le relazioni calorose vengono apprezzate e ricordate, a volte anche molti anni dopo (Kendall e Southam-Gerow, 1996). La relazione terapeutica è considerata centrale per l’esperienza terapeutica in tutte le tipologie di intervento terapeutico e in numerosi tipi di problematiche dei bambini (vedere Tabella 4.1.). Inoltre, una cattiva relazione potrebbe rappresentare per le famiglie una ragione sufficiente per interrompere il trattamento – una ragione ancora più forte della percezione di uno scarso miglioramento nella sintomatologia (per es. Garcia e Weisz, 2002). Tabella 4.1 La qualità della relazione terapeutica e gli esiti del trattamento Studio Tipologia di trattamento Problematica target Effetti significativi? Descrizione Motta e Linch (1990) Terapia Comportamentale Comportamento disfunzionale No I genitori considerano importante la relazione, ma l’alleanza non correla con le valutazioni sull’esito della terapia tratte da differenti fonti di informazione Motta e Tobin (1992 Terapia Comportamentale Comportamento disfunzionale No I genitori considerano importante la relazione, ma l’alleanza non correla con le valutazioni sull’esito della terapia tratte da differenti fonti di informazione Kendal (1994) CBT Disturbo d’ansia No La relazione non è un predittore dell’esito, ma i punteggi del terapeuta erano al limite della scala di valutazione. Al follow-up a lungo termine i bambini e gli adolescenti consideravano la relazione qualcosa di memorabile. Eltz et al. (1995) Psicodinamico Eterogenea (campione di pazienti ricoverati) Sì La relazione era predittore di valutazioni positive del terapeuta e del cliente sull’esito. I pazienti maltrattati formavano alleanze peggiori. Kazdin e Wassel (1999) Parent Training Comportamento disfunzionale Sì La relazione dei genitori con il terapeuta e la percezione dell’importanza del trattamento correlavano con l’esito. Un variabile composita, che includeva una relazione positiva, aveva “protetto” le famiglie a rischio da un esito negativo. Kazdin e Wassel (2000) Parent Training + CBT al bambino Comportamento disfunzionale Sì/No La relazione dei genitori con il terapeuta non correlava direttamente con l’esito. La percezione dell’importanza del trattamento era in relazione con il cambiamento terapeutico. cont... 65 V. Robin Weersing e David A. Brent Florsheim et al. (2000) Multiplo, trattaDelinquenza menti utilizzati nell’assistenza più comune Sì/No Una relazione positiva all’inizio della terapia era predittore di un esito negativo, ma una relazione positiva in un trattamento di 3 mesi era predittore di tassi più bassi di recidività. Noser e Bickman (2000) Multiplo, trattaEterogenea menti utilizzati (campione Fort nell’assistenza più Bragg) comune Sì/No La qualità della relazione valutata dai bambini era collegata a cambiamenti positivi riferiti dai genitori, dai terapeuti e dagli intervistatori. Non era predittiva degli esiti valutati dai bambini stessi. Green et al. (2001) Ricovero individualizzato Eterogenea (campione di pazienti ricoverati) Sì/No L’alleanza positiva con il bambino era predittore di un buon esito, ma la relazione positiva con i genitori era predittore di un aumento nei sintomi interiorizzati. Johnson et al. (2002) Terapia familiare Famiglie a rischio di perdere la custodia dei propri figli adolescenti Sì Le valutazioni degli adolescenti e dei genitori sulla relazione correlavano con l’esito. Tuttavia, ci sono alcuni problemi relativi alla numerosità del campione, alle analisi e alla non indipendenza delle valutazioni. Secondo, anche se i fattori generici del processo sono importanti per i pazienti, non è molto chiaro se questi abbiano effettivamente un impatto sui sintomi e sul funzionamento, e le prove suggeriscono che le variabili di processo di solito non influenzano l’esito in maniera semplice e lineare. Gli studi sulla direttività del terapeuta ne sono un buon esempio. Una scarsa direttività potrebbe rallentare il progresso (per es. Braswell et al., 1985), ma troppa potrebbe provocare reazioni negative e una scarsa compliance al trattamento (per es. Patterson e Forgatch, 1985). Le analisi sulla relazione terapeutica mostrano un pattern simile di complessità (o forse di incoerenza) nei risultati. Terzo, i disegni sperimentali della maggior parte degli studi sul processo terapeutico non sono riusciti a chiarire queste relazioni complesse fra il processo e l’esito. Salvo alcune importanti eccezioni, come il lavoro di Patterson e colleghi, il processo e l’esito vengono valutati simultaneamente, dalla stessa persona e spesso alla fine del trattamento. Data la natura correlazionale della maggioranza di queste ricerche, una simile strategia valutativa rende impossibile determinare l’ordine temporale dei cambiamenti nei processi e nei sintomi, la chiave per determinare la direzione della causalità di qualunque relazione processo-risultato osservata. Bibliografia Alexander, J. F., Barton, C., Schiavo, R. S. and Parsons, B. V (1976). Systems-behavioral intervention with families of delinquents: therapist characteristics, family behavior, and outcome. 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Fino a un certo punto, queste assunzioni tacite hanno una certa validità, ma spesso, quando si lavora con pazienti giovani, anche se i genitori potrebbero sottoscriverle a pieno, ci si potrebbe imbattere in delle disparità molto grandi fra gli obiettivi dei genitori e quelli del professionista da un lato e quelli dei ragazzi dall’altro. Alcune fra queste discrepanze derivano da problematiche evolutive; altre da aspetti tipici del disturbo o della problematica in quanto tale. Per esempio, uno dei compiti evolutivi importanti dell’adolescenza è la costruzione di un’identità individuale e la conquista dell’indipendenza dalla famiglia di origine. Fare e pensare cose che vanno contro l’autorità e le regole degli adulti, è una parte normale del processo di crescita. Frequentare un ambulatorio e parlare con adulto estraneo, che viene visto come un’estensione dell’autorità genitoriale, di qualcosa che l’adolescente considera “non proprio un problema” o che vorrebbe rimanesse un’esperienza privata vergognosa e strettamente protetta, è qualcosa di difficile e spiacevole e all’inizio il ragazzo potrebbe rifiutarla. Ci potrebbero anche essere importanti caratteristiche del disturbo o del comportamento problematico che il ragazzo considera positive 73 Ulrike Schmidt e che non desidera eliminare. Per esempio, Lucy, una ragazza di 15 anni che prima era un pò pienotta e veniva presa in giro dai propri compagni per il peso, venne portata alla clinica dalla madre perché era stata vista a scuola buttare via il proprio pranzo, perché aveva perso peso e aveva ammesso ai propri genitori di sentirsi male appositamente ogni giorno. Inoltre, a volte si tagliuzzava gli avambracci quando mangiava più di quanto avrebbe dovuto. Non era disponibile a sottoporsi ad alcun trattamento perché era contenta del proprio nuovo aspetto magro, che significava non essere più presa in giro ed essere ammessa in un gruppo popolare di ragazze a scuola e avere il primo fidanzato. I professionisti della salute mentale pertanto devono mantenere un difficile equilibrio fra ciò che il paziente vorrebbe, ciò che desiderano i genitori e ciò che egli, come clinico, giudica necessario. La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è un trattamento orientato all’azione che richiede tradizionalmente un paziente volitivo e collaborativo, motivato al cambiamento. Coinvolgere il paziente giovane per metterlo in grado di fare un uso ottimale di tutto ciò che la CBT ha da offrire è un compito difficile ma cruciale. Di seguito, vengono descritti alcuni concetti teorici (per es. modelli di cambiamento comportamentale) e una cornice clinica (basata sull’intervista motivazionale), che sono utili nel lavoro con i pazienti giovani, per coinvolgerli e aiutarli a sviluppare obiettivi di cambiamento personale riducendo così l’ambivalenza e la resistenza al cambiamento. Modelli di cambiamento comportamentale Il modello di cambiamento transteorico (Prochaska e DiClemente, 1982) riconosce che gli individui non prendono decisioni semplici del tipo “bianco e nero” per modificare i comportamenti problematici. Piuttosto, ritiene che ci sia un processo graduale, diviso in fasi. Queste fasi vengono chiamate gli “stadi” del cambiamento e implicano un grado di prontezza al lavoro, in direzione di un obiettivo. In questo modello, il cambiamento è considerato come una progressione da uno stadio iniziale pre-riflessivo in cui la persona non prende in considerazione il cambiamento, perché potrebbe non ritenere di avere un problema. Nello stadio riflessivo, l’individuo è ambivalente nei confronti del cambiamento e valuta i pro e i contro del cambiamento. Nello stadio preparatorio, sono certamente una pianificazione e un impegno in direzione del cambiamento. Nello stadio attivo, la persona attua specifici cambiamenti comportamentali per superare il proprio problema. Da qui, l’individuo passa alla fase di mantenimento e, in seguito, o supera il problema o ha una ricaduta. Si è ipotizzato che, ai fini di un cambiamento sostanziale, le persone spesso debbano attraversare tutto il ciclo del cambiamento per diverse volte. Altre componenti del modello transteorico sono i “processi” di cambiamento, ossia le attività evidenti e nascoste in cui viene coinvolto l’individuo per modificare il pensiero, il comportamento o le emozioni relative a un problema (Prochaska et al., 1988). Altri elementi propri del modello sono l’equilibrio decisionale (bilanciamento dei pro e dei contro del cambiamento), l’auto-efficacia (DiClemente et al., 1985) e le 74 Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale tentazioni e tutte queste sono considerate predittori di un movimento attraverso gli stadi del cambiamento (Prochaska e Velicer, 1997). Un assunto importante di questo modello, che intuitivamente ha un senso e per il quale esistono un certo numero di prove empiriche, è che qualunque intervento clinico deve essere adattato allo stadio di cambiamento dell’individuo (DiClemente e Marden Velasquez, 2002). Pertanto, coloro che si trovano nei primi stadi del cambiamento potrebbero trarre beneficio dal ricevere ulteriori informazioni che li aiutino ad crescere nella consapevolezza della situazione, mentre quelli allo stadio attivo potrebbero trovare utile apprendere specifiche competenze per superare il proprio problema. Il modello transteorico è stato applicato con successo a una varietà di comportamenti relativi alla salute, fra cui il fumo, l’abuso di droga e alcol, il controllo del peso, l’assimilazione di grassi, i disturbi dell’alimentazione, il fare esercizio fisico e il partecipare a screening mammografici (per una rassegna, vedere Blake et al., 1997; DiClemente e Marden Velasquez, 2002). Al modello transteorico è stata rivolta la critica (Bandura, 1998; Davidson, 1998) di essere una misura continua del cambiamento piuttosto che una categoriale. Altri hanno messo in dubbio i processi di cambiamento definiti. Numerosi altri modelli prevedono una serie di stadi nel cambiamento comportamentale. Per esempio, Weinstein (1988) ha distinto cinque stadi nel processo di adozione delle precauzioni. Gebhardt (1997) ha descritto quattro stadi motivazionali nel modello del comportamento salutare. All’interno del proprio modello Attitude, Social Influence and Efficacy (ASE), De Vries e Backbier (1994) descrivono un cambiamento negli atteggiamenti, nell’influenza sociale e nell’auto-efficacia che attraversa stadi motivazionali e Schwarzer (1992) ha sviluppato lo Health Action Process Approach. Serve qualcosa di più della prontezza La maggioranza di questi modelli concorda nel suggerire che esistono due componenti nella prontezza al cambiamento. Queste sono: (1) riconoscere l’importanza di un problema, che può anche essere chiamata volontà di cambiamento o convinzione della necessità di un cambiamento e (2) avere fiducia nella propria capacità, sicurezza o auto-efficacia (Keller e Kemp-White, 1997; Rollnick, 1998; Rollnick et al., 1999). È importante chiedersi perché sia necessario un cambiamento. Questo prevede sia una valutazione di come il comportamento problematico si allinea con i valori individuali sia il determinare i risultati attesi. La sicurezza si riferisce alla convinzione di una persona di avere la capacità di portare a termine un cambiamento comportamentale. Per esempio, una persona giovane che soffre di affaticamento cronico potrebbe desiderare disperatamente che il senso di fatica svanisca, ma potrebbe credere di non poter fare nulla (elevata importanza, scarsa sicurezza). Al contrario, una persona giovane con un disturbi ossessivo compulsivo potrebbe non credere utile far cessare alcuni rituali egosintonici (scarsa importanza, elevata sicurezza). 75 Ulrike Schmidt Come misurare l’importanza e la sicurezza Mentre per misurare la prontezza al cambiamento esistono metodologie complesse, specifiche per ogni disturbo, basate sull’intervista, queste stesse misure per la motivazione sono probabilmente più utili come strumenti di ricerca, soprattutto se riescono a predire l’esito della terapia. Nelle situazioni cliniche, la prontezza al cambiamento è raramente qualcosa di costante e subisce alti e bassi nel corso delle sedute. Pertanto, da un punto di vista clinico, potrebbe non avere molto senso sforzarsi di misurare accuratamente la prontezza al cambiamento in un determinato momento. Piuttosto, un clinico dovrebbe essere in grado di valutare questi concetti all’interno di ogni seduta indipendentemente dall’ordine del giorno prestabilito. Questo è particolarmente importante all’inizio del trattamento. Due scale lineari, di eguale aspetto esteriore, (Tabella 5.1 e 5.2) misurano le dimensioni dell’importanza e della sicurezza lungo un continuum e possono essere strumenti utili da associare al giudizio terapeutico (Keller e Kemp-White, 1997; Rollnick et al., 1999; Miller e Rollnick, 2002). Queste due dimensioni si possono analizzare anche attraverso le domande descritte nelle Tabelle 5.1 e 5.2. Una volta stabiliti i livelli di importanza e sicurezza in relazione a un obiettivo, per es. lavorare con il terapeuta su un particolare comportamento problematico, si può adattare l’intervento all’individuo. Le seguenti tecniche possono essere utili (tratte da Treasure e Schmidt, 2001): • • • 76 Scarsa convinzione e scarsa sicurezza: Scopri dove ci sono idee fallaci o mancanti nella conoscenza che il tuo paziente ha del problema. Incoraggialo a pensare ad aspetti che precedentemente non aveva considerato. Forniscigli informazioni nuove e rilevanti. L’aspetto di novità dell’informazione è molto importante per suscitare interesse (K. Eammons, comunicazione personale). Per esempio, potrebbe essere interessato a prendere in prestito un libro nuovo o una videocassetta? Poni l’accento sulla libertà di scelta personale. Evidenzia il fatto che capisci come il problema attualmente possa non dargli fastidio. Comunicagli che accetterai qualunque cosa egli dovesse decidere relativamente al cambiamento, ma suggeriscigli di pensarci su e di prendere in considerazione questa eventualità. Chiarisci che se dovesse essere maggiormente interessato al cambiamento saresti lì per aiutarlo in ogni maniera possibile e per offrirgli il supporto necessario. Bassa convinzione e elevata sicurezza: Aiuta il paziente a identificare e discutere le discrepanze fra ciò che egli desidera per se stesso nel futuro e la situazione in cui si trova al momento. Aiutalo a riconoscere queste divergenze e le mancanze nelle informazioni che ha. Discuti con il paziente la sua gerarchia di valori e aiutalo a decidere cosa considera più importante per la sua vita. Enfatizza nuovamente la totale libertà di scelta del paziente. Elevata convinzione ed elevata sicurezza: Lavora con il paziente per prevedere e anticipare eventuali momenti di difficoltà. Offrigli informazioni, consigli pratici e addestralo in competenze specifiche da utilizzare come abilità alternative, lasciagli decidere liberamente cosa può essere più utile a sostegno dei propri sforzi. Identi- Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale fica e rimuovi i possibili ostacoli al mantenimento del desiderato corso d’azione. Segui il progresso del paziente notando eventuali cambiamenti e riaffermandoli insieme a lui. Abbiamo inoltre riscontrato che è utile avere a disposizione una scala aggiuntiva che misuri quanto le altre persone vicine al paziente sono desiderose di vedere un cambiamento. Questo permette di evidenziare il contesto sociale in cui si verifica il mutamento. Tabella 5.1 Domande con cui indagare l’importanza Quanto giudichi importante cambiare ….? Su una scala da 0 a 10, dove 0 indica per nulla importante e 10 indica estremamente importante, dove ti collocheresti? 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Per nulla Estremamente importante importante • • • • • • • Cosa dovrebbe succedere perché tu consideri più importante un cambiamento? Ti sei dato questo punteggio x sulla scala. Cosa dovrebbe succedere per farti passare da x a 10? Cosa ti impedisce di procedere da x a 10’ Quali sono le cose che tieni in conto e che ti hanno fatto assegnare un punteggio così alto? Quali sono gli aspetti positivi del comportamento x? Quali sono quelli meno positivi? Quali preoccupazioni hai relative al comportamento x? Se dovessi cambiare come cambieresti? Tabella 5.2 Domande con cui indagare la sicurezza Quanto ti senti sicuro di riuscire a cambiare…, se dovessi decidere di farlo? Su una scala da 0 a 10, dove 0 sta per nulla sicuro e dove 10 sta per del tutto sicuro, dove ti collocheresti? 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Per nulla Estremamente sicuro sicuro • • • • • • • Cosa ti renderebbe più sicuro di riuscire nel cambiamento? Perché ti sei assegnato un punteggio così elevato? Come potresti progredire per far andare il tuo punteggio da x a y? Come io o qualcun altro possiamo aiutarti per riuscire nel tuo obiettivo? C’è qualcosa che ti è stato d’aiuto nei precedenti tentativi di cambiamento? Cosa hai imparato da ciò che le altre volte non è andato per il verso giusto? Se decidessi di cambiare, quali strategie utilizzeresti? Ne conosci qualcuna che ha funzionato per altre persone? • Quali sono le cose pratiche necessarie a raggiungere l’obiettivo? Sono fattibili? • Riesci a pensare a qualcosa che ti farebbe sentire più sicuro? 77 Ulrike Schmidt Per esempio, sorgeranno dei conflitti se ci sarà una grande disparità fra i differenti membri della famiglia relativamente alla prontezza al cambiamento. Le famiglie con un ragazzo che ha dei problemi potrebbero richiedergli di cambiare istantaneamente, cosa che potrebbe portare a un ambiente “non motivante”, in cui c’è un elevato tasso di conflittualità e di espressione di emozioni negative. In alternativa, differenze di opinioni fra i genitori sulla gravità della situazione potrebbero paralizzare qualunque tentativo di modifica. Questi esempi mostrano la necessità di condurre un’ampia analisi del contesto psicosociale. L’intervista motivazionale Parallelamente allo sviluppo di questi modelli di comprensione del cambiamento, è stata sviluppata su basi empiriche l’intervista motivazionale (MI), una forma di interazione terapeutica svincolata da qualunque approccio teorico (per una rassegna vedere Miller 1995, 1998, 2000; Miller e Rollnick, 2002). Le tecniche di intervista si basano sull’osservazione di come il comportamento del terapeuta può influenzare il risultato. Per esempio, il cliente di solito mostra una certa resistenza quando il terapeuta utilizza uno stile confrontativo deciso ed eccessivo e questa stessa resistenza scompare del tutto nel caso dell’approccio centrato-sul-cliente. Miller ha sviluppato un intervento breve, the drinker check-up (il check-up del bevitore), in cui venivano operazionalizzati alcuni dei fattori noti per influenzare positivamente l’esito della terapia. Questo check-up, che prevedeva un feedback motivazionale, veniva paragonato con uno che utilizzava un approccio confrontativo. Il risultato, la quantità di alcol bevuta a distanza di un anno, era peggiore nel gruppo di pazienti che avevano ricevuto un feedback in modalità confrontativa (Miller et al., 1993). In un ulteriore studio, è stato trovato che, se si dava un feedback motivazionale all’inizio dell’intervento prima del ricovero, i pazienti avevano un risultato migliore. I terapeuti di questo gruppo riferivano che i propri pazienti avevano partecipato con maggiore pienezza al trattamento e sembravano essere più motivati (Bien et al., 1993; Brown e Miller, 1993). Cosa è la MI? Principi, definizioni e tecniche La MI è stata definita una metodologia direttiva centrata-sul-cliente, per accrescere la motivazione al cambiamento, che analizza e cerca di risolvere l’atteggiamento di ambivalenza (Miller e Rollnick, 2002). È una combinazione di stile e tecnica. Lo stile e la filosofia alla base prendono molto in prestito dalle idee di Carl Rogers (1957) che enfatizzava il calore umano, l’empatia e l’accettazione incondizionata come condizioni necessarie per creare un clima all’interno del quale potesse verificarsi un cambiamento terapeutico. Pertanto, nella MI: “l’impulso al cambiamento deriva dalle motivazioni e dagli obiettivi intrinseci del cliente ed è il cliente stesso che dà voce alle proprie ragioni di cambiamento. La persuasione diretta, la costrizione e altre forme 78 Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale salienti di controllo esterno vengono evitate. La relazione terapeutica assume le caratteristiche di una partnership e viene sempre evidenziata la libertà di scelta del cliente” (Rollnick e Miller, 1995). L’evitamento dello scontro o delle discussioni è lo scopo della MI e la resistenza viene considerata un problema interpersonale fra il terapeuta e il cliente e non un problema intrinseco al cliente. I segnali di resistenza indicano la necessità di “cambiare marcia”. Sono state utilizzate numerose metafore per descrivere lo spirito della MI: una danza piuttosto che un incontro di wrestling. Miller stesso ha creato un’analogia fra la MI e le tecniche delicate utilizzate da Monty Roberts (1997), l’uomo che sussurrava ai cavalli selvatici per ammansirli. Anche la favola del sole e del vento rappresenta un’analogia utile per descrivere l’essenza della MI: “Il sole e il vento stavano avendo una discussione su chi fosse il più potente fra loro. Videro un uomo che passava di lì e si sfidarono su chi dei due riuscisse prima a fargli togliere il cappotto. Il vento iniziò per primo, alzò una corrente d’aria fortissima, il cappotto sventolò ma l’uomo si chiuse soltanto tutti i bottoni e si strinse la cintura. Poi toccò al sole e lo splendore forte fece sudare l’uomo che si tolse il cappotto”. I terapeuti pertanto devono modellarsi sul comportamento del sole. I quattro principi fondamentali della MI possono essere così sintetizzati: 1. esprimere empatia utilizzando l’ascolto riflessivo per comunicare la comprensione della posizione del cliente; 2. mettere massimamente in evidenza la discrepanza fra i valori più profondi del cliente e l’attuale comportamento; 3. appianare le resistenze affrontandole con la riflessione piuttosto che con lo scontro 4. supportare il senso di auto-efficacia costruendo un senso di sicurezza sull’effettiva possibilità del cambiamento. Le tecniche base dell’intervista motivazionale sono quelle del counseling centratosul-cliente: 1. L’ascolto riflessivo. Al livello più basilare, la riflessione viene utilizzata come tentativo per comprendere la prospettiva del paziente. È pertanto una sorta di verifica di un’ipotesi. Attraverso la riflessione, il terapeuta chiede al paziente: “è questo che intendevi dire?” e questo implica che il paziente è l’esperto del proprio problema e non il professionista. Strategicamente si utilizzano forme differenti di riflessione (come l’iper-reazione, la iporeazione, la doppia riflessione) quando i clienti sono ambivalenti o resistenti al cambiamento (vedere di seguito la sezione sulla resistenza). L’utilizzo della riflessione nella MI la rende differente dalla CBT in cui si utilizza l’interrogazione socratica. Tuttavia, entrambe le metodologie hanno obiettivi simili – ossia facilitare la scoperta di sé – soprattutto se la riflessione viene utilizzata con scopi strategici. Si potrebbe sostenere che la riflessione è meno intrusiva dell’interrogazione socratica e che pertanto potrebbe essere più appropriata nei primi stadi dell’incontro terapeutico, soprattutto con i clienti riluttanti al cambiamento. 2. L’Affermazione. Molti ragazzi che si presentano con un problema potrebbero aver avuto feedback negativi dai coetanei o dalla famiglia sulle proprie difficoltà e po79 Ulrike Schmidt 3. 4. 5. 6. 7. 8. 80 trebbero aver sviluppato visioni negative di sé come persone. L’utilizzo dell’affermazione potrebbe essere utile per ricostruire un’autostima danneggiata. Qualunque tentativo di affermazione deve tenere conto della ritrosie degli adolescenti nei confronti degli “elogi” e quindi potrebbe essere necessario farlo sotto forma umoristica o sobria, per es. “Sono rimasto molto colpito da come hai parlato apertamente di argomenti piuttosto spinosi” Riassumere. A intervalli, fare dei brevi riassunti di ciò che è stato detto dà al terapeuta l’opportunità di verificare con il paziente se ha davvero capito ciò che è stato detto. Inoltre, i riassunti possono essere utilizzati strategicamente per enfatizzare alcuni passaggi. In alternativa, si può disenfatizzare alcuni aspetti di ciò che è stato detto, per guidare gentilmente una persona verso una maggiore consapevolezza del problema e una maggiore motivazione al cambiamento. Porre domande aperte. Lo scopo è portare il paziente, e non il terapeuta, a creare le circostanze per il cambiamento dando voce alle preoccupazioni sul proprio comportamento; alle proprie intenzioni di cambiare e a quali sono le alternative di cambiamento possibili. Di seguito elenchiamo una serie di domande che possono delicatamente guidare una persona verso una maggiore presa di coscienza delle proprie difficoltà. Focus sul far venire fuori le preoccupazioni del paziente Per esempio, “tua madre ti ha portato qui ed è chiaramente preoccupata. Tu non sei per nulla preoccupato di…?” oppure: “Sembra che le cose siano cambiate un pò dall’ultima volta che ti ho visto. Come ti senti influenzato da tutto ciò?” Esaminare gli effetti delle difficoltà sul benessere fisico e psicologico, sulla capacità di studiare/lavorare, sulle relazioni con i genitori, i coetanei ed eventuali partner. “Cosa ti preoccupa di…? Che preoccupazioni hai relativamente a…?” “Cosa ti fa pensare che sia necessario un cambiamento?” “Quali sono i possibili benefici del cambiamento?” Se decidessi di cambiare, cosa andrebbe bene per te? Cosa ti fa pensare che potresti cambiare?” I pro e i contro del problema Indagare e riconoscere gli aspetti positivi e negativi del disturbo per es. “Quali sono i lati positivi del tuo…? Come ti ha aiutato?” “Ci sono cose che non ti piacciono del tuo disturbo? Il tuo problema con … ti ha impedito di fare qualcosa che desideravi fare?” Qual è l’aspetto peggiore del tuo …? Quali i migliori? Analizzare gli obiettivi e i valori Per esempio, “Se metti a confronto il modo in cui la tua vita sta andando in questo momento con 5 anni fa, quali sono le differenze?” “Ricordi com’era la tua vita prima che iniziasse il tuo problema relativamente a...?” “Quali erano le tue speranze, i tuoi obiettivi, i tuoi punti di forza?” “In che modo il tuo problema ti ha impedito di progredire?” Due possibilità per il futuro Per esempio, “come sarebbe il tuo futuro (diciamo fra 5 anni) se apportassi alcuni cambiamenti alla tua vita e se il tuo … continuasse?” “Come sarebbe il tuo futuro se decidessi di apportare alcuni cambiamenti alla tua vita Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale e tutto si risolvesse?” 9. Enfasi sulla scelta personale Per esempio, “cosa desidereresti succedesse in seguito al nostro incontro di oggi?” 10. Suggerimenti e feedback relativi a eventuali problemi o rischi per la salute: Offri questi suggerimenti se è il caso, senza dare lezioni o minacciare. Potrebbe essere necessario chiedere il permesso al paziente di fare tutto ciò. Per esempio, “Ho visto una serie di persone giovani con difficoltà simili alle tue – vorresti che ti parlassi del tipo di difficoltà che tendono a incontrare le persone con questo problema e cosa hanno trovato utile?” 11. Offrire una lista di possibili alternative di cambiamento Per esempio, “una possibilità che abbiamo è inviarti a un counselor per analizzare con lui più in profondità alcune questioni di cui abbiamo già parlato. Un’altra alternativa potrebbe essere quella di prescriverti alcuni farmaci, che potrebbero aiutarti. Cosa preferiresti?” Gestire la resistenza All’interno del paradigma della MI, la resistenza è considerata un risultato dell’interazione fra il cliente e il terapeuta e non qualcosa che è localizzato all’interno del cliente. Questo permette di riconoscere che il comportamento del terapeuta può “far scendere o salire” il livello di resistenza del cliente. È più probabile che si verifichi una resistenza quando il cliente sperimenta una potenziale perdita di libertà o di possibilità di scelta (Moyers e Rollnick, 2002). Questo produce inevitabilmente un desiderio di contro-reagire alla percezione di perdita della possibilità di scelta. La MI può essere utile nel rispondere a questo tipo di resistenza, mentre altre tipologie più intrapersonali di resistenza potrebbero essere meno accessibili a questa metodologia. Nella MI vengono utilizzate due risposte per gestire la resistenza: quella riflessiva o quella strategica. Di seguito forniamo degli esempi di entrambe le tecniche: 1. Esprimere rispetto nei confronti del paziente: per es. riconoscere la riluttanza a essere presenti “Apprezzo il fatto che non sia stata per te una decisione facile quella di venire qui oggi” 2. Iper e ipo reazione: Queste sono due forme di riflessione che indirizzano la persona verso il cambiamento. Per esempio, se il paziente afferma di non avere proprio un problema, il terapeuta riflette questa affermazione, minimizzando lo scarso desiderio di cambiare (iporeazione). Lo scopo è portare il paziente a esprimere il proprio disaccordo. Allo stesso modo, nel caso del cliente che dipinge un quadro completamente funesto delle proprie difficoltà, il terapeuta esagera ancor di più le espressioni del paziente, ossia ha una iper-reazione, di nuovo allo scopo di fargli esprimere il proprio disaccordo. 3. La riflessione delle emozioni: Piuttosto che riflettere i contenuti della resistenza del paziente, potrebbe essere utile riflettere gli stati emotivi che si celano dietro questi contenuti, per aiutare il paziente a sentirsi maggiormente compreso. 81 Ulrike Schmidt Per esempio, “Cosa migliorerebbe per te se decidessi di cambiare?” “Se lo avessi saputo non mi troverei qui adesso!” “Sembri arrabbiato relativamente a…, questa rabbia potrebbe aiutarti a combattere questa situazione” oppure “Ti senti confuso e irritato dal tuo … e non sai cosa fare” 4. Duplice riflessione: Questa è utile se la persona è molto ambivalente e riferisce messaggi contrastanti. Per esempio, “Non credi che il tuo … ti stia facendo del male seriamente adesso ma allo stesso tempo sei preoccupato che ti possa sfuggire di mano in seguito”. Ti piacerebbe davvero tenere il tuo … sotto controllo e odieresti non riuscire più a fare…e puoi anche vedere che sta causando seri problemi alla tua famiglia e ai tuoi studi.” 5. Giustapposizione di due valori importanti ma incoerenti fra di loro: L’utilità di questa tecnica sta nel massimizzare le discrepanze del cliente. Per esempio, “Mi chiedo se è davvero possibile per te continuare … e mantenere anche tutte le tue attività extracurricolari”. 6. Enfatizzare la scelta/il controllo personale Questo deve essere fatto con attenzione e rispetto. Per esempio, “forse deciderai che è più utile per te continuare … nel modo in cui hai fatto fino a oggi, anche se ti costa”. “È una tua scelta decidere cosa fare in proposito” “Nessuno può decidere questo per te” “Nessuno può cambiare il tuo … per te. Solo tu puoi farlo.” 7. Reinquadramento Reinquadrare la resistenza al cambiamento ricostruendo in ottica positiva le motivazioni alla base della non volontà di è una forma di rispetto verso il paziente. 8. I sintomi come ricompensa. Per esempio, “potresti avere bisogno di gratificarti alla sera per aver studiato molto durante il giorno” 9. I sintomi come una funzione protettiva. Per esempio, “Non vuoi caricare ulteriore stress sulla tua famiglia condividendo apertamente con loro le preoccupazioni o difficoltà della tua vita (fare degli esempi). Come risultato, ti porti tutto dentro e assorbi la tensione e lo stress attraverso … un modo per cercare di non gravare sulla tua famiglia”. 10. I sintomi come funzioni adattive. Per esempio, “il tuo … può essere visto come un mezzo per evitare il conflitto e la tensione all’interno del tuo matrimonio. Il tuo … tende a mantenere lo status quo, a mantenere le cose come sono. Sembra come se tu fossi stato … per preservare intatta la tua famiglia. Tuttavia non sembri a tuo agio in questa situazione”. 11. Utilizzare esempi paradossali gentili Questa procedura deve essere sempre condotta con attenzione, rispetto e calore umano. Per esempio, “Non mi hai convinto di essere veramente preoccupato”. “Ti dirò una preoccupazione che ho. Questo programma di trattamento richiede una giusta dose di motivazione da parte di chi lo intraprende e, francamente, non sono sicuro, da ciò che mi hai detto fino a questo momento, che tu sia abbastanza motivato da portarlo avanti. Credi dovremmo andare avanti?” “Non sono sicuro che tu sia veramente interessato al cambiamento, o a osservare con 82 Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale attenzione i tuoi … problemi. Sembra che tu sia più felice nell’andare avanti come prima.” 12. Spostamento del focus A volte di fronte alla resistenza potrebbe essere semplicemente utile spostarsi su un argomento differente di conversazione, per evitare lo scontro diretto. Questo permetterà di guadagnare tempo per costruire l’alleanza terapeutica e rivisitare in seguito aree maggiormente problematiche. Le prove empiriche della MI La MI facilita il cambiamento comportamentale in molte aree. L’efficacia degli interventi derivati dalla MI è stata raccolta in due rassegne sistematiche (Dunn et al., 2001; Burke et al., 2002). La MI si è rivelata efficace nel trattamento di problemi di alcol, dell’abuso di droghe, di dipendenza dal fumo, nella compliance al trattamento psichiatrico, con i comportamenti a rischio per lo HIV e altri, come il cambiamento di alimentazione, l’esercizio fisico e altri cambiamenti nello stile di vita. In generale, gli interventi motivazionali sono più efficaci rispetto alla condizione di nessun trattamento e non sono significativamente diversi da altre alternative di intervento che affidabili. Nell’area dell’alcol e dell’abuso di sostanze, interventi motivazionali relativamente brevi hanno provocato effetti da moderati ad ampi e hanno permesso un buon mantenimento degli esiti nel corso del tempo. Gli interventi motivazionali si sono rivelati efficaci come forma di trattamento isolata o prodromica rispetto ad altri interventi, come la CBT. Nel Project Match (1997a), uno studio molto grosso su persone con problemi di alcol, che confrontava un intervento motivazionale di quattro sedute con 12 sedute di CBT o un trattamento a 12 fasi, l’intervento motivazionale breve si era mostrato altrettanto efficace di quello più lungo. In questo studio, una delle ipotesi era che i pazienti negli stadi riflessivo e pre-riflessivo avrebbero reagito meglio al trattamento motivazionale mentre quelli nello stadio attivo avrebbero reagito meglio a un intervento sulle competenze. Nel breve termine non è stato riscontrato alcuna associazione fra l’approccio utilizzato e lo stadio di cambiamento. Tuttavia, l’esito dopo 15 mesi del gruppo meno motivato, che era stato assegnato a una terapia per accrescere la motivazione, era migliore rispetto a quello delle altre due forme di trattamento (Project MATCH, 1997b). In uno studio sulla bulimia nervosa che paragonava fra loro quattro sedute di terapia motivazionale con quattro sedute di CBT prodromiche a ulteriori sedute di CBT di gruppo, i risultati suggerivano che non c’era nessuna associazione fra lo stadio e il risultato (Treasure et al., 1999; M.A. Katzman et al., dati non pubblicati). Anche se l’idea dell’associazione fra differenti tipologie di trattamento con differenti tipologie di clienti potrebbe essere intuitivamente attraente, è probabilmente troppo semplicistico assumere che la misurazione di una specifica variabile, in un certo momento nel tempo, all’interno di un intervento complesso, potrebbe avere un effetto decisivo sul risultato. Gli interventi motivazionali sono stati applicati con successo agli adolescenti, sia come interventi preventivi con ragazzi che 83 Ulrike Schmidt avevano iniziato a manifestare comportamenti a rischio, sia come intervento preliminare rispetto ad altri trattamenti, quali la CBT o quello residenziale. I risultati, a tutt’oggi, sono preliminari ma promettenti (Baer e Peterson, 2002) e fanno eco a quelli della letteratura per gli adulti. I comportamenti del terapeuta nella MI Rollnick e Miller (1995) sono stati in grado di definire alcuni comportamenti del terapeuta specifici e insegnabili che, secondo il loro parere, portavano alla costruzione di una migliore alleanza terapeutica e a un esito migliore. Un buon terapeuta motivazionale deve essere in grado di: 1. comprendere la cornice di riferimento dell’altra persona; 2. esprimere accettazione e conferma; 3. filtrare i pensieri del paziente in modo che le affermazioni motivazionali vengano amplificate e quelle non motivazionale vengano smorzate; 4. far uscire le auto-affermazioni motivazionali del cliente: espressioni di riconoscimento del problema, di preoccupazione, di desiderio o intenzione di cambiare e di capacità di cambiare; 5. accoppiare le procedure allo stadio di cambiamento, assicurando di non andare oltre le potenzialità del momento del cliente e 6. affermare la libertà di scelta e l’auto-direttività del cliente. I punti (1), (3), (4) e (5) si occupano di questioni relative al modello transteorico di cambiamento. Analizzano le ragioni che supportano il cambiamento e hanno lo scopo di aiutare il cliente a spostare l’equilibrio decisionale dei pro e dei contro in direzione del cambiamento. I punti (2) e (6) si occupano degli aspetti interpersonali della relazione terapeutica. Il terapeuta deve fornire un contesto accogliente e ottimistico e assumere una posizione “one-down” enfatizzando l’autonomia del cliente e il diritto di scelta, ma essendo sempre pronto a offrire consigli da esperto e a insegnare competenze una volta che il paziente è pronto a “partire”. In generale, la MI sembra funzionare nella riduzione della “negatività” del cliente (Miller, 1999) e nel Project Match (1997b) si era rilevata particolarmente utile nell’aiutare pazienti irosi. Bassi livelli di resistenza sono predittivi di cambiamento (Miller et al., 1993) e hanno un effetto più potente del semplice accrescere le affermazioni positive sul cambiamento. La resistenza spesso segue allo scontro. Di solito i terapeuti prima di ricevere un training nella MI passano di solito fra il 5 e il 15% del tempo in scontri diretti piuttosto forti. A meno che l’atteggiamento confrontativo del terapeuta non si riduca in funzione del training nella MI, nel risultato finale la percentuale di cambiamento sarà bassissima. 84 Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale Adattare le strategie motivazionali al lavoro con i ragazzi nel processo diagnostico e coinvolgimento nella CBT Ci sono una serie di vantaggi nell’utilizzare le tecniche motivazionali con i ragazzi e i bambini che sono in trattamento. L’adozione di uno stile clinico rispettoso, che riconosce la scelta e l’ambivalenza e che non accresce la resistenza, è una scelta logica. La MI non solo minimizza il conflitto ma utilizza anche l’ambivalenza per sviluppare la motivazione al cambiamento. Bear e Peterson (2002) hanno notato che, nei ragazzi, è spesso presente una curiosità e un’apertura a domande filosofiche che potrebbero rendere la MI particolarmente utile. Inoltre, la MI privilegia gli obiettivi personali di cambiamento piuttosto che gli obiettivi dei genitori o del terapeuta, ed è naturalmente a sostegno dell’analisi della proprie visioni del mondo e degli sforzi continui verso l’autonomia. Ci sono una serie di questioni rilevanti quando ci si trova ad adattare le tecniche standard della MI all’utilizzo con i ragazzi. Solo in una minoranza di casi sono i ragazzi stessi a cercare aiuto. I ragazzi vengono spesso forzati al trattamento e sono spesso arrabbiati. Questi sentimenti sono in conflitto con il coinvolgimento in qualunque intervista. Si può minimizzare problema riconoscendo apertamente e con rispetto quanto debba essere stato difficile per il ragazzo essere presente. Ingersoll e colleghi (2000) suggeriscono che uno dei primissimi compiti importanti per il counselor è quello di distinguere se stesso dagli altri adulti che inviano messaggi più tradizionali. Si potrebbero così fornire informazioni differenti da quelle a cui il ragazzo è stato esposto fino a quel momento. Lo stile terapeutico della MI richiede che il terapeuta prenda spunto dal paziente, che ponga domande aperte e che rifletta sulle risposte facendo attenzione a mantenere un equilibrio di forze fra sé e il cliente. Gli adolescenti potrebbero trovare questo approccio estraneo e in qualche modo minaccioso, poiché tendono a essere circospetti, sospettosi e sensibili alle incomprensioni. In questo contesto, per il terapeuta potrebbe all’inizio essere necessario strutturare maggiormente la seduta e non basarsi unicamente sulle domande aperte. Il terapeuta verrà giudicato sulla base della propria capacità di capire il problema durante lo scambio delle informazioni e così il contenuto e l’approccio dovrebbero essere intrapresi da una guida esperta. Come dicono Baer e Peterson (2002): “Essenzialmente il rapporto e l’alleanza si svilupperanno quando l’esperienza dell’intervista è differente piuttosto che ascoltando le intenzioni del terapeuta sul renderla diversa”. Se non si vogliono affrontare direttamente il feedback personalizzato sul problema, i rischi e le conseguenze, si può utilizzare un grafico per effettuare confronti con la norma o per riassumere gli argomenti del processo diagnostico scrivendo una lettera al paziente. L’autore e i colleghi hanno confrontato un’intervista motivazionale diagnostica seguita da una lettera di feedback personalizzata, con un processo diagnostico standard seguito da una lettera generica del professionista con cui presentarsi ai servizi territoriali di salute mentale. Coloro che avevano ricevuto la diagnosi motivazionale e il feedback personalizzato erano più soddisfatti del processo valutativo, avevano compreso molto di più ed erano maggiormente preoccupati della propria salute e questi cambia85 Ulrike Schmidt menti tendevano a persistere anche diversi mesi dopo la valutazione (Humfress et al. 2002).Il feedback può essere utile per mostrare ai pazienti la gravità del problema e per iniziare una discussione sul trattamento indicato per quello stadio. Questo facilita un approccio collaborativo e riduce il potenziale di scontro fra il paziente e il terapeuta. Uno dei fondamenti della MI è che il cliente dovrebbe assumersi la responsabilità personale di scegliere se desidera o meno cambiare. Chiaramente, per molti problemi che si trovano ad affrontare persone giovani, questa possibilità non è né realistica, né desiderabile o etica e potrebbe esserci un contesto legale che proibisce questa sorta di approccio. Un modo in cui il terapeuta può spiegare questa situazione all’interno di una cornice motivazionale è quello di introdurre il concetto di “un’autorità o un potere superiore” che condiziona le azioni del terapeuta e del paziente. Questo significa che il terapeuta non deve utilizzare lo scontro diretto o la coercizione, ma si accosta all’area problematica indirettamente attraverso le regole della società. Un esempio è il seguente: “Le regole della buona pratica medica per la gestione dell’anoressia nervosa suggeriscono che il paziente dovrebbe essere pesato a ogni seduta. Io e te dobbiamo rispettare queste regole. Non devi vedere il tuo peso se non vuoi. Come possiamo fare?” Abbiamo già precedentemente menzionato che spesso c’è grossa disparità fra i membri della famiglia in termini di importanza assegnata al problema. I genitori potrebbero avere livelli di preoccupazione differenti sui problemi del ragazzo e potrebbero avere idee diverse sul da farsi. Questi punti di vista contrastanti possono portare a elevati livelli di scontro a casa, cosa contraria all’approccio motivazionale del clinico. Esiste un intervento che include la trasmissione alla famiglia dei principi base della MI. Oltre a sviluppare competenze comunicative, si insegna ai membri della famiglia anche come rinforzare i comportamenti non sintomatici e come rimuovere la propria attenzione dei comportamenti problematici. Queste tecniche si basano sul Community Reinforcement Approach (CRAFT; Meyers et al., 1998) che, nell’ambito della dipendenza da droga e dal alcol, si è rivelato altamente efficace nel coinvolgere nel trattamento clienti scarsamente motivati (Meyers et al., 1999; Miller et al., 1999; Meyers et al., 2002). Al di là della valutazione iniziale, l’autore e i colleghi hanno riscontrato che i pazienti giovani trovano utile discutere gli aspetti motivazionali delle proprie difficoltà attraverso l’utilizzo di esercizi scritti – per es. scrivere due lettere al futuro, una immaginando se stessi senza la propria difficoltà e l’altra immaginandosi di avere ancora il problema presente, o scrivere una lettera al proprio problema come fosse un amico o un nemico (Schmidt et al., 2002). Miller (1999) nel discutere alcuni dei limiti dell’intervista motivazionale ha indicato che, anche nel momento in cui si riconosce l’importanza del cambiamento e si fiducia in esso, potrebbe ancora non essere possibile intraprendere le azioni necessarie per cambiare se il cliente non si considera così importante da dover essere “salvato”. Questo si collega a forti assunti cognitivi fondamentali disadattivi che sono auto-sabotanti. In questi casi, si devono compiere dei tentativi nella terapia per concentrarsi sull’identificazione e sulla modifica di questi assunti fondamentali prima di lavorare sulla motivazione al cambiamento. Pertanto, la terapia sarà un processo di cicli reiterati di valutazione e cambiamento. 86 Il coinvolgimento e l’intervista motivazionale Bibliografia Baer, J. S. and Peterson, P. L. (2002). Motivational interviewing with adolescents and young adults. In W. R. Miller and S. Rollnick (eds.), Motivational Interviewing. Preparing People for Change, 2nd edn. New York: Guilford Press, pp. 320-32. Bandura, A. (1998). Health promotion from the perspective of social cognitive theory. Psychology and Health, 13, 4. Bien, T. H., Miller, W. R. and Boroughs, J. M. (1993). Motivational interviewing with alcoholoutpatients. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 21, 347-56. Blake, W., Turnbull, S. and Treasure, J. L. (1997). Stages and processes of change in eating disorders. Implications for therapy. 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Questo capitolo descriverà la natura della formulazione cognitiva del caso e gli aspetti da tenere in considerazione quando la si intraprende con i bambini e gli adolescenti. Si discuterà degli approcci più recenti alla CBT per bambini e adolescenti e del ruolo della famiglia in questa formulazione. Descriveremo la necessità di ulteriori ricerche in una serie di ambiti e il ruolo che queste avrebbero nello sviluppo di modelli cognitivi per i bambini e gli adolescenti. Infine, descriveremo un caso esemplificativo che mostrerà l’utilizzo della formulazione cognitiva del caso. Il trattamento basato su questo tipo di formulazione verrà poi confrontato con un caso di CBT a orientamento maggiormente comportamentale. Complessivamente, l’idea portante di questo capitolo, è che per far progredire la CBT per i bambini e gli adolescenti, sarebbe essenziale sviluppare modelli cognitivi, analizzare le formulazioni cognitive e i trattamenti derivati. Cos’è una formulazione cognitiva del caso? La concettualizzazione di un problema psicologico può essere definita come un processo attraverso il quale il paziente e il terapeuta sono in grado di costruire una 91 Jonquil Drinkwater comprensione condivisa della conformazione unica delle difficoltà attuali dell’individuo (Freeman 1992; Persons, 1989; Butler, 1998; Tarrier e Calam, 2002). Una formulazione cognitiva del caso nella CBT fornisce un quadro complessivo, spiega la sintomatologia e genera ipotesi sui fattori di mantenimento, sugli assunti cognitivi fondamentali o sui meccanismi di base, sulle origini e sul futuro. Aiuta a sviluppare un piano di trattamento, in particolare a scegliere un intervento specifico e aiuta anche a determinare un criterio di cambiamento. È utile nella gestione degli ostacoli nel corso del trattamento, fra cui la scarsa compliance, momenti di stasi e problemi relativi alla relazione. Per essere più efficace, la formulazione cognitiva deve essere parsimoniosa, semplice da comprendere e da spiegare e d’aiuto nello scegliere cosa fare e nel prevedere le difficoltà, così come, cosa più importante, deve “adattarsi” alla concettualizzazione del terapeuta e del paziente. Persons (1989) ha individuato quei problemi che, nella concettualizzazione di un caso, si trovano su due livelli distinti: al primo livello ci sono le “difficoltà manifeste”, ossia i problemi che l’individuo ha nella vita di tutti i giorni fra cui l’ansia o le difficoltà relazionali e, al secondo livello, “i meccanismi psicologici soggiacenti” che sono collegati alle convinzioni dell’individuo e che sono responsabili dell’insorgenza e del mantenimento delle difficoltà manifeste. Queste difficoltà possono essere teorizzate insieme al paziente sotto forma di un circolo vizioso che include gli elementi cognitivi, fisiologici, emotivi e comportamentali del problema. I meccanismi psicologici sarebbero gli assunti cognitivi fondamentali che l’individuo ha in risultato delle proprie esperienze precoci. È importante differenziare fra la teoria cognitiva e la formulazione cognitiva nella CBT. La teoria cognitiva fornisce spiegazioni generali e ipotesi, mentre la formulazione del caso è idiosincratica. Una formulazione cognitiva è tagliata specificamente sull’individuo, costruisce un ponte fra la teoria e la pratica clinica e guida il piano di trattamento (Butler, 1998; Persons e Davidson, 2001). La formulazione resta comunque un’ipotesi ed è aperta ad adattamenti e verifiche per tutto il corso della terapia. Cosa più importante, viene sempre condivisa fra il terapeuta e il paziente. La condivisione della complessità e del contenuto della formulazione cognitiva con i bambini e gli adolescenti dipenderà dal loro livello evolutivo. Williams et al. (1997) hanno ideato un sussidio per la formulazione cognitiva, le “mappe mentali”, che potrebbero aiutare alcuni bambini e adolescenti a ricordare le proprie formulazioni. Le mappe mentali permettono al terapeuta di strutturare, organizzare e integrare informazioni nella formulazione cognitiva in maniera chiara e semplice e aggiornabile nel corso del tempo. Sono immagini colorate e ramificate o diagrammi che facilitano il ricordo, la riflessione e l’organizzazione delle idee e delle informazioni. Fanno uso di immagini o di parole chiave che servono per ancorare le informazioni e, utilizzando differenti tipi di memoria (magazzini mnemonici), accrescono i mezzi e le vie con cui l’informazione può essere ricordata. Kinderman e Lobban (2000) hanno presentato un modello di condivisione della formulazione con i pazienti, che potrebbe ritornare utile con gli adolescenti. Le formulazioni possono essere sviluppate e presentate mano a mano che si evolvono, insieme agli interventi che seguono la stessa evoluzione parallela. All’inizio del processo terapeutico, si presentano formulazioni semplici che vengono elaborate sistematicamente con il procedere della terapia. Questo implica lo sviluppo, in collaborazione con i 92 La formulazione del caso nella terapia cognitiva pazienti, di livelli successivi di formulazione. Ognuno di questi livelli si costruisce su e incorpora il precedente, ma implica anche un aumento incrementale di complessità, di profondità e di contenuto informativo. Aspetti da tenere in considerazione quando si conduce una formulazione cognitiva del caso con i bambini e adolescenti Bisogna tenere a mente una serie di importanti aspetti quando si intraprende una formulazione cognitiva con bambini e adolescenti. Primo, i pensieri sono in fase di sviluppo nell’infanzia e nell’adolescenza, influenzati da una serie di fattori contestuali fra cui la famiglia, i coetanei e la scuola. Secondo, la formulazione cognitiva del caso deve essere appropriata al livello di sviluppo del bambino. Questo è vero anche in relazione alle componenti e allo stile dell’intervento (vedere il Capitolo 8). Infine, il ruolo della famiglia nello sviluppo e nel mantenimento dei pensieri distorti, così come nel fornire fattori protettivi e nel promuovere il cambiamento. La ricerca evolutiva ha iniziato a identificare i collegamenti fra gli atti cognitivi dei genitori e quelli dei figli (Garber e Robinson, 1997). Tuttavia, alcune ricerche fondamentali sui modelli cognitivi nei bambini e negli adolescenti accrescerebbero enormemente la nostra capacità di sviluppare formulazioni efficaci che tengano conto di questi fattori. Il trattamento dei bambini e degli adolescenti sulla base di una formulazione cognitiva personalizzata o dei manuali di trattamento L’attuale dibattito nella letteratura sulla CBT per adulti è stato sintetizzato da Tarrier e Calam (2002). Essi indicano che, nella CBT per adulti, i professionisti che si trovavano a gestire l’eterogeneità della pratica clinica tendevano a utilizzare la formulazione del caso, mentre i ricercatori clinici, che valutano l’efficacia di specifici trattamenti attraverso prove cliniche, no. La valutazione di solito mira a raggruppare i pazienti all’interno di un gruppo omogeneo e a trarre un giudizio su un trattamento standardizzato, di solito basato sull’utilizzo di un manuale. Questa procedura viene sempre più accusata di allontanarsi dalla pratica clinica quotidiana. Tarrier e Calam (2002) hanno riassunto l’attuale dibattito sulla CBT per adulti attraverso due domande chiave: nella ricerca clinica bisognerebbe utilizzare il protocollo del trattamento standardizzato o della formulazione cognitiva del caso e, nella pratica clinica bisognerebbe utilizzare il protocollo del trattamento standardizzato o della formulazione cognitiva del caso? Persons (1991) ha sostenuto una forte argomentazione a favore di un protocollo di ricerca che includesse la formulazione cognitiva del caso e la diagno93 Jonquil Drinkwater si di natura ideografica all’interno del un protocollo di trattamento e della una prova di efficacia clinica. Nella CBT per bambini e adolescenti, questo dibattito non si sta verificando e una delle principali ragioni è che l’approccio della formulazione cognitiva non è ancora stato ampiamente adottato né dai clinici né dai ricercatori. C’è tuttavia un dibattito generale relativo all’utilizzo dei manuali di trattamento, che è stato riassunto da Ollendick e King (2000). Essi suggeriscono che l’aderenza a un manuale di trattamento potrebbe sembrare in contrasto con l’adozione di un approccio basato sulla formulazione, ma non deve essere necessariamente così. Le questioni fondamentali sono due: primo, come il manuale può fornire una cornice generale di riferimento per trattare il singolo individuo e, secondo, quali aspetti di questo particolare cliente mi faciliteranno l’utilizzo del manuale di trattamento? La maggior parte dei risultati della ricerca sulla CBT con i bambini e gli adolescenti si sono basati sui manuali (per esempio, March e Mulle, 1998).Ci sono diversi aspetti importanti da considerare quando si utilizzano manuali di CBT per bambini e adolescenti. Prima di tutto non esiste una definizione coerente di CBT. L’espressione CBT è un ombrello sotto cui si raccolgono numerose tecniche comportamentali e cognitive sottoposte a numerose mutazioni. Inoltre mancano analisi delle componenti che permettano di determinare quali siano quelle efficaci. I manuali sono per lo più di stampo comportamentale e pongono pochissima enfasi sui processi cognitivi e pochi studi di ricerca si sono focalizzati sulla produzione e misurazione degli elementi di cambiamento cognitivo. Alcuni manuali presumono anche un livello di sviluppo uniforme, anche se sono diretti a un range di età piuttosto ampio. Anche quando c’è una componente familiare, questa non viene modificata per analizzare il particolare ruolo che quella singola famiglia gioca nello sviluppo e nel mantenimento del problema. Tuttavia sembra che uno dei problemi più significativi sia la mancanza di una formulazione cognitiva. Kendall e colleghi (Kendall, 1994; Kendall et al., 1997, 2001) hanno redatto una serie di manuali che hanno avuto una notevole influenza nel campo della CBT per bambini e adolescenti. In particolare, il manuale per i disturbi d’ansia è stato la base per una serie di ricerche successive (Barrett et al., 1996; King et al., 1998; Last et al., 1998; Mendlowitz et al., 1999; Silverman et al., 1999; Barrett et al., 2001).Il manuale prevede un programma di 16 sedute individuali: le sedute 1-8 sono di addestramento e quelle 9-16 sono di pratica. Le strategie utilizzate sono per lo più comportamentali e le uniche componenti cognitive sono l’individuazione e la modifica discorso interiore. Questa tecnica cognitiva risale ai primi lavori di Meichenbaum (1977). Il manuale è stato scritto per la terapia individuale; tuttavia, non ci sono elementi di formulazione cognitiva del caso individualizzata. Questa terapia ha ottenuto risultati relativamente buoni, ma si sostiene che a meno che non ci siano progressi nel campo, come indicano una serie di capitoli di questo volume, basandoci solo su vecchi approcci cognitivi non saremo in grado di far progredire ancora i risultati positivi nel trattamento. Crediamo che un modo per far progredire questi esiti positivi nella CBT per bambini e adolescenti sia basare tutti i trattamenti su una formulazione cognitiva del caso individualizzata, indipendentemente dal fatto che il trattamento si basi poi su un manuale o meno, e che questa debba essere utilizzata in una gamma più vasta di interventi cognitivi. 94 La formulazione del caso nella terapia cognitiva Approcci cognitivi nuovi Sono necessari modelli cognitivi che incorporino importanti fattori evolutivi e familiari e studi empirici che verifichino le previsioni tratte da questi modelli. Possiamo adattare modelli cognitivi adulti che identificano le anormalità cognitive principali e i fattori cognitivi e comportamentali di mantenimento. Possiamo anche sviluppare nuovi modelli cognitivi che includano fattori di sviluppo e di mantenimento. La ricerca nel campo dell’attività cognitiva potrebbe analizzare la specificità del contenuto delle distorsioni e lo stato di sviluppo dei pensieri nei bambini e negli adolescenti. Si potrebbe anche indagare come i pensieri e il cambiamento cognitivo possano essere misurati con accuratezza. La ricerca deve anche esplorare in che modo l’attuale utilizzo di tecniche comportamentali abbia un impatto e modifichi i pensieri. Un altro ambito chiave è lo sviluppo di schemi negli individui e nelle famiglie e la trasmissione intergenerazionale di questi schemi. C’è grande variabilità sia nella natura sia nella varietà delle componenti cognitive della CBT per bambini e adolescenti. Il disturbo ossessivo compulsivo (OCD) è un’area in cui ci sono esempi interessanti di approcci più comportamentali o più cognitivi. L’approccio più comportamentale è descritto nel Capitolo 17. L’approccio più cognitivo si è basato sulla teoria cognitiva del OCD sviluppata da Rachman (1997) e Salkovskis (1999). La teoria cognitiva del OCD sostiene che le persone che soffrono di problemi ossessivi considerano erroneamente i pensieri intrusivi come un segnale di una potenziale responsabilità personale nel causare eventuali danni a se stessi o agli altri. Questa interpretazione motiva i comportamenti neutralizzanti, che possono rafforzare e mantenere i giudizi di responsabilità/minaccia. Il trattamento include procedure che riducono tali interpretazioni fallaci. Sono stati condotti studi su casi individuali di adolescenti che utilizzavano l’approccio cognitivo al OCD. Safran e Somers (1996) hanno utilizzato questo approccio nel trattamento di due adolescenti ottenendo un esito positivo. Williams et al. (2002) hanno trattato sei adolescenti utilizzando la formulazione cognitiva del caso e l’approccio cognitivo. Hanno riscontrato che durante il corso del trattamento i giudizi di responsabilità cambiavano nello stesso momento in cui si verificavano cambiamenti nel livello dei sintomi. Questi studi iniziali sono molto interessanti e suggeriscono la necessità di indagare ulteriormente un approccio maggiormente cognitivo al trattamento degli adolescenti con OCD. Il ruolo della famiglia nella CBT Il ruolo della famiglia è importante sia nella formulazione cognitiva sia nell’intervento che si basa su di essa. Ci sono molti modi in cui i fattori familiari possono essere inclusi nello sviluppo di una formulazione. È possibile intraprendere formulazioni cognitive distinte per ciascun genitore e fratello, così come per il bambino o combinare questi fattori all’interno di una formulazione unica. Il terapeuta potrebbe decidere di focalizzarsi unicamente su aspetti specifici del coinvolgimento della famiglia – per es. identificare alcuni assunti genitoriali distorti fondamentali che sono presenti anche nel 95 Jonquil Drinkwater bambino -–o potrebbe scegliere di individuare solo aspetti dei comportamenti dei genitori e dei familiari che contribuiscono al mantenimento del disturbo del bambino. Suggeriamo che sia importante considerare il ruolo della famiglia nello sviluppo e nel mantenimento dei pensieri distorti a tutti i livelli della formulazione cognitiva. I familiari hanno un ruolo importante nello sviluppo degli schemi. Potrebbero anche avere un ruolo nell’insorgenza e nel mantenimento dei problemi stessi attraverso i propri atti cognitivi (per es. attenzione selettiva, attribuzione causale, aspettative e assunzioni) e i propri comportamenti, fra cui rassicurazione e iperprotezione. Per fare l’esempio della depressione, White e Barrowclough (1998) hanno trovato che le madri depresse facevano un numero maggiore di attribuzioni causali sui problemi comportamentali dei figli e consideravano queste cause come qualcosa di personale e unico del bambino, più stabili e sotto il controllo volontario del bambino stesso. La tendenza ad attribuire i problemi comportamentali del bambino a fattori idiosincratici o personali era predittiva di una diagnosi di depressione e di punteggi depressivi più elevati in misure standardizzate. Gli autori suggeriscono che queste attribuzioni possano mediare le risposte di coping e quindi influenzare il comportamento genitoriale. Cosa interessante, Garber e Robinson (1997) hanno mostrato che, dopo avere tenuto sotto controllo i livelli di depressione, i figli di madri depresse presentavano comunque delle differenze fra lo stile attributivo e la percezione della propria utilità. Mettendo insieme questi due risultati, si ipotizza che i pensieri e i comportamenti dei genitori verso i figli potrebbero aver portato alla formazione di schemi negativi nei bambini stessi. Questi schemi negativi potrebbero essere mantenuti attivi dai pensieri e comportamenti negativi costanti del genitore. A sua volta, lo schema del genitore potrebbe essere mantenuto dai pensieri e dai comportamenti negativi del bambino. Il coinvolgimento delle famiglie nella formulazione cognitiva del caso è al primissimo stadio. Come precedentemente discusso, la maggior parte della ricerca sugli esiti della CBT nei bambini e negli adolescenti non include spesso interventi basati sulla formulazione cognitiva. Tuttavia, è interessante passare in rassegna la ricerca su quegli interventi di CBT che hanno incluso membri della famiglia, per verificare se esistono prove che il coinvolgimento della famiglia accresca l’efficacia della CBT. Barrett et al. (1996, 2001) hanno paragonato la CBT individuale con la CBT unita a una gestione dell’ansia familiare (FAM).Entrambi i gruppi mostravano un miglioramento significativo se paragonati con una lista d’attesa di controllo e i punteggi clinici e di self-report indicavano la presenza di benefici aggiuntivi per il gruppo CBT più FAM. Tuttavia, il follow-up a 6 anni mostrava che la CBT più la FAM non era più efficace della CBT da sola. Cobham et al. (1998) hanno trovato che l’inclusione di una componente familiare aumentava l’efficacia del trattamento solo per quei bambini che avevano almeno un genitore ansioso. Mendlowitz et al. (1999) hanno rilevato un maggiore coinvolgimento genitoriale nelle strategie di coping attivo del bambino, ma non nei livelli d’ansia. Spence et al. (2000) hanno riscontrato che l’efficacia della CBT non era significativamente più grande quando si aggiungeva una componente familiare. Albano e Kendall (2002) rendono questi risultati misti ancora più interessanti evidenziando che, sulla base del manuale di Kendall, i genitori sono coinvolti anche nella CBT individuale. Sostengono che il clinico valuta ciascuna situazione individuale e “dosa” il grado di coinvolgimento genitoriale. Tredici prove cliniche randomizzate 96 La formulazione del caso nella terapia cognitiva basate sul manuale di Kendall hanno fornito un forte sostegno all’efficacia del trattamento che presentava. Tuttavia, dal momento che non c’è stata alcuna analisi delle componenti del pacchetto della CBT di Kendall e che il grado di coinvolgimento dei genitori variava fra gli individui, il contributo del coinvolgimento genitoriale alla sua efficacia non poteva essere determinato. Tornando più nello specifico sull’attività cognitiva, Nuata et al. (2003) hanno paragonato la sola CBT con la CBT associata a un parent training cognitivo (CPT) e non hanno riscontrato effetti aggiuntivi ascrivili al CPT. Dal momento che non erano disponibili strumenti per valutare i cambiamenti nei pensieri dei genitori, gli autori non sono stati in grado di giudicare se questi fossero cambiati, anche se questo non aveva influenzato l’ansia del bambino, o se non fossero cambiati affatto. Lo status attuale dei risultati della ricerca sugli aspetti cognitivi del coinvolgimento familiare nella CBT, indica che non ci sono idee chiare su quali cambiamenti sarebbero necessari per migliorare i risultati. Non si sa bene quali siano i cambiamenti cognitivi, se ci sono, ascrivibili agli attuali interventi, si sa ancora come mantenerli. Supponiamo che la mancanza di una formulazione cognitiva del caso sia un altro fattore che potrebbe in parte spiegare i risultati ambigui nei trattamenti che includono le famiglie. Una formulazione cognitiva del caso che include i fattori familiari potrebbe guidare l’intervento. Il terapeuta potrebbe scegliere di non coinvolgere la famiglia, ma di lavorare solo con l’individuo come, per esempio, nel caso di un adolescente. Questo intervento individuale potrebbe tuttavia includere l’osservazione dei fattori familiari. Suggeriamo che dal momento che gli attuali interventi di CBT non si basano su una formulazione cognitiva del caso, questo limita l’efficacia di questi interventi e contribuisce ai risultati ambigui. Inoltre, se il bambino o la famiglia non comprendono la propria formulazione, questo potrebbe far diminuire con il tempo l’efficacia dell’intervento, o portare addirittura a una ricaduta. Quindi, la questione del coinvolgimento delle famiglie nella formulazione cognitiva e nell’intervento per bambini e adolescenti è in una fase interessante di sviluppo. Caso esemplificativo di una formulazione cognitiva per un disturbo d’ansia Mentre si riconosce la necessità di sviluppare nuovi modelli cognitivi per i bambini e gli adolescenti, è importante non ignorare i modelli cognitivi adulti e tutte le tecniche utilizzate per modificare i pensieri che si basano su questi modelli. Piacentini e Bergman (2001) hanno passato in rassegna il processo cognitivo considerato alla base dello sviluppo e del mantenimento del disturbo d’ansia nel corso di tutte le età e gli interventi comportamentali e cognitivi che derivano da questa cornice di riferimento. La loro rassegna suggerisce che, anche se lo studio dei processi cognitivi collegati all’ansia si è focalizzato sugli adulti, i dati disponibili sembrano evidenziare che questi processi hanno un ruolo simile anche nell’ansia infantile. Questa conclusione è supportata dal lavoro di Shafran e Somers (1996) e Williams et al. (2002). I trattamenti multicomponente (per es. Kendall, 1994; Kendall et al., 1997), purtroppo, coprono un range di età piuttosto ampio, includendo bambini e adolescenti, 97 Jonquil Drinkwater ma utilizzano concetti cognitivi semplici come la modifica del discorso interiore. Suggeriamo che gli adolescenti, in particolare, possano trarre benefici da formulazioni cognitive del caso basate su modelli cognitivi adulti e dalla varietà di interventi cognitivi basati su questi modelli. Descriveremo un caso esemplificativo allo scopo di illustrare una formulazione cognitiva del caso e gli interventi, prettamente cognitivi, basati su questa. John è un ragazzo di 14 anni che soffre di attacchi di panico, ha paura di ammalarsi e di morire, presenta sintomi depressivi e problemi familiari. È il più giovane di tre figli, la distanza con i fratelli è molto ampia e si sente isolato e non amato. Un anno prima dell’insorgenza dei problemi di John, la madre aveva avuto una relazione e aveva incolpato John e i fratelli per la successiva rottura del matrimonio. Il padre di John aveva sempre avuto paura che le persone si ammalassero e morissero. È sempre stato preoccupato della propria e della altrui salute, soprattutto da quando uno dei fratelli ha avuto un infarto in età molto precoce. La storia di John includeva alcuni episodi di ansia all’età di 10 anni, che erano stati trattati con l’esposizione allo stimolo ansiogeno. Gli attuali problemi di John sono iniziati dopo che lo zio ha avuto un secondo attacco cardiaco. Poco dopo, John riferisce di essere andato al bagno di aver guardato il tappeto e di aver creduto che pendesse all’insù. Aveva pensato che ci fosse qualcosa che non andava nella propria testa ed era entrato in panico. Aveva iniziato ad avere attacchi di panico due volte al giorno, evitava di uscire, verificava sempre di non avere sintomi strani, cercava rassicurazioni costanti, si sforzava di controllare il proprio respiro, si distraeva picchiettando le gambe e sedendosi quando si sentiva ansioso. Divenne depresso perché non credeva di poter superare i propri attacchi di panico e sentiva che gli stavano rovinando la vita. Il primo elemento della concettualizzazione riguardava gli attacchi di panico e si basava sulla teoria cognitiva del panico (Clark, 1986). Questa teoria dice che gli individui vanno in panico quando hanno la tendenza a interpretare una serie di sensazioni corporee in ottica catastrofica. Le sensazioni che vengono fraintese sono principalmente quelle coinvolte nelle risposte normali di ansia, per esempio le palpitazioni o il respiro corto. Il fraintendimento in ottica catastrofica implica l’interpretazione di queste sensazioni come indicatori di un impellente malore fisico o mentale come un attacco cardiaco, o la perdita di controllo dei propri pensieri o la pazzia. Nel caso di John, la miccia che aveva provocato il primo attacco di panico era l’aver guardato in basso troppo velocemente e aver pensato che il tappeto penzolasse all’insù. Aveva pensato “E se questo dipendesse da un tumore al cervello?” e la convinzione era del 100%. Divenne ansioso e cominciò a soffrire di vertigini, a sudare e ad avere brividi in conseguenza alla risposta d’ansia. Fece un’altra interpretazione sbagliata, ossia che questi sintomi indicassero che stava per morire. Il secondo elemento della concettualizzazione riguardava le preoccupazioni per la salute. La teoria cognitiva delle ansie per la salute afferma che segnali corporei, sintomi, variazioni e informazioni mediche tendono a essere percepiti come più minacciosi di ciò che sono in realtà e che una particolare malattia è ritenuta più probabile di ciò che è in realtà (Salkovskis e Warwick, 1986). Allo stesso tempo, le persone hanno maggiori probabilità di considerarsi incapaci di prevenire la malattia, incapaci di influenzarne il corso e prive di mezzi efficaci per fare fronte alla minaccia percepita. Se le sensazioni o 98 La formulazione del caso nella terapia cognitiva i segnali non aumentano con il livello dell’ansia, o la persona non considera immediata la catastrofe, allora la reazione sarà la preoccupazione per la salute. Tuttavia, se i sintomi interpretati come segno di catastrofe imminente, fanno parte dell’arousal del sistema nervoso autonomo in seguito all’ansia, allora questi aumenteranno e la risposta più probabile sarà un attacco di panico. John, presentava sia attacchi di panico sia preoccupazione per la salute. L’ansia per la salute si innescava quando non riusciva a raggiungere qualcosa o quando muoveva la testa all’improvviso. Aveva pensieri del tipo “Ho un tumore al cervello, o un’emorragia cerebrale o la sclerosi multipla”. I fattori psicologici che contribuivano al mantenimento di queste convinzioni includevano, prima di tutto, fattori cognitivi come la focalizzazione su sensazioni corporee, preoccupazioni relative alla salute e una distorsione verso prove confermatorie della malattia. Un altro fattore era l’aumento del livello di arousal fisiologico in risposta alla percezione di una minaccia. Infine c’erano una serie di fattori comportamentali che contribuivano a mantenere l’ansia per la salute come la ricerca di rassicurazione, l’evitare di uscire, il molleggiare le gambe, il controllare la vista e comportamenti specifici di sicurezza come sedersi o muoversi lentamente. Venne preso in considerazione il ruolo della famiglia nell’insorgenza e nel mantenimento dei problemi di John, a tutti i livelli della formulazione cognitiva. Le primissime esperienze di relazione all’interno della famiglia erano coinvolte nello sviluppo degli assunti cognitivi fondamentali. Per fare alcuni esempi specifici, la malattia e la paura della salute del padre erano stati importanti nello sviluppo delle convinzioni e assunzioni sulla salute e padre e figlio ne condividevano numerose. I pensieri sul non essere amato e non curato erano spiegabili alla luce della situazione matrimoniale e delle affermazioni e comportamenti negativi e rifiutanti della madre per molti anni. L’incidente critico era un altro esempio di malattia nella famiglia e nei fattori di mantenimento c’erano le rassicurazioni che la famiglia dava a John quando le chiedeva. Per tutto il corso della valutazione e del trattamento, la formulazione è stata rivista e modificata. Venne sviluppata una formulazione complessiva che includeva i fattori familiari e che accomunava le esperienze precoci, gli assunti fondamentali e disfunzionali, l’incidente critico e i problemi presenti al momento in quattro ambiti distinti: cognitivo, comportamentale, affettivo e fisiologico. Tutti gli aspetti della concettualizzazione vennero raggiunti in collaborazione con John (Figura 6.1). Sulla base di questa formulazione è stato sviluppato un piano di trattamento. La sezione seguente descrive solo le tecniche utilizzate per modificare i pensieri tratti dal modello cognitivo adulto. Gli attacchi di panico sono stati trattati per primi e il trattamento si basava sulle tecniche utilizzate da Clark (1996).Questo implica, prima di tutto, l’identificazione delle interpretazioni catastrofiche delle sensazioni corporee e poi la generazione di interpretazioni alternative non catastrofiche. Poi, è stata verificata la validità delle interpretazioni non catastrofiche attraverso la discussione e gli esperimenti comportamentali. Le sperimentazioni comportamentali sono state organizzate per mostrare a John che la catastrofe temuta non si verificava. Tutti i sintomi di John sono venuti alla luce e si è lavorato sistematicamente su di essi – per es. sensazioni di distanziamento e derealizzazione. Come sempre nell’approccio cognitivo della CBT lo scopo delle prove comportamentali è quello di modificare i pensieri. 99 Jonquil Drinkwater Figura 6.1 Concettualizzazione complessiva Esperienze precoci Assunti cognitivi Fondamentali Assunti Disfunzionali Paura paterna della malattia e della morte Figlio minore che si sente lasciato in disparte Episodi di ansia relativi al vento Relazione extraconiugale della madre e problemi coniugali Primo attacco di cuore dello zio Sono fragile Non ho nessun controllo sulla mia salute Non sono degno d’amore Nessuno si occuperà di me Le persone possono morire improvvisamente Se ho una sensazione fisica inaspettata devo essere malato Se non mi sento bene deve essere perché ho una malattia grave Se non mi occupo della mia salute sarò una preoccupazione per la mia famiglia Se mi ammalerò nessuno si occuperà di me Se non sto calmo sono corro il pericolo di perdere il controllo e impazzire. Incidente critico Secondo attacco cardiaco dello zio Pensieri automatici negativi Potrei avere...per es. un tumore al cervello C’è qualcosa che non va nella mia testa Tutti mi abbandoneranno se vado nel panico Potrei morire Emozioni Ansia Panico Depressione 100 Sensazioni Somatiche Vertigini Dolori al petto Dolori alla testa Fiato corto Pensieri Monitoraggio dei sintomi fisici Preoccupazione Incapacità di concentrazione Convinzioni e comportamenti genitoriali Comportamento Ricerca di rassicurazione Evitamento delle uscite Dondolio delle gambe Controllo della vista La formulazione del caso nella terapia cognitiva Sono state utilizzate una serie di tecniche cognitive per i problemi di John fra cui la ristrutturazione cognitiva. John presentava anche una fusione fra azione e pensiero, dal momento riteneva che una cosa pensata doveva per forza essere reale. Per esempio, se pensava che la sorella avrebbe avuto un attacco di cuore credeva che questo sarebbe successo, o se pensava che avesse un cancro al polmone questo doveva essere vero. Nelle sedute si è lavorato su questi esempi per dimostrare che pensare qualcosa non vuol dire che questa sia vera. Sono stati inclusi esempi umoristici del tipo: se credi che la luna sia fatta di formaggio blu, questo vuol dire che è vero? È stata intrapresa anche una modificazione delle immaginazioni dal momento che John ne aveva una ricorrente: cadere sul pavimento senza nessuno che andasse ad aiutarlo. Abbiamo dipanato il significato dell’immagine e poi abbiamo aiutato John a trasformarla per cambiarne il significato. Dopo la trasformazione, l’immagine includeva alcuni amici che lo aiutavano ad alzarsi e che gli dicevano che si trattava soltanto di un’immaginazione. Sono state utilizzate anche delle prove sconfermatorie spontanee. Per esempio John credeva di non riuscire ad alzarsi la mattina senza la sveglia. Una mattina la sveglia non era suonata e questo evento era stato utilizzato come prova sconfermatoria di quella convinzione. Altri aspetti della terapia includevano un lavoro comune per far cessare il maggior numero possibile di fattori di mantenimento del problema fra cui l’evitamento (per es. evitare di uscire dalla casa) e i comportamenti di sicurezza (per es. sedersi per evitare di cadere). L’intervento sui fattori familiari è stato condotto unicamente con John e la sorella maggiore dal momento che i genitori si erano rifiutati di prendere parte alle sedute. La sorella maggiore era coinvolta nello sviluppo della formulazione del caso e nel trattamento scelto. Ha aiutato John ad individuare alcuni dei fattori familiari nello sviluppo e nel mantenimento dei problemi di John, fra cui il ruolo della preoccupazione per la salute del padre e dei problemi coniugali dei genitori. Era stata anche attivamente coinvolta nel diminuire la ricerca di rassicurazione. Il trattamento ha avuto un buon esito misurato attraverso questionari standardizzati e il miglioramento era presente anche al follow-up dopo un anno. È interessante confrontare questo caso con uno pubblicato da Ollendick (1995) che aveva utilizzato un approccio di CBT prevalentemente comportamentale. Anche lo studio di Ollendick coinvolgeva un paziente di 14 anni con attacchi di panico, associati in questo caso all’agorafobia. Il trattamento prevedeva, prima di tutto, l’esame della natura del panico e delle differenze fra questo e l’ansia. Le sedute seguenti erano focalizzate sull’insegnamento di tecniche di rilassamento e sullo sviluppo di auto-affermazioni positive e di strategie di auto-istruzione derivate da Meichenbaum (1977). È stata sviluppata una gerarchia di situazioni agorafobiche per l’esposizione e le sedute di esposizione in vivo si verificavano con il terapeuta o il genitore al di fuori delle sedute cliniche (Tabella 6.1). Entrambi i casi singoli avevano avuto un esito positivo. Tuttavia, la natura degli elementi cognitivi e le tecniche cognitive utilizzate nel caso qui descritto sono fortemente differenti. Sono necessarie ricerche per indagare come l’attuale uso di tecniche comportamentali abbia un impatto e sia in grado di modificare i pensieri, per es. l’utilizzo dell’esposizione allo stimolo fobico all’interno di una cornice cognitiva. Questi due casi esemplificativi evidenziano le attuali marcate differenze nel settore. 101 Jonquil Drinkwater Tabella 6.1 Le tecniche utilizzate per modificare i pensieri in ciascuno dei casi esemplificativi Ollendick (1995) Caso Esemplificativo • Identificazione delle auto-affermazioni ansiose • Sostituzione di queste auto-affermazioni con altre di coping 1. Presentazione del modello cognitivo 2. Formulazione cognitiva del caso condivisa 3. Sperimenti comportamentali per verificare i pensieri 4. Tecniche cognitive: • Ristrutturazione cognitiva • Fusione pensiero-azione • Modificazione delle immaginazioni • Utilizzo di prove sconfermatorie spontanee 5. Cessazione dell’evitamento e dei comportamenti di sicurezza che precludevano il cambiamento cognitivo 6. Formazione sull’ansia, i pensieri ansiosi e le malattie specifiche. I possibili progressi La CBT è impegnata in direzione di una validazione empirica sia in termini di premesse teoriche che di esiti del trattamento. La questione relativa alla formulazione cognitiva del caso non è differente e dovrebbe essere risolta facendo riferimento ai risultati empirici. Sono necessarie ricerche fondamentali per sviluppare modelli cognitivi che, diversamente da quelli adulti, si occupino dell’insorgenza e del mantenimento dei problemi psicologici. La CBT per gli adulti così come quella per bambini o adolescenti trarrebbe grande beneficio da questi modelli e dai trattamenti da essi derivati. Sono necessarie anche ulteriori ricerche in una serie di aree differenti. Alcune di queste sono: il confronto fra trattamenti basati sulla formulazione o sui manuali; il ruolo della famiglia nella formulazione cognitiva del caso e negli interventi da essa derivati; prove cliniche che mettano a confronto la CBT con altri trattamenti e studi longitudinali. Suggeriamo qui che lo spostamento vero un approccio di CBT maggiormente cognitivo, che include l’utilizzo di una formulazione cognitiva individualizzata del caso, potrebbe essere una via efficace di progresso per la CBT per bambini e adolescenti. 102 La formulazione del caso nella terapia cognitiva Bibliografia Albano, A. M. and Kendall, P. C. (2002). Cognitive behavioural therapy for children and adolescents with anxiety disorders: clinical research advances. 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La letteratura di ricerca suggerisce che il coinvolgimento dei genitori in uno o più di questi ruoli potrebbe dare dei benefici, a breve e medio termine in una serie di disturbi soprattutto con i bambini piccoli; anche se i vantaggi a lungo termine sono meno chiari (Barrett et al., 1996; Fonagy et al., 2002). La gran parte della letteratura sulla CBT per bambini e ragazzi continua a mostrare le proprie radici “adulte” poiché il focus primario con gli stessi bambini è sul lavoro individuale. Mentre recenti lavori hanno sottolineato la necessità di adottare una prospettiva sistemica (per es. Friedburg e McClure, 2002; Stallard, 2002a), c’è stata una discussione poco approfondita su come si potrebbe raggiungere questo obiettivo. Inoltre, ci sono state scarse analisi dei fattori da prendere in considerazione quando si determina la natura e l’ampiezza del coinvolgimento dei genitori, come possano essere negoziati i ruoli genitoriali e concordati con i genitori stessi o come potrebbero essere affrontate, in modo più ampio e più complesso, le questioni relative alla famiglia. In questo capitolo, esploreremo alcuni dei contrasti che possono sorgere quando 107 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe si cerca di applicare la CBT al lavoro con i bambini e le famiglie e discuteremo come questi possano essere affrontati. Gli autori non si sono proposti di passare in rassegna specifici programmi strutturati per i genitori, che vengono presentati negli altri capitoli, in relazione a specifici disturbi. Piuttosto, lo scopo è concentrarsi sulle questioni etiche e pratiche che sorgono quando si cerca di adottare una prospettiva sistemica all’interno di una CBT per bambini e adolescenti. L’orientamento degli autori su queste problematiche si è sviluppato soprattutto dal lavoro clinico, in cui è raro che i bambini si presentino in terapia senza essere accompagnati da un genitore. Nella pratica clinica, gli autori trovano spesso utile basarsi su altri approcci terapeutici, come la terapia familiare e la terapia narrativa, per consentire un’applicazione efficace della CBT con i bambini e le famiglie. Gli autori hanno analizzato molti aspetti di queste tecniche terapeutiche compatibili con la teoria e la pratica della CBT e le ritengono un possibile punto di partenza per lo sviluppo di un approccio cognitivo comportamentale distinto; radicato nella terapia sistemica, per lavorare con le famiglie e sistemi più allargati. Anche se in questo capitolo ci si riferisce sempre ai “genitori”, sono ovviamente inclusi tutti gli adulti, fra cui tutori, custodi o altri adulti che potrebbe essere in loco parentis. Problematiche che sorgono quando si cerca di applicare la CBT al lavoro con sistemi familiari Nella Tabella 7.1 vengono descritte alcune delle componenti chiave della teoria, della pratica e dell’ideologia della CBT. Questi tre aspetti sono coerenti fra loro quando si lavora con un cliente adulto che ha scelto consapevolmente di intraprendere un percorso terapeutico. Tuttavia, quando si lavora con sistemi più che con individui, questi collegamenti possono porre i clinici di fronte a difficoltà specifiche. Per esempio, come dovrebbe essere interpretato il principio degli “obiettivi stabiliti dal cliente” (colonna 3; Tabella 7.1) quando si lavora con i bambini e i loro genitori? Chi è il cliente? Se un bambino viene inviato al terapeuta perché si rifiuta di frequentare la scuola e, nel corso del processo diagnostico, diventa chiaro che non vuole ritornare a scuola nonostante i suoi genitori lo desiderino, quale di questi punti di vista dovrebbe avere la priorità? Se una madre porta la bambina in terapia e riferisce che il marito da cui ha divorziato non crede sia necessario modificare il comportamento della figlia, come si dovrebbe comportare il terapeuta? Come si possono bilanciare fra loro i principi di “minima invasività” e di “focus individuale” (colonna 1 e 3; Tabella 7.1) di fronte alla necessità, in alcuni casi, di tenere in considerazione problematiche relative alla famiglia allargata? Se un bambino viene inviato in terapia a causa degli elevati livelli di ansia e i genitori passano la maggior parte della seduta di valutazione a discutere e a rimproverarsi reciprocamente, le problematiche coniugali dovrebbero essere affrontate prima di incontrare il bambino da solo? Il terapeuta come dovrebbe gestire una famiglia che richiede una CBT individuale per il proprio bambino, asserendo che il suo comportamento sta causando problemi ai membri della famiglia intera? 108 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici Tabella 7.1 Fondamenti teorici, comportamentalI Fondamenti teorici pratici e ideologici Tecniche chiave (adattate da Beck, 1993) • Focus su come i pensieri, • Basare gli interventi su una formulazione cognitiva (e i sentimenti e i comportacomportamentale) del caso menti si influenzano reciche è in costante evoluzioprocamente ne • Forte alleanza terapeutica • Focus individuale • Nessun interesse nelle mo- • Enfasi sulla collaborazione e sulla partecipazione attitivazioni inconsce va • Orientamento al problema e agli obiettivi • Il cambiamento non dipende necessariamente • Enfasi iniziale sul presente educativo dal conoscere la causa • Orientamento e focus sulla prevenzione originaria di tutto, anche delle ricadute se questa potrebbe essere • Tempo limitato analizzata • Sedute strutturate • Insegnare al cliente a identificare, valutare e rispondere a pensieri e convinzioni disadattive • È necessario comprendere la relazione fra pensieri, • Utilizzare una serie di tecniche per modificare l’oriensentimenti e comportatamento del pensiero e del menti in relazione al procomportamento per es. blema specifico interrogazione socratica, tecniche di rilassamento, esposizione allo stimolo e prevenzione della risposta, riconoscimento emotivo della terapia cognitivo Fondamenti ideologici • Impegno verso l’apertura e la collaborazione • Principio della minima invasività • Credere nelle capacità di ripresa • I problemi sono semplicemente un passo successivo nel continuum delle difficoltà normali che si incontrano • Ottimismo verso le possibilità di cambiamento • Obiettivi stabiliti dal cliente Se il terapeuta ha delle preoccupazioni relative alla protezione del bambino, questo significa che la CBT individuale non è appropriata? Come si possono raggiungere al meglio la “collaborazione” e la “partnership” (colonne 2 e 3; Tabella 7.1) con differenti membri della famiglia? Si dovrebbe fornire copia della corrispondenza professionale a tutti i membri della famiglia o solo ad alcuni? Il genitore assente dovrebbe essere sempre contattato oppure no? Se la prima lingua di uno dei due genitori non è l’italiano, come dovrebbe adeguarsi il clinico? Se la CBT individuale per il bambino viene scelta come trattamento elettivo, qual è la maniera migliore per coinvolgere i genitori? I genitori dovrebbero essere presenti alle sedute oppure no? Su quali basi il clinico dovrebbe prendere questa decisione? 109 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe Queste problematiche cliniche possono essere raggruppate in tre aree che possono essere definite come “domini di interesse etico”: 1. problematiche che derivano dalla necessità di equilibrare i differenti punti di vista; 2. problematiche che derivano dalla necessità di affrontare questioni familiari mantenendo allo stesso tempo un focus individualizzato e 3. problematiche che derivano dal desiderio di promuovere una collaborazione genuina con i differenti membri del sistema. Le problematiche raggruppate sotto ogni dominio sono sintetizzate nella Tabella 7.2. Queste riguardano la maggior parte dei contatti clinici con i bambini, non soltanto quelli con un focus sulla CBT e alcuni dei seguenti commenti potrebbero essere riferiti a qualunque contatto clinico con i bambini e le loro famiglie. A oggi, la CBT non ha ancora sviluppato una maniera specifica di rispondere a queste problematiche (Kendall e Morris, 1991). Questo capitolo descrive gli aspetti che potrebbero rappresentare un’evoluzione verso una definizione, specifica per la CBT, di queste problematiche ed evidenzia quelle aree che necessitano di ulteriori ricerche. Analizzeremo questi ambiti, uno alla volta. Equilibrare i punti di vista conflittuali Nel presentare una CBT a un singolo bambino o adolescente, il terapeuta entra in una rete complessa di responsabilità professionali, legali ed etiche che gli richiedono di collaborare con i genitori (The Children’s Act, 1989), di rispettare i punti di vista e i diritti dei bambini (Royal College of Psychiatry, 1997; The Human Rights Act, 2000) e collaborare ove possibile con altri sistemi professionali. Qualunque contatto di un individuo giovane con un servizio di salute mentale probabilmente implica un complesso sistema di relazioni fra i genitori, i bambini e i professionisti (Glaser, 1996). Il coinvolgimento di un bambino con i servizi di salute mentale potrebbe implicare il coinvolgimento di uno o entrambi i genitori, i tutori, o altri membri adulti della famiglia, i custodi, o altri che hanno la responsabilità del benessere del bambino, altre organizzazioni o professionisti che fungono da consulenti. Questi gruppi potrebbero avere differenti punti di vista sul problema (Angold et al., 1987; Klein, 1991), su ciò che desiderano in relazione a particolari episodi della cura clinica e su come giudicano il successo dell’esito terapeutico (Hennessy, 1999). In relazione a ciascuno di questi aspetti del lavoro, tutti questi gruppi potrebbero avere punti di vista, desideri e interessi conflittuali (Pearce, 1994). Così, nella maggior parte del lavoro di routine con i bambini, il clinico deve equilibrare i differenti obiettivi e punti di vista. I professionisti devono tracciare una linea sottile per cercare di raggiungere l’equilibrio fra: (1) il rispetto dei diritti e dei desideri del bambino o dell’adolescente; (2) il rispetto dei diritti dei genitori; (3) l’aderenza al dovere professionale di proteggere i bambini o gli adolescenti e (4) assicurare il pieno accesso alle cure appropriate (Fuggle 110 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici et al., 2001). Agli estremi, le differenze di opinione fra i bambini e i loro genitori potrebbero portare a un conflitto sul consenso al trattamento e questo potrebbe far sorgere problematiche etiche e legali molto complesse. Anche se nella maggior parte dei casi non si presentano differenze di opinione così assolute, i clinici devono sempre sapere chi è a dare il consenso al trattamento e come valutare questo aspetto. Quindi, prima di analizzare le difficoltà più comuni che sorgono del tentativo di equilibrare punti di vista conflittuali nel lavoro clinico quotidiano con i bambini e le famiglie, in una CBT, affronteremo gli aspetti formali relativi al consenso. Tabella 7.2 Ambiti di interesse etico nell’utilizzo della CBT con i bambini e i genitori Ambito di interesse etico Esempi in cui l’applicazione dei principi della CBT potrebbe far sorgere delle difficoltà Domande chiave che devono essere affrontate Equilibrare i punti di vista Come si può mantenere l’impegno all’apertura e alla partnership in presenza di punti di vista contrastanti? Chi dà il consenso al trattamento? Chi determina gli obiettivi e il risultato del trattamento? Cosa si dovrebbe fare quando i punti di vista di differenti membri della famiglia sono in conflitto? Affrontare questioni familiari Il principio della minima invasività potrebbe voler dire non affrontare i problemi familiari soggiacenti che potrebbero essere dannosi per il bambino Come è possibile valutare e gestire le problematiche familiari? Sembra appropriato mantenere un focus individuale quando si lavora con i bambini e le loro famiglie? Promuovere una collaborazione genuina Potrebbe esserci una mancanza di chiarezza sul ruolo dei genitori nella terapia – si potrebbe parlare di genitori “co-terapeuti” che però in realtà vengono trattati come pazienti. È possibile essere veramente collaborativi con tutti i membri della famiglia tenendo a mente le differenze di potere esistenti fra gli adulti (terapeuta e genitori) e i bambini Come si può determinare al meglio e riconoscere quale ruolo dovrebbero giocare i genitori in un trattamento? Come si può ottimizzare il coinvolgimento di tutti i membri della famiglia nelle decisioni? 111 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe I ruoli dei membri della famiglia nel dare il consenso al trattamento La CBT dovrebbe essere intrapresa solo quando il bambino e/o gli altri adulti importanti danno un consenso informato. I clinici devono iniziare ogni lavoro con i bambini e le famiglie dopo aver chiaramente compreso chi sta fornendo il consenso al trattamento. Quando i bambini hanno le abilità necessarie per compiere una scelta informata da soli, il loro punto di vista (piuttosto che quello dei genitori o di altri che ne fanno le veci) dovrebbe essere quello primario, fino a che il terapeuta non lo considera contrario agli interessi del bambino stesso (British Medical Association, 1995; Royal College of Psychiatrists, 1997). Il rifiuto consapevole da parte di un bambino, che esprime con costanza il desiderio di non partecipare ad alcun intervento giudicato però positivo per i suoi interessi, potrebbe rappresentare un caso in cui richiedere l’intervento di un tribunale. In pratica, imporsi sui desideri di un bambino capace di intendere e di volere, può essere giustificabile solo in circostanze in cui esiste una significativa minaccia per la vita del bambino stesso o l’eventualità di un danno significativo a lungo termine e quando i benefici dell’intervento sono piuttosto evidenti. In generale, le guide pubblicate suggeriscono che si presume che ragazzi fra i 16 e i 18 anni siano in grado di dare un consenso, a meno che non ci siano ragioni specifiche per invocare procedure legali, quali quelle contenute nel Mentale Health Act. Per i bambini e i ragazzi al di sotto dei 16 anni, il consenso può essere dato dal bambino stesso, da un genitore, dall’autorità locale (per i bambini assistiti da strutture territoriali) o da un tribunale. Per questo gruppo, non esiste alcuna presunta competenza nel dare il consenso e si richiede al clinico di valutare se il paziente sia o meno in grado di fornire il proprio consenso quando necessario. Un ragazzo in grado di dare il proprio consenso dovrebbe mostrare un “sufficiente livello di capacità di comprensione e intelligenza che gli permettano di capire appieno ciò che gli viene proposto” (Gillick v. West Norfolk and Wisbech Area Health Authority, 1986). Tutto ciò richiede una comprensione dei rischi e dei benefici dell’intervento al di là dei disagi e degli inconvenienti immediati che il trattamento potrebbe prevedere. Nel caso in cui i bambini non siano considerati abbastanza competenti per dare il proprio consenso, il trattamento può essere deciso da un genitore, da un’autorità locale o da un tribunale, in linea con il punto di vista del clinico su quelli che sono gli interessi del bambino. La patria potestà è della madre del bambino. Anche il padre ha la patria potestà se era sposato con la mamma del bambino al momento della sua nascita o se questo è stato esplicitamente stabilito e registrato in qualche atto successivo. Non si può rinunciare alla patria potestà nemmeno se il bambino è sotto la tutela dell’autorità locale o se viene adottato. Mentre tutti quelli che hanno la patria potestà dovrebbero essere idealmente coinvolti nel processo decisionale, il disaccordo fra i genitori non preclude necessariamente che si possa prendere una decisione. Il Children’s Act stabilisce che “nel caso in cui più di una persona eserciti la patria potestà su un bambino, ciascuna può agire da sola”. Quando coloro che condividono la responsabilità del bambino sono in disaccordo, la persona che si oppone al trattamento ha la responsabilità di appellarsi al tribunale per impedirlo (Bainham, 1998). Se i genitori sono separati, è buona prassi tenere informato il genitore assente quando è possibile, ma non ci sono 112 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici obblighi legali e quindi bisognerà tenere in conto anche altri fattori e giudicare il tutto sempre in relazione a cosa è meglio per il bambino. Spesso è necessaria un’attenta gestione di queste situazioni per evitare che la decisione relativa al trattamento venga imbrigliata nei conflitti fra i genitori (FOCUS, 1999). Coinvolgere i membri della famiglia nel processo decisionale Indipendentemente da chi ha dato il consenso al trattamento, crediamo che ogni intervento dovrebbe essere portato avanti in un modo che possa promuovere la partecipazione attiva al processo decisionale sia del bambino sia dei genitori. Questo prevede che si diano informazioni chiare ai bambini, in un modo appropriato al loro livello di sviluppo, e bisogna permettere loro di esprimere il proprio punto di vista sul piano di trattamento. Similmente, si dovrebbero fornire ai genitori informazioni comprensibili in un linguaggio idoneo e tenendo conto di tutta un’altra serie di fattori rilevanti. Le informazioni fornite dovrebbero includere la natura del lavoro pianificato, i rischi e i potenziali benefici e anche eventuali alternative. Inoltre, si dovrebbe raggiungere un chiaro accordo sul grado di confidenzialità sul lavoro individuale con il bambino. Creare dei contratti scritti con ciascun bambino e la sua famiglia è una metodologia che si è rivelata utile in alcuni contesti per affrontare questo problema (Maguire et al., 2001; Wolpert et al., 2001). Altri hanno riscontrato che il contratto può essere utile in alcuni casi specifici, ma potrebbe rappresentare una burocratizzazione eccessiva se applicato indistintamente. In molti casi, potrebbe anche essere necessario e desiderabile coinvolgere nel processo decisionale altri sistemi interessati, come la scuola o i servizi sociali; anche se questo dovrebbe essere fatto dopo aver avuto il consenso dei più importanti membri della famiglia. Lavorare con i differenti punti di vista del problema Definire quali obiettivi e problematiche dovrebbero avere la priorità è spesso una negoziazione costante e complessa nella CBT con i bambini e le famiglie. Gli autori credono che sia importante, all’inizio della terapia, esplicitare e mettere tutti a conoscenza delle differenze esistenti nella visione del problema, prima di lavorare per trovare un nuovo accordo sul modo di vedere la situazione e sugli obiettivi. Nell’esaminare le differenze dei punti di vista, Stallard (2002b) ha suggerito che il terapeuta deve mantenere una “posizione distaccata, obiettiva e imparziale”. Altri hanno sostenuto che una posizione di oggettiva imparzialità potrebbe essere impossibile, ma i terapeuti devono essere il più possibile consapevoli delle proprie distorsioni e del proprio punto di vista e devono cercare di gestire le prospettive differenti permettendone l’ascolto e offrendo le proprie nella modalità più appropriata (Wilkinson, 1998). Negli incontri iniziali con le famiglie, potrebbe essere utile basarsi sulle tecniche di intervista e sulle concettualizzazioni di impronta sistemica per promuovere un clima di apertura e permettere di esplorare i differenti punti di vista, dei diversi membri della 113 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe famiglia, sul problema e su come dovrebbe essere affrontato (Watzlawick et al., 1974; Hoffman, 1981; McGoldrick, 1998). In particolare, si può considerare il lavoro di Pearce e Cronen (1980) come un’applicazione dell’approccio cognitivo alla comunicazione familiare, che analizza e spiega come gli assunti cognitivi fondamentali (individuali e condivisi) possano influenzare il comportamento e le relazioni dei singoli membri. Si possono utilizzare le “domande riflessive”, utilizzate nella terapia familiare (Tomm 1987a, b), per aiutare i membri della famiglia a mettere in discussione le proprie convinzioni e i propri pensieri. Le domande riflessive sono: “domande poste con l’intento di …(attivare) …una riflessione autonoma sul significato di pattern pre-esistenti di pensiero e di comportamento” (Tomm, 1987a). Mentre il linguaggio è differente da quello della CBT, i principi soggiacenti potrebbero essere considerati simili poiché, mettendo in dubbio le false convinzioni e cognizioni, i singoli membri della famiglia vengono incoraggiati a far emergere modalità di spiegazione alternative più costruttive. Anche la tecnica del reframing che deriva dalla letteratura sistemica potrebbe essere applicata con successo alle famiglie, per aiutarle ad arrivare a una visione condivisa delle difficoltà. Il reframing prevede che il terapeuta incoraggi i membri della famiglia ad applicare nel quotidiano i nuovi significati, cosa che facilita lo sviluppo di un’inclinazione più positiva a particolari comportamenti o eventi. Per esempio, un bambino definito aggressivo dai propri genitori potrebbe, in un altro contesto, essere definito focoso. Se il terapeuta chiama gli “scoppi di aggressività”, “scoppi di focosità”, dà un significato alternativo allo stesso comportamento (Wilkinson, 1998). Quando è possibile, lo scopo del terapeuta e di tutti i membri della famiglia è quello di arrivare a una visione delle difficoltà che non implichi una critica al bambino o a qualche altro membro della famiglia e che le posizioni di tutta la famiglia siano tali da promuovere la collaborazione per superare i problemi. L’utilizzo che Michael White fa della conversazione esteriorizzata, caratterizzata da tecniche di intervista volte a enfatizzare una via d’uscita condivisa piuttosto che le cause del problema, ci sembra essere coerente con la teoria e la pratica generale della CBT (vedere la Tabella 7.1) e fornisce una possibile via da percorrere (White e Epston, 1990). March (vedere il Capitolo 17) si basa sul lavoro di Michael White per aiutare i genitori a spiegare il disturbo ossessivo compulsivo del proprio bambino come qualcosa che è al di fuori del controllo del bambino stesso o dei genitori e su cui possono lavorare tutti insieme (March e Mulle, 1998). Affrontare le problematiche familiari Suggeriamo che, ogni qual volta è possibile, i clinici dovrebbero intraprendere una valutazione complessiva del bambino, della famiglia e del contesto scolastico prima di prendere qualsiasi decisione sulla possibilità di una CBT individuale. Lo scopo della valutazione della famiglia è quello di analizzare la natura del problema, chiarire i differenti punti di vista delle persone e aiutarle ad arrivare a una formulazione condivisa delle difficoltà e del piano di trattamento. Non è negli scopi di questo capitolo suggerire come si possa portare avanti al meglio una valutazione onnicomprensiva della famiglia; i lettori sono rinviati a Wilkinson (1998) e Carr (1999) per una rassegna utile sull’argomento. Tuttavia, è forse utile ricordare che una simile valu114 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici tazione non serve solo a fornire informazioni al clinico, ma può anche essere utilizzata nel tentativo di sviluppare una formulazione condivisa del disturbo, su cui possono concordare tutti i membri della famiglia. Nella valutazione globale della famiglia, secondo i criteri della CBT, si deve trovare una risposta a due domande distinte ma collegate: fino a che punto le difficoltà presenti possono essere collegate a questioni familiari e fino a che punto è indicato l’intervento diretto sui genitori. Relativamente al legame fra le difficoltà del bambino e le problematiche familiari, è ampiamente noto che per molti disturbi le visioni e i comportamenti dei genitori ne influenzano lo sviluppo nei bambini (Carr, 1999). Per esempio, è più probabile che i bambini ansiosi abbiano genitori con una serie di problemi d’ansia ed è stato dimostrato che i processi familiari contribuiscono alle risposte di evitamento (Barrett et al., 1996). Similmente, nel caso dei bambini con disturbo della condotta e con comportamenti disfunzionali, ci sono numerose prove che mostrano gli effetti molto potenti dei comportamenti e dei pensieri dei genitori nello sviluppo e nel corso di simili disturbi (Kazdin, 1995). In alcuni casi, la valutazione della famiglia potrebbe indicare che le problematiche familiari sono così significative da escludere la CBT come primo approccio. Se esistono preoccupazioni serie per la sicurezza del bambino, dovrebbero essere affrontate prima di ogni intervento. Similmente, la valutazione della famiglia potrebbe rivelare la presenza di importanti problemi di salute mentale nei genitori o problematiche coniugali che devono diventare il focus primario. Tuttavia, dal punto di vista degli autori, anche se i fattori familiari sono implicati nel concorrere alle difficoltà presenti, non significa necessariamente che i genitori dovrebbero essere il focus primario dell’intervento. Potrebbe ancora essere appropriata una CBT individuale con il bambino, anche se il clinico potrebbe avere bisogno di determinare come affrontare al meglio le problematiche genitoriali e/o familiari parallelamente al lavoro individuale con il bambino. Ci sono poche ricerche in questo ambito che possono guidare il clinico nel determinare quando è meglio lavorare direttamente con i genitori da soli, con il bambino da solo o con tutti e due insieme. Negoziare il coinvolgimento della famiglia è un compito complesso e molto delicato. Richiedere un coinvolgimento intenso della famiglia, quando questo va contro i desideri e i punti di vista di alcuni membri chiave, potrebbe generare risentimento e una scarsa compliance con il trattamento. Di contro, quando la situazione clinica lo richiede, il fallimento nell’affrontare le problematiche familiari potrebbe limitare seriamente i potenziali benefici della CBT con il singolo bambino. Ci sono una serie di possibili configurazioni del coinvolgimento genitoriale nella terapia fra cui: il bambino viene visto da solo con scarso coinvolgimento dei genitori, il bambino viene visto insieme ai propri genitori, si vede tutta la famiglia o si offre al genitore un intervento separato e parallelo. Il ruolo dei genitori in ciascuno di questi scenari può variare da facilitatore, a co-terapeuta, a quello di cliente/paziente a sua volta. Chiaramente, esistono molte possibili variazioni e i genitori possono essere coinvolti nella CBT del proprio bambino in modi differenti nel corso di un singolo intervento. Alla luce delle poche prove disponibili, gli autori hanno iniziato a costruire un abbozzo di gerarchia, molto grezzo, del coinvolgimento genitoriale, descritto di seguito, per facilitare alcune decisioni nella pratica clinica. 115 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe Il genitore come facilitatore – si offre al bambino una CBT individuale con il genitore che non è quasi mai presente Di solito, il ruolo dei genitori nella CBT è stato concepito come quello di facilitatori che sono di aiuto nel trasferimento di alcune competenze dalle sedute terapeutiche all’ambiente familiare. In questo modello, si presume che i genitori avranno un coinvolgimento limitato nel programma di intervento di per sé. Potrebbero non essere presenti alle sedute, ma potrebbero incontrarsi ogni tanto con il terapeuta per degli aggiornamenti, parlare con lui al telefono o frequentare due o tre sedute di training per sé (Kendall, 1994).Anche all’interno di questo approccio, abbiamo riscontrato alcuni vantaggi derivanti dal tenere i genitori il più al corrente possibile sui progressi dei propri figli (Macdonald et al., in stampa). Secondo l’esperienza degli autori, questa forma minima di coinvolgimento genitoriale è più adatta per il lavoro con bambini più grandi, che sono fortemente motivati, nei casi in cui la famiglia è generalmente supportiva e dove non ci sono problematiche familiari importanti. I vantaggi di questo approccio sono che rafforza il ragazzo e gli permette di essere il focus del lavoro in maniera molto semplice. Questo modello implica un’applicazione della CBT nel modo più vicino a quello della CBT per adulti. Il genitore come co-terapeuta – si offre al bambino una CBT individuale in presenza di uno o entrambi i genitori Quando i genitori assumono un ruolo più attivo in cui propongono, monitorizzano e revisionano l’utilizzo di competenze cognitive da parte del bambino, si può pensare che assumano un ruolo da co-terapeuti (Stallard, 2002b). Questo di solito implica la presenza del genitore alle sedute. Ci sono prove che mostrano come un maggiore coinvolgimento dei genitori nella CBT può portare a migliori risultati, soprattutto per quei bambini inviati per disturbi d’ansia, soprattutto per i bambini più piccoli (sotto gli 11 anni) e quando l’ansia genitoriale è molto alta (Fonagy et al., 2002). Toren e colleghi (2000) riferiscono uno studio in cui venivano viste diadi e triadi genitore-bambino per 10 sedute settimanali di gruppo per il trattamento dell’ansia. Si incoraggiavano i genitori a lavorare con il bambino e a rinforzarli nelle azioni di pianificazione e di gestione dei problemi. Anche se le ansie e le problematiche proprie dei genitori non venivano affrontate direttamente, e certamente non c’era alcuna diminuzione dei livelli d’ansia nei genitori, lo studio ha riscontrato una diminuzione significativa nell’ansia per la maggior parte dei bambini del gruppo, soprattutto in quelli con le madri maggiormente ansiose. Coinvolgere i genitori in questo modo potrebbe aiutare i genitori stessi a promuovere l’utilizzo di tecniche cognitivo comportamentali in situazioni di vita reale, che non sono invece accessibili al terapeuta, per rendere possibile l’iperapprendimento e la generalizzazione. Un maggiore coinvolgimento genitoriale nella terapia potrebbe anche aiutare i genitori ad apprendere nuove tecniche per gestire le proprie difficoltà simili a quelle con cui sta lottando il proprio figlio, anche se l’assenza di cambiamenti nei livelli d’ansia dei genitori, riscontrata da Toren et al. (2000), suggerisce che questo non sia invariabilmente il meccanismo di cambiamento. 116 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici Questo approccio sembra essere particolarmente adatto per i bambini più piccoli, soprattutto quelli con problemi d’ansia o similari e quelli in cui sono presenti più difficoltà parallele nei genitori e nei bambini (per es. sono entrambi molto ansiosi). I genitori come clienti – si offre una qualche forma di intervento direttamente ai genitori I genitori possono essere a volte visti essi stessi come clienti. I programmi di CBT che prevedono l’insegnamento di nuove competenze ai genitori, sia che il focus primario sia la gestione del proprio bambino (per es. gestione comportamentale) o delle proprie emozioni (per es. gestione della propria ansia), potrebbero essere inclusi in questa categoria. Per il primo gruppo, Friedberg e McClure (2002) presentano un “manuale di gioco” di interventi che i genitori possono utilizzare per modellare il comportamento dei propri figli, in cui si descrivono i comportamenti appropriati per il livello evolutivo, si mostra come incoraggiare aspettative realistiche, rinforzare i comportamenti positivi e a ignorare i comportamenti negativi. Per la seconda categoria, Barrett e colleghi (1996) descrivono un programma che ha lo scopo di trattare l’ansia genitoriale e i pensieri fallaci e di fornire ai genitori alcune tecniche per indirizzare il comportamento del proprio bambino. Questi training potrebbero verificarsi in presenza o meno del bambino e in sedute individuali o di gruppo. Forse il più diffuso utilizzo dei genitori come clienti nella prospettiva della CBT è rappresentato dai numerosi programmi di parent training che si focalizzano sull’apprendimento di nuove modalità di controllo e di gestione del comportamento dei propri figli – per es. i gruppi di Webster-Stratton e lo Oregon Social Learning Program (Webster-Stratton e Herbert, 1994; Fonagy et al., 2002). Il training dei genitori senza alcun lavoro sul bambino ha dato degli esiti molto buoni, soprattutto per i bambini dai 10 anni in giù. Tuttavia, con bambini più grandi, in situazioni in cui ci sono altri problemi presenti, quando i problemi sono gravi, quando siamo in presenza di uno svantaggio socioeconomico e quando c’è una elevata conflittualità fra i genitori o essi hanno comportamenti antisociali, i risultati sono meno buoni (Fonagy et al., 2002). Inoltre non è chiaro fino a che punto il parent training sia adeguato a gruppi culturalmente differenti (Forehand e Kotchick, 1996). Per i problemi d’ansia ci sono anche prove empiriche dell’efficacia di interventi sui genitori. Barrett e colleghi (Barrett et al., 1996) descrivono un modello sistemico per permettere ai genitori e ai bambini di formare un “team esperto” nella gestione dell’ansia infantile. Nel corso del Family Anxiety Management (FAM; Gestione familiare dell’ansia), si insegna ai genitori come “premiare i comportamenti di coraggio e come estinguere l’ansia eccessiva” del bambino, come gestire le proprie preoccupazioni emotive e come migliorare le proprie competenze comunicative e di problem-solving. Cobham et al. (1998) descrivono un intervento strutturato per trattare l’ansia, che include una CBT con il bambino (dieci sedute) e un programma per ridurre l’ansia genitoriale (quattro sedute per i genitori). Si insegna ai genitori come riconoscere l’effetto del proprio comportamento sullo sviluppo e sul mantenimento delle difficoltà dei propri figli e come affrontare la propria ansia. 117 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe Anche se in entrambi i casi l’inclusione di simili interventi focalizzati sul genitore ha portato a esiti migliori, l’effetto a lungo termine non è chiaro. Mentre l’inclusione del FAM ha portato all’inizio a un risultato migliore, questo non era più presente, in tutti gli ambiti, al follow-up 6 anni dopo (Barrett et al., 2001). Inoltre, non è chiaro se fosse più efficace affrontare direttamente l’ansia dei genitori piuttosto che utilizzare gli interventi meno intensivi descritti da Toren e colleghi (2000), che coinvolgevano i genitori ma rimanevano focalizzati sul bambino. Un altro caso in cui comunemente vengono coinvolti i genitori come “clienti”, è quando la valutazione iniziale della famiglia rivela problematiche familiari complesse e in questo caso si può o offrire un lavoro sulla famiglia come primo approccio oppure un lavoro familiare intervallato con il lavoro di CBT individuale. Mentre questa combinazione è molto diffusa nella pratica clinica, ci sono pochissime ricerche che analizzano l’efficacia di questo approccio. Inoltre, quando viene offerta una terapia familiare, questa è stata tradizionalmente considerata una modalità di trattamento separata dalla CBT. Tuttavia, ci potrebbe essere sufficiente campo d’azione per una forma specifica di CBT familiare – forse quando la formulazione del caso si basa sui pensieri, sui sentimenti e sui comportamenti del bambino e dei genitori. La precedente gerarchia rappresenta un tentativo puramente sperimentale di cercare di porre dei criteri per determinare come coinvolgere al meglio i genitori nella CBT per i bambini e i ragazzi. C’è ancora la necessità di maggiori ricerche sugli effetti differenziali di ciascuna di queste diverse forme di coinvolgimento genitoriale sull’esito del trattamento. Promuovere una collaborazione genuina Indipendentemente dal fatto di constatare che i genitori hanno delle problematiche cliniche proprie, lo scopo resta di metterli in una posizione dalla quale possono collaborare con il terapeuta e il bambino nel supportare lo sviluppo e il progresso nel corso della terapia (vedere Tabella 7.1). L’unica eccezione sorge quando ci sono problematiche relative alla sicurezza del bambino che non può essere gestita in una cornice collaborativa. Molti genitori arrivano al primo contatto con i servizi di salute mentale considerandosi come qualcuno che porta un bambino che deve essere “aggiustato”. Spesso arrivano molto preoccupati che i professionisti della salute mentale li ritengano responsabili delle difficoltà del proprio bambino e che li rimproverino. Quindi, spesso stanno sulla difensiva e considerano qualunque indicazione di coinvolgimento diretto o meno nella terapia come riflesso di questa posizione critica (Wolpert, 2000). Potrebbe essere importante affrontare queste problematiche di responsabilità e colpa all’inizio della terapia. Il clinico dovrebbe sottolineare alle famiglie che suggerire il loro coinvolgimento, non significa che i membri della famiglia siano “responsabili” delle difficoltà, ma che questo potrebbe aiutare il bambino e potrebbe rappresentare una parte della soluzione del problema. Per promuovere una collaborazione genuina, il terapeuta deve essere sensibile al background etnico e culturale dei genitori e dei bambini. Nel negoziare la natura del coinvolgimento, come per altri aspetti della salute mentale in età evolutiva, ci si potreb118 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici be trovare di fronte al fatto che gruppi differenti hanno diverse preferenze a riguardo (Forehand e Kotchick, 1996; Friedberg e McClure 2002; Stein et al., 2003). Questa è chiaramente un’area che richiede ulteriori ricerche. Gli autori suggeriscono che potrebbe essere utile essere il più espliciti possibile con i genitori sul loro ruolo nella terapia e cercare di farli sentire parte della soluzione e non di farli sentire come se fossero loro il problema. È convinzione degli autori che i genitori e i bambini dovrebbero entrambi essere trattati come collaboratori ogni qual volta è possibile e dovrebbero avere accesso alla formulazione del caso e certamente essere invitati a contribuire al processo di riformulazione del problema e delle sue soluzioni nel corso del lavoro terapeutico. Inoltre, si suggerisce al terapeuta di essere il più trasparente possibile nella sua pratica. Ai genitori e/o al bambino, quando il livello evolutivo lo consente, dovrebbe essere regolarmente fornita copia delle lettere inviate ad altri professionisti, relative alla famiglia e/o al bambino. Dovrebbero venire registrati gli obiettivi condivisi in un file accessibile ai componenti della famiglia. Quando i terapeuti valutano regolarmente il proprio lavoro, dovrebbero rendere gli esiti di questa valutazione il più aperti possibile a tutti i membri della famiglia, in forme appropriate. Conclusioni Lavorare con i genitori per fornire un trattamento di CBT ai loro bambini fa sorgere una serie di problematiche da affrontare. Sono stati identificati tre ambiti etici chiave che devono in qualche modo essere gestiti dai clinici che cercano di utilizzare la CBT con i bambini. Gli autori riconoscono l’attuale mancanza di ricerche che possono guidare i clinici su come coinvolgere al meglio i genitori e hanno sostenuto la necessità di condurre ulteriori studi in quest’area così importante. Sulla base delle ricerche esistenti (e sull’esperienza degli autori quando non erano disponibili prove empiriche), questi sono stati i punti evidenziati. Relativamente al bilanciare i differenti punti di vista, i clinici devono riconoscere che ci potrebbero essere visioni differenti sul perché si richiede una terapia e su quale sia il risultato a cui deve giungere. Prima di intraprendere una CBT (o qualunque altro tipo di intervento), il clinico deve avere chiaro chi è che fornisce il consenso per il trattamento. Il clinico deve continuare a fornire informazioni a tutte le parti interessate, in modalità appropriate, per permettere loro di compiere delle scelte nel corso del trattamento. Suggeriamo che il clinico utilizzi tecniche di terapia familiare come il reframing per aiutare i membri della famiglia ad arrivare a una visione condivisa delle difficoltà. Relativamente all’aspetto di affrontare le problematiche familiari, il processo diagnostico iniziale per una CBT individuale dovrebbe iniziare con una valutazione completa della famiglia. Una simile valutazione non ha solo lo scopo di fornire informazioni al clinico, ma può anche essere utilizzata per sviluppare una formulazione condivisa delle difficoltà, su cui possono concordare tutti i componenti della famiglia. Questa formulazione non dovrebbe includere critiche al bambino o a qualche altro membro della famiglia, ma dovrebbe piuttosto mettere tutti i membri in una posizio119 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe ne di collaborazione per superare le difficoltà. Se si ritenere appropriata una CBT, il clinico dovrebbe negoziare con la famiglia il grado e la natura del coinvolgimento dei genitori. Relativamente alla promozione di una collaborazione genuina, abbiamo sostenuto che potrebbe essere importante esplicitare ai genitori il proprio ruolo nella terapia. Indipendentemente dal fatto che un genitore abbia un ruolo di facilitatore, co-terapeuta o cliente e dal fatto che siano direttamente o indirettamente coinvolti nel lavoro con il proprio bambino, l’obiettivo resta quello di stabilire una relazione collaborativa. Il clinico dovrebbe agire per promuovere una collaborazione genuina, evitando formulazioni critiche e utilizzando tecniche di intervista, come le domande riflessive e le conversazioni esteriorizzate, per aiutare i genitori a considerarsi parte della soluzione più che del problema. I genitori dovrebbero ricevere regolarmente copia di tutta la corrispondenza professionale e i risultati di qualunque forma di valutazione formale dovrebbero essere condivisi con i membri della famiglia. Checklist clinica Piuttosto che presentare casi esemplificativi, la Tabella 7.3 fornisce una checklist che potrebbe essere utilizzata per ricordare ai clinici alcune delle problematiche sollevate in questo capitolo. Non tutte le domande devono necessariamente trovare una risposta affermativa, ma la lista ha lo scopo di aiutare i professionisti a riflettere sulla propria pratica alla luce delle questioni qui osservate. Riconoscimenti Gli autori desiderano ringraziare Peter Fuggle per i suoi commenti su una versione precedente di questo capitolo. Desiderano anche riconoscere il contributo di Peter Fuggle, Chrissie Verduyn e Vicki Curry alle idee alla base di questa trattazione, ottenuto attraverso la partecipazione, con il primo autore, a un workshop sul ruolo dei genitori nella CBT, tenutosi alla conferenza BABCP a Londra nel 2000. 120 Il lavoro con i genitori: aspetti pratici ed etici Tabella 7.3 Checklist per aiutare i clinici a valutare come stanno cercando di bilanciare i differenti punti di vista, di valutare le problematiche familiari e di promuovere la collaborazione. Bambino Genitori • Hai chiesto al bambino il suo punto di vista sull’invio in terapia e su cosa di aspetta da essa? • Hai fornito informazioni in una modalità appropriata allo stadio evolutivo e al contesto culturale del bambino? • Hai spiegato direttamente al bambino il procedimento e il contenuto di ogni intervento suggerito? • Hai offerto delle possibilità di scelta al bambino e se sì, quali? • Quando hai agito contrariamente al punto di vista e ai desideri del bambino, che motivazioni avevi per farlo? • Come hai registrato il punto di vista del bambino nelle note? • Ti sei rivolto al bambino in modi da farlo sentire responsabile o criticato per le difficoltà presenti? • Hai trovato un modo per descrivere il problema su cui possano essere d’accordo tutti i componenti della famiglia? • Hai discusso con il bambino quale ruolo avranno i genitori nella terapia e gli hai presentato delle motivazioni logiche? • Hai dato copia della corrispondenza professionale al bambino? • Hai condiviso le valutazioni della terapia con il bambino? • Hai chiesto ai genitori il loro punto di vista sull’invio in terapia e su cosa si aspettano da essa? • Hai fornito le informazioni in un modo appropriato alle circostanze e al background culturale dei genitori? • Hai spiegato direttamente ai genitori il procedimento e il contenuto di ogni intervento suggerito? • Hai offerto delle possibilità di scelta ai genitori e se sì, quali? • Quando hai agito contrariamente al punto di vista e ai desideri dei genitori, che motivazioni avevi per farlo? • Come hai registrato il punto di vista i genitori nelle note? • Ti sei rivolto ai genitori in modi da farli sentire responsabili o criticati per le difficoltà presenti? • Hai trovato un modo per descrivere il problema su cui possano essere d’accordo tutti i componenti della famiglia? • Hai discusso con i genitori quale ruolo avranno nella terapia e gli hai presentato delle motivazioni logiche? • Hai dato copia della corrispondenza professionale ai genitori? • Hai condiviso le valutazioni della terapia con i genitori? Adattata da Wolpert et al., 2001 121 Miranda Wolpert, Julie Elsworth e Jenny Doe Bibliografia Angold, A., Weissman, M., Merikangas, J. K. et al. (1987). Parent and child reports of depressive symptoms in children at low and high risk of depression. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 28, 901-15. Bainham, A. (1998). Children: The Modern Law, 2nd edn. Bristol: Family Law. Barren, P. M., Dadds, M. R. and Rapee, R. M. (1996). Family treatment of childhood anxiety: a controlled trial. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 64, 333-42. Barrett, P. M., Duffy, A. L., Dadds, M. R. and Rapee, R. M. (2001). Cognitive behavioural treatment of anxiety disorders in children: long-term (6 years) follow-up. Journal of Consultingand Clinical Psychology, 69, 135-41. Beck, J., S. (1995). Cognitive Therapy: Basics and Beyond. New York: Guilford Press. British Medical Association and Law Society. (1995). Good Practice Guidelines. London: British Medical Association. Carr, A. (1999). 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La CBT utilizza strategie cognitive e comportamentali e cerca di “preservare l’efficacia delle tecniche comportamentali all’interno di un contesto meno dottrinario che tiene in considerazione le interpretazioni cognitive e le attribuzioni causali del bambino” (Kendall e Hollon, 1979). Identificare, mettere in dubbio e apprendere competenze alternative da contrapporre e da sostituire alle distorsioni e ai deficit cognitivi, che si presume siano alla base dei problemi emotivi e comportamentali, è il focus primario della CBT. A quale età i bambini sono in grado di essere coinvolti in una CBT? L’età in cui i bambini hanno raggiunto un sufficiente sviluppo cognitivo per intraprendere una CBT è un argomento da tempo soggetto a dibattito. Alcuni sostengono che la CBT richieda la capacità di “pensare sul pensiero” e che questa meta-cognizione permetta ai bambini di riflettere sul proprio comportamento e sui propri processi cognitivi e di individuare pattern e strutture costanti all’interno di essi. Questo livello di maturità cognitiva e di sofisticazione ha portato a credere che la CBT fosse più adatta per bambini della media e tarda infanzia. In una meta-revisione, Durlak et al. (1991) hanno riscontrato che i bambini fra gli 11 e i 13 anni traevano un beneficio signifi125 Paul Stallard cativamente maggiore dalla CBT rispetto ai bambini più piccoli. L’approccio stadiale sequenziale allo sviluppo cognitivo proposto da Piaget, che ha avuto molta influenza, dà un ulteriore supporto al punto di vista secondo cui i bambini più grandi sono più adatti a una CBT. Piaget sosteneva che i processi mentali più complessi, che permettono lo sviluppo del ragionamento logico, non si sviluppano fino allo stadio delle operazioni concrete, che di solito si raggiunge fra i 7 e gli 8 anni. In pratica, anche se la CBT potrebbe implicare compiti cognitivi sofisticati e complessi, le richieste cognitive della maggior parte dei programmi di CBT con i bambini sono piuttosto limitate. Molti compiti richiedono la capacità di ragionare efficacemente su questioni e problematiche concrete, piuttosto che su pensieri astratti di ordine superiore e concettuali (Harrington et al., 1998). Questo ha portato qualcuno a suggerire che lo sviluppo cognitivo dei bambini di 7 anni è sufficiente per la gran parte dei compiti basilari della CBT. Per l’età di 7 anni, i bambini sono ragionevolmente in grado di riflettere adeguatamente sui propri processi cognitivi (Salmon e Bryant, 2002). Mentre c’è un consenso emergente sul fatto che già i bambini di 7 anni possano intraprendere una CBT, sorge il dubbio se i bambini al di sotto di questa età abbiano competenze cognitive sufficienti per essere attivamente coinvolti in forme modificate di CBT. Alcuni punti a sostegno di questo approccio derivano dalle ricerche che hanno analizzato come i bambini sviluppano una comprensione rappresentazionale della mente, ossia come comprendono che le persone hanno degli stati mentali interiori, pensieri, convinzioni e immagini, che possono rappresentare in maniera veritiera o fallace il mondo (Wellman et al., 1996). In una serie di studi che esaminavano i bambini di età pre-scolare, nella comprensione di vignette relative a pensieri, Wellman et al. (1996) hanno mostrato che con un training preliminare i bambini di 3 anni erano in grado di capire che le vignette rappresentavano il pensiero di una persona. Inoltre, i loro risultati suggeriscono che i bambini di questa età riescono a distinguere fra pensieri e azioni, riconoscono che i pensieri sono soggettivi e quindi che due persone possono pensarla in maniera differente sullo stesso evento e che i pensieri possono travisare un evento. In termini di auto-consapevolezza e di riconoscimento del discorso interiore, Flavell et al. (2001) suggeriscono che entrambi si acquisiscono nel corso dei primi anni di scuola. Questo significa che alcuni bambini di 5 o 6 anni sono in grado di verbalizzare i propri pensieri e comprendere il concetto di “parlare fra sé e sé” , una delle strategie più comunemente utilizzate nei programmi di CBT per i bambini. Ulteriori prove a sostegno della possibilità che i bambini più piccoli possano essere in grado di intraprendere alcuni compiti previsti dalla CBT derivano da ricerche che si proponevano di verificare la teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget. È stata confutata l’assunzione di Piaget secondo cui il fallimento in particolari compiti cognitivi indicava l’assenza di un particolare insieme di competenze cognitive soggiacenti. La performance in compiti cognitivi similari può variare a seconda del modo specifico in cui il compito o le informazioni vengono presentate e non è necessariamente indice dell’assenza o della presenza di un presunto insieme di abilità cognitive (Thornton 2002). L’interesse verso un modello più orientato alla comprensione dello sviluppo cognitivo ha portato a mettere in dubbio un altro caposaldo basilare della teoria di Piaget – propriamente, il presunto legame fra un insieme di competenze cognitive (processi logici) e il loro utilizzo (ragionamento logico). Thornton (2002) sostiene, per esempio, che le inferenze 126 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale logiche potrebbero non necessariamente riflettere un utilizzo di procedure di ragionamento logico. Il ragionamento cognitivo potrebbe basarsi più sulle informazioni e i significati che sulle regole dell’inferenza logica. Pertanto, informazioni rilevanti possono essere utilizzate per costruire un modello mentale, che a sua volta può essere utilizzato per trarre delle conclusioni sulle relazioni fra un evento e un altro. I cambiamenti nella conoscenza possono quindi creare nuove potenti modalità di ragionamento e questo induce Thornton (2002) a concludere che è l’informazione e non l’età a giocare una parte fondamentale nel determinare la performance del bambino in compiti cognitivi. Questi risultati hanno portato all’eventualità intrigante che i bambini già a 5 o 6 anni possano essere in grado di partecipare ad alcune forme di CBT, se si fa attenzione al modo in cui vengono strutturati e presentati i compiti; i clinici devono attenersi allo sviluppo cognitivo del bambino per assicurarsi che gli interventi e le tecniche cognitive vengano adattati e modificati in modo da non superare le capacità cognitive o emotive del bambino (Salmon e Bryant, 2002). Come sia possibile raggiunge questo risultato clinico così essenziale nella pratica quotidiana è un argomento che ha sorprendentemente ricevuto scarsa attenzione. I programmi standardizzati di CBT, che spesso coprono un range di età piuttosto ampio, raramente specificano quali adattamenti compiere per utilizzarli con bambini più piccoli. Molti programmi sembrano presumere che le tecniche e le strategie siano universalmente applicabili a bambini di tutte le età (Barrett, 2000). Nella letteratura si possono trovare alcuni esempi molto utili di come alcuni professionisti hanno modificato la CBT per andare incontro alle competenze cognitive del bambino. Kane e Kendall (1989) hanno per esempio trovato che, anche se i bambini più piccoli avevano problemi a identificare i propri pensieri ansiosi, in situazioni immaginarie e in vivo, erano in grado di partecipare a una conversazione in terza persona su cosa poteva succedere a un altro bambino in una situazione simile. Williams et al. (2002) hanno sottolineato che, anche se i ragazzi spesso non riescono a riferire spontaneamente i propri pensieri, un approccio dove il terapeuta funge da guida, potrebbe aiutare i bambini a scoprire possibili pensieri associati a reazioni emotive. Similmente, Spence et al. (2000) hanno osservato che, mentre i bambini più piccoli avevano difficoltà con la ristrutturazione cognitiva, che implica il mettere in discussione e verificare la veridicità dei propri pensieri, erano in grado di utilizzare strategie cognitive più semplici come le auto-istruzioni positive. Questi esempi evidenziano come i processi cognitivi e i compiti della CBT possono essere adattati in funzione delle capacità del bambino. Questo indicherebbe che i bambini più piccoli, per fare fronte alle situazioni di difficoltà, possono essere coinvolti in tecniche cognitive meno complesse, specifiche e concrete, come lo sviluppo di un discorso interiore positivo. Sembra importante fornire informazioni specifiche e rilevanti che consentirebbero lo sviluppo di modelli cognitivi di ragionamento. Tali informazioni potrebbero aiutare il bambino a raggiungere delle conclusioni su specifici problemi, anche se potrebbero non essere in grado di riconoscere le regole sovrastanti, i processi cognitivi che utilizzano o di generalizzare ad altre situazioni le conclusioni raggiunte. Comprendere i meccanismi attraverso i quali si raggiunge un cambiamento – per es. che le emozioni sono generate da determinati pensieri – potrebbe non essere possibile per i bambini con meno di 5 anni (Flavell et al. 2001). Il processo della 127 Paul Stallard scoperta guidata, che è alla base della CBT, potrebbe pertanto richiedere un approccio terapeutico più attivo e diretto con i bambini più piccoli, dove il terapeuta fornisce informazioni e sviluppa strategie che il bambino può utilizzare e verificare nella pratica. Il ruolo del clinico con i bambini più grandi potrebbe essere più quello di facilitatore, dal momento che gli adolescenti possono essere maggiormente in grado di sviluppare e valutare strategie cognitive da sé. Il lavoro con compiti di secondo odine più astratti e complessi, come l’identificazione delle convinzioni disfunzionali, la valutazione delle prove a favore e contro queste convinzioni o la ristrutturazione cognitiva potrebbe non essere appropriato fino alla media adolescenza (Bailey, 2001). Quanto spesso si utilizza la CBT con i bambini al di sotto dei 12 anni? In una rassegna sulle ricerca sulla psicoterapia infantile, Durlak et al. (1995) hanno individuato 101 studi che paragonavano l’utilizzo della CBT con un gruppo di controllo. Di questi studi, la maggioranza (79%) coinvolgeva bambini al di sotto degli 11 anni, con un 6% di bambini in età pre-scolare. Prove controllate e randomizzate sui trattamenti rivelano che i bambini in età pre-puberale sono spesso coinvolti in studi sugli interventi che affrontano una vasta gamma di problematiche, fra cui il rifiuto scolastico (King et al., 1998), la fobia scolastica (Last et al., 1998), il dolore addominale ricorrente (Sanders et al., 1996), l’enuresi (Ronen et al., 1995), i disturbi d’ansia (Kendall, 1994; Barrett et al., 1996; Kendall et al., 1997; Mendlowitz et al., 1999; Silverman et al., 1999a), fobie specifiche (Silverman et al., 1999b), fobie sociali (Spence et al., 2000, l’abuso sessuale (Cohen e Mannarino, 1996) e la depressione (Vostanis et al., 1996; Wood et al., 1996). Molti di questi studi hanno incluso bambini anche di 7 anni e ci sono indicazioni di CBT applicata a bambini ancora più piccoli. I bambini di 6 anni sono stati inclusi in studi sulla CBT per il trattamento dei disturbi d’ansia (Silverman et al., 1999a) e dell’encopresi (Ronen, 1993). King et al. (1998) hanno applicato la CBT con un bambino di 5 anni che presentava un rifiuto scolastico, mentre Jackson e King (1981) hanno riferito l’utilizzo dell’immaginazione emotiva con un bambino di 5 anni che aveva paura del buio. Con i bambini in età pre-scolare, i programmi cognitivo comportamentali sono stati utilizzati in casi di abuso sessuale, qualcuno di essi aveva addirittura 3 anni (Cohen e Mannarino, 1996). Il programma sembra implicare interventi cognitivi con i bambini e i genitori, dal momento che si aiutano i piccoli ad analizzare le proprie attribuzioni relative all’abuso e li si incoraggia a sviluppare strategie di coping come il discorso interiore, il blocco del pensiero e l’immaginazione positiva. La CBT è efficace con i bambini in età pre-puberale? Dal momento che la CBT è stata ampiamente utilizzata con i bambini in età prepuberale, sorge la domanda sulla sua efficacia in questo gruppo di età. I risultati di 128 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale prove randomizzate e controllate che hanno incluso bambini al di sotto dei 12 anni suggeriscono che, se paragonata con un gruppo di controllo in lista d’attesa, la CBT dava significativi miglioramenti. L’utilizzo della CBT risultava in maggiori guadagni post trattamento e al follow-up nel trattamento dei disturbi d’ansia generalizzata (Kendall, 1994; Kendall et al., 1997; Silverman et al., 1999a), del rifiuto scolastico (King et al., 1998) e delle fobie specifiche (Cornwall et al., 1996). Se paragonata con altri interventi attivi, la superiorità della CBT è meno marcata. Nel trattamento della depressione con i bambini fra gli 8 e i 17 anni, Vostanis et al. (1996) non hanno riscontrato differenze significative fra la CBT e un intervento con un focus non specifico. Similmente, in uno studio con bambini depressi dai 9 ai 17 anni, Wood et al. (1996) hanno trovato che, paragonata con un training di rilassamento, la CBT dava maggiori miglioramenti al post trattamento, anche se le differenze non erano più significative dopo 6 mesi. In termini di fobie, Last et al. (1998) non hanno riscontrato differenze significative negli esiti di bambini fra i 6 e i 17 anni con fobia scolastica trattati con CBT o con un placebo per l’attenzione. Similmente, Silverman et al. (1999b) hanno riscontrato miglioramenti simili in bambini fra i 6 e i 16 anni con fobie specifiche che avevano ricevuto una CBT, un trattamento di contingency management o un supporto educativo. Infine, relativamente all’abuso sessuale, anche se Cohen e Mannarino (1996) hanno riferito la superiorità della CBT sulla terapia supportiva non direttiva, Berliner e Saunders (1996) hanno riscontrato che la CBT e il trattamento tradizionale davano entrambi miglioramenti significativi in bambini fra i 4 e i 13 anni che avevano subito un abuso sessuale. Anche se alcuni studi hanno evidenziato simili miglioramenti al post trattamento per la CBT e altre tipologie di interventi attivi, anche se al follow-up sono stati riscontrati alcuni benefici addizionali per la CBT. Sanders et al. (1996) hanno trovato che la CBT e le cure pediatriche standard davano miglioramenti simili al post trattamento in bambini fra i 7 e i 14 anni che soffrivano di dolori addominali ricorrenti, anche se al follow-up il gruppo della CBT aveva percentuali più basse di ricaduta e dolori meno intensi. Similmente, per l’enuresi, Ronen et al. (1995) hanno evidenziato che bambini fra i 7 e i 12 anni con enuresi rispondevano egualmente bene alla CBT, a un trattamento con sistema “a gettoni” e con un sistema di allarme per l’enuresi costituito da un sensore nel letto collegato a una campanella, anche se i vantaggi ottenuti con la CBT erano maggiori a 3 mesi di distanza. La CBT è più o meno efficace con i bambini più piccoli? L’ampio range di età in molti degli studi su riferiti ci fa chiedere se la CBT sia più o meno efficace con i bambini più piccoli. Alcuni ricercatori hanno evidenziato una tendenza per i bambini più piccoli a trarre maggiori benefici dalla CBT. Sanders et al. (1996) hanno notato una tendenza non significativa nei bambini più piccoli con dolore addominale a rispondere meglio alla CBT. Last et al. (1998) hanno invece sottolineato che si erano ottenuti risultati migliori quando i bambini erano più piccoli e 129 Paul Stallard avevano tassi di frequenza scolastica più elevati alla baseline. Similmente, in uno studio con bambini depressi fra i 10 e i 17 anni, Jayson et al. (1998) hanno mostrato che i bambini più piccoli e con un livello più basso di compromissione generale rispondevano meglio alla CBT. Non è chiaro se i miglioramenti maggiori evidenziati in questi studi siano ascrivibili a interventi precedenti, alla minore gravità dei problemi o alla superiorità degli interventi cognitivo comportamentali. I risultati sono, tuttavia coerenti, dal momenti che altri ricercatori hanno riscontrato che gli esiti della CBT non erano influenzati dall’età del bambino (Vostanis et al., 1996; Dadds et al., 1997). Durlak et al. (1991) hanno intrapreso l’analisi più completa che sia mai stata condotta di 64 studi sulla CBT che includevano bambini al di sotto dei 13 anni. L’età media dei bambini era 9 anni (range 4.5-13) ed è stata condotta un’analisi sull’efficacia della CBT nelle fasce di età 5-7, 7-11 e 11-13 anni. La lunghezza media degli interventi negli studi esaminati era di 9.6 ore (12 sedute) e due terzi erano stati implementati in contesti scolastici e tre quarti avevano utilizzato più di una componente di trattamento (per es. auto-istruzioni, problem-solving orientato al compito, ecc.). Anche se l’analisi aveva rivelato che la CBT era efficace con tutti le fasce di età, la grandezza dell’effetto per i bambini allo stadio delle operazioni formali (11-13 anni) era doppia rispetto ai bambini più piccoli. Questo ha portato gli autori a suggerire che i bambini che intraprendono un trattamento a un livello più avanzato di funzionamento cognitivo traggono maggiori benefici dalla CBT rispetto ai bambini più piccoli, che hanno invece livelli meno avanzati. Questi autori riconoscono i limiti dello studio e sottolineano come il livello di sviluppo del bambino non fosse stato misurato direttamente, ma fosse stato dedotto sulla base dell’età. Pertanto, i bambini erano stati classificati in accordo con gli stadi cognitivi di Piaget, presumendo che i bambini fra i 5 e i 7 anni si trovassero a uno stadio preoperatorio, quelli fra i 7 e gli 1 anni allo stadio delle operazioni concrete e quelli fra gli 11 e i 13 anni allo stadio delle operazioni formali. Similmente, la premessa secondo cui il livello di maturità cognitiva dei bambini è relazionata all’esito della terapia suggerisce una relazione lineare con l’età. I risultati non supportano una simile relazione dal momento che il gruppo 5-7 anni traeva altrettanti benefici di quello 7-11 anni. cBt oppure CBT? Fare attenzione ai processi cognitivi del bambino è chiaramente importante nell’applicazione di una CBT. Le richieste cognitive dell’intervento non devono però superare le capacità cognitive del bambino. Tuttavia, un’analisi delle componenti del trattamento, nei programmi di CBT, indica che le richieste cognitive di molti sono in realtà piuttosto limitate. Le componenti cognitive sono spesso confinate a sviluppare particolari procedure, come il discorso interiore positivo, una strategia che costituisce il fondamento dei programmi per il disturbo ossessivo compulsivo (OCD) e per il disturbo d’ansia. Nel programma per il OCD, “How I ran OCD off my hand”, i bambini imparano a contrastare il proprio OCD utilizzando un discorso interiore 130 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale costruttivo (March et al., 1994). Sostituire un discorso interiore ansioso con uno di coping è la componente cognitiva principale del programma di trattamento “Coping Cat” per il trattamento dei disturbi d’ansia (Kendall, 1994). L’enfasi principale di questi programmi è sulle strategie comportamentali fra cui l’identificazione delle emozioni, la gestione dell’ansia, l’esposizione graduale allo stimolo ansiogeno e il rinforzo positivo. Per quanto riguarda la depressione, la ristrutturazione cognitiva è la principale componente cognitiva dei programmi utilizzati con bambini di età pre-puberale (Vostanis et al., 1996; Wood et al., 1996). Questi programmi riservano due sedute a questa procedura cognitiva, mentre le altre sei o sette sedute si focalizzano sul riconoscimento e sulla gestione delle emozioni, sull’auto-rinforzo e sul problem-solving. Dato il focus cognitivo limitato di molti programmi di CBT, sembrerebbe essenziale valutare l’aderenza del trattamento alle indicazioni, per assicurarsi che sia stato effettivamente applicato un intervento cognitivo. Feehan e Vostanis (1996), per esempio, riferiscono che solo il 50% del loro gruppo aveva effettivamente frequentato le sedute sulla ristrutturazione cognitiva. L’ampia variabilità nelle componenti del trattamento utilizzate nei programmi di CBT con i bambini di età pre-puberale è stata sottolineata da Durlak et al. (1991) – gli autori hanno concluso che “nella pratica attuale, la CBT rappresenta un’espressione “ombrello” per un insieme non standardizzato di differenti tecniche di trattamento che possono essere somministrate in molte diverse sequenze e permutazioni”. Questa variabilità nelle componenti del trattamento potrebbe in parte spiegare perché la loro analisi ha fallito nel consolidare la predetta associazione fra i cambiamenti nei processi cognitivi e nel comportamento. Gli autori ipotizzano che sarebbe “sconcertante trovare che le variabili cognitive enfatizzate nella CBT non siano in qualche modo relazionate a dei risultati”. Tuttavia, se le componenti cognitive dei programmi di CBT sono limitate, allora gli effetti sull’esito cognitivo non sono necessariamente significativi. A proposito di ciò, è importante riconoscere che le componenti cognitive dei programmi di trattamento potrebbero non essere state descritte completamente. È anche probabile che le sedute di trattamento “non cognitive” che si focalizzavano, per esempio, sul riconoscimento delle emozioni o sul problem-solving sociale, avessero degli elementi cognitivi. Ciò non di meno, sembra che i programmi di CBT con i bambini siano soprattutto di orientamento comportamentale, mentre il focus diretto sugli aspetti e processi cognitivi è limitato. Questo è in contrasto con la CBT per adulti in cui l’enfasi principale è sull’identificazione dei pensieri e sulla comprensione di come vengono giudicati gli eventi su un piano cognitivo (vedere, per esempio, Salkovskis, 1999; Ehlers e Clark, 2000). La breve rassegna sottolinea che le componenti e il focus “cognitivo” e di molti programmi di CBT per i bambini è estremamente limitato. Di solito, l’elemento cognitivo implica una strategia, che di solito è lo sviluppo di un discorso interiore come strumento di coping. Le richieste cognitive di molti programmi di CBT quindi sono piuttosto limitate e come tali sono all’interno del range di competenze della maggior parte dei bambini in età pre-puberale. 131 Paul Stallard Adattare la CBT all’utilizzo con i bambini più piccoli Affinché la CBT sia efficace, i materiali devono essere adattati e presentati al giusto livello di sviluppo cognitivo. I concetti e le strategie astratte devono essere tradotte in esempi e metafore semplici tratte dalla vita quotidiana del bambino, che possono essere accessibili attraverso mezzi appropriati all’età quali il gioco o l’espressione artistica. Questa tematica è enfatizzata da Vostanis et al. (1996), che suggerisce come la CBT abbia bisogno di essere modificata per i bambini più piccoli utilizzando tecniche meno verbali e più visive. Gli autori descrivono come il loro programma terapeutico era stato adattato utilizzando un linguaggio più semplice, esempi adeguati all’età e disegni di emozioni differenti (Feehan e Vostanis, 1996). Le metafore sono un mezzo utile per presentare i concetti astratti ai bambini in una maniera concreta e comprensibile. Barrett et al. (2000) descrivono i pensieri inutili come “invasori della mente” che i bambini vengono incoraggiati a distruggere. Williams et al. (2002) hanno utilizzato, per spiegare i pensieri intrusivi, l’analogia con una tonalità irritante che continua a venire fuori nella propria mente. Stallard (2002), per spiegare i pensieri automatici, ha utilizzato la metafora di un’audiocassetta che suona nel cervello e di una videocassetta per spiegare le immagini intrusive ripetitive. Si possono sviluppare delle immagini, per insegnare ai bambini come controllare i propri pensieri, imparando a spegnere il registratore o ad abbassarne il volume. Similmente, i bambini possono essere aiutati a identificare, verificare e valutare i propri pensieri e comportamenti attraverso l’uso di metafore che li incoraggiano ad assumere un ruolo di un “Io Privato” (Friedberg e McClure, 2002) o di un “detective sociale” (Spence, 1995) o di un “cercatore di pensieri” (Stallard, 2002). La metafora di un vulcano arrabbiato può essere utilizzata per aiutare i bambini a comprendere e visualizzare la propria rabbia che ribolle e per analizzare come si possa aiutare il vulcano a non eruttare. Infine, l’immaginazione positiva come strumento di coping è stata utilizzata con i bambini più piccoli per controbilanciare reazioni emotive spiacevoli come l’ansia o la rabbia. Jackson e King (1981), per esempio, hanno utilizzato l’eroe di fantasia Batman per aiutare un bambino di 5 anni a superare la propria paura del buio. Per essere efficaci, le immagini dovrebbero essere appropriate all’età del bambino e costruite sulla base dei loro reali interessi. L’utilizzo del gioco e di giocattoli per spiegare concetti basilari della CBT rappresenta una modalità naturale, non minacciosa e divertente di lavorare con i bambini piccoli. Ronen (1993) ha presentato il caso di un bambino di 6 anni che soffriva di encopresi fosse in grado di intraprendere una CBT una volta che il terapeuta aveva compreso il suo “modo di pensare”. I pensieri automatici (ossia fare qualcosa senza pensarci) o mediati (ossia il cervello che dà un ordine o un comando al corpo) sono stati presentati attraverso un gioco con i soldatini. I pensieri mediati erano stati presentati come un comandante (il cervello) che mandava ordini ai propri soldati (il corpo del bambino). Barrett et al. (2000) hanno fornito un altro esempio dell’utilizzo dei giochi. Gli autori descrivono un compito in cui si chiedeva ai bambini di portare un palloncino da una parte della stanza all’altra come mezzo per insegnare un approccio strutturato al problem-solving. Similmente, le bambole, i pupazzi e i giocattoli possono essere utilizzati per rappresentare situazioni difficili in cui il bambino viene incoraggiato a 132 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale esprimere quali potrebbero essere i pensieri dei giocattoli. Tuttavia, Salmon e Bryant (2002) ricordano che i bambini in età pre-scolare hanno difficoltà nell’utilizzare una bambola per rappresentare se stessi. Non riescono a comprendere che una bambola può essere allo stesso tempo un oggetto (giocattolo) e un simbolo (rappresentazione di sé). C’è anche la necessità di rendere la CBT per i bambini divertente, interessante e coinvolgente. L’utilizzo di mezzi visivi come lavagne in bianco e nero, flip-charts e disegni può essere d’aiuto. I quiz possono essere un modo utile e divertente di indagare i pensieri del bambino. Le frasi incompiute possono essere utilizzate per identificare i pensieri collegati a specifiche situazioni e sentimenti (Friedberg e McClure, 2002). Gli indovinelli possono essere utilizzati per aiutare i bambini a distinguere fra pensieri, sentimenti e azioni (Stallard, 2002). I cartoni e le vignette possono fornire modi divertenti e utili di avere accesso ai pensieri di un bambino; possono essere utilizzati per generare modalità alternative di pensiero o per evidenziare che persone differenti potrebbero avere diversi pensieri su un evento particolare (Kendall, 1994; Stallard, 2002). In termini di processi, la CBT con bambini di età pre-puberale è meno didattica di quella con gli adulti; il terapeuta adotta un ruolo più attivo nelle sedute terapeutiche. Se il bambino è reticente o non disponibile, il terapeuta potrebbe adottare un approccio retorico, indovinando ad alta voce quelli che potrebbero essere i pensieri del bambino. Similmente, le domande strutturate e il feedback regolare possono essere utilizzati per aiutare il bambino a fare collegamenti fra i pensieri e i sentimenti o per scoprire convinzioni o assunti fondamentali. Il terapeuta potrebbe fungere da “cacciatore di pensieri”, identificando i pensieri importanti quando si presentano e portandoli all’attenzione del bambino (Turk, 1998). Un’ulteriore questione relativa ai processi è evidenziata da Bailey (2001) che suggerisce la necessità di fare particolare attenzione all’andatura, al contenuto e alla velocità della terapia. Le sedute di trattamento potrebbero essere più brevi in funzione dello span di attenzione del bambino. Il ruolo del genitore nella CBT con i bambini in età pre-puberale Quando si intraprende una CBT con i bambini in età pre-puberale, è importante considerare il ruolo dei genitori nel trattamento e nello sviluppo e nel mantenimento dei problemi psicologici dei propri figli. Non è appropriato vedere il bambino come qualcosa di isolato senza riconoscere o includere le significative influenze sistemiche, in particolare quelle della famiglia e del gruppo dei pari. Nella pratica clinica, i genitori sono spesso coinvolti nei programmi di CBT, anche se mancano attualmente modelli teorici adeguati che diano informazioni sulla natura di questo coinvolgimento. Una ragguardevole eccezione è costituita dal lavoro di Rapee (2001) che ha descritto un modello per il disturbo d’ansia generalizzato che mostra l’effetto dei pensieri e del comportamento genitoriale sullo sviluppo e sul mantenimento dei problemi del bambino. In particolare, l’ipercontrollo, l’iperprotezione, comportamenti manifesti di critica e il rinforzo dei comportamenti di evitamento sono stati identificati come fattori importanti associati allo sviluppo di disturbi d’ansia nei bambini. 133 Paul Stallard Lascia piuttosto sorpresi il fatto che, nonostante la potenziale importanza, il ruolo dei genitori nei programmi di CBT, in particolare con i bambini in età pre-puberale, abbia ricevuto una così scarsa attenzione. I programmi hanno coinvolto i genitori in diverse maniere, come facilitatori, co-terapeuti o clienti a loro volta (Kendall, 1994; Barrett et al., 1996; Toren et al., 2000). Il genitore facilitatore è quello che ha il ruolo più limitato nella terapia come nel programma “Coping Cat” (Kendall, 1994). Il focus predominante dell’intervento è sulla CBT individuale con il bambino, mentre i genitori partecipano a una o due sedute educative per incoraggiare la cooperazione con il trattamento. Come co-terapeuti, i genitori vengono maggiormente coinvolti nelle sedute di trattamento e vengono incoraggiati a monitorare, promuovere e rinforzare l’utilizzo delle competenze cognitive, da parte del proprio bambino, al di fuori della seduta terapeutica (Mendlowitz et al., 1999; Toren et al., 2000). Nei modelli di facilitatore e co-terapeuta, il bambino continua a rimanere il focus dell’intervento, mentre i genitori lavorano per ridurre lo stress psicologico dei propri figli. Un modello alternativo è quello in cui sia il bambino sia i genitori sono il soggetto dell’intervento diretto. I bambini potrebbero, per esempio, essere coinvolti parallelamente in una CBT individuale e in sedute familiari in cui la famiglia apprende modalità alternative di gestione dell’ansia o nuove competenze di problem-solving. Barrett (1998) descrive un modello di questo tipo in cui i genitori e i bambini vengono rafforzati per formare una “squadra di esperti” nella gestione dell’ansia. Le sedute terapeutiche coinvolgono i genitori e i bambini, si promuove una condivisione aperta delle informazioni e si determina insieme il contenuto e il procedimento terapeutico, che pone enfasi sull’identificare e rafforzare le competenze già esistenti dei membri della famiglia. Cobham et al. (1998) hanno descritto un modello simile. Gli autori riferiscono un intervento che prevede una CBT individuale per il bambino per il trattamento dell’ansia e un programma per ridurre l’ansia genitoriale. I bambini ricevevano dieci sedute mentre i genitori ne ricevevano quattro specifiche per aiutarli a riconoscere gli effetti del proprio comportamento sullo sviluppo e sul mantenimento dei problemi del proprio bambino e ad affrontare la propria ansia. L’ultimo modello, che ha ricevuto minori attenzioni, è quello in cui si affrontano le problematiche del bambino attraverso un lavoro cognitivo sui genitori. Le attribuzioni genitoriali sul comportamento del bambino, le convinzioni sul ruolo del genitore o le percezioni della propria efficacia come genitori, possono essere identificati e riappresi attraverso un lavoro cognitivo diretto sui genitori. Questo modello potrebbe essere utile pere lavorare con i bambini in età pre-scolare o in approcci preventivi. Un recente esempio è stato descritto da Bugental et al. (2002) che hanno trovato che i genitori di neonati incoraggiati a identificare attribuzioni causali non critiche, per spiegare il comportamento del proprio bambino, avevano meno probabilità di diventare genitori abusanti o duri. Il focus, il contenuto e la natura di questi interventi sono molto differenti, facendo così sorgere il dubbio su quale sia la maniera più efficace di coinvolgere i genitori nella CBT con i bambini. Una serie di ricercatori hanno suggerito che il coinvolgimento genitoriale potrebbe accrescere l’efficacia della CBT (King et al., 1998; Mendlowitz et al., 1999; Toren et al., 2000). Sono stati intrapresi tentativi più sistematici per valutare il contributo aggiuntivo del coinvolgimento dei genitori in una serie di studi con bam134 Terapia cognitivo comportamentale con i bambini in età pre-puberale bini che soffrivano di disturbo d’ansia generalizzato. Barrett et al. (1996) hanno paragonato la CBT focalizzata sul bambino con una CBT individuale unita a un intervento per la gestione familiare dell’ansia e hanno riscontrato che il coinvolgimento dei genitori dava maggiori benefici, soprattutto nei bambini pi piccoli. Questi miglioramenti erano presenti anche dopo 12 mesi, anche se, contrariamente alle previsioni, dopo 6 anni non erano presenti alcune differenze (Barrett et al., 20001). Similmente, Cobham et al. (1998) hanno trovato che l’impatto della CBT individuale era accresciuto dall’inclusione di un programma di gestione dell’ansia genitoriale, ma solo per i bambini che avevano almeno un genitore ansioso. Questi miglioramenti, tuttavia, erano meno evidenti al follow-up a 6 e 12 mesi. I risultati non sono tuttavia coerenti con quelli di Spence et al. (2000) che non hanno riscontrato alcun effetto significativo, al follow-up a 12 mesi, in seguito alla partecipazione dei genitori di bambini con fobia sociale a un programma di CBT. Conclusione Questo capitolo ha cercato di evidenziare alcuni degli aspetti principali implicati nell’intraprendere una CBT con i bambini. C’è un consenso generale sul fatto che i bambini di 7 anni e più sono in grado di intraprendere una CBT. I bambini più piccoli possono essere coinvolti in alcuni programmi di CBT, quando le richieste cognitive dell’intervento vengono accoppiate allo sviluppo cognitivo del bambino. Anche se la consapevolezza della necessità di adattare e modificare la CBT per un utilizzo con i bambini in età pre-puberale è sempre maggiore, pochi studi descrivono come sia possibile raggiungere questo obiettivo. I programmi attualmente coprono un range di età piuttosto vasto e ci sono pochi resoconti di un applicazione della CBT a bambini al di sotto dei 7 anni. Poche sono le prove controllate e randomizzate e ancora non si sa se la CBT sia più o meno efficace con i bambini più piccoli. Le ricerche che valuta le componenti attive del trattamento e l’equilibrio fra gli elementi cognitivi e comportamentali spesso non sono state analizzate. Come evidenziato da Bailey (2001), la CBT con i bambini più piccoli probabilmente avrà una maggioranza di componenti comportamentali rispetto alle strategie cognitive; e questo fa sorgere una domanda importante: quando una terapia comportamentale diventa una CBT?. In termini di sviluppo teorico, non ci sono modelli cognitivi per spiegare l’insorgenza e il mantenimento dei problemi psicologici nei bambini. I modelli derivati dalla ricerca con gli adulti sono stati applicati ai bambini (Barrett et al., 2000). Sono stati ampiamente sviluppati modelli evolutivamente appropriati che prendono in considerazione l’età del bambino e il ruolo della famiglia. A oggi non ci sono prove consistenti che il coinvolgimento dei genitori nei programmi di CBT, in particolare con i bambini piccoli, aumenti l’efficacia del trattamento. È necessario un ulteriore lavoro per sviluppare modelli, con una certa consistenza teorica, che spieghino lo sviluppo e il mantenimento dell’elaborazione cognitiva disfunzionale nei bambini; e questi modelli, a loro volta, daranno informazioni sulla modalità più efficace di coinvolgere i genitori nei programmi di CBT con i propri bambini. 135 Paul Stallard Bibliografia Bailey, V. (2001). 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Caratteristiche dei bambini e degli adolescenti ricoverati Pattern diagnostico Recenti dati statistici del Regno Unito (ÒHerlihy et al., 2001) hanno fornito un quadro esaustivo trasversale dell’attuale composizione diagnostica dei reparti psichiatrici nel Regno Unito (Tabella 9.1). Ricerche provenienti da altri paesi hanno mostrato simili pattern di morbidità (Sourander e Turunen, 1999). Il censimento riflette alcuni pattern diagnostici chiave nella popolazione ricoverata: • I disturbi dell’alimentazione vanno a costituire un’elevata percentuale di ricoveri femminili, sia nel gruppo dei bambini sia in quello degli adolescenti. 139 Jonathan Green • • • • La psicosi acuta è un’importante causa di ricovero in adolescenza e non del tutto trascurabile nei bambini. Nonostante il disturbo della condotta e altri sintomi esteriorizzati siano di solito controindicazioni a un ricovero, spesso sono fortemente presenti nei bambini ricoverati, soprattutto maschi. I disturbi pervasivi dello sviluppo e altre condizioni neuropsichiatriche sono più comuni nei reparti infantili. I disturbi dell’umore sono una componente importante nella popolazione infantile e adolescenziale ricoverata. Tabella 9.1 Diagnosi riferite dai clinici al censimento dei pazienti di 71 reparti di ricovero per bambini e adolescenti nel Regno Unito (Sett. 2000). I gruppi sono indicati per genere ed età – i risultati sotto forma di percentuali all’interno di ciascun gruppo Maschi < 13 anni (n = 91) % Femmine < 13 anni (n = 65) % Maschi > 13 anni (n = 162) % Femmine > 13 anni (n = 287) % Disturbo cerebrale organico 2.2 Disturbo collegato all’abuso di sostanze 2.2 2.9 2.3 1.7 Disturbo psicotico 4.4 8.8 33.3 13.8 Disturbo dell’umore 9.7 4.4 21.1 18.1 Disturbo d’ansia 8.6 5.9 4.1 3.4 Reazione acuta da stress 3.2 2.9 2.9 0.3 Disturbo pervasivo dello sviluppo 3.2 0 2.9 0,3 Disturbo ipercinetico 12.9 4.4 1.8 0.3 Disturbo della condotta/Disturbo della condotta misto con disturbo emotivo 22.6 5.9 4.7 1.7 Disturbo dell’evacuazione 3.2 7.4 0.6 0 Disturbo dell’alimentazione 3.2 30.9 4.7 32.2 Disturbo del sonno 0 1.5 0 0 Disturbo di somatizzazione/somatoforme 1.1 2.9 0.6 2.3 Disturbo di personalità 0 0 3.5 6.0 Altri 16.1 13.2 9.4 7.4 Riprodotta su gentile concessione di ÒHerlihy et al., 2001 140 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero Compromissione funzionale La diagnosi da sola, tuttavia, non è il principale predittore dell’esito o dei bisogni di questa popolazione (Green et al., 2001; Green, 2002). Le valutazioni funzionali come quelle che si ottengono attraverso la Children’s Global Assessment Scale (CGAS; Shaffer et al., 1983) e la Health of The Nation Outcome Scales for Children and Adolescents (HoNOSCA; Gowers et al., 1999) permettono di valutare piuttosto semplicemente la complessità di ogni caso e la compromissione funzionale. Un recente studio prospettico del Regno Unito ha mostrato che queste misure rappresentano un buon indicatore dei progressi verso la salute nel corso del ricovero (Green et al., 2001). I bisogni di salute I “bisogni di salute” sono presenti in situazioni in cui: (1) esiste una sintomatologia che, in un’area specifica, supera una soglia prefissata; (2) colui che soffre desidera ricevere un aiuto e (3) esiste un trattamento appropriato che però non viene somministrato. Attraverso l’analisi dei bisogni di salute si valutano tutte queste necessità da prospettive multiple, enfatizzando i punti di vista di chi eroga e di chi usufruisce del servizio, in ambiti più ampi di quello psicopatologico, fra cui il tempo libero, il progresso educativo, l’amicizia, la cura di sé e le relazioni familiari (Kroll et al., 1999). Alcuni dati preliminari sui bisogni di salute dei pazienti ricoverati, tratti da un sotto campione dell’attuale UK Children and Young Persons Inpatient Evaluation (CHYPIE) Study, sono riassunti nella Tabella 9.2. Questa analisi ci ha permesso di ampliare il quadro visivo di questo gruppo di clienti. I reparti infantili presentano livelli particolarmente elevati di bisogni non soddisfatti nelle seguenti aree: 1. Relazioni sociali e familiari – più del 50% dei ricoveri presentano problematiche in questi ambiti: una rottura familiare imminente è un fattore comune nelle richieste di ricovero (vedere sotto). 2. Comportamenti esteriorizzati – circa il 90% dei ricoverati mostrano ostilità e comportamenti oppositivi disfunzionali e il 70% sono iperattivi. Queste difficoltà comportamentali (che sono anche indice di una preponderanza di individui maschi nei reparti infantili) potrebbero essere il motivo principale della richiesta di ricovero o possono essere in comorbidità con altri disturbi. Gli adolescenti, presentano un numero elevato di bisogni non soddisfatti: 1. Problemi d’umore, disturbi psicotici e disturbi specifici d’ansia 2. Problemi educativi e attività sociali fuori casa (tempo libero). Queste difficoltà complessive nel funzionamento sociale riflettono, in un senso più ampio, le principali problematiche dei ricoverati. 141 Jonathan Green Tabella 9.2 Percentuale di pazienti con bisogni di salute non soddisfatti o persistenti, nonostante l’intervento o il ricovero in reparti per bambini e adolescenti % di bisogni reparti per bambini Unità (n = 76) % di bisogni reparti per adolescenti Unità (n = 74) Cura di sé 29 34 Malattia fisica/Compromissione mentale 13 28 Problemi nel tempo libero 32 63 Frequenza scolastica 32 71 Performance scolastica 71 70 Relazioni sociale 79 51 Relazioni familiari 63 40 Comportamenti distruttivi 67 24 Comportamenti ostili 84 36 Comportamenti oppositivi/disfunzionali 85 31 Autolesionismo intenzionale 28 51 Problemi d’umore 47 75 Allucinazioni/Deliri 7 33 Iperattività 68 13 Ansia/DPTS 57 65 Disturbi dell’alimentazione 11 24 Disturbo ossessivo compulsivo/tic 39 22 Disturbi dell’evacuazione 27 5 Identità culturale/Razziale 28 0 Tratta da Green J.M. et al. (2001) per gentile concessione. __ 8 Ambito Riprodotta su gentile concessione di J.M. et al., 2001 142 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero Gravità e complessità del caso I dati sui bisogni evidenziano la complessità e la natura multisfaccettata dei casi ricoverati, che spesso includono sintomi evolutivi e psicosociali. L’individuazione strategica degli obiettivi dell’intervento (Shaw, 1998) può aiutare a chiarire la direzione del trattamento, all’interno di questa complessità, e questa è una componente essenziale della moderna prassi di ricovero attuale. Ma, per quanto utile, questo processo non può modificare la realtà di complessità e di interdipendenza di varie difficoltà presenti in molti casi – aspetti che spesso minano il progresso terapeutico. Comorbidità La comorbidità è un aspetto della complessità del caso. Di solito una comorbidità multipla è la prassi nei pazienti ricoverati. Questo è importante nella progettazione del trattamento quando una difficoltà associata a un certo problema potrebbe ostacolare gli interventi proposti per un’altra. Per esempio, un disturbo pervasivo dello sviluppo non manifesto, comunemente non individuato in setting ambulatoriali, potrebbe ostacolare la capacità del bambino di beneficiare di qualunque trattamento psicologico, a meno che questo non subisca un adattamento. I bambini ricoverati, di solito, presentano delle vulnerabilità neuroevolutive non riconosciute, che hanno contribuito a rendere i problemi resistenti al trattamento in contesti ambulatoriali. La comorbidità ha un’influenza determinante sul piano di trattamento. Compromissione sociale ed evolutiva L’analisi dei bisogni suggerisce che una compromissione generale del funzionamento sociale è un’importante caratteristica dei ragazzi ricoverati. Altri due studi supportano questo punto di vista. In 58 ricoveri consecutivi in Nuova Zelanda, sono state riscontrate numerose difficoltà sociali, combinate con un handicap linguistico, moderato e grave, nel 40% dei casi (Paterson et al., 1997). Uno studio americano su 126 bambini e adolescenti ospedalizzati (Luthar et al., 1995) ha trovato compromissioni simili nei punteggi di competenza sociale della scala Vineland in pazienti ricoverati per disturbo esteriorizzato e disturbo misto interiorizzato/esteriorizzato, associati specificamente a un ridotto ritardo specifico della lettura. I trattamenti che affrontano queste compromissioni sociali sono una priorità da considerare. Rottura familiare Come indicano i dati sui bisogni, la rottura funzionale nella cura familiare è una ragione comune di richiesta di ricovero. Questo non implica necessariamente che la famiglia sia un fattore eziologico primario del disturbo. Certamente, nei casi in cui il fallimento familiare è l’elemento primario, come quelli di abuso e trascuratezza, è 143 Jonathan Green spesso necessaria una presa in carico sociale piuttosto che un ricovero in un reparto psichiatrico. Tuttavia, ci sono molti altri casi in cui l’impatto della malattia mentale del bambino sulla famiglia ne schiaccia le risorse e, l’interazione fra processi familiari e l’insorgenza della malattia mentale del bambino assume una escalation negativa. È di solito in queste condizioni che è utile un ricovero psichiatrico. Questo fatto influenza le scelte di trattamento nel corso del ricovero: il lavoro focalizzato sulla famiglia è essenziale se si vogliono mantenere i progressi fatti dopo la dimissione (Green, 1994). Coinvolgimento di agenzie multiple Una rassegna condotta nel Regno Unito sui servizi di salute mentale per l’infanzia (National Health Service Health Advisory Service, 1995), evidenzia come, mano a mano che i pazienti passano attraverso diversi “scaglioni” di cure specializzate, hanno sempre maggiore probabilità di essere presi in carico da molteplici agenzie, oltre a quella della salute, fra cui in particolare i servizi sociali e l’educazione. Alcuni studi epidemiologici basati sulla popolazione (Kurtz, 1994) raggiungono la stessa conclusione. Pertanto, per avere successo, i piani di trattamento per i ricoverati devono essere multimodali e prevedere collegamenti con altre agenzie. Resistenza al trattamento, consenso e alleanza terapeutica Il trattamento con ricovero viene di solito considerato dalle famiglie o dai professionisti che non sono hanno ottenuto successi con il trattamento ambulatoriale come “l’ultima spiaggia” – ma spesso il paziente lo considera un rifiuto o una “punizione”. Alcune ricerche suggeriscono che i bambini raramente si sentono coinvolti o sono d’accordo con la decisione del ricovero. Tuttavia, l’alleanza terapeutica con il bambino – indicata dall’adattamento positivo all’ambiente del reparto e dall’attiva partecipazione al programma di trattamento – si è mostrata uno dei migliori predittori della modificazione dei sintomi nel corso del ricovero (Green et al., 2001); al contrario, l’alleanza con i genitori non era predittrice di nulla. Questo enfatizza la grande importanza della preparazione pre-ricovero e del lavoro intensivo focalizzato sul bambino/adolescente. Questi non sono casi facili e il compito iniziale è spesso quello di promuovere la motivazione e la speranza. Qualunque trattamento individuale deve essere visto nel contesto dell’alleanza complessiva del bambino con il reparto, del suo consenso e della motivazione individuale. Caratteristiche del contesto di trattamento in situazioni di ricovero I reparti per bambini e adolescenti sono esempi di contesti specialistici a basso volume, e alta intensità. Questo potrebbe essere gestito come qualcosa di a sé stante, 144 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero potrebbe essere parte del un campus di un ospedale pediatrico (reparti infantili) o parte di un servizio di salute mentale per adulti. Il personale di solito include team multiprofessionali costituiti dal personale del reparto (di solito infermiere pediatriche o specialisti di salute mentale e clown dottori), dagli psichiatri e da una serie variabile di altri professionisti fra cui psicologi clinici, assistenti sociali, terapeuti occupazionali, terapeuti familiari, psicoterapeuti e terapisti del discorso e del linguaggio. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, esistono delle guide su quanti e chi dovrebbero essere i professionisti parte di un team di divisione psichiatrica (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 1990; Royal College of Psychiatrists, 1999. Nella pratica, la composizione dei team spesso è molto lontana da questi standard (Green e Jacobs, 1998a) e l’applicazione della CBT deve tenere in considerazione questa realtà. I pazienti di solito restano per 5 – 7 giorni. La giornata è spesso strutturata con un’attività scolastica classica che si svolge in una scuola speciale vicino al reparto o nel territorio. Il tempo che i bambini non passano a scuola sarà strutturato in parte per l’erogazione di cure basilari (così, ci sarà l’ora dei pasti, del gioco, del tempo libero, ecc.) e anche dalla fornitura di attività terapeutiche strutturate. Principi di cura terapeutica Il trattamento in degenza offre una insieme complesso di opportunità terapeutiche: • • • • Il ricovero in sé; in altre parole, l’allontanamento del ragazzo dall’ambiente di casa e dalla famiglia, dalla scuola e dalla comunità per entrare in un contesto sociale ed educativo speciale. Per alcuni tipi di problemi, questa rimozione può da sé portare subito dei giovamenti al paziente (Green et al., 2001; Green, 2002). Molti pazienti ricoverati in questi reparti hanno difficoltà di sviluppo manifeste o latenti, disturbi specifici di apprendimento, compromissioni sul piano sociale e una storia di fallimento scolastico. Il contesto specializzato e intensivo del reparto, che combina un setting sociale ed educativo, può portare rapidi miglioramenti in questi ambiti, così come nell’area dell’autostima. L’ambiente del reparto fornisce molte opportunità per diverse forme di “terapia sociale”. Queste possono includere gruppi terapeutici, attività di vita quotidiana e la vigilanza su alcuni aspetti fondamentali come, per esempio, l’assunzione di cibo nel caso dei disturbi dell’alimentazione. Ci sono ulteriori opportunità di programmi di trattamento specializzato che possono essere condotti all’interno del reparto o spostandosi in contesti simili “a uffici”. Esempi delle prime possono essere i programmi in cui è necessaria una supervisione intensiva, come la prevenzione della risposta. Esempi della seconda sono trattamenti simili a quelli condotti in contesti ambulatoriali come varie forme di terapie psicologiche, come la CBT, la vigilanza sull’assunzione di farmaci e la terapia familiare. La natura multidisciplinare di questa situazione significa che se i trattamenti devono essere somministrati in reparto, allora si deve farlo utilizzando un approccio di 145 Jonathan Green équipe con protocolli condivisi. Quando si utilizzano invece trattamenti di tipo ambulatoriale, resta comunque il problema di integrare questi trattamenti con il programma del reparto. Il lavoro che si fa in reparto e quello individuale potrebbero essere in conflitto fra loro – per esempio, il gruppo di pazienti che si rende conto che una persona riceve un determinato trattamento, mentre gli altri ne ricevono un altro. Simili problemi sono stati discussi in relazione ai trattamenti psicoterapeutici psicodinamici che di solito sono stati quelli predominanti in contesti di ricovero (Leibenluft et al., 1993; Magagna, 1998). L’utilizzo della CBT nei reparti dovrà prendere in considerazione le stesse problematiche sistemiche. La natura del contesto di reparto influenza anche le misure dell’esito e del progresso. Dal momento che il trattamento all’interno del contesto di ricovero è multimodale, è spesso difficile individuare quali elementi influenzino particolari sintomi e quindi modificare l’intervento di conseguenza. La progettazione di programmi di trattamento e il loro monitoraggio deve tenere conto di questo fatto. Adattare la CBT al trattamento in contesto di degenza Adattare il trattamento al contesto La CBT e il lavoro multidisciplinare Sono per lo più con le infermiere e altri membri del reparto ad avere un contatto giornaliero con i pazienti. Quindi le componenti comportamentali della CBT, fra cui i programmi per la riduzione dei comportamenti aggressivi, la prevenzione della risposta nei disturbi ossessivi compulsivi e i programmi per modificare i comportamenti alimentari, devono essere tutte mediate dal personale del reparto. Anche le componenti cognitive possono essere applicate dai membri del reparto o da altri membri dell’équipe multidisciplinare. La sfida principale, caratteristica della pratica clinica all’interno di reparti di degenza, è coordinare un team così ampio e diverso, al fine di applicare con efficacia trattamenti coerenti. I trattamenti complessi devono essere operazionalizzati per uno staff che sta in prima linea e i programmi terapeutici devono essere definiti con chiarezza e sufficientemente flessibili per adattarsi a questo contesto di team. La CBT risponde a queste richieste grazie a una serie di proprie caratteristiche: 1. L’enfasi sulla contrattazione esplicita del trattamento aiuta a chiarire le relazioni terapeutiche complesse con numerosi membri del team. 2. L’esplicito focus sugli obiettivi e le procedure piuttosto strutturate possono aiutare a generare una lavoro comune sugli obiettivi, con scopi espliciti condivisibili e comprensibili. 3. Le misure di baseline e la registrazione sistematica dell’esito terapeutico sono utili per focalizzare gli sforzi del team e per monitorare disturbi complessi. 4. La cornice limitata nel tempo e orientata al processo è utile per organizzare trattamenti complessi per ricoveri di pochi giorni. 146 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero La CBT e lo stile di vita del reparto L’approccio della CBT è coerente con lo stile di vita della maggior parte dei moderni servizi per la salute mentale dei bambini e degli adolescenti e si adatta bene con molti contesti di trattamento in unità di ricovero; caratterizzati da ricoveri brevi, da un orientamento alla valutazione e alla misurazione, da piani di intervento costruiti per scopi specifici e da trattamenti oggettivi. Wever (1998) fa un esempio eccellente di questo approccio. È cruciale che lo stile di vita del reparto sia compatibile con la metodologia della CBT – altrimenti, le tensioni avranno inevitabilmente un impatto sulla coerenza del reparto e su una buona presa in carico del paziente (Green e Burke, 1998). Molte unità di degenza e il personale all’interno, hanno una tendenza a idee e trattamenti psicodinamici e, per salvaguardare una certa coerenza, spesso è necessario integrare degli approcci. Gli approcci psicodinamici presentano una serie di caratteristiche che restano di valore inconfutabile per la valutazione e la formulazione del caso: l’enfasi sull’ascolto attento e sull’osservazione; la risposta al “paziente nel suo complesso” e la convinzione che i problemi emotivi e comportamentali possono avere alla base cause importanti che, anche se non manifeste, devono essere affrontate prima di poter promuovere un qualunque progresso. Questi valori danno forma a una buona valutazione approfondita e sono importanti precursori dell’applicazione di una CBT, che, come indicano prove recenti, ha maggiori probabilità, rispetto alla psicoterapia psicodinamica di modificare i comportamenti in molte situazioni. Similmente, il contesto terapeutico standard del reparto deve esse sufficientemente strutturato per portare un senso di ordine nelle vite dei bambini, che a casa sono spesso caotiche, ma anche sufficientemente flessibile e permissivo da incoraggiare l’espressione delle emozioni e delle difficoltà che potrebbero far venire alla luce la psicopatologia, nei casi in cui questa non sia già manifesta. Questo rappresenta un compito impegnativo, ma non impossibile per lo staff delle unità di ricovero, soprattutto quello coinvolto nelle interazioni giornaliere con i bambini. Adattamenti al gruppo di clienti e problematiche generali Complessità del caso Una delle sfide per qualunque modalità di trattamento praticata all’interno di un contesto di ricovero è la complessità di ciò che ci si presenta. Come abbiamo già visto, i pazienti presentano spesso più diagnosi unite a difficoltà o compromissioni evolutive. La CBT in contesti ambulatoriali di solito tratta disturbi o problemi comportamenti isolati, fra cui disturbi specifici d’ansia, disturbo ossessivo compulsivo, rabbia incontrollata o depressione. A volte sembra che la CBT possa e debba essere applicata solo in situazioni in cui il disturbo è trattabile e la motivazione è alta. Tuttavia, questa visione non è sempre sostenibile in unità di degenza che hanno l’obbligo di gestire la complessità e che sono spesso l’ultima soluzione. Si devono pertanto applicare ingegno e sforzo per riuscire a inquadrare i casi complessi in una maniera che apra la strada a approcci di 147 Jonathan Green trattamento utili. Le tecniche fondamentali della CBT, come l’analisi comportamentale, possono avere in questi casi un valore molto alto. Gestione del comportamento I bambini vengono spesso ricoverati nella speranza che un processo diagnostico intensivo possa chiarire disturbi complessi o resistenti al trattamento. Fino a un certo punto, questa aspettativa è ragionevole, soprattutto in relazione ad aspetti del bambino più interiori e stabili, tipo la compromissione sociale o le difficoltà di attenzione. Tuttavia, i pattern di rinforzo comportamentale e di relazioni all’interno del reparto sarà diverso da quello a casa e non sorprende affatto, che i sintomi comportamentali siano spesso modificati dal ricovero, soprattutto all’inizio. Questo “periodo di luna di miele”, in casi di ricoveri brevi, può causare l’identificazione di falsi negativi. L’approccio della CBT si focalizza sulle osservazioni alla baseline e sull’analisi funzionale; il contesto del ricovero permette una registrazione precisa degli eventi, la registrazione del tempo dedicato a ciascuna attività, il campionamento temporale e la registrazione degli intervalli di comportamento (Jacobs, 1998a). È importante avere strumenti sistematici di registrazione, coerenti in ogni cambio di turno del personale di reparto. La valutazione dovrebbe anche focalizzarsi sull’analisi delle caratteristiche positive del bambino, sui punti di forza e sui rinforzi sociali e materiali più appropriati da utilizzare nei successivi programmi comportamentali. I rinforzi utili all’interno dell’unità di ricovero devono essere sotto il controllo del terapeuta e devono essere specifici per il trattamento (caramelle e patatine sono esempi di rinforzi poco efficaci perché vengono dati gratis dai visitatori). Devono essere utilizzati con gradualità e in maniera pratica – il contesto del reparto permette di poterli utilizzare immediatamente dopo l’esibizione del comportamento richiesto. I rinforzi dovrebbero essere concordati con i genitori e Jacobs (1998a) sottolinea che è controproducente introdurre un programma di gestione del comportamento in reparto, troppo complesso per essere generalizzato a casa dopo la dimissione. Alcuni rinforzi negativi vengono incorporati con successo nei programmi comportamentali. Questi possono essere: ignorare i comportamenti non desiderati, la distrazione verso altre attività e metodologie di “time out”. Qui, le dinamiche del gruppo di pazienti influenzano le strategie. Ignorare i comportamenti non desiderati in un contesto di gruppo spesso non è efficace e può causare una escalation nel gruppo. Il gruppo è spesso sensibile a risposte differenti che vengono applicate a persone diverse. Si deve applicare, a questo proposito, un training intensivo al personale, unito alla supervisione e al supporto: è un ambito molto difficile e che stressa molto il personale che lavora in prima linea nelle unità di ricovero. Un team reciprocamente supportivo, supportato da un approccio teorico coerente e da altri membri dell’équipe, come psicologi clinici e psichiatri, troverà più tollerabile la gestione del gruppo. Le dinamiche di gruppo possono, tuttavia, promuovere con forza il cambiamento quando diventano dominanti le aspettative positive, proprie della cultura del reparto. Alcune forme di “time out” vengono comunemente utilizzate in contesti di ricovero, soprattutto nei reparti infantili, ma i dettagli esatti di come questo venga fatto 148 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero variano considerevolmente (Green e Jacobs, 1998b). Il bambino, il personale e i genitori devono capire che lo scopo non è punire il bambino ma allontanarlo dalle cose che lo “agitano” e dargli una possibilità di “calmarsi”. L’allontanamento del bambino deve essere fatto in sicurezza e senza alcuna ambivalenza o discussione (ogni incertezza del personale viene immediatamente colta dal bambino). Il periodo che il bambino passa in una stanza di time out dovrebbe essere breve e specifico. La stanza stessa dovrebbe essere uno spazio adeguato, privo di stimolazioni – i reparti ora tendono a sostituire la vecchia stanza austera con un ambiente confortevole ma calmo. Il team deve essere estremamente sensibile alle problematiche relative alla costrizione e alla restrizione della libertà, quando si intraprende una metodologia di time out. Le vecchie procedure di chiudere la stanza a chiave o di allungare i periodi di reclusione ora non sono più accettabili, eccetto in alcune circostanze per cui è stato ottenuto un consenso specifico. In reparti che funzionano bene, che di solito pongono un’enfasi predominante sulla promozione dei comportamenti prosociali e aspettative positive, le procedure di time out sono disponibili se necessarie, ma non rappresentano il focus principale della gestione del comportamento. Al contrario, un focus predominante sulla gestione della crisi e sulla diminuzione dei comportamenti non desiderati, attraverso varie forme di punizione o di controllo, sono segnale di un’équipe schiacciata dalla situazione o che rischia di diventare disfunzionale (Green e Jacobs, 1998b). La maggior parte dei reparti sperimenteranno entrambi gli estremi. Ci si aspetta che il personale del reparto abbia un elevato livello di elasticità e di competenza. Si devono sempre tenere a mente i diritti del bambino e la coercizione deve essere evitata quando il personale si trova di fronte alla gestione di un gruppo di ragazzi con disturbi del comportamento. Mantenere un insieme coerente di contingenze positive nella cultura del reparto è un compito impegnativo che necessita di input e supporto costanti da parte di tutto il personale, di un elevato livello di complessità del piano di trattamento e di una leadership positiva sicura. La trasparenza dell’analisi e la natura pratica delle tecniche comportamentali possono essere utili per unificare il focus in questo contesto. Competenze sociali Come precedentemente descritto, circa l’80% dei ragazzi ricoverati ha problemi di funzionamento sociale. Potrebbero avere deficit socio-cognitivi – una scarsa elaborazione efficace delle informazioni sociali o un’incapacità di rispondervi appropriatamente – o potrebbero esserci distorsioni socio-cognitive – una tendenza a fraintendere situazioni ambigue in particolare quelli con intenzioni ostili (Crick e Dodge, 1994). Forse perché non è prontamente identificabile con una specifica diagnosi o sintomi, il training delle competenze cognitive è un trattamento sotto utilizzato nelle unità di ricovero. Varie forme di CBT per l’accrescimento della competenza sociale sono state già descritte in altra sede (vedere il Capitolo 23) e dovrebbero essere un fondamento centrale di una trattamento di CBT applicato in unità di ricovero, a livello individuale e di gruppo. Il vantaggio del contesto del reparto per questo lavoro, come per la modificazione comportamentale, è il contesto 24 ore su 24, che dà un’opportunità quasi costante di promuovere e mettere in pratica competenze sociali nel gruppo di pari. 149 Jonathan Green Uno svantaggio reciproco del contesto di ricovero è invece che di solito tutto il gruppo di pari è altrettanto disturbato e non fornisce né partner facili per lo scambio sociale, né modelli positivi di comportamento normale. Questa concentrazione di disturbi vene spesso indicata come fonte di preoccupazione per le unità di ricovero. È vero che un gruppo di pari con un livello di funzionamento piuttosto basso può essere al meglio inutile e al peggio distruttivo. Tuttavia, il contesto di gruppo offre un’opportunità di interazione con bambini con problemi simili, crea un senso di condivisione della difficoltà e offre occasioni per la promozione dell’autostima. I bambini che al di fuori falliscono possono qui invece avere successo. Facendo attenzione a come accoppiare i ragazzi con disturbi diversi, è di solito possibile massimizzare i potenziali benefici del trattamento e minimizzarne i deficit. Come minimo, il ricovero può chiarire i problemi ed essere un punto di partenza per questi miglioramenti – collegandosi ad agenzie esterne per promuovere una collocazione appropriata e futuri cambiamenti dopo la dimissione. Desensibilizzazione e prevenzione della risposta L’unità di ricovero può essere un luogo molto potente per le tecniche di desensibilizzazione progressiva e di prevenzione della risposta. Queste tecniche di solito vengono utilizzate per l’ansia e il disturbo ossessivo compulsivo (vedere il Capitolo 18). La graduale esposizione a una gerarchia crescente di situazioni temute, precedentemente scelte con il bambino, è un trattamento molto potente per diverse forme di ansia specifica. Similmente, i programmi di prevenzione della risposta per i bambini con comportamenti compulsivi gravi possono, a volte, essere più efficaci se applicati in reparto, dal momento che si ha una maggiore possibilità di controllo. Wever (1998) ne ha discusso le indicazioni. Alleanza terapeutica e intervista motivazionale L’alleanza terapeutica fra il bambino e il reparto come un tutt’uno, è uno dei migliori predittori di progressi nella salute, nel corso di trattamenti in regime di ricovero (Green et al. 2001). L’intervista motivazionale (vedere il Capitolo 5) collegata all’applicazione della CBT è particolarmente adatta a promuovere un’alleanza terapeutica in situazioni complesse, in cui il bambino potrebbe non aver preso parte principale nella decisione del ricovero. Disturbi specifici Disturbo della condotta e ipercinetico I comportamenti oppositivi e i disturbi della condotta sono molto presenti nelle unità di degenza (Tabella 9.1 e 9.2), ma l’ammissione di questi bambini è controversa, 150 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero dal momento che possono essere disfunzionali per il contesto e perché spesso si ottengono risultati piuttosto scarsi (anche se questa è la visione generale sugli esiti di questo disturbo in qualunque contesto). Tuttavia, ci sono delle indicazioni a favore del ricovero. In uno studio (Green et al., 2001) i pazienti con disturbo della condotta, che avevano sviluppato un’alleanza terapeutica positiva, sembravano avere esiti uguali agli altri casi – suggerendo che il fattore chiave non è la diagnosi di per sé, ma il coinvolgimento in un trattamento efficace. Questo risultato era indipendente dalla gravità complessiva dei sintomi. (La regola tuttavia erano una cattiva alleanza e un esito negativo, soprattutto se associati a un’elevata aggressività). Il ricovero può permettere l’analisi dettagliata dei fattori eziologici e di comorbidità nei casi resistenti al trattamento e l’opportunità di condurre un lavoro di gruppo intensivo (Jacobs, 1998b). L’uso efficace delle tecniche di CBT con il disturbo della condotta e oppositivo nel contesto ambulatoriale è descritto nei capitoli 13 e 25; gli stessi principi possono essere applicati anche in reparto. Un contesto di ricovero che combina aspettative comportamentali positive ed esplicite, elogi manifesti con un’enfasi sulle attività prosociali nel gruppo, può essere un’esperienza di apprendimento correttiva molto forte per il bambino. Le tecniche di gestione della rabbia possono essere applicate individualmente in modalità ambulatoriale e nell’unità di ricovero. I gruppi terapeutici delle unità di ricovero in cui si combinano tecniche del problem-solving sociale, consapevolezza delle emozioni sociali e gestione della rabbia, sono importanti e possono essere arricchiti da componenti ambulatoriali come la scuola del dinosauro di Webster-Stratton (Webster-Stratton e Hammond, 1997). La forza del trattamento all’interno di una unità di ricovero è che i “compiti a casa”, che i bambini dovrebbero fare a casa fra una seduta e l’altra, vengono svolti all’interno del reparto, come parte di un programma di gestione del comportamento. Quando in reparto si combinano efficacemente i programmi di gestione comportamentale applicati a scuola con i gruppi terapeutici, e la gestione da parte del personale riesce a rimanere costante ed efficace nel tempo, il bambino può beneficiare di un ambiente complessivo di apprendimento molto potente. Cotton (1993) dà un’indicazione eccellente di queste possibilità. Disturbi di adattamento fra cui l’abuso e il trauma Ci sono sorprendentemente poche prove sistematiche sull’incidenza di precedenti esperienze di abuso e trauma nella popolazione dei ricoverati. Tuttavia, l’esperienza clinica suggerisce che le percentuali sono molto elevate. Nel corso dei ricoveri non è raro imbattersi in nuove rivelazioni di abuso e queste infine possono dare senso ad alcune indicazioni dubbie. Una serie di studi hanno mostrato i vantaggi degli interventi di CBT per l’abuso rispetto a interventi non-direttivi di supporto o trattamenti standard in una comunità. (Brent et al., 2002; vedere anche il Capitolo 10). Disturbi dell’umore I disturbi dell’umore sono piuttosto comuni nelle unità di ricovero e la terapia cognitiva non si è ancora affermata come trattamento di elezione nei disturbi dell’umo151 Jonathan Green re degli adolescenti (Harrington et al., 1998; vedere anche il Capitolo 16). La CBT in contesti di reparto verrebbe condotta in maniera simile al contesto ambulatoriale. Alcuni elementi aggiuntivi importanti sono rappresentati da altre procedure comportamentali fra cui la strutturazione del tempo e dei gruppi di terapia per promuovere il contatto interpersonale. Disturbi dell’alimentazione I disturbi dell’alimentazione costituiscono una proporzione sostanziale dei ricoveri degli adolescenti (vedere sopra). Il ricovero è uno strumento molto utilizzato per ristabilire il peso e la stabilizzare i comportamenti alimentari, anche se il dibattito sul valore specifico di una gestione ambulatoriale è ancora molto vivo (Green, 2002). I programmi per ristabilire il peso si basano essenzialmente sul condizionamento operante. Oggi, vengono incorporati all’interno di altri approcci che includono il lavoro cognitivo con i ragazzi e la terapia familiare. Di recente, per la bulimia nervosa, quando il peso viene preservato, si è posta l’enfasi sul trattamento ambulatoriale piuttosto che su quello in unità di ricovero, anche se a volte l’ospedalizzazione è ancora suggerita come mezzo per interrompere il circolo vizioso del digiuno, dell’ingozzamento e del vomito (Steinhausen, 2002). Psicosi L’incidenza della schizofrenia cresce intensamente nel corso dell’adolescenza e le varie forme di questo disturbo sono una componente importante dei ricoveri in questa fascia di età (Tabella 9.1). La CBT per la schizofrenia negli adulti è stata utilizzata per ridurre l’impatto della sintomatologia positiva resistente al trattamento (Tarrier et al., 1993).Di recente c’è stato un interesse sempre maggiore nell’utilizzo di tali metodologie con pazienti giovani. Tuttavia, non ci sono ancora prove empiriche. L’utilizzo della CBT per la psicosi è più probabile negli interventi familiari per ridurre l’espressione delle emozioni. Ancora non è chiaro quanto sia importante l’insorgenza precoce in adolescenza della schizofrenia, dal momento che le famiglie di questi ragazzi tendono a esprimere minore critica e ostilità rispetto ai genitori di pazienti in cui la malattia è insorta in età adulta (Asarnow et al., 1994). Hollis (2002) considera che gli interventi familiari che hanno lo scopo di ridurre un’elevata espressione delle emozioni, al momento, non hanno basi empiriche consistenti. Disturbi di personalità La diagnosi di “disturbo di personalità” è presente in un’elevata proporzione di ragazze ricoverate nei reparti per adolescenti (vedere Tabella 9.1). Il concetto è controverso in adolescenza. Hill (2002) indica che questo termine indica spesso un insieme di problemi persistenti e interconnessi, che sono alla base di un disturbo episodico, come 152 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero sono, per esempio, le difficoltà di adattamento sociale. L’analisi dei bisogni nei reparti per adolescenti (Tabella 9.2) mostra proprio quanto siano presenti queste difficoltà sociali. Dopo una valutazione approfondita, la CBT può essere utile per affrontare queste difficoltà attraverso il training delle competenze sociali, il focus specifico sul disturbo dell’umore o sul trattamento di ricordi traumatici. Caso esemplificativo Questo caso mostra la complessità presente in molte situazioni di ricovero, diagnosi e piano di intervento insieme a un utilizzo positivo della CBT, unita ad altri trattamenti. Sarah è una bambina di 7 anni inviata da colleghi specialisti per un’ulteriore valutazione. Si presenta con un grave disturbo oppositivo a scuola e a casa, iniziato a 3 anni, che la aveva fatta escludere da una serie di scuole primarie. Sarah aveva manifestato di recente convinzioni e ansie anomale: per esempio, che un maschietto del vicinato , che lei non conosceva, stesse tentando di avvelenarla. Presentava una serie di rituali ossessivi, presenti anche in altri membri della famiglia – li forzava a interpretare episodi di una soap opera della televisione per ore e ore al giorno e controllava o il modo in cui mangiavano i genitori perché era sensibile al suono del masticare. Quando era eccitata, diventava frenetica e agitata ed esibiva un comportamento frammentato, facilmente distraibile e aggressivo ed era molto difficile calmarla. Il gioco era espressione di questo elevato livello di arousal, di stati apparentemente deliranti e di una paura intensa verso persone e oggetti. Era stata una paziente ambulatoriale giornaliera per 7 mesi e aveva collezionato una serie di differenti diagnosi, fra cui disturbo da deficit dell’attenzione, disturbo della condotta e psicosi. C’erano anche preoccupazioni relative a un possibile abuso sessuale. Sarah era stata una bambina molto attesa: un’adozione in età precoce dopo numerosi aborti. Al momento del ricovero, entrambi i genitori erano arrivati alla saturazione e raccontavano di alcune volte in cui si trovavano a urlare, sgridare e picchiare Sarah per cercare di tenerla sotto controllo. Tuttavia erano completamente dediti all’accudimento della bambina e desideravano, con i propri tentativi, di trovare una spiegazione ai propri problemi. La storia evolutiva dettagliata aveva mostrato un’insorgenza precoce di una resistenza al cambiamento, un utilizzo insolito del linguaggio, iperattività e scarse relazioni sociali. Al ricovero, Sarah rappresentava un problema estremamente difficile da gestire, ma gradualmente i suoi livelli di arousal si erano ridotti, il suo pensiero era diventato più chiaro e i comportamenti frammentati erano diminuiti. Il team del reparto all’inizio nutriva forti dubbi e non sapeva come procedere. Su un piano clinico, riusciva a volte anche ad avere un comportamento appropriato per la sua età, ma nei momenti in cui il livello di arousal era molto alto, emergevano idee strane, allucinazioni uditive e comportamenti bizzarri. Nel gioco metteva in atto fantasie estreme e sadiche verso la propria famiglia, ma questi sentimenti intensi nei confronti dei genitori erano sottoposti ad alti e bassi e non c’erano prove convincenti a supporto di un’ipotesi di abuso. Gradualmente aveva iniziato a farsi coinvolgere nelle attività e a rapportarsi con il personale dell’unità di ricovero, sviluppando relazioni positive strette con molti membri del personale staff (così come un’avversione molto forte verso altri). 153 Jonathan Green La valutazione alla WISC aveva dato un QI globale di 86 senza alcuna discrepanza fra quello Verbale e quello di Performance. La valutazione attraverso misure strutturate per l’autismo (Autism Diagnostic Interview (ADI), Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS), Childhood Autism Rating Scale (CARS)) aveva indicato un lieve sviluppo autistico atipico. La valutazione del linguaggio aveva mostrato l’assenza di deficit rilevanti nell’area semantica ma deficit significativi nella pragmatica e nell’elaborazione percettiva di secondo ordine. Una valutazione di terapia occupazionale aveva evidenziato una disprassia significativa e deficit visuo-percettivi – confermati da una valutazione neuroevolutiva. Lo screening cromosomico, biochimico e la TAC erano nella norma. Questo disturbo autistico atipico con elevati livelli di arousal, collegati a un pensiero episodico quasi psicotico, aveva portato a formulare una diagnosi di “disturbo evolutivo complesso” (Towbin et al., 1993). All’inizio l’utilizzo di un basso dosaggio di neurolettici, combinati a stimolanti, aveva migliorato il funzionamento cognitivo della bambina, abbassando allo stesso tempo il livello generale di attività e aveva anche dato dei benefici sul piano dei rapporti sociali. Grazie a questo miglioramento, si è potuto dare avvio al trattamento cognitivo, utilizzando materiali di gioco focalizzati su compiti cognitivi strutturati. Gli scopi erano: (1) coinvolgerla nel cercare di dare un senso alla sua esperienza e (2) aiutarla a strutturare il proprio pensiero a orientarlo e a controbilanciare le proprie disorganizzazioni cognitive. In questo ultimo obiettivo, è stato utilizzato uno schema ABC (antecedente, comportamento, conseguente) per organizzare il suo pensiero: Infermiera: “Va bene Sarah, vedo che sei molto arrabbiata. Ora raccontami cosa è successo. Cosa è successo prima di tutto? Cosa hai visto? Cosa hai sentito? Cosa hai pensato? Poi cosa hai fatto? E in seguito cosa è successo? Facciamo un disegno di tutto … Utilizzando stimoli visivi disegnati, stando seduti accanto a lei (piuttosto che scegliere una presentazione frontale viso a viso per rendere minore il carico emotivo sul piano sociale) e scrivendo cosa era successo nello schema ABC, si è cercato di ridurre il livello di arousal e di proporre comportamenti alternativi. Quello che la bambina aveva scritto e disegnato poteva essere utilizzato per aiutarla nell’orientamento e per rinforzare le strategie cognitive nelle nuove situazioni. Sono state introdotte anche metodologie cognitive per “esternare” e padroneggiare i pensieri deliranti e allucinatori. La terapia occupazionale regolare si era focalizzata su tecniche di integrazione sensoriale che avevano dato benefici similari sull’organizzazione comportamentale. Il personale era sempre più in grado di promuovere capacità più normali di comportamento e pensiero. Al momento delle dimissioni, aveva fatto progressi immensi, su un piano sociale e scolastico, anche se restavano le problematiche pervasive dello sviluppo. È stato intrapreso un lavoro intensivo con la famiglia per aiutarla nella comprensione e per ridurre l’espressione delle emozioni. Era stata messa in una scuola residenziale settimanale, il suo comportamento era stabile e il livello di funzionamento generale era buono, l’assunzione di neurolettici a basso dosaggio continuava per molti anni dopo il ricovero. I tentativi successivi di diminuire il farmaco avevano portato a peggioramenti acuti. 154 La terapia cognitivo comportamentale in contesti di ricovero ospedaliero Potenziali controindicazioni o svantaggi dei trattamenti con CBT Alcune sono già state menzionate. Ci sono ambiti in cui la CBT potrebbe non essere appropriata a un ambiente da unità di ricovero o in cui bisogna compiere degli adattamenti prima che possa rivelarsi utile: 1. In alcune situazioni complesse, potrebbe non essere possibile formulare chiari obiettivi di trattamento. 2. Un focus troppo stretto sulla CBT o sulla pianificazione degli obiettivi del trattamento potrebbe rendere l’équipe cieca a problematiche ed eziologie emergenti. 3. L’approccio della CBT potrebbe non essere appropriato per alcuni disturbi. Per alcuni pazienti potrebbero essere necessari obiettivi di trattamento più ampi e meno definiti. Potrebbe diventare uno dei trattamenti disponibili all’interno dell’unità di ricovero. Implicazioni per il personale e per il training L’utilizzo efficace della CBT nelle unità di ricovero è possibile solo se la leadership è affidata a professionisti esperti di questo trattamento. Come minimo, devono essere disponibili uno psicologo clinico esperto, uno psichiatra o un’infermiera senior che ha ricevuto un training nelle metodologie della CBT, per rivedere il piano di trattamento e la sua implementazione in un ambiente così complesso. Il loro ruolo comprenderà interazioni faccia a faccia con i pazienti, consulenza e supervisione agli altri membri del personale del reparto. Il personale delle unità di ricovero moderne dovrebbe includere simili figure professionali (American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 1990; Royal College of Psychiatrists, 1999). Un altro grande vantaggio si avrebbe se gli altri componenti dello staff, fra cui tirocinanti laureati in psicologia, avessero ricevuto un training specifico nella CBT , per dare incisività alle competenze miste del team. Bibliografia American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (1990). Model for Minimum Staffing Patterns for Hospitals Providing Acute Inpatient Treatment for Children and Adolescents with Psychiatric Illnesses. Washington DC: American Academy of Child and Adolescent Psychiatry. Asarnow, J. R., Thompson, M. C., Hamilton, E. B., Goldstein, M. J. and Guthrie, D. (1994). 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London: Routledge, pp. 247-58. 157 QUARTA PARTE APPLICAZIONI IN PROBLEMATICHE PSICOSOCIALI CAPITOLO 10 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze emotive e comportamentali dell’abuso sessuale Bruce Tonge Centre for Developmental Psychiatry, Clayton, Victoria, Australia Neville King Monash University, Clayton, Victoria, Australia L’abuso sessuale infantile può essere definito come “il coinvolgimento di bambini e adolescenti, dipendenti ed evolutivamente immaturi, in attività sessuali che non sono in grado di comprendere del tutto, a cui non possono dare un consenso consapevole e che violano i tabù sociali dei ruoli familiari” (Schechter e Roberge, 1976). Recenti ricerche in diversi paesi hanno mostrato più volte un’elevata prevalenza di abuso sessuale nei bambini. Per esempio, utilizzando un campione casuale di donne adulte di San Francisco, Russell (1983) ha mostrato che il 12% delle donne ricordava almeno un’esperienza di abuso extrafamiliare prima dei 14 anni e un 28% ricordava un abuso intra o extrafamiliare prima dei 14 anni. Il ventotto per cento ricordava di aver subito un abuso intra o extrafamiliare prima di quell’età. Un indagine del Regno Unito ha riscontrato che il 12% delle donne e lo 8% dei maschi riferiva di aver subito un abuso sessuale prima dei 16 anni (Baker e Duncan, 1985), mentre uno studio australiano su circa 1000 studenti universitari ha trovato che il 13% ricordava di aver avuto esperienze sessuali con un adulto prima dei 12 anni (Goldman e Goldman, 1986). In un’indagine condotta in Nuova Zelanda su 3000 donne, Anderson et al. (1993) hanno riscontrato che quasi una donna su tre riferiva di aver avuto una o più esperienze sessuali non desiderate prima dei 16 anni. Anche se in questi studi sono state riscontrate problematiche metodologiche e alcune incongruenze, è chiaro che l’abuso sessuale infantile ha un’incidenza molto elevata. L’abuso sessuale infantile può avere un effetto devastante sullo sviluppo di un bambino. Le risposte immediate e a breve termine all’esperienza di abuso possono includere 161 Bruce Tonge e Neville King angoscia, ansia, incubi, maggiore aggressività, vergogna, senso di colpa, depressione e comportamenti sessuali inadeguati (Browne e Finkelhor, 1986). Queste risposte possono disturbare seriamente le relazioni del bambino con le figure genitoriali e con i pari così come influenzare negativamente il progresso e lo sviluppo sociale, interpersonale, sessuale e scolastico. Anche se l’angoscia acuta causata dall’abuso sessuale spesso scompare, esistono seri rischi di conseguenze negative a lungo termine. Mullen et al. (1988, 1994) hanno mostrato che coloro che hanno una storia di abuso infantile da adulti molto probabilmente potrebbero soffrire di disturbi depressivi, di disturbi dell’alimentazione, assumere comportamenti autolesionistici e suicidari, avere difficoltà a generare e a mantenere relazioni intime, avere problemi sessuali, presentare percentuali più elevate di divorzio e separazione e non sviluppare appieno il proprio potenziale educativo e lavorativo. La gestione efficace delle difficoltà emotive immediate e dei disturbi causati dall’abuso sessuale infantile dovrebbe ridurre significativamente il rischio di esiti negativi a lungo termine per le vittime. Il trattamento con esito positivo delle conseguenze emotive e comportamentali dell’abuso sessuale nei bambini è di importanza cruciale se si desidera alleviare le sofferenze di questi ragazzi e se si vuole ricondurli a una traiettoria di sviluppo normale e limitare il rischio di conseguenze negative a lungo termine per la loro salute mentale (Wolfe e Birt, 995; King et al., 2003). Ora esistono prove empiriche che dimostrano l’efficacia di trattamenti cognitivo comportamentali basati su manuali per i ragazzi abusati sessualmente che presentano gravi forme di psicopatologia. L’applicabilità della CBT in contesti di cura primaria e territoriale e la sua efficacia su un piano costi-benefici, ne giustificano l’adozione come trattamento elettivo, empiricamente fondato, per la gestione delle difficoltà di salute mentale dei bambini sessualmente abusati (Farrell et al., 1998; King et al., 2000). Quale potrebbe essere la spiegazione dell’efficacia della CBT? Gli approcci cognitivo comportamentali sono superiori nel trattamento dell’ansia e dei disturbi fobici nei bambini (King et al., 2000; Ollendick e King, 2000). Le risposte emotive e comportamentali dei bambini all’abuso sessuale possono anche essere considerate risposte d’ansia, che spesso assumono la forma di un disturbo post-traumatico da stress (DPTS) (vedere Capitolo 20). I bambini abusati sessualmente di solito sperimentano almeno alcuni sintomi che soddisfano i criteri del DPTS, così come definito nel DSM IV (American Psychiatric Association, 994). Per esempio, uno studio su 92 bambini abusati sessualmente ha trovato che lo 85% riferiva sintomi di rappresentazioni ripetitive del trauma, il 5% presentava tre o più comportamenti di evitamento, il 72% presentava reazioni amplificate del sistema nervoso autonomo e quasi il 50% soddisfaceva tutti i criteri per un DPTS (McLeer et al., 199). Un altro studio su 36 bambini sessualmente abusati inviati per un trattamento ha riscontrato che tutti avevano alcuni sintomi del DPTS e il 75% presentava una diagnosi primaria di DPTS con una concordanza diagnostica totale fra clinici indipendenti, su un campione casuale di 12 casi (King et al., 2000). La maggioranza di questi casi (9%) presentava anche una comorbidità con altri disturbi, in particolare con disturbi d’ansia, depressione e disturbi esteriorizzati. Esistono una serie di fattori di rischio che contribuiscono allo sviluppo di un DPTS nei bambini sessualmente abusati, fra cui essere di sesso femminile, avere uno stile attributivo auto-colpevolizzante, avere una psicopatologia precedente al trauma, 162 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale aver subito un abuso più intrusivo e persistente nel tempo, il fatto che il perpetratore fosse conosciuto e che il bambino si fidasse di lui, avere genitori iperprotettivi o con una psicopatologia (Browne e Finkelhor, 1986; Mennen, 1993).Pertanto, la prevalenza di disturbi psicopatologici collegati all’ansia unita alla probabile presenza di pensieri auto-colpevolizzanti giustifica la scelta di un trattamento cognitivo comportamentale. Un’altra motivazione teorica è l’impatto importante dell’esposizione allo stimolo ansiogeno, procedura in cui i bambini vengono aiutati a confrontarsi con i pensieri relativi all’abuso per riuscire a superare l’ansia, la vergogna e il senso di colpa a essi collegati (Marks, 1987). Altri aspetti della CBT che possono contribuire all’efficacia terapeutica sono: fattori aspecifici della relazione terapeuta-bambino, la formazione sull’abuso sessuale e il training nelle competenze sociali e comunicative (Barlow, 1988; Heyne et al., 2002). Quali sono le prove dell’efficacia della CBT nel trattamento delle conseguenze sulla salute mentale dei bambini che hanno subito un abuso sessuale? Una serie di studi controllati hanno mostrato una maggiore efficacia della CBT (Berliner e Saunders, 1996; Cohen e Mannarino, 1996; Deblinger e Heflin, 1996; Cohen e Mannarino, 1997; Farrell et al., 1998; King et al., 2000). Per esempio, uno studio sul trattamento dei disturbi emotivi e comportamentali in bambini sessualmente abusati di età prescolare ha riscontrato che la CBT era più efficace della terapia supportiva non direttiva (Cohen e Mannarino, 1996). A oggi, le prove dell’efficacia della CBT per la psicopatologia associata all’abuso sessuale infantile sono focalizzate sul trattamento di singoli bambini e famiglie. Devono essere condotti studi comparativi sulla CBT individuale versus quella di gruppo. La necessità di coinvolgere i genitori nel trattamento psicologico dei bambini è già stata enfatizzata (Kendall et al., 1992). Questo potrebbe essere particolarmente importante nel caso del trattamento di bambini sessualmente abusati, dove spesso i genitori reagiscono proteggendo il bambino da qualunque discussione o esperienza che potrebbe ricordargli l’abuso. Questa risposta iperprotettiva dei genitori, per quanto comprensibile, può ostacolare il recupero emotivo (Mennen, 1993). L’efficacia di includere i genitori nella CBT per i bambini sessualmente abusati è stata esaminata in diversi studi. Deblinger et al. (1996), in uno studio sull’efficacia della CBT nel trattamento del DPTS associato all’abuso sessuale infantile, avevano assegnato casualmente le famiglie a differenti condizioni sperimentali: trattamento solo del bambino, intervento non invasivo solo sulla madre, trattamento combinato della madre e del bambino e gruppo di controllo di cura presso servizi territoriali. La terapia del bambino era costituita da training su competenze educative, esposizione graduale allo stimolo ansiogeno, insegnamento di strategie di coping e di prevenzione. Le madri ricevevano un training educativo e un training sulle competenze comunicative e di gestione dei comportamenti. Tutti gli interventi avevano avuto un beneficio terapeutico rispetto al gruppo di controllo. C’erano anche degli esiti differenziali fra le diverse condizioni sperimentali. La terapia con focus individuale sul bambino, con o senza il genitore, era associata a un recupero significativamente maggiore dai sintomi del DPTS. Il coinvolgimento della madre nella terapia, con o senza il bambino, era associato a un miglioramento nelle competenze genitoriali e a una maggiore riduzione nel livello di comportamenti esteriorizzati del bambino. 163 Bruce Tonge e Neville King In uno studio condotto dagli autori e da altri colleghi (King et al., 2000), 36 bambini e ragazzi abusati fra i 5 e i 17 anni erano stati casualmente assegnati alle seguenti condizioni sperimentali: CBT per il bambino, CBT per la famiglia o gruppo di controllo in lista d’attesa. Le 20 sedute di CBT focalizzate sul bambino si basavano sul manuale del protocollo di trattamento utilizzato da Deblinger e colleghi (Deblinger e Heflin, 1996; Deblinger et al., 1996) che comprendeva un lavoro educativo, la fissazione degli obiettivi, il training in competenze di coping e di rilassamento, la ristrutturazione cognitiva, l’esposizione graduale, la prevenzione della ricaduta e l’insegnamento di comportamenti sicuri. La CBT per la famiglia utilizzava lo stesso programma di 20 sedute. Inoltre, quando la madre, il padre e il padrino non erano i soggetti abusanti ed erano attivamente coinvolti nella cura del bambino, ricevevano un intervento non invasivo di 20 sedute educative e di training in competenze genitoriali. Le sedute prevedevano una formazione sull’abuso sessuale infantile, sulle competenze comunicative, di problemsolving e di gestione del comportamento e un training nel monitoraggio della propria ansia e del proprio stress emotivo. Se paragonati ai bambini del gruppo di controllo in lista d’attesa, coloro che erano stati sottoposti al trattamento, presentavano un miglioramento significativo nella sintomatologia del DPTS, avevano meno paura ed erano meno ansiosi. Anche se i terapeuti in questo studio riferivano di aver trovato la CBT per la famiglia più soddisfacente sul piano clinico e ben accetta ai genitori, non c’erano state prove che dimostrassero l’apporto di un miglioramento significativo all’esito terapeutico ascrivibile al coinvolgimento dei genitori. L’unica differenza significativa con il trattamento individuale era nel senso di paura sperimentato dal bambino, che diminuiva nella condizione sperimentale della CBT applicata alla famiglia. La numerosità relativamente piccola del campione (n = 36) potrebbe rendere conto dell’impossibilità di questo studio di dimostrare un effetto differenziale a seguito del coinvolgimento dei genitori simile a quello trovato da Deblinger et al. (1996) con 90 partecipanti. Il coinvolgimento dei genitori in entrambi questi studi è focalizzato sulla comprensione e sulla gestione del bambino. Tuttavia, nello studio degli autori (King et al., 2000), i genitori, soprattutto le mamme, riferivano con frequenza di sperimentare esse stesse un forte stress e una serie di problemi emotivi fra cui ansia e depressione. Circa la metà delle madri riferiva di aver subito a sua volta un abuso sessuale nell’infanzia, anche se la maggior parte non aveva mai ricevuto un aiuto professionale per le conseguenze emotive negative. Pertanto, è possibile che l’aggiunta di sedute specifiche di CBT focalizzate sul trattamento delle problematiche di salute mentale dei genitori, migliorasse ulteriormente gli esiti sia per il bambino sia per i genitori stessi. Chiaramente, sono necessarie ulteriori ricerche sui benefici relativi del coinvolgimento dei genitori nel trattamento e su quale potrebbe essere il protocollo di trattamento più efficace. I manuali di trattamento aiutano i terapeuti in molti modi importanti perché forniscono un piano di intervento che ha solide fondamenta teoriche, sedute strutturate e fogli di lavoro da utilizzare con i clienti. Inoltre, favoriscono la valutazione oggettiva, in prove controllate, “dell’aderenza” al trattamento da parte dei terapeuti (King e Ollendick, 1998, 2000). Nello studio degli autori (King et al., 2000), un terzo delle sedute terapeutiche sono state videoregistrate e sottoposte alla verifica di un clinico indipendente. Questa verifica aveva rivelato una concordanza del 95% fra il manuale di 164 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale trattamento e il contenuto delle sedute. Tuttavia si deve evidenziare come sia proprio il manuale a contenere una varietà di attività appropriate all’età e di risorse che assicurano l’adeguatezza della seduta al livello di sviluppo del bambino. Nella pratica clinica, l’utilizzo di un programma di CBT basato su un manuale dà una struttura alla terapia, ma permette anche una flessibilità per rispondere a problematiche individuali e contestuali proprie del bambino e della famiglia (Deblinger e Heflin, 1996). La struttura, l’importanza e le caratteristiche delle componenti degli attuali approcci di CBT per il trattamento delle psicopatologie associate all’abuso sessuale infantile potrebbero variare, ma sono tutte piuttosto simili nel contenuto. Gli autori di seguito presentano una descrizione accurata, insieme alle prove empiriche, di un tipico programma di CBT per ragazzi che soffrono le conseguenze emotive e comportamentali dell’abuso sessuale (King et al., 2000). Questo programma è costituito da moduli il cui contenuto si può proporre in ordine differente da quello sotto indicato e alcuni potrebbero prevedere un numero maggiore o minore di sedute a seconda dei bisogni individuali e del livello evolutivo del bambino. Un programma individuale di CBT per bambini e ragazzi sessualmente abusati fra i 6 e i 18 anni Considerazioni generali • • • • • Il terapeuta fornisce rinforzi positivi al ragazzo per aver deciso di iniziare la terapia e cerca di stabilire un’alleanza terapeutica. L’assegnazione di compiti a casa è essenziale e fornisce l’opportunità di sviluppare delle competenze. I compiti a casa vengono rivisti insieme all’inizio di ogni seduta. Gli impedimenti allo svolgimento dei compiti costituiscono la base di successive attività di comunicazione e problem-solving, mentre il successo viene premiato con dei rinforzi. Il terapeuta fornisce un modello di sicurezza e calma quando discute il materiale relativo all’abuso. Il focus è sui punti di forza del bambino e sul cercare di modellare competenze di coping comportamentali e cognitive. Modulo A: lavoro preparatorio (una o due sedute) Finalità Stabilire una relazione e fare sì che il bambino si senta sicuro. Si descrive tutto il piano di trattamento. Si forniscono informazioni sull’abuso sessuale e si utilizzano espressioni sessuate in modo da desensibilizzare il bambino nei confronti dell’imbarazzo o dell’incertezza nel trattare l’argomento. Il bambino stabilirà gli obiettivi terapeutici e inizierà a costruire la speranza di un esito positivo. 165 Bruce Tonge e Neville King Attività Si spiega al bambino il processo terapeutico e il modo in cui apprenderà le competenze per fare fronte ai sentimenti negativi, per affrontare ciò che è successo e scoprire il legame fra i pensieri, i sentimenti e il comportamento. Si dà al bambino l’opportunità di fare domande e di esprimere le proprie incertezze relative al trattamento. Una formazione appropriata all’età sull’abuso sessuale include alcuni punti fondamentali: l’incidenza e la natura dell’abuso, le conseguenze problematiche a breve e a lungo termine e i sintomi post-traumatici che può causare su un piano emotivo e comportamentale. Si possono anche fornire alcune informazioni sul perché i perpetratori abusino di persone giovani. Si discutono inoltre le informazioni sull’efficacia del programma di trattamento e su come questo riesca a modificare i pensieri, i sentimenti e il comportamento. In un contesto sempre idoneo rispetto al livello di sviluppo, si svolgono delle attività, per esempio attraverso l’utilizzo di figure, che servono per indagare la terminologia utilizzata dal bambino utilizza per indicare parti del corpo e gli atti sessuali. Il terapeuta fornisce informazioni sulla “terminologia appropriata e si crea un accordo sulla terminologia da utilizzare nella terapia”. Vengono introdotte le attività e il foglio di lavoro e si incoraggia il bambino/adolescente a identificare gli obiettivi generali del trattamento e le aree generali di cambiamento, come, per esempio, formare delle amicizie; e gli obiettivi specifici, come stringere amicizia con una persona particolare a scuola. La discussione degli esiti positivi che potrebbero derivare dal raggiungimento di questi obiettivi aiuta a generare speranza nel bambino. Modulo B: affrontare l’area dei sentimenti (due sedute) Finalità Insegnare al bambino/adolescente a riconoscere ed esprimere appropriatamente una serie di emozioni, soprattutto i sentimenti relativi all’abuso. Attività Si enfatizzano le emozioni positive e negative e si collegano ai pensieri, alle esperienze corporee e al comportamento. Si introduce e si spiega il concetto di paura come risposta emotiva al pericolo. Si utilizza materiale stampato e multimediale come stimolo per generare un elenco di emozioni e sentimenti differenti. Si incoraggia il bambino/adolescente a fare esempi di situazioni che producono emozioni e sentimenti positivi e negativi. La discussione sulle diverse modalità di esprimere i sentimenti viene utilizzata per rinforzare le esternazioni accettabili e appropriate delle emozioni. 166 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale Si discute il concetto di paura come risposta normale al pericolo e il ragazzo fornisce un elenco di situazioni che potrebbero indurre paura, come una tempesta. La paura è automatica e può produrre tre tipi di risposta: lotta, fuga o blocco. Si forniscono esempi personali di queste tre risposte o vengono utilizzati degli stimoli visivi per immaginare potenzialmente queste risposte. I role-play o la scrittura di storie possono ulteriormente rinforzare la comprensione. Si esprime la paura sul piano dei sentimenti, dei pensieri e delle azioni e si incoraggia il bambino a generare una lista di possibili reazioni nelle tre categorie del “sentire, pensare e fare”. In seguito lo si incoraggia anche ad aggiungere le reazioni di paura alla propria esperienza di abuso. Si spiega che a volte le risposte di paura si verificano anche quando non esiste un pericolo reale, come quando si ricorda l’esperienza dell’abuso. Si chiede al bambino di identificare i ricordi dell’abuso che innescano sentimenti di paura, preferibilmente attraverso una lista di parole o immagini. Molti temi affrontati in queste sedute possono essere rinforzati assegnando dei compiti a casa. Si conclude con ottimismo e atteggiamenti positivi. Modulo C: apprendere capacità di coping (da sei a otto sedute) Finalità L’insegnamento di strategie di coping cognitive e comportamentali serve a preparare il ragazzo all’esposizione ai ricordi ansiogeni dell’esperienza di abuso. Si inizia con un training di rilassamento progressivo e la successiva di questa capacità; poi si passa alla ristrutturazione cognitiva soprattutto per correggere le attribuzioni negative associate all’abuso e per apprendere specifiche competenze mentali e comportamentali per fare fronte alle situazioni stressanti e quelle che producono paura e ansia. Attività Il terapeuta delinea il modello di coping cognitivo comportamentale che comprende le manifestazioni di paura nelle tre categorie dei sentimenti, dei pensieri e delle azioni. Si identificano le strategie di coping positive già esistenti che vengono utilizzate dal bambino. Si introduce il training di rilassamento progressivo, modificato in funzione dell’età del bambino/ragazzo, utilizzando copioni scritti o audio o videocassette. Si identificano le sensazioni associate al rilassamento e vengono messe a confronto con quelle derivanti dalla paura e dall’ansia. Si sviluppano indizi verbali o visivi di rilassamento che possano facilitare questo processo nella vita reale. L’esercizio di rilassamento diventa un compito a casa regolare che viene aiutato da un audiocassetta con le istruzioni di rilassamento personalizzate fatta dal terapeuta. Il terapeuta spiega come i sentimenti di angoscia possano essere ascrivibili a pensieri e a un dialogo interiore disfunzionali. Si utilizzando disegni o fumetti per identificare questi discorsi interiori disadattivi e per collegarli alle sensazioni e al comportamento. 167 Bruce Tonge e Neville King Si crea anche un collegamento con la situazione dell’abuso e il ragazzo identifica le proprie attribuzioni negative e come queste possano aver sfavorevolmente influenzato la propria autostima e il proprio comportamento. Queste convinzioni e autoaffermazioni inutili vengono messe in discussione insieme al terapeuta, allo scopo di sostituirle con un elenco di autoaffermazioni positive. Viene spiegata, dimostrata e messa in pratica la tecnica di blocco del pensiero. Si identificano le qualità del ragazzo e alcuni esempi di situazioni ben gestite. Si utilizzano role-play o esercizi scritti con discorsi interiori positivi o con contenuti di autostima. I compiti a casa prevedono la registrazione dei pensieri nel corso del discorso interiore, delle sensazioni e degli eventi positivi. Vengono insegnate ed messe in pratica le abilità previste nel monitoraggio dei sentimenti e nel “gioco del detective”, per permettere al bambino di fare attenzione a questi aspetti e di valutarli realisticamente. Si introduce la procedura del ripasso mentale o silenzioso. Il bambino identifica una situazione angosciante e con gli occhi chiusi viene incoraggiato a descriverla fino a che non vengono evocate sensazioni d’ansia. Poi lo si incoraggia a immaginare ancora se stesso in quella situazione, ma a raffigurarsi calmo e padrone della situazione. Vengono utilizzati il rilassamento e le autoaffermazioni positive. Poi si insegna al ragazzo il ripasso comportamentale. Viene identificata una situazione reale di difficoltà di relazione con un’altra persona, come un genitore o un amico. Poi si inscena un role-play della situazione insieme al terapeuta e il ragazzo viene incoraggiato a essere più assertivo, sia a livello verbale che non verbale. Il terapeuta fornisce un feedback e, con elogi e incoraggiamenti, lo allena il ragazzo a diventare competente e sicuro. Le strategie di ripasso e rilassamento e le tecniche cognitive vengono applicate ad alcune situazioni ansiogene non relazionate all’abuso identificate dal ragazzo e potrebbero essere successivamente utilizzate nei compiti a casa. Modulo D: esposizione ai ricordi dell’esperienza di abuso (da quattro a sei sedute) Finalità Aiutare il bambino a ricordare e descrivere l’esperienza di abuso e a sperimentare nuovamente le risposte emotive associate all’esperienza, ma in un contesto supportivo e con il sostegno delle strategie di coping apprese per la gestione delle emozioni negative. Attività Si passa in rassegna quanto il bambino ha appreso sulle sensazioni e i pensieri collegati all’abuso, sui ricordi specifici dell’abuso che innescano la paura e sulle strategie di coping. Ora che il bambino possiede strumenti più adattivi per gestire la paura, è il momento di lavorare sulla costruzione di un resoconto dettagliato dell’esperienza di abuso. Si porta il ragazzo a rivivere per immagini l’esperienza di abuso. Questo 168 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale potrebbe richiedere l’uso di note scritte, giochi con delle bambole, disegni, canzoni, poesie scritte o un audiocassetta. Queste sono tutte tecniche immaginative che di solito prevedono la costruzione di una gerarchia di eventi che va da quelli meno stressanti a quelli più stressanti. Questo approccio per immagini alla desensibilizzazione sistematica è collegato a un’applicazione progressiva delle strategie di rilassamento e di ripasso. Alcune volte, in presenza di un evitamento non realistico e di risposte ansiose di fronte ad aspetti della vita quotidiana, potrebbe essere necessario utilizzare una desensibilizzazione sistematica in vivo nei confronti di una gerarchia di situazioni, come per esempio avvicinarsi a un parco, entrare nel parco, prendere la strada per il palco dove suona la banda e così via. Il bambino di solito ha bisogno di lavorare sui ricordi del proprio abuso in numerose occasioni. Modulo E: gestire la rivelazione (una o due sedute) Finalità Insegnare al bambino come anticipare e gestire le situazioni collegate alla rivelazione dell’esperienza di abuso. Attività Si chiede al bambino di identificare gli eventi che, dall’abuso in poi, potrebbero essere stati causa di angoscia, fra cui essere sottoposti a un esame medico o parlare con la polizia e, se possibile, di scrivere una storia o disegnare una figura dell’evento. Si spiega come anche queste situazioni possano generare sentimenti, pensieri e comportamenti negativi. Si utilizzano la ristrutturazione cognitiva o la desensibilizzazione sistematica e per superare le emozioni negative associate al ricordo di queste esperienze si applicano le strategie di coping. Queste sedute potrebbero anche portare a identificare i sentimenti verso l’aggressore che spesso complessi e ambivalenti. Potrebbe essere utile per il bambino creare un elenco, disegnare una figura, scrivere una lettera o parlare di tutti i sentimenti che prova verso l’aggressore. Si spiega al bambino che i sentimenti di paura sono lasciti normali dell’esperienza di abuso, ma non significano necessariamente che ci si trovi attualmente in una situazione di pericolo reale. Si evidenzia l’importanza di saper distinguere fra un pericolo reale e i ricordi dell’esperienza passata di abuso. Si generano esempi di situazioni di pericolo reale, restare da soli con l’aggressore, in opposizione a un ricordo dell’abuso, vedere qualcuno che assomiglia all’aggressore. Si aiuta il bambino a identificare i fattori di sicurezza nella propria casa, a scuola e nel vicinato come insegnanti di guardia, l’utilizzo di un telefono cellulare o l’esistenza di norme restrittive per l’aggressore. I compiti a casa potrebbero includere l’applicazione delle strategie di coping, l’utilizzo di affermazioni calmanti e di esercizi di rilassamento, quando si presentano i pensieri sull’aggressore. 169 Bruce Tonge e Neville King Modulo F: consapevolezza del corpo e della propria sessualità (una o due sedute) Finalità Promuovere una visione accurata e positiva del sé fisico ed esplorare la conoscenza sessuale, i valori e i sentimenti in un modo consono rispetto all’età. Si utilizza la ristrutturazione cognitiva come mezzo per identificare e correggere i pensieri negativi sul corpo e sulla sessualità. Attività Si chiede al bambino di creare un elenco di domande sul corpo e la sessualità e di includere ciò che, a suo parere, le persone abusate potrebbero temere in relazione al proprio corpo. Si identificano i pensieri negativi sul corpo e sulla sessualità, si mettono in discussione e si sviluppano autoaffermazioni positive. Vengono utilizzate informazioni scritte o multimediali, adeguate all’età, per mostrare il normale sviluppo sessuale, identificare il livello di sviluppo proprio del bambino e descrivere le funzioni delle parti del corpo, fra cui i genitali. Attraverso modelli a grandezza naturale si possono individuare le parti del corpo che il bambino gradisce di più. Sulla base di materiale scritto o multimediale si possono discutere appropriatamente i valori e il comportamento sessuale, il concetto di maturità, di consenso e di reciprocità. Si identificano le paure o le preoccupazioni che il bambino può avere in relazione alla sessualità. Si danno informazioni e si applicano procedure cognitivo comportamentali, come la ristrutturazione cognitiva, per affrontare i pensieri disadattivi, per esempio il rifiuto di crescere. Si utilizzano il modeling o il ripasso comportamentale per insegnare quali sono i comportamenti accettabili, per esempio un contatto fisico neutro. I compiti a casa potrebbero includere una rassegna del materiale di lettura o multimediale sulla sessualità e sui comportamenti appropriati. Modulo G: training di prevenzione e conclusione (una o due sedute) Finalità Rivedere le conoscenze acquisite nel programma, lavorare su concetti di prevenzione, rinforzare il senso di auto-efficacia del bambino e i comportamenti auto-protettivi e individuare un sistema di supporto. Attività Si chiede al bambino di ricapitolare ciò che ha appreso in particolare sulla paura e sulle strategie di coping. Si utilizza un foglio di lavoro per identificare le situazioni 170 Trattamento cognitivo comportamentale delle conseguenze dell’abuso sessuale pericolose e sicure con altre persone e si individuano i comportamenti e le strategie che possono aiutare a gestire una situazione difficile o pericolosa. Si ripete la differenza fra il pericolo reale e i ricordi dell’abuso e , attraverso il ripasso comportamentale o i roleplay si esercitano i comportamenti protettivi. Il bambino inizia a tenere un diario, per pianificare e identificare quei segnali che indicano la necessità di utilizzare le strategie di coping, le autoaffermazioni positive e gli esercizi di rilassamento. Il diario potrebbe anche includere un elenco di servizi utili del territorio e numeri per contattare persone che possono essere d’aiuto in caso di problemi. Le sedute finiscono con uno sguardo positivo sul futuro e con la presentazione di una ricompensa, una copia rilegata di materiale importante tratto dalle sedute, o un regalo che enfatizza le qualità del bambino o la presentazione di un certificato di diploma o di “coraggio”. Conclusioni Un programma di CBT standardizzato per i ragazzi che soffrono le conseguenze emotive e comportamentali dell’abuso sessuale infantile, li incoraggia a confrontarsi con la propria esperienza e fornisce loro una serie di strategie di coping per gestire le proprie emozioni disturbate. I follow-up di bambini sessualmente abusati trattati con una CBT indicano che i risultati terapeutici si mantengono nel tempo, anche se gli studi a lungo-termine devono ancora determinare se le conseguenze negative a lungo termine dell’abuso, possano essere prevenute del tutto (King et al., 2000). Tuttavia, le prove attuali suggeriscono che la CBT dovrebbe essere il primo trattamento offerto ai bambini che presentano i disturbi psicologici associati a un’esperienza di abuso sessuale. Bibliografia American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edn. Washington, DC: American Psychiatric Association. 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New York: Plenum Press, pp. 233-63. 173 CAPITOLO 11 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori Martin Herbert University of Exeter, Exeter, UK Introduzione Le espressioni “adattamento”, “separazione” e “divorzio” non sono così chiare come potrebbero sembrare a prima vista. L’adattamento è un concetto multidimensionale e richiede definizioni concettuali e operative che abbiano un’utilità clinica. I divorzi sono uno diverso dall’altro nelle proprie manifestazioni e sono multifattoriali nella propria eziologia, nei percorsi che seguono e negli esiti che generano. L’adattamento degli adulti, dei bambini e degli adolescenti all’impatto del divorzio e della separazione può essere misurato in molti modi (per es. Munsinger e Kaslow, 1996), come nel caso della valutazione del rancore in seguito a una rottura (per es. Kurdek, 1987; Emery, 1992). L’adattamento potrebbe avere a che fare con la rielaborazione di un trauma in qualcuno o tutti questi ambiti: emotivo, comportamentale, cognitivo e sociale. Queste reazioni possono essere concomitanti, di breve durata, a lungo termine e/o ritardate (“effetti dell’informazione dormiente”). L’adattamento richiesto potrebbe non necessariamente riguardare un evento percepito come traumatico, ma piuttosto come una felice liberazione dal maltrattamento (Browne e Herbert, 1997). Sempre di più, non è il matrimonio che finisce in una separazione, ma un relazione di coabitazione che fallisce. Nei primi anni sessanta, il 90% dei bambini e adolescenti venivano cresciuti in casa dalla nascita con due genitori sposati; oggi la percentuale è del 59% nel Regno Unito e del 40% negli USA. Questa marcata riduzione nei numeri è dovuta al drammatico aumento dei divorzi e delle separazioni. Questa affermazione è difficilmente contestabile, data l’elevata percentuale statistica dei divorzi, circa il 40%, che rappresenta un evento assurdo e o inevitabilmente stigmatizzante nelle vite attuali dei bambini. Anche se in Occidente è spesso un’esperienza comune, come per l’attesa dal dentista, questo non lo rende meno doloroso. Il divorzio è una sentenza che 175 Martin Herbert influenza tutti i membri della famiglia, non solo i coniugi. È considerato il secondo evento di vita più stressante delle 43 circostanze potenzialmente traumatiche elencate nella Social Readjustment Scale (Holmes e Rahe, 1967). Tutte le statistiche indicano che un numero sempre maggiore di bambini, circa il 40%, passa una parte della propria infanzia e adolescenza in casa con genitori divorziati, risposati, single, con matrigne, patrigni, sorellastre o fratellastri. Famiglie ricostituite Le famiglie ricostituite, in cui uno o entrambi i partner fondono due famiglie in una, sono attualmente un altro fenomeno comune. In seguito al divorzio, la maggioranza dei bambini (84%) risiede solo con la madre, anche se questa è probabilmente una sistemazione temporanea. Sono frequenti anche nuovi matrimoni e convivenze, per coloro che scelgono di vivere con qualcuno senza risposarsi. In un matrimonio su tre, uno o entrambi i genitori erano già stati sposati precedentemente. Le difficoltà di essere un bambino figlio di un altro matrimonio o di essere genitori di bambini che non sono figli propri sono ormai leggendarie. La ricerca ha confermato queste leggende. Esiste, per esempio, un rischio maggiore di problemi psicologici nei figli di genitori risposati, soprattutto quando è il genitore dello stesso sesso a trovare un nuovo compagno. Dal momento che le percentuali di divorzio sono più alte nelle coppie risposate che nelle coppie di primo matrimonio, la necessità di adattarsi alla separazione e alla perdita spesso non è di solito una traversia isolata. I bambini esposti a molteplici transizioni matrimoniali sono quelli soggetti agli esiti più negativi (Capaldi e Patterson, 1991). Questa potrebbe essere definita una situazione svantaggiosa che si autoperpetua ciclicamente: a lungo termine il divorzio genitoriale potrebbe associarsi al divorzio e alla depressione nella generazione successiva (ÒConnor et al., 1999). Tuttavia, l’aspetto incoraggiante è che, nell’ultimo decennio, il numero di bambini che cresce in famiglie unite ha raggiunto una stasi e quindi è chiaro che gran parte dei bambini figli di genitori separati non sviluppano in seguito disturbi psichiatrici. Valutazione e formulazione del caso Un professionista che si trova di fronte a una segnalazione per problemi indotti dagli spasimi e dagli strascichi di un divorzio deve valutare una serie di problemi multisfaccettati: se i bisogni del siano in parte o del tutto gestibili dai servizi di conciliazione e arbitrato, da una qualche forma di supporto o da un intervento terapeutico. Nell’ultimo caso, quale forma di trattamento ha maggiori probabilità di essere efficace? La dissoluzione di un matrimonio o di una lunga convivenza non è un evento isolato e limitato nel tempo. Gli effetti principali e collaterali sono cumulativi e spesso ininterrotti. In aggiunta, la diversità delle reazioni al divorzio è funzione dell’interazione di numerosi fattori di rischio e protettivi, che vanno dalle qualità 176 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori personali del bambino e dei genitori, alle caratteristiche dinamiche dello stile di vita e della storia della famiglia. Se le conseguenze siano benigne (per alcuni, il divorzio rappresenta una fuga da un partner abusante verso i figli, dalla violenza domestica, da forme di dipendenza da droghe o da attività criminali) o maligne dipende da una serie di influenze che mediano l’effetto: variabili predisponenti, precipitanti o di mantenimento (per es. Amato e Booth, 1997). Fra i cambiamenti importanti che impegnano i genitori affidatari (di solito le madri) possiamo trovare: 1. adattarsi a diventare un single dopo essere stati parte di una coppia; 2. diventare il capo di una famiglia formata da un solo genitore su cui gravano le principali, se non tutte, responsabilità di decisioni, di cura e di accudimento del bambino; 3. fare fronte al dolore e allo sconforto del bambino e (non di rado) anche ai suoi problemi emotivi e comportamentali; 4. dover spesso abbandonare la casa familiare per costruirsi una nuova vita in un contesto estraneo; 5. doversi creare nuove amicizie, perdendone a volte alcune vecchie; 6. dover (in molti casi) fare fronte a una minore disponibilità economica; 7. dover gestire la disorganizzazione e la disgregazione della vita familiare; 8. sperimentare emozioni corrosive come la gelosia, la rabbia, l’amarezza e la perdita della sicurezza in sé; e 9. più avanti, forse, adattarsi alle pressioni di una nuova vita familiare ricostruita. Le difficoltà dal numero 4 al numero 9 vengono vissute anche i bambini. Transizioni Una “transizione” rappresenta una discontinuità nel flusso di vita di una persona. Un aspetto cruciale delle transizioni è che indipendentemente dalla crisi che un individuo si trova ad affrontare (la disintegrazione della famiglia, la vita in una nuova famiglia o cambiamenti sostanziali nelle relazioni di attaccamento), l’adattamento riuscito dipende dalla scoperta di nuovi comportamenti adattivi (differenti tattiche e risposte strategiche) che il bambino e/o l’adulto utilizzano per andare incontro alle circostanze mutate e in continuo cambiamento. La comprensione e il chiarimento da parte del terapeuta delle reazioni tipiche dei bambini di età differenti agli eventi di transizione dovrebbero aiutare questi bambini a creare nuove “storie” (reframing/ ristrutturazione cognitiva) di sé e delle proprie vite e dei processi di cambiamento che li “hanno sommersi”. Un trattamento riuscito si basa sulla scelta di interventi che siano congrui rispetto al livello di sviluppo del bambino e sull’impegno della famiglia a fornire un supporto. Negli studi di Wallerstein e Kelly degli anni ’70 e dei primi anni ’80, era chiaro che i bambini rispondevano al divorzio in maniere differenti, a seconda dell’età (Wallerstein e Kelly, 1975, 1980). Un’analisi delle reazioni caratteristiche e dei cambia177 Martin Herbert menti comportamentali ha rivelato che di solito: 1. i bambini più piccoli, età prescolare fra 2 ½ e3 ¼, tendono a manifestare comportamenti regressivi; 2. i bambini medi, età prescolare fra 3 ¾ e 4 ¾, mostrano irritabilità, comportamenti aggressivi, senso di colpa e disorientamento; 3. i bambini grandi, età prescolare fra i 5 e i 6 anni, mostrano maggiore ansia e comportamenti aggressivi; 4. i bambini dei primi anni, età di latenza 7-8 anni, reagiscono con tristezza, sofferenza, paura, fantasie di responsabilità e di riconciliazione, rabbia e senso di fedeltà verso entrambi i genitori; 5. i bambini più grandi, età di latenza 9-10 anni, mostrano sentimenti di perdita, di rifiuto, di disperazione, di solitudine, di vergogna, rabbia e conflitti di fedeltà; e 6. gli adolescenti, 11 anni e oltre, mostravano tristezza, vergogna, imbarazzo, ansie sul proprio futuro e sul matrimonio, preoccupazione, individualizzazione e indipendenza dai genitori e ritiro. Inoltre, Wallerstein e Kelly (1980) hanno trovato che i bambini fra i 9 e i 12 anni riferivano sintomi somatici, come mal di testa e di stomaco, e i bambini affetti da asma cronica riferivano attacchi più frequenti e intensi. Gli adolescenti chiaramente non sono immuni alla sofferenza quando i genitori si separano. I risultati di uno studio di 2 anni di Sun (2001) su più di 10000 adolescenti americani (798 figli di divorziati) ha rivelato che gli effetti negativi su ciascuno degli indicatori di funzionamento psicologico analizzati – benessere, frequenza scolastica, disturbo comportamentale, droga e abuso di alcol – erano evidenti almeno 1 anno prima della fine del matrimonio. Queste conseguenze erano accompagnate da un declino nell’interesse genitoriale e nell’impegno verso la propria prole. Uno studio longitudinale di 20 anni su 2000 coppie e 200 bambini figli di queste coppie che avevano raggiunto i 19 anni (Amato, 1993) ha rivelato che il 40% aveva divorziato l’anno precedente. Una piccola maggioranza sembrava invece avere dei “matrimoni molto buoni”. I bambini erano maggiormente feriti da genitori che discutevano di rado e poi divorziavano all’improvviso, che da quelli che si confrontavano aspramente e molto di frequente prima di separarsi. Il quaranta per cento dei divorzi includeva matrimoni in cui i genitori dei bambini erano in un conflitto violento e costante, ma non si separavano. Questa era la situazione peggiore di tutte. Come nel caso di altri studi, c’erano prove che i bambini traessero sollievo dalla fine di una relazione violenta e disarmonica, anche se soffrivano gravi danni derivanti dall’attuale situazione di rottura in se stessa. I bambini riferivano un senso di sollievo quando finiva il conflitto fra i genitori. Ciò non di meno, un probabile esito della separazione genitoriale era la revisione della relazione del bambino con i propri genitori e, certamente, la messa in discussione di tutte le relazioni sociali e intime. In particolare per i bambini più piccoli, c’è la presa di coscienza dolorosa che alcune relazioni familiari potrebbero non durare per sempre. Mole reazioni infantili a volte sono espressione della paura di essere abbandonati da uno o entrambi i genitori. Simili paure saranno probabilmente più acute se si è perso il contatto con uno dei due genitori. Se le rela178 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori zioni fra i genitori e il bambino restano intatte, e supportive, queste paure sono meno gravi (Neugebauer, 1988/89). I bambini considerati più svantaggiati sono (vedere Walczak, 1984); (1) quelli con cui i genitori non sono in grado di parlare del divorzio (a parte accusare l’ex partner); (2) quelli che dopo la separazione non si trovano bene almeno con un genitore; (3) quelli che non sono soddisfatti delle soluzioni di affidamento e di visita. Nella popolazione femminile adolescente e adulta, il divorzio è stato associato con minore autostima, attività sessuale precoce, comportamento delinquenziale e maggiori difficoltà nello stabilire relazioni adulte eterosessuali gratificanti e durevoli (per es. Capaldi e Patterson, 1991; Hetherington et al., 1998; Hetherington e Stanley-Hagen, 1999). Dopo un divorzio, il destino di molti bambini di tutte le classi sociali è costituito da risorse finanziarie ridotte. Tuttavia, i bambini che provengono da famiglie con reddito basso hanno maggiori probabilità di vivere situazioni di vera povertà, soprattutto se le mamme non lavorano. I bambini che provengono da famiglie con redditi più alti potrebbero sperimentare una riduzione nelle risorse e nello stile di vita (Furstenberg e Cherlin, 1991). I genitori affidatari sono di solito mamme divorziate e sole che si trovano a confrontarsi non solo con difficoltà finanziarie ma anche con problemi di lavoro e di carriera, oltre che con le richieste costanti di accudimento. I bambini piccoli hanno bisogno di attenzioni speciali e di accudimento, ma il genitore potrebbe non avere altra scelta che cercare lavoro. Trovare dei caregiver sostitutivi e soddisfacenti può essere difficile e molto costoso. Anche trovare una casa è un problema piuttosto costoso da risolvere. Molte difficoltà non risolte potrebbero esaurire le ultime risorse emotive della madre o del padre lasciati soli a fare fronte alle necessità di una famiglia. Interventi Quando le famiglie si presentano con difficoltà di adattamento post-separazione è necessario intraprendere un intervento sistemico e multimodale basato su una valutazione approfondita e su un piano di trattamento. Un intervento potrebbe non implicare solo la terapia. L’uomo o la donna soli avranno bisogno di un aiuto finanziario, pratico e personale. Un’altra necessità è quella di ricevere informazioni giuste e accurate sullo sviluppo dei propri figli, date queste circostanze stressanti. Un programma multimodale potrebbe prevedere un lavoro con i sistemi familiari precedenti e nuovi, la famiglia originale e quella ricostituita, i nuovi partner e i loro bambini. Potrebbe anche includere interventi su una varietà di sottosistemi, che comprendono membri individuali della famiglia. Esistono numerosi programmi terapeutici che i clinici possono scegliere fra cui: psicoterapia psicodinamica, terapia narrativa e orientata alla soluzione, terapia no-talk, terapia ludica cognitiva e non cognitiva, approcci alla risoluzione dei conflitti e la terapia cognitivo comportamentale (CBT) (vedere Stuart e Abt, 1981; Rossiter, 1988; Webster-Stratton, 1999). Poche ricerche valutano la maggior parte di questi modelli di trattamento. Ciò non di meno, una revisione degli interventi per adulti, per i bambini o i gruppi suggerisce che alcuni di questi, soprattutto la CBT, permettano di conseguire miglioramenti significativi nell’adattamento personale e fa179 Martin Herbert miliare. Le rassegne di Lee et al., 1994 e di Fonagy et al., 2002 sono particolarmente importanti dal momento che suggeriscono quali terapie sono efficaci e per cosa, quali non funzionano e quali non siano state ancora convalidate. Gli interventi che si basano sulla famiglia (per es. terapia familiare comportamentale e non comportamentale, training nelle competenze genitoriali e counseling) sono stati fortemente suggeriti come mezzi per aiutare i membri delle famiglie ad adattarsi ai loro nuovi ruoli, alla gestione delle difficoltà del bambino e ad altri problemi del tipo precedentemente elencato. I problemi di adattamento più comuni collegati al divorzio sono: disturbi della condotta nella prima infanzia (vedere il Capitolo 13), problemi d’ansia (vedere il Capitolo 18); reazioni depressive (vedere il Capitolo 16) e attività delinquenziali in adolescenza (vedere il Capitolo 25). Tutti gli altri problemi di adattamento derivanti da esperienze di separazione e divorzio, possono essere trattati con la CBT, la terapia familiare comportamentale o il parent training (vedere Herbert, 2002). Fra questi problemi ci sono: • • • • • • • • • • • conflitto coniugale (Cummings e Davies, 2002); lutto (Herbert, 1996); deterioramento della performance accademica (Bisnaire et al., 1990); droga e abuso di alcol (Sun, 2001); difficoltà relazionali con i membri della famiglia acquisita o ricostruita (Bray, 1995); diminuzione del concetto di sé (autostima, sicurezza di sé) (Parish, 1987); comportamenti autolesionistici (Bogolob, 1995); assenze ingiustificate a scuola (Blagg e Yule, 1994); conflitti di fedeltà a uno dei due genitori (triangolazione del bambino da parte dei genitori) (Herbert e Harper-Dorton, 2003); difficoltà di incontrare il genitore non affidatario (Parish, 1987); e problematiche evolutive (Herbert, 2003). Il parent training e il counseling Una vasta gamma di difficoltà pre- e post- divorzio, fra cui problemi di gestione del bambino e la perdita di autostima e di sicurezza in sé, possono essere affrontati con un certo successo in gruppi di parent training/counseling che combinano diverse componenti teoriche. Il concetto di rafforzamento del sé è al centro di quelli che sembrano essere gli approcci più efficaci alle tipologie di problemi sollevati dal divorzio e dai suoi effetti collaterali. Su un piano teorico, si potrebbe affermare che incorporano fattori relazionali (condizioni fondamentali della teoria umanistica), processi cognitivi (ossia costrutti, attribuzioni e auto-valutazioni) e idee sul problem-solving proprie del counseling basato sulle competenze. Questi approcci generano il contenuto dei curricoli per l’intervento, ma anche, cosa importante, sono caratterizzati da sottili processi relazionali che facilitano il cam180 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori biamento. Webster-Stratton e Herbert (1994) enfatizzano la fusione di contenuto e processo, con quest’ultimo che viene rappresentato da uno stile collaborativo di lavoro con i clienti. Gli autori cercano di dare forza ai genitori utilizzando un approccio a tre punte: (1) offrire una conoscenza di base sulle necessità evolutive del bambino, su tecniche di gestione comportamentale e sulle differenze individuali nel temperamento, oltre che a una spiegazione di come queste influenzino le relazioni sociali e intime; (2) aiutarli ad apprendere competenze importanti per la comunicazione, per iniziare e mantenere relazioni sociali, per il problem-solving e per il pensiero tattico/strategico in relazione ai propri figli e (3) accettare e rispettare i loro valori e le loro convinzioni ed esplorare come queste abbiano un impatto sulle loro vite familiari, sulle regole e sulle relazioni. Wallerstein e Blakeslee (1989) hanno fornito dati importanti per la costruzione del curricolo di un programma di gruppo. Riferiscono i risultati di un follow-up a 10 anni, sul campione originale degli anni ’70, all’interno del libro chiamato Second Chances. Lo studio illustrava i compiti psicologici che gli adulti e i bambini devono affrontare al momento del divorzio. Il divorzio impone due compiti principali agli adulti: (1) ricostruire le proprie vite come adulti, per fare un buon uso di un’eventuale seconda possibilità che il divorzio dà e (2) accudire i bambini dopo il divorzio, proteggendoli dal fuoco incrociato del vecchio partner e prendendosi cura di loro mano a mano che crescono. I compiti psicologici sono i seguenti: 1. 2. 3. 4. 5. 6. porre fine al matrimonio; addolorarsi per la perdita; recuperare se stessi; risolvere o contenere l’ira; ricostruirsi una vita e aiutare i bambini per tutto il corso dell’età prescolare, i primi anni di scuola (5-8 anni), i successivi (9-12 anni) e l’adolescenza. Una volta che è stata presa la decisione di divorziare, questi mezzi sono stati considerati importanti per aiutare i bambini: 1. esprimere la tristezza, perché questo dava il permesso ai bambini di piangere e soffrire, senza dover nascondere i propri sentimenti di perdita, agli adulti o a se stessi; 2. la razionalità, perché contribuiva allo sviluppo morale del bambino; 3. la chiarezza, in modo che i bambini non sarebbero stati costretti a intraprendere sforzi in vista di una riconciliazione; 4. il riserbo, perché i bambini devono sentire che i genitori sono consapevoli di quanto profonda sia la loro preoccupazione; 5. preparare i bambini per quello che succederà con i maggiori dettagli possibili; 6. rassicurare i bambini assicurando loro che saranno tenuti informati di tutti i principali sviluppi; 7. invitare i bambini a dare consigli che gli adulti prenderanno seriamente in considerazione, dal momento che di solito i bambini si sentono completamente impotenti in una situazione di divorzio; 181 Martin Herbert 8. ripetere costantemente ai bambini che il divorzio non indebolirà il legame fra il bambino e il genitore non affidatario, anche se da ora in poi vivranno separati; 9. dare il permesso ai bambini di amare entrambi i genitori con libertà e apertamente; 10. evitare le complicazioni che sorgono quando i genitori “si aggrappano” ai propri figli, sovracompensando la perdita del proprio partner chiedendo ai bambini di crescere prematuramente, affidando loro responsabilità da adulti (“genitorializzazione”), essendo troppo indulgenti, viziandoli o creando un’intimità emotiva “claustrofobica” (ossia ignorando i confini) inadeguata e potenzialmente abusante ; 11. prendere in considerazione una conciliazione o una mediazione (vedere in seguito). Wallerstein e Blakeslee (1989) hanno concluso che i compiti psicologici per i bambini sono: 1. comprendere il divorzio; 2. ritirarsi in se stessi – i bambini e gli adolescenti, dopo il divorzio, hanno bisogno di tornare alle proprie vite di sempre il prima possibile. È importante che ricomincino le solite attività a scuola e nel tempo libero, e ritornare fisicamente ed emotivamente ai normali compiti della crescita. 3. Gestione della perdita. 4. Gestione della rabbia. 5. Elaborare e risolvere il proprio senso di colpa. 6. Accettare l’irreversibilità del divorzio. 7. Evitare di sentirsi non degni di amore o in colpa a causa del divorzio. Dovrebbero essere incoraggiati ad accettare realisticamente che sono capaci di amare ed essere amati e convinti di non avere alcuna responsabilità della rottura di una relazione fra due adulti. La gestione dell’evento attraverso il counseling cognitivo comportamentale Un esempio di trattamento multimodale per individui divorziati e separati che prevede il counseling, e la trasmissione di competenze di vita e cognitive, ideato dal Joy Edelstein e dall’autore di questo capitolo, è il programma Separation and Divorce: A Collaborative Training and Counselling Course (Edelstein, 1996). La componente sulle competenze di vita si basa su indicazioni ed esempi tratti dal lavoro di Hopson e Scally (1980).Questi autori indicano che “il rafforzamento di sé” è essenzialmente costituito dalla convinzione di avere delle scelte e alternative disponibili in qualunque situazione. Questo implica una capacità di scelta e poi di azione sulla base di quella scelta, sulla base di valori, priorità e impegni personali. Edelstein (1996) è stato capace di dimostrare (in una valutazione del programma all’interno di una ricerca di dottorato) che questo counseling cognitivo comportamentale e il training nelle competenze di vita per le madri divorziate promuovevano una percentuale significativa di recupero dagli effetti negativi della separazione. Inoltre, 182 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori miglioravano il coping materno, facevano accrescere la comprensione delle attribuzioni e del comportamento dei bambini e servivano ad alleviare, in qualche modo, gli effetti dannosi del divorzio evidenziati dai problemi emotivi e comportamentali post-separazione. Il programma sulla gestione del bambino utilizzava metodologie di parent training tratte dal Child Wise Behaviour Management Manual (Herbert e Wookey, 2004). Il training collaborativo e il programma di counseling Segue una breve presentazione delle principali tematiche del programma. Orientamento Si introducono fra di loro i partecipanti e il facilitatore. L’approccio adottato dal leader del gruppo sottolinea che il divorzio è per propria natura uno dei principali eventi di transizione della vita. È possibile aiutare i clienti, attraverso la collaborazione, a fare fronte con più efficacia a simili transizioni nelle proprie vite. E poiché i bambini di oggi sono i genitori di domani, è di massima importanza alleviare le difficoltà emotive e le altre preoccupazioni che li affliggono in seguito a un divorzio. Rassicurazione per i bambini Questa sezione si focalizza sui modi in cui i genitori possono rassicurare i propri bambini. Vengono illustrate nel dettaglio le attribuzioni e le reazioni dei bambini negli spasimi e negli strascichi del divorzio, i principali meccanismi di difesa, come la negazione, i comportamenti di acting out e di aggressività che i bambini utilizzano per allontanare il dolore e il risentimento che provano. Si condividono, discutono e confrontano i comportamenti di acting out e i modi per gestire l’elaborazione dell’evento che i bambini mostrano di frequente dopo un trauma da divorzio. Rassicurazione per l’individuo divorziato Questa sezione si focalizza sul fornire rassicurazione agli stessi partecipanti. Include la descrizione delle reazioni più comuni (immediate e ritardate) alla rottura di una relazione ed enfatizza che simili reazioni sono normali, anche se potrebbero sembrare “anormali”. Si riconosce anche la necessità, a volte e in alcuni casi, di “piangere” su un matrimonio perduto. Vengono forniti consigli su come fare fronte alla solitudine che segue un divorzio e sui modi di gestire l’insicurezza di sé. Questa parte sottolinea l’importanza di contrastare il risentimento e l’amarezza che derivano da un matrimonio spezzato e delinea (con l’aiuto del brainstorming e delle discussioni) modalità costruttive con cui i partecipanti possono aiutarsi a fronteggiare il futuro da soli. 183 Martin Herbert Pensare a se stessi e confrontarsi con alcune problematiche spinose Si danno suggerimenti per lo sviluppo di un discorso interiore positivo e per l’espressione dei sentimenti e si spiega il concetto di “adeguatezza”. Vengono descritte le competenze per la gestione delle emozioni e i requisiti di un’adeguata cura di sé. I membri del gruppo partecipano a esercizi di rilassamento. Si affrontano le problematiche spinose della custodia, del mantenimento e delle visite e vengono descritti e discussi i modi per gestire difficoltà potenzialmente frustranti nelle visite. Lasciar andare il passato e alcune indicazioni per la gestione dei comportamenti difficili dei bambini Vengono forniti alcuni suggerimenti per spiegare il divorzio ai bambini. Si spiega il passaggio essenziale di “lasciar andare il passato”, una volta che il dolore per il matrimonio rotto è stato “elaborato” e ha raggiunto livelli più gestibili. Si sottolinea che questo passo è un aspetto fondamentale del recupero emotivo. Si esaminano le convinzioni e le attribuzioni irrazionali che le persone coltivano così come si utilizzano il brainstorming e la discussione per individuare modalità di sfogare la propria rabbia in maniera costruttiva. Si aiutano i genitori a individuare, osservare e registrare i comportamenti indesiderati dei bambini attraverso la formulazione ABC del problem-solving propria della metodologia cognitivo comportamentale (Herbert, 1987). Si discutono e si sperimentano queste problematiche in un role-play – una delle molte importanti “digressioni” nel principale ordine del giorno degli adulti. “Conosci te stesso” e altri spunti per la gestione dei comportamenti difficili dei bambini Si pongono e si discutono due importanti domande sulla conoscenza di sé (1) “Avrei scelto che questo accadesse?” e (2) “So cosa voglio trarre da questa nuova situazione”. Queste due domande lasciano all’individuo tre possibili opzioni – propriamente, accettare e fare pace con la situazione, rifiutare di accettare la situazione o accettare la situazione e cercare di trarne dei benefici. Si analizzano con attenzione gli effetti di queste possibilità e si prosegue con un’ulteriore domanda (3) “Qual è la cosa peggiore che può accadere?”. La quarta domanda, “So cosa voglio trarre da questa nuova situazione?”, viene utilizzata per introdurre la tecnica dell’esplicitazione dei valori, uno strumento per far venire alla luce necessità e valori. Si discute come differenziare le conseguenze dei comportamenti proattivi e reattivi nei momenti di stress. Vengono descritte e messe in pratica tecniche di gestione dello stress. 184 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori “Punti oscuri” Vengono dati ulteriori suggerimenti per gestire comportamenti difficili dei bambini, insieme ad alcune idee per la gestione delle conseguenze più ritardate del divorzio (vedere Webster-Stratton e Herbert, 1994). In aggiunta, si illustrano e si discutono modalità efficaci di utilizzare ricompense e punizioni e di incoraggiare i comportamenti attesi e prosociali. Di solito, viene data la possibilità di fare domande e di sollevare possibili dubbi per un dibattito. Saluti/Seduta finale Si invitano i partecipanti a fare commenti sugli aspetti del Corso che hanno trovato utili o inutili. Si fa un riassunto generale del corso e vengono ricordate tutte le strategie e i principi suggeriti dai partecipanti e dai facilitatori che poi vengono scritti su una flip chart. Si fanno gli ultimi saluti e ci si accorda per tenersi in contatto, se necessario, e per le successive sedute di “ripasso/supporto”. Conclusioni Apprendiamo dalla testimonianza di alcuni adulti che sono passati attraverso l’esperienza del divorzio da bambini, che sono cresciuti, si sono sposati e hanno costruito le proprie famiglie, che, contrariamente all’opinione diffusa, il divorzio può avere un impatto che dura tutta la vita. Il divorzio non abbandona facilmente i ricordi dei bambini quando questi fanno il loro ingresso nella vita adulta (Hetherington et al., 1998). Wallerstein e Blakeslee (1989) riferiscono che il divorzio continua a occupare un posizione emotiva centrale nelle vite di molti adulti, anche 10-15 anni dopo l’evento. Sia uomini che donne avevano raccontato che lo stress di essere un genitore single non li abbandonava mai e che non cessava mai nemmeno la pura di restare da soli. Wallerstein e Blakeslee (1989, p.60) concludono la loro rassegna sulla letteratura come segue: Volevamo credere che il tempo avrebbe lenito i sentimenti di dolore e rabbia, che il tempo in se stesso curasse tutte le ferite e che le persone per natura avessero delle capacità di recupero. Ma non esistono prove che il tempo faccia automaticamente diminuire i sentimenti o i ricordi, che il dolore e la depressione possano essere superati, che la gelosia, la rabbia e il risentimento svaniscano. Alcune esperienze provocano lo stesso dolore, anche dieci anni dopo; alcuni ricordi ci perseguitano per tutta la vita. E gli effetti continuativi del divorzio non erano ristretti solo agli adulti. Wallerstein e Blakeslee (1989) hanno trovato che dopo 10 anni i bambini appartenenti a famiglie divise asserivano che la crescita per loro, figli di divorziati, era stata più dura di quella dei bambini figli di famiglie unite. Sentivano che le proprie vite erano state oscurate dal 185 Martin Herbert divorzio dei genitori e si sentivano deprivati di una vasta gamma di sostegni economici e psicologici. Molti dei bambini erano arrivati all’adolescenza e ai primi anni dell’età adulta con numerosi sentimenti non risolti, soprattutto rabbia verso il comportamento dei genitori durante il matrimonio. Anche l’amarezza era un altro sentimento tipicamente presente. Non erano state identificate reazioni all’inizio dell’evento fattori che fossero predittori degli effetti a lungo termine del divorzio sui bambini (o sugli adulti. Anche Herthington e Stanley-Hagen (1999) concludono, alla fine di un’importante rassegna della letteratura, che il divorzio può avere un impatto che dura per tutta la vita. Aggiungono inoltre che le conseguenze non sono sempre di tipo negativo o regressivo. Molti bambini quando crescono negli strascichi di un divorzio superano il trauma e arrivano a contribuire alla società, invece che a ribellarsi contro di essa. Anche se i bambini nelle famiglie divorziate, rispetto a quelli di famiglie unite, presentano maggiori rischi di sviluppare problemi sociali, emotivi, comportamentali e scolastici, nella maggioranza sono invece individui competenti, che hanno un buon livello di funzionamento complessivo. Inevitabilmente, ci saranno quelli soddisfatti delle proprie vite e senza rimpianti relativi al divorzio. Questo valeva per circa la metà degli uomini e delle donne nel campione di Wallerstein e Kelly (1980) intervistati circa 10 anni dopo da Wallerstein e Blakeslee (1989). Come sempre, è necessario tenere in considerazione le differenze individuali. Nel cercare di spiegare le origini e la natura di un “cattivo adattamento” di un bambino, in seguito a un divorzio, i clinici ignorano a proprio rischio e pericolo alcune variabili che possono fungere da moderatori. Le formulazioni che ipotizzano una relazione lineare fra un singolo precursore eterogeneo come la “divisione di una famiglia” e il successivo sviluppo di reazioni negative, potrebbero trascurare l’impatto di altre esperienze sullo sviluppo del bambino che ne determinano la vulnerabilità o la resistenza agli eventi stressanti della vita. Nel 1996, è stato approvato nel Regno Unito il Family Law Act, che obbliga tutti coloro che chiedono il divorzio a presenziare a un incontro informativo in cui vengono illustrate le conseguenze del divorzio, fra cui l’impatto che questo ha sui bambini, i costi probabili dei servizi legali e dei servizi sociali (di solito mediazione/conciliazione) disponibili (Fisher, 1990). Viene stipulato un periodo obbligatorio di riflessione e di valutazione prima di concludere formalmente che il matrimonio è irrimediabilmente rotto (James, 2002). Superato questo punto, come è già stato visto, esistono varie forme di aiuto disponibili (preventive e reattive), in cui la CBT da sola, o in combinazione con altre metodologie, all’interno di programmi multimodali di gruppo, si è rivelata uno degli interventi più efficaci. Bibliografia Amato, P. R. (1993). Children’s adjustment to divorce. Theories, hypotheses, and empirical support. Journal of Marriage and the Family, 55, 23-38. Amato, P. R. and Booth, A. (1997). A Generation at Risk: Growing Up in an Era of Family Upheaval. Cambridge, MA: Harvard University Press. Bisnaire, L., Firestone, P. and Rynard, D. (1990). Factors associated with academic achievement in 186 L’adattamento alla separazione e al divorzio dei genitori children following parental separation. American Journal of Orthopsychiatry, 60, 67-76. 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Chichester: Wiley. 188 QUINTA PARTE APPLICAZIONI E DISTURBI SPECIFiCI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA CAPITOLO 12 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli Jo Douglas Rickmansworth, Hertfordshire, Regno Unito Quando si lavora con bambini piccoli che hanno disturbi dell’alimentazione o del sonno, ci sono una serie di approcci terapeutici che vengono utilizzati per adattare il trattamento alle necessità particolari del bambino e dei genitori. La terapia cognitivo comportamentale (CBT) fa parte di questo insieme e, nell’età prescolare, è spesso diretta più ai genitori che al bambino. Il fatto che la CBT sia stata spostata dal contesto adulto al complesso insieme di relazioni bambini-famiglie indica l’orizzonte di trattamento deve ampliarsi ulteriormente per includere non solo il lavoro “individuale” con i bambini, ma anche quello con i genitori e con chi si prende cura di loro (Barrett, 2000). In particolare, le problematiche emotive e comportamentali dei bambini piccoli, fanno riflettere su quale sia effettivamente il focus del trattamento e su come sia possibile lavorare al meglio per conseguire gli obiettivi stabiliti. Aiutare i genitori a cambiare i comportamenti nei confronti del proprio bambino può avere un impatto positivo sulle difficoltà. Questo processo implicherà spesso che i genitori debbano modificare i propri pensieri e sentimenti verso il bambino e il suo comportamento. I programmi di CBT diretti ai genitori sono forme valide di trattamento per i bambini (Bugental e Johnston, 2000; Rapee, 2001), ma fanno effettivamente sorgere la domanda “qual è l’obiettivo del trattamento?” Si presume che il cambiamento nei pensieri dei genitori sia mediatore di una modifica del comportamento e questo, a sua volta, influenza il comportamento del bambino. Invece non è chiaro se, in queste circostanze, il cambiamento nei pensieri del bambino si verifichi prima di quello nel comportamento. Si è posta scarsa attenzione alla misurazione delle capacità cognitive dei bambini come indicatore dell’esito della terapia e questa area di ricerca richiede lo sviluppo di metodologie di valutazione appropriate e metodologicamente solide (vedere il Capitolo 191 Jo Douglas 8). Come in altri ambiti del comportamento, le problematiche evolutive giocano un ruolo importante nella comprensione dei disturbi dell’alimentazione e del sonno nell’infanzia. I bambini più piccoli possono mostrare una serie di paure e ansie rispetto ai bambini più grandi (Barrett, 2000): hanno pensieri immaturi e sono particolarmente vulnerabili all’influenza cognitiva dei genitori (Stallard, 2002).Queste caratteristiche del pensiero dei bambini piccoli devono essere tenute in considerazione quando si cerca di prevedere l’impatto dell’intervento sul cambiamento del comportamento. I disturbi dell’alimentazione nei bambini piccoli I disturbi dell’alimentazione nei bambini piccoli presentano una varietà di forme fra cui difficoltà a mangiare cibi di caratteristiche, qualità, e quantità adeguate per una certa età. I bambini piangono e gridano di fronte al cibo, girano la testa, sputano, hanno conati di vomito, indugiano eccessivamente, vomitano, gettano il cibo, scappano dal tavolo, si rifiutano di aprire la bocca, si rifiutano di mangiare da soli o mangiano solo alcune cose. Queste problematiche si possono accompagnare a una significativa perdita di peso o a un blocco della crescita. I genitori spesso si sentono incapaci quando non riescono a incoraggiare i propri figli a mangiare normalmente per l’età che hanno. L’eziologia di queste difficoltà è spesso diversa e così gli approcci di trattamento potrebbero dover implicare diverse componenti. Fra i modelli psicologici dell’eziologia ci sono le teorie dell’apprendimento cognitivo e comportamentale. La teoria dell’apprendimento comportamentale ci aiuta a comprendere l’effetto di esperienze precoci sui comportamenti attuali dei bambini e dei genitori Il condizionamento classico nei bambini Quando i bambini associano sensazioni fisiche spiacevoli, come nausea, vomito, reazioni allergiche o dolore, al cibo possono rifiutarsi di mangiare. Gli stimoli associati alla presentazione del cibo possono innescare l’ansia che normalmente accompagna la reazione fisica (Linscheid et al., 1995). Anche quando i sintomi spiacevoli iniziali si interrompono, il bambino continua a evitare il cibo perché si è stabilita una risposta condizionata. I disturbi medici di tipo gastrointestinale, metabolico, neurologico, cardiaco e renale influenzano tutti l’appetito di un bambino, il gusto e la quantità di cibo che può essere mangiata (Harris et al., 2000). Più frequentemente di ciò che si crede, uno sviluppo scarso o ritardato delle competenze motorie orali (la così detta disfunzione motoria orale) può essere alla base di esperienze di soffocamento o di sforzi di vomito (Mathisen et al., 1989). Il maltrattamento fisico o psicologico da parte dei genitori o caregiver, minacce di violenza fisica o di abbandono, la rabbia dei genitori e scoppi di ira mentre il bambino 192 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli mangia possono produrre livelli intensi di ansia e paura. Questo dà come risultato un evitamento condizionato del cibo sulla base di un’esperienza avversiva. Il condizionamento classico nei genitori Quando i genitori assistono alle reazioni fisiche negative sperimentano un’ansia così intensa, da evitare di riproporre nuovamente quello stesso cibo. Questo può portare a una continuata e non necessaria restrizione della varietà, qualità o quantità del cibo offerto, che potrebbe persistere anche molto dopo la risoluzione del problema originario. Quando un bambino rifiuta ripetutamente il cibo, i genitori possono diventare molto ansiosi o depressi e a temere i momenti del pasto. La reazione emotiva che si verifica come conseguenza nel corso del pasto, può anch’essa influenzare negativamente il bambino. Il condizionamento operante nei bambini I bambini imparano presto che, rifiutandosi di mangiare alcuni cibi, ottengono quelli che gradiscono di più e questo induce una restrizione della varietà di ciò che mangiano. Imparano anche che allontanandosi dal tavolo, sputando, tirando il cibo o piangendo e facendo sceneggiate i genitori smettono di presentare i cibi non graditi. Il condizionamento operante nei genitori I genitori di solito ricevono un rinforzo molto potente quando i loro bambini mangiano. Per mantenere questa esperienza piacevole, spesso offrono ai bambini i loro cibi preferiti o le varietà più gradite rinforzando così la restrizione. Poiché i tentativi di ampliare la dieta generano opposizione, stress ed evitamento del cibo, questi tentativi vengono rapidamente abbandonati. I genitori imparano dalla reazione del bambino quando ne ha avuto abbastanza e se invia segnali non adeguati, per esempio si distrae o preferisce giocare, allora i genitori potrebbero non fornirgli il nutrimento necessario (Chatoor et al., 1998). Tecniche di gestione per i genitori Una cattiva gestione del bambino può generare differenti quadri alimentari: bambini che bevono quantità eccessive di latte o di succo di frutta invece di mangiare, che mangiucchiano per tutto il giorno merendine invece di mangiare pasti completi alle ore stabilite, irregolarità e caos negli orari dei pasti e aspettative inadeguate sulla quantità di cibo che un bambino riesce a mangiare (Douglas e Bryon, 1996). Non riuscire porre dei limiti e dei confini al comportamento del bambino può generare una serie di difficoltà alimentari (Frank e Drotar, 1994). 193 Jo Douglas La teoria dell’apprendimento cognitivo può aiutarci a comprendere i pensieri distorti dei bambini e dei genitori che causano e mantengono i comportamenti problematici Fraintendimento del comportamento alimentare del bambino I genitori potrebbero pensare che il rifiuto del proprio bambino sia per disobbedienza e negligenza, quando in realtà il bambino sta male o non può mangiare per ragioni fisiche (Harris et al., 2000). Questo può indurre a esercitare pressione sul bambino, a forzarlo ad alimentarsi, a scoppi d’ira e a punizioni che provocano solo maggiore evitamento e stress emotivo. Percezioni assenti o distorte sui bisogni alimentari ed emotivi evolutivi del proprio bambino Alcuni genitori non sono consapevoli della necessità di chiedere aiuto o perché sono preoccupati dalle proprie difficoltà emotive o perché non hanno una conoscenza sufficiente dello sviluppo del bambino. Potrebbero offrirgli cibi inadeguati per caratteristiche, quantità o varietà e sembrare inavvertitamente o ingiustamente indifferenti (Drotar, 1995). Se non forniscono al bambino un aiuto fisico per accedere al cibo e un supporto al momento dei pasti, potrebbero portare il bambino a una grave denutrizione (Bachelor, 1999). I genitori con difficoltà di attaccamento ai propri bambini mostrano spesso scarsa attenzione ai pattern comunicativi relativi al cibo (Chatoor et al., 1998). Quando i genitori hanno convinzioni irrazionali o distorte sul cibo Queste convinzioni possono indurre i genitori a restringere la dieta del proprio bambino sulla base di informazioni distorte apprese dai media, di paura delle infezioni, degli additivi, di malattie o allergie; a causa di pensieri e convinzioni personali religiose o animaliste e di aspettative errate su cosa e quanto dovrebbe mangiare un bambino di una certa età (Pugliese et al., 1987). Quando i genitori hanno l’ansia dell’igiene L’ansia relativa a igiene, disordine e pulizia può essere trasmessa al bambino che diventa riluttante a toccare il cibo e che chiede continuamente di pulirsi le mani e il viso mente mangia. I bambini più grandi possono mostrare preoccupazioni sulla pulizia delle posate e delle stoviglie, mentre i bambini in età prescolare possono avere fantasie di contaminazione fra cibi differenti che si toccano dentro allo stesso piatto e potrebbero mangiare solo nel proprio piatto a casa propria. 194 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli Quando i genitori non sono più sicuri delle proprie competenze Scarse capacità decisionali relative all’alimentazione del bambino potrebbero essere la conseguenza di una malattia precoce del bambino o delle critiche fatte da altri membri della famiglia o delle informazione date da altri considerarti “autorevoli”. Una malattia del bambino nel primo ano di vita – per es. il reflusso gastroesofageo – può minare gravemente la sicurezza dei genitori sul capacità di affrontare la situazione. L’incertezza dei genitori potrebbe perseverare a lungo anche dopo che il problema fisico è scomparso (Douglas e Harris, 2001). Iperprotezione e difficoltà di separazione Erronee percezioni di minaccia possono impedire il progresso evolutivo del bambino che deve imparare a nutrirsi da sé o a mangiare cibi adeguati all’età. L’iperprotezione materna trasmette al bambino un costante senso di pericolo e restringe le opportunità di sviluppare strategie di coping positive (Rapee, 1997). I genitori potrebbero cercare di mantenere il proprio figlio a un livello evolutivo inferiore rispetto all’età cronologica, incoraggiando la dipendenza e pattern di comportamento più infantili. Bassa autostima dei genitori Una bassa autostima può essere causa di depressione e può influenzare la capacità di alcune madri di fare fronte alle richieste nutritive dei propri figli. La madre potrebbe fare attribuzioni negative sul bambino, sperimentare un senso di incapacità nell’affrontare la situazione insieme all’idea di essere una cattiva madre. Più il bambino rifiuta il cibo, più l’assunto cognitivo fondamentale, quello di non essere una brava madre, viene rinforzato e la depressione aumenta. Una mamma depressa non riconosce le necessità del bambino e non può rispondere o rinforzare i suoi tentativi di mangiare (Batchelor, 1999). Ansia del bambino e errata percezione di minaccia I genitori possono trasmettere la propria ansia al bambino, causando un eccessivo e non necessario evitamento di certi cibi per paura di reazioni fisiche negative – per es. paura di shock anafilattico, paura di vomitare o di avere sforzi di vomito. I bambini inoltre apprendono informazioni dal proprio ambiente e potrebbero aver osservato un’altra persona che sperimenta simili reazioni negative. Nei bambini ansiosi, questo può essere sufficiente a innescare una reazione seria di evitamento. Potrebbero sviluppare un senso di incompetenza o di disperazione di fronte a situazioni difficili – sovrastimare la minaccia e sottostimare le proprie capacità di farvi fronte (Roth e Dadds, 1999). 195 Jo Douglas Percezioni distorte del cibo Alcuni bambini piccoli affermano chiaramente di non poter mangiare cibi di una determinata consistenza anche quando è palese che riescono a ingoiarli. Non sanno perché e non hanno chiara la differenza fra “non potere” e “non volere”. Non hanno motivo di cambiare e questo di solito succede perché non sanno pensare a come cambiare. Se vengono forzati a magiare cibi nuovi, hanno sforzi di vomito e rigurgitano anche senza aver avuto precedenti esperienze avverse con quel cibo; semplicemente credono di non poterlo mangiare (Douglas, 2000b). L’intervento Il trattamento di problemi dell’alimentazione in bambini piccoli richiede un intervento integrato che includa procedure cognitive e comportamentali che sono in grado di rispondere alle necessità di ogni caso. In molti casi, la terapia cognitiva con i genitori è il primo passo. In seguito apprendono nuove strategie comportamentali per gestire il bambino. Intervenire sui pensieri e sul comportamento dei genitori Correggere percezioni erronee relative al comportamento, alle emozioni, al livello di sviluppo e alla malattia del bambino Per correggere queste percezioni erronee, o per fornire informazioni adeguate, si devono prima comprendere i pensieri dei genitori. Fornire informazioni pratiche sulla dieta, sulle calorie, sulle qualità di cibi da provare è un approccio educativo pratico e pragmatico che può correggere molte interpretazioni errate e che fornisce conoscenze importanti. Le informazioni sugli stadi evolutivi dell’alimentazione del bambino aiuteranno i genitori ad avere aspettative più chiare e adeguate (Harris, 2000). Riconoscere la paura o l’incapacità del bambino di affrontare la situazione può aiutare i genitori a regolare le proprie reazioni emotive. Regolare l’impatto dello stato emotivo dei genitori sulla capacità di gestire l’alimentazione del bambino L’ansia o la depressione dei genitori distorcono la capacità di trovare soluzioni ai problemi e di osservare accuratamente il comportamento dei propri bambini (Hutchings et al., 2002). Questi genitori hanno bisogno di aiuto e di una guida su come affrontare le difficoltà di alimentazione del bambino con più efficacia. La depressione può portare a un senso di “impotenza appresa” che compromette la capacità del genitore di fare fronte ai problemi del proprio bambino. Costruire un senso di competenza, 196 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli sulla base di linee guida chiare su come gestire il problema a piccoli passi, può aiutare i genitori a sentirsi più efficaci. Un parent training strutturato con esercizi ripetuti e riusciti è uno degli antidoti più efficaci contro la depressione. Può anche essere di aiuto fornire un approccio cognitivo alla gestione della propria ansia e depressione. Aiutare i genitori volubili a riconoscere che il bambino non si sta comportando male volontariamente per farli preoccupare può neutralizzare la rabbia e l’irritazione. Questi genitori hanno anche bisogno di imparare a stabilire dei limiti senza perdere la calma. Correggere le attribuzioni di colpa e responsabilità Molte madri si sentono responsabili dei problemi di alimentazione del proprio bambino e quindi si sentono incapaci di cambiare. Comprendere l’evoluzione del problema può fornire loro una nuova prospettiva. Il terapeuta deve anche rassicurarle di aver agito con l’intenzione di aiutare il bambino e non di esasperare il problema. La responsabilità e il senso di colpa sono sentimenti distruttivi che impediscono ai genitori di cambiare. Se non vengono affrontati all’inizio del trattamento, molti genitori interpreteranno i consigli del terapeuta come critiche e potrebbero non cooperare o diventare ancora più depressi o ansiosi (Douglas, 2002a). Accrescere la sicurezza dei genitori I genitori potrebbero aver bisogno di feedback positivi per gli sforzi che stanno facendo in direzione del cambiamento e per come cercano di gestire il bambino. Criticare o sottolineare gli errori è demotivante e mina la fiducia nel poter cambiare (Dadds e Barrett, 2001). Un supporto empatico e una guida precisa su come gestire la situazione li faranno sentire più sicuri ed efficaci. Una partnership fra il terapeuta e i genitori garantisce un clima positivo e costruttivo in cui il genitore può iniziare a identificare i piccoli passi del cambiamento. Qualunque risultato dovrebbe essere attribuito ai loro sforzi. Accrescere le competenze di problem-solving Mano a mano che i genitori acquistano sicurezza e iniziano a vedere alcuni risultati, possono essere incoraggiati a generare da soli delle soluzioni ai problemi del bambino. Questo processo di generalizzazione prevede un pensiero creativo e flessibile, possibile solo dopo che i problemi emotivi dei genitori e la loro autostima hanno subito un miglioramento. Intervenire sui pensieri e sui comportamenti del bambino Anche se gran parte del comportamento del bambino dipende dalle nuove reazioni che i genitori manifestano verso i suoi pattern alimentari, ci sono alcuni casi in cui può essere utile un lavoro diretto sui pensieri del bambino. 197 Jo Douglas Correggere la percezione di sé come “persona che non mangia” e la convinzione di non poter mangiare determinati cibi Le autoaffermazioni positive – per es. “Io posso mangiare …” e “Se il mio amico può mangiarlo posso farlo anch’io” – aiutano a costruire un atteggiamento positivo. Un programma con rinforzi in seguito alla manifestazione del comportamento atteso, purché capito e accettato dal bambino, lo aiuta nel tentativo di assaggiare nuove tipologie di cibo o di mangiare maggiori quantità. Accrescere i punti di forza e la sicurezza del bambino Per accrescere la visione di sé come “persona che mangia”, il bambino potrebbe tenere un album in cui attaccare tutti i cibi che riesce a mangiare, aggiungendone sempre di nuovi una volta che ne ha mangiata una certa quantità. L’album rinforza la memoria del bambino ed è anche una registrazione dei successi. Una star chart può avere lo stesso effetto e aiutare i bambini a essere più positivi sui propri sforzi perché permette di registrare i successi ottenuti. Ridurre l’ansia fissando piccoli obiettivi di cambiamento Quando gli adulti iniziano a parlare di cambiamento, molti bambini sono convinti che si chiederà loro di mangiare un piattone di cibo non gradito o nuovo. Devono capire ciò che ci aspetta da loro e devono essere rassicurati sul fatto che saranno in grado di affrontare ogni piccolo passo del cambiamento. Mantenere il bambino calmo è una componente essenziale del trattamento; l’autostima migliorerà una volta sperimentato anche un piccolo successo. La gestione comportamentale delle difficoltà alimentari dei bambini Desensibilizzazione I bambini che temono il cibo a causa di precedenti esperienze negative associate all’alimentazione hanno bisogno di un contenimento per la propria ansia, mentre vengono gradualmente esposti al cibo che li spaventa. Inserire gradualmente nuovi cibi, nuove consistenze e maggiori quantità, permette al bambino di sperimentare piccoli successi senza dover affrontare situazioni difficili. Richiede pazienza, pianificazione e coerenza da parte dei genitori (Douglas, 2000b). Alcuni bambini richiedono una desensibilizzazione alla paura che hanno del disordine e di toccare il cibo, mentre altri alla paura di farsi toccare viso e bocca o alla consistenza e temperatura di determinati cibi (Wolf e Glass, 1992; Johnson e Babbitt, 1993; Schauster e Dwyer, 1996). Una graduale esposizione all’oggetto temuto è l’ingrediente principale di tutti i programmi per le fobie e le paure infantili (King e Ollendick, 1997). 198 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli Insegnare ai genitori competenze di gestione comportamentale I genitori riferiscono spesso di non sapere come poter modificare ciò che sta accadendo e di non capire perché ciò che fanno dà risultati. Potrebbero dubitare dell’utilizzo di una maggiore assertività per paura che il bambino creda che perderanno la calma. Imparare a stabilire obiettivi di cambiamento chiari, realistici e graduali, utilizzando rinforzi positivi, accrescerà la capacità dei genitori di gestire con maggiore efficacia l’alimentazione dei propri figli. Gli approcci che prevedono il modelling, lo shaping e i rinforzi sono tutti utili nella gestione del bambino (Douglas e Harris, 2001; Douglas, 2002a, b). I genitori possono essere modello della gioia di toccare e mangiare il cibo e lodare i propri figli per piccoli cambiamenti. Utilizzare ricompense e star charts per aver provato ad assaggiare un nuovo cibo, o per aver mangiato una certa quantità, può aiutare il bambino e i genitori a riconoscere che è stato fatto un piccolo progresso. Ignorare i comportamenti non appropriati ai pasti e attenersi a quelli appropriati è una tecnica efficace di gestione del cambiamento (Hampton, 1996). Incoraggiare un’indipendenza adeguata all’età può essere un passo importante per ridurre l’ansia dei genitori e un loro eccessivo coinvolgimento nelle ore dei pasti (Douglas, 2000a). Caso esemplificativo Suzie, 5 anni, aveva molta paura dei cibi che contenevano noci, aveva ristretto gravemente la propria dieta e chiedeva continuamente rassicurazioni alla propria madre. L’ansia era diventata sempre più generalizzata: non voleva che il proprio cibo venisse cucinato nelle stesse pentole utilizzate per il resto della famiglia, perché non doveva venire a contatto con quello degli altri, e si preoccupava della pulizia delle posate. Non mangiava a casa di amici, alle feste o nei ristoranti. La famiglia non poteva andare in vacanza a causa del suo rifiuto per il cibo. Un anno prima, Suzie aveva avuto una lieve reazione anafilattica dopo aver mangiato delle noci e alla madre era stata data una siringa per l’autosomministrazione dell’adrenalina in caso di emergenza. La madre era membro di un gruppo di supporto per genitori per bambini con allergia alle noci ed era diventata molto informata. Dopo aver osservato come veniva utilizzata sulla sorella maggiore, in seguito a un’inaspettata reazione anafilattica nel corso di un test allergico alle noci in ospedale, Suzie era terrorizzata dalla siringa per l’autosomministrazione e non riusciva nemmeno a tenerla in mano. Suzie aveva sentito la penna fare un clic e aveva visto la sorella piangere e boccheggiare e si era spaventata. L’ansia di Suzie era fortemente aumentata dopo questo episodio e anche le sue restrizioni sul cibo dato che era terrorizzata dalla siringa e non la considerava assolutamente un mezzo per tranquillizzarsi. Il piano di trattamento prevedeva: (1) aiutare Suzie a controllare la propria ansia insegnandole tecniche di respirazione e rilassamento; (2) ridurre qualunque tipo di rinforzo di affermazioni di preoccupazione, chiedendo alla madre di non rispondere alle continue richieste di rassicurazione ma di concedere a Suzie un “momento di preoc199 Jo Douglas cupazione”, ogni giorno alle 6 del pomeriggio, in cui poteva chiedere tutto ciò che desiderava sapere; (3) eliminare i rinforzi dell’ansia della bambina non permettendole di scegliere le stoviglie e (4) rinforzare Suzie, attraverso una star chart, per aver accettato e creduto che la mamma le preparasse cibo privo di noci. Lei fu d’accordo e iniziò con un bambolotto. La madre aveva bisogno di aiuto per imparare a non rispondere alle preoccupazioni di Suzie, per essere più ferma e non permettere a Suzie di assumere il controllo nel corso dei pasti e per evitare di rispondere alle richieste dei bambini piuttosto che stabilire confini chiari. Ammetteva di dover essere più chiara e più ferma con tutti loro. Una volta raggiunti i primi stadi di cambiamento, il passo successivo era ridurre l’ansia di Suzie collegata alla siringa. Questo risultato è stato ottenuto attraverso un programma di desensibilizzazione: Suzie doveva iniziare riuscendo a tenere in mano la siringa e, alla fine, doveva riuscire a utilizzarla su una bambola. Questo le aveva permesso di sentirsi più sicura; alla fine era riuscita a portarsela a casa di un’amica all’ora del tè. Una volta che era riuscita a fare questo, divenne possibile aumentare la varietà di cibi di Suzie includendo quelli che prima rifiutava senza alcuna buona ragione. La madre si prese carico completamente dei pasti e decideva lei cosa cucinare, senza chiedere a Suzie cosa desiderasse mangiare. La sicurezza nel decidere quali cibi dare a Suzie doveva aumentare e in seguito era possibile iniziare a utilizzare cibi che “potevano contenere tracce di noci” sull’etichetta. Lo scopo era spostarsi in direzione di una situazione in cui Suzie poteva essere ricoverata all’ospedale per una prova allergica senza entrare nel panico, dal momento che le sue analisi del sangue erano risultate tutte normali. La madre si era resa conto di quanto fosse diventata insicura in seguito alle richieste e alle preoccupazioni di Suzie e di aver permesso a Suzie di smettere di fidarsi di lei e di averle permesso di assumere il controllo a casa. Mano a mano che la madre aveva guadagnato maggiore sicurezza e controllo, Suzie si era rilassata e aveva nuovamente permesso alla madre di prendersi carico di lei. Difficoltà del sonno nei bambini piccoli Le difficoltà del sonno nei bambini piccoli presentano una varietà di forme: • • • • • Problemi nel prepararsi ad andare a letto; Risvegli nel cuore della notte; Risveglio precoce la mattina presto; Incubi, terrori notturni e sonnambulismo; Combinazione di questi disturbi. I bambini potrebbero piangere o tentare di alzarsi quando si cerca di metterli a dormire, piangere o alzarsi a metà della notte, richiedere latte o acqua, il seno o pupazzetti, voler dormire nel letto dei propri genitori e avere bisogno di essere cullati per addormentarsi. 200 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli La teoria dell’apprendimento comportamentale ci aiuta a comprendere l’effetto di esperienze precoci di apprendimento sui comportamenti attuali Il condizionamento classico nel bambino Quando un bambino associa ripetutamente l’addormentamento con la suzione al seno o al biberon, o l’essere cullato o accarezzato, diventa dipendenti da queste stimolazioni consolatorie e non è capace di addormentarsi senza una di queste. Quando vanno a letto o si svegliano di notte, devono succhiare o venire cullati o accarezzati per riaddormentarsi di nuovo. Anche i genitori imparano che queste strategie sono associate all’addormentamento e quindi continuano a utilizzarle ben dopo l’età in cui sono previste. Il condizionamento classico nei genitori I genitori che sono molto ansiosi con i propri figli possono stabilire pattern di consolazione strettamente dipendenti dalla loro presenza. Queste madri tengono spesso in braccio il proprio bambino tutto il giorno, hanno difficoltà nell’incoraggiarlo a dormire da solo e hanno problemi a sospendere l’allattamento al seno a meno che non sia il bambino a decidere di smettere. Associare l’addormentamento del bambino o il fatto che questo si calmi con l’utilizzo di determinati comportamenti può creare un paradigma di apprendimento molto potente che i genitori fanno difficoltà a cambiare. I genitori ansiosi rispondono molto rapidamente al pianto del proprio bambino e spesso interferiscono o impediscono al bambino di imparare ad auto-consolarsi (Burnham et al., 2002). Il condizionamento operante nel bambino I bambini imparano rapidamente che il genitore arriverà e li consolerà, li farà magiare, li porterà nel proprio letto o li farà stare svegli se continuano a piangere. Il rifiuto di andare a letto o di dormire viene rinforzato dalle risposte dei genitori. L’attenzione dei genitori, le coccole, le bevande, un maggiore tempo per giocare o guardare la televisione sono tutti rinforzi positivi per i bambini. Si possono utilizzare programmi di rinforzo intermittente dal momento che questi bambini persevereranno nel proprio comportamento disfunzionale perché i genitori tendono ad arrendersi a volte sì e a volte no. Routine caotiche o non esistenti al momento di andare a letto e una gestione incoerente del bambino nel corso della notte, rinforzeranno a intermittenza i tentativi del bambino di fare a modo proprio, di rimanere alzato fino a tardi o di dormire con i propri genitori. 201 Jo Douglas Il condizionamento operante nei genitori I genitori spesso si sentono molto ansiosi e stressati quando il bambino piange e quindi apprendono presto tutti i comportamenti che fanno cessare il pianto. Alcuni, cosa interessante, possono sviluppare comportamenti idiosincratici. I genitori apprendono che alcuni modi di mettere il proprio bambino a letto hanno funzionato in passato e quindi, a volte, continuano a provare con quattro o cinque tentativi per individuare ciò che funzionerà di nuovo. Per un genitore è un rinforzo molto forte vedere il proprio bambino che si addormenta con calma, quindi spesso si instaura un pattern di apprendimento per prove ed errori. La teoria dell’apprendimento cognitivo può aiutarci a comprendere i pensieri distorti dei genitori che rinforzano il comportamento problematico I genitori cercano di capire le ragioni per cui il proprio bambino piange di notte e fanno molte supposizioni, alcune delle quali sono inadeguate e altre che sono collegate più allo stato emotivo del genitore o alla sua autostima che all’osservazione accurata del comportamento del bambino. Fraintendimento del comportamento del bambino Il pianto dei bambini può evocare uno stress intenso in alcuni genitori il cui stato emotivo potrebbe portarli a interpretare il pianto come una forma di attacco personale verso di loro e quindi ad arrabbiarsi; o potrebbero pensare che il bambino sta sperimentando un’angoscia molto forte e non riconoscono che il pianto è un mezzo per ottenere ciò che desidera. Questo fraintendimento delle ragioni del pianto rinforza l’ansia o la depressione ed essi spesso reagiscono in modi che contribuiscono a perpetuare il ciclo. Pensieri e convinzioni irrazionali o distorte Questi pensieri potrebbero portare i genitori a credere che i propri figli non sono in grado di passare la notte senza mangiare, o che il bambino si sentirà rifiutato o abbandonato se dorme nel proprio letto (Wolfson, 1998). Alcune madri credono di dover essere sempre disponibili per il proprio bambino 24 ore su 24 e quindi non sono in grado di creare uno spazio personale per se stesse. Alcuni genitori ritengono di non dover dire “no” al proprio bambino e che il bambino arriverà da sé alla decisione migliore. I genitori potrebbero avere aspettative inadeguate su quanto dovrebbe dormire un bambino. 202 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli Quando i genitori non prendono decisioni ferme sui pattern di addormentamento del proprio bambino Non essere capaci di prendere decisioni sui pattern di sonno del bambino è un’eventualità che può verificarsi quando un bambino è stato malato o il genitore è stato minato nella propria fiducia da un altro membro della famiglia o da informazioni di altri ritenute “autorevoli”. Il padre potrebbe volere che il bambino stia calmo di notte perché egli lavora. I nonni potrebbero criticare il comportamento della madre e i giornali, le riviste e i libri hanno tutti informazioni differenti da dare. I pensieri distorti dei genitori e la loro ansia L’ansia potrebbe essere stata causata da preoccupazioni sulla malattia o su un disturbo – per es. i genitori credono che i bambini asmatici, i bambini con handicap fisico o quelli con problemi di cuore non dovrebbero agitarsi. Un senso di colpa o una compassione esagerata potrebbero portare all’iperprotezione e all’iperresponsività. Ci sono percentuali molto più alte di problemi del sonno in questi gruppi di bambini e una componente del problema è sicuramente l’ansia dei genitori, che influenza negativamente la gestione del bambino nella notte (Clements et al., 1986). Bassa autostima dei genitori Una depressione dei genitori potrebbe essere stata causata da una bassa autostima in seguito alle proprie esperienze precoci nell’infanzia o alla rottura di relazioni adulte. Un disturbo dell’umore può rendere alcuni genitori incapaci di fronteggiare le richieste notturne dei propri figli. Un pattern caotico di risposta, in cui non vengono definiti confini chiari e in cui i segnali dati sono non sono precisi, può confondere il bambino. I genitori potrebbero avere scoppi di ira incontrollati o arrendersi senza previsione. L’esasperazione e la mancanza di routine porta a un ciclo di comportamenti irritabili di richiesta da parte del bambino, che si associano a risposte incostanti o passive dei genitori (Wolfson et al., 1992). L’intervento La combinazione di approcci cognitivi e comportamentali aiuta i genitori a prendere decisioni chiare su come gestire meglio il problema del sonno. Molti professionisti della salute trovano che la semplice formazione dei genitori non funziona fino a che questi non lavorano sui propri sentimenti e non si impegnano esplicitamente con il clinico sugli obiettivi da raggiungere. 203 Jo Douglas L’approccio cognitivo comportamentale al trattamento Correggere gli errori cognitivi e i pensieri distorti relativi al pianto del bambino Alcuni genitori hanno bisogno di aiuto per riconoscere che il pianto del proprio bambino spesso non è dovuto ad angoscia ma al desiderio di compagnia e a ottenere ciò che desidera. Un’occasione in cui discutere i bisogni di tutti i membri della famiglia può aiutare i genitori a riconoscere che anche loro, per fornire una cura continuativa e attenzione ai propri figli durante il giorno, hanno bisogno di sonno e di pace. Elencare il numero di scuse che un bambino può avere per chiamare i genitori nella propria stanza può spesso aiutare i genitori a riconoscere il lato ironico di ciò che succede. È un’aspettativa ragionevole stabilire dei limiti e insegnare al bambino che ci sono dei confini rispetto alle richieste notturne, una volta che i genitori sono stanchi. I genitori possono essere aiutati a comprendere questo in relazione ad altri limiti che hanno già stabilito – per es. indossare la cintura di sicurezza o non mangiare tre barrette di cioccolata prima dei pasti. Permettere loro di essere più fermi di notte sui pattern di sonno spesso gli fornirà la sicurezza per modificare il modo di gestire il problema e questo può avere un effetto positivo anche sul comportamento che il bambino ha di giorno (Minde et al., 1994). Burnham et al. (2002) hanno riscontrato che i figli di genitori che aspettavano di più prima di rispondere ai risvegli dei propri figli a 3 mesi di vita avevano maggiori probabilità di incoraggiare comportamenti di auto-consolazione in bambini di 12 mesi. Essere capaci di aspettare e di vedere se il bambino riesce a calmarsi da solo richiede una sicurezza e una calma derivanti dalla convinzione che non ci sia alcun problema. Correggere le convinzioni irrazionali e le ansie dei genitori Alcune madri hanno bisogno di aiuto per riconoscere che i propri figli non hanno bisogno di alimentarsi di notte, una volta che assunto pasti regolari nel corso della giornata. Nutrire continuamente i bambini di notte al seno o con il biberon non è necessario ai fini del nutrimento, ma è di solito un’abitudine consolatoria che aiuta il bambino a dormire. Le attività di nutrizione e del sonno si sono confuse e il genitore deve capire che il bambino può imparare ad addormentarsi senza succhiare. Se i genitori sono preoccupati del fatto che il bambino abbia bisogno di bere, allora possono essere incoraggiati a lasciare fuori un biberon o un bicchierino che il bambino riesce a raggiungere. Una volta che si sono resi conto che il loro bambino non accetterà l’acqua, comprenderanno che in realtà non ha sete. Si utilizzano dunque delle strategie comportamentali per aiutare i genitori a decidere se vogliono utilizzare un approccio che prevede l’estinzione del comportamento oppure un approccio più graduale alla gestione della richiesta di bere di notte. I genitori molto ansiosi, sempre preoccupati e iperprotettivi, potrebbero nutrire paure notturne irrazionali sul proprio bambino– per es. che il bambino si senta rifiutato, paura di una morte in culla e preoccupazioni sul controllo della temperatura. Una ferma rassicurazione e l’opportunità di esprimere le 204 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli proprie preoccupazioni, e così rendersi conto che sono irrazionali, possono aiutare i genitori a sentirsi più sicuri e più decisi. Accrescere la sicurezza decisionale dei genitori in relazione al sonno del proprio bambino Includere entrambi i genitori nella consulenza può spesso accrescere l’accordo e la decisione sul trattamento. Prendere seriamente il problema e coinvolgere entrambi nella discussione può accrescere il livello di supporto che si forniscono l’uno con l’altro e ne aumenta la sicurezza. Questo evita scissioni o che venga minata l’autorità del genitore e permette loro di essere più fermi nelle proprie decisioni. Stabilire delle sedute di follow-up per i genitori, in cui essi possano riferire i propri progressi, è importante per mantenere alte la motivazione e la compliance al piano di trattamento. I genitori riferiscono che sapendo che esistono diversi modi di gestire qualunque difficoltà relativa al sonno li aiuta a capire che se non riescono ad avere successo con un approccio, ne possono provare un altro. Una valutazione realistica della velocità e del successo di differenti approcci è necessaria per aiutare i genitori a prendere la decisione migliore su quale utilizzare. Il trattamento dovrebbe essere una partnership sul migliore intervento per quel particolare genitore, considerando lo stato emotivo e ogni limitazione, sulla base delle caratteristiche del bambino o dell’ambiente. È necessario affrontare praticamente le preoccupazioni sul pianto notturno del bambino e sull’effetto che questo pianto avrà sui fratelli/sorelle o sui vicini di casa. Nell’applicazione di un programma di estinzione, mandare i fratellini da un parente per il fine settimana e avvisare i vicini di casa che potrebbero esserci un paio di notti di pianto, può essere una cornice per un cambiamento rapido. Aiutare i genitori a risolvere questioni pratiche aumenterà la loro sicurezza nel mettere in atto il cambiamento. Migliorare lo stato emotivo dei genitori I genitori dovrebbero prendere coscienza del modo in cui il loro stato emotivo influenza come reagiscono al proprio bambino. Finalizzati alla gestione dei pattern di addormentamento e sonno, si possono insegnare l’autoregolazione, il contenimento della rabbia, la coerenza della risposta e la fermezza della decisione. Riconoscere in che modo l’esasperazione, dovuta alla mancanza di sonno, possa esacerbare le reazioni emotive volubili dei genitori, li può aiutare a comprendere quanto sia importante risolvere questo problema. Imparare a restare calmi e a ignorare le richieste del bambino senza avere scatti d’ira è una competenza importante. Comprendere che arrendersi alla decima richiesta del bambino, o dopo un’ora, rende il problema ancora peggiore e insegna al bambino a insistere ancora di più, è una lezione dura da imparare. Minde et al. (1993) hanno riscontrato che la metà del campione di cattivi dormitori aveva madri ansiose e depresse. Queste madri erano straordinariamente sensibili a ogni minimo segnale del proprio bambino e lo portavano in giro in braccio fino a che non si addormentava; con 205 Jo Douglas l’effetto di impedire ai bambini di imparare come addormentarsi da soli e come calmarsi da soli, quando si svegliavano nel corso della notte. Le madri stavano cercando di proteggere i propri bambini da qualunque possibile stress nella vita. Altri risultati a supporto di questo si possono trovare in Benoit et al. (1992), che indicano come una relazione di attaccamento sicuro fra la madre e il bambino era collegata a migliori pattern di sonno nei bambini. Le madri con attaccamento sicuro lasciavano maggiormente che i propri bambini fronteggiassero da soli gli eventi e i bambini non avevano paura di essere abbandonati. I diari del sonno non sono soltanto una registrazione dei pattern di sonno del bambino, ma anche delle reazioni dei genitori ai risvegli del bambino e possono favorire l’aderenza al piano di trattamento (Douglas e Richman, 1984). Anche le star charts sono un modo per mostrare ai genitori come sono riusciti a cambiare e sono un riflesso delle loro buone capacità di gestione. Comunicare ai genitori un senso di esito positivo e attribuire a loro il cambiamento ne rinforza l’autostima e lo stato emotivo. La teoria dell’apprendimento comportamentale fornisce una serie di strategie per la gestione delle difficoltà del sonno dei bambini (Douglas, 2002b) Minde et al. (1993) hanno verificato che tutti i bambini piccoli si svegliano nel corso della notte, ma quelli definiti “cattivi dormitori” fanno difficoltà a calmarsi senza la presenza dei genitori e quindi li svegliano. Il compito del trattamento, quindi, è quello di insegnare ai bambini come riuscire ad addormentarsi da soli quando è ora di andare a letto e dopo i risvegli notturni, in modo da non disturbare i genitori. Estinzione La rimozione delle conseguenze positive delle richieste notturne del bambino o di quelle al momento di andare a letto, può rapidamente estinguere il pianto del bambino. Nella maggior parte dei casi, il bambino riceve un rinforzo dalla presenza e dall’attenzione dei genitori (Wolfson, 1998). Le coccole, le bevande, l’andare nel lettone dei genitori, stare alzati di più, giocare o ottenere che il genitore si metta nel letto insieme a loro, sono tutti eventi altamente rinforzanti per la maggioranza dei bambini. I genitori quindi devono capire che proprio il loro comportamento potrebbe far persistere i risvegli del bambino. Quando i genitori iniziano a non rispondere ai risvegli del bambino, è possibile che si verifichi un peggioramento temporaneo nel comportamento del bambino, fino a che non vengono appresi i nuovi pattern. Dovrà insistere di più prima che il genitore gli risponda. Anche i genitori devono imparare che se si arrendono alle richieste del bambino, questo capirà in fretta ciò che funziona e ciò che no, e ripeterà lo stesso comportamento (Douglas e Richman, 1984). Un simile approccio viene spesso indicato con l’espressione “lasciarlo piangere”. Funziona rapidamente in 3 o 4 notti se i genitori sono coerenti. Se i genitori sono molto ansiosi o trovano molte difficoltà ad ascoltare il proprio bambino che piange senza andare da lui, allora questa non è una 206 Approcci comportamentali ai disturbi dell’alimentazione e del sonno nei bambini piccoli strategia adeguata. Molti genitori considerano la brevità del tempo necessario al cambiamento un fattore altamente motivante. La caratteristica più importante di questo approccio è che i genitori permettano ai bambini di addormentarsi da soli dopo che hanno pianto e che non si arrendano. L’estinzione può essere utilizzata per eliminare la richiesta notturna del biberon, del seno o di pupazzi, se questi sono diventati un problema e se il bambino deve succhiare prima di riuscire ad addormentarsi. Impareranno rapidamente a dormire senza questo conforto se non gli viene più dato. Shaping Alcuni genitori preferiscono utilizzare una strategia che insegna il comportamento desiderato attraverso una serie di stadi per evitare il pianto. Possono utilizzare la propria presenza come rinforzo, mentre il bambino si addormenta, e ridurre gradualmente il contatto fisico, comunicando al bambino che può addormentarsi senza un contatto elevato. Il numero di fasi progressive di separazione si può adattare ai casi individuali, ma lo scopo è quello di ridurre il contatto fisico e la prossimità, in modo che il bambino impari ad addormentarsi da solo. Similmente, si può insegnare a un bambino che di solito va a letto tardi ad anticipare gli orari spostando la routine dell’addormentamento un pò prima sera dopo sera. All’inizio, però, il bambino deve imparare che la routine finisce con l’andare a letto e dormire anche se questo si verifica alle 10. Rinforzo È utile fornire incentivi al bambino per assecondare una nuova routine. Le star charts possono essere utilizzate con successo con i bambini al di sopra dei 3 anni. Queste sono particolarmente utili quando si cerca di far smettere che il bambino vada nel letto dei genitori di notte. Incentivi alla cooperazione, se paragonati con un programma di estinzione, possono avere molto successo. I bambini si sentono felici anche se non dormono con i propri genitori. Caso esemplificativo David, un bambino di 2 anni e ½, aveva gravi difficoltà nel sonno e la madre aveva cercato una soluzione andando in trattamento da numerosi professionisti. Il bambino era sotto sedativi che però non davano risultati affidabili. Da sempre si svegliava quasi tutte le notti e, di recente, da quando era stato tolto dalla culla, aveva iniziato a uscire dal letto, girando per la casa e andando nel letto della mamma o della tata, e gli serviva comunque un pò di tempo per riaddormentarsi. Era stato adottato all’età di 3 mesi dopo essere stato in una casa famiglia. Era il mediano di tre maschietti, ma i fratelli non erano stati adottati. Aveva una buona routine di addormentamento e si addormentava da solo alle 7.30 di sera. Era un bambino molto ostinato, molto attivo e impegnativo nel corso del giorno. La madre ammetteva 207 Jo Douglas di aver avuto alcune difficoltà nel gestire il suo comportamento di giorno, così come quello del fratello più grande. I fratelli litigavano e lottavano e questa spirale negativa spesso faceva arrabbiare la madre. La tata era molto indulgente e aveva con lui una relazione molto stretta. La madre era esausta e i risvegli di David la stavano logorando Aveva precedentemente provato a riportarlo a letto e a sedersi vicino a lui finché non si riaddormentava, ma ci volevano almeno 2 ore e lei non ce la faceva a stare lì per così tanto tempo. Era anche preoccupata di lasciarlo piangere perché sarebbe sceso dal letto e se ne sarebbe andato in giro. Una volta, quando era più piccolo aveva pianto per 3 ore nella culla. La mamma non era sicura di come gestirlo e si chiedeva se fosse dovuto al fatto di averlo adottato. Venne interrotta la somministrazione regolare di sedativi, dal momento che chiaramente ormai non gli facevano più effetto e che si era assuefatto. È stato concordato un piano d’azione fra la madre e la tata ed entrambe hanno deciso di non farlo entrare nei loro letti, ma di riportarlo indietro nel suo. La madre era preoccupata della sicurezza quando girava per la casa senza assistenza, dal momento che poteva salire su una cancelletto a gradini attraverso la sua porta. Poteva anche aprire una porta chiusa, così decise di chiudere la porta se fosse uscito. Se fosse rimasto nella stanza, non l’avrebbe chiusa. Era molto preoccupata dall’idea di chiudere la porta, ma aveva capito che si trattava solo di una sua opinione. Era necessario un apprendimento rapido e le anticipammo che la porta avrebbe dovuto essere chiusa solo per poche volte, fino all’apprendimento del nuovo pattern. Nel corso della prima settimana era stato riportato nella sua stanza e chiuso quattro volte nel corso della notte, ma nel mese successivo era stato chiuso solo quattro volte. Aveva imparato più rapidamente di quello che la madre si sarebbe aspettata e anche se piangeva fino a 1 ora e ½ le prime notti, aveva imparato subito a calmarsi. Mano a amano che la madre prendeva confidenza nel gestirlo la notte, era in grado di essere più chiara nella fissazione di limiti nel corso della giornata e il suo comportamento aveva iniziato complessivamente a migliorare. Ella non sentiva più che il bambino aveva qualcosa di diverso. Bibliografia Barrett, P. M. (2000). Treatment of childhood anxiety: developmental aspects. Clinical Psychology Review, 20, 479-94. Batchelor, J. A. (1999). Failure to Thrive in Young Children. London: The Children’s Society. Benoit, D., Zeanah, C., Boucher, C. and Minde, K. (1992). Sleep disorders in early childhood: association with insecure maternal attachment. Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 31, 86-93. Bugental, D. B. and Johnston, C. (2000). Prenatal and child cognition in the context of the family. 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CAPITOLO 13 I disturbi della condotta nei bambini piccoli Veira Bailey Maudsley Hospital, Londra, Regno Unito Disturbo della condotta è un’espressione utilizzata per descrivere una serie di comportamenti, fra cui una forte tendenza alla rissa o al bullismo; atteggiamenti di crudeltà verso gli animali o altre persone; gravi atti di vandalismo verso la proprietà; piromania, furto e menzogne ripetute; frequenti e gravi scoppi d’ira; comportamenti provocatori e ribelli uniti a grave e persistente disobbedienza; marinare la scuola e fughe da casa. Come il bambino cresce, questi problemi non solo aumentano ma la risposta al trattamento diminuisce (Olweus, 1979; Patterson, 1982). Studi longitudinali indicano che il disturbo della condotta è relativamente stabile nel tempo ed è predittore dello sviluppo di una personalità antisociale in età adulta: ci sono percentuali maggiori di delinquenza e di disturbo antisociale di personalità (Farrington, 1995). Studi di follow-up indicano maggiori percentuali non solo di alcolismo, abuso di sostanze, malattia fisica, suicidio e morte accidentale ma anche di varie disfunzioni sociali, fra cui scarsi risultati lavorativi e difficoltà relazionali, anche coniugali (Robins e Rutter, 1990). La predittività per il comportamento antisociale era maggiore negli uomini. Per le ragazze, il disturbo della condotta nell’infanzia era predittore di disturbi depressivi e ansiosi più che di comportamento antisociale e di abuso di sostanze (Robins e Price, 1991). In aggiunta ai comportamenti antisociali, potrebbe esserci una comorbidità con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, che si accompagna spesso a deficit cognitivi e insuccesso formativo (Moffitt, 1990a, b; Moffitt e Henry, 1991; Farrington, 1995). Questa comorbidità si associa a esiti particolarmente negativi (Sturge, 1982; Taylor et al., 1996). I bambini più piccoli hanno maggiori probabilità di mostrare segnali di un disturbo oppositivo provocatorio, che nell’ICD-10 (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1996) è considerato un sottotipo del disturbo della condotta, con comportamenti marcatamente provocatori, disobbedienti e disfunzionali che però non includono atti delinquenziali o forme più estreme di comportamenti aggressivi o antisociali. Nel 211 Veira Bailey Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali – IV (DSM-IV) (Associazione Americana di Psichiatria, 1994), il disturbo oppositivo provocatorio è considerato una condizione patologica a sé stante, probabile precursore evolutivo del disturbo della condotta. Il comportamento antisociale nei bambini piccoli è di solito presente già all’età di 3 anni e, di frequente, permane nel corso della vita. È associato a iperattività, impulsività, irritabilità, basso QI ed è, per una buona parte, ereditario. Questo tipo di comportamento antisociale viene definito “a insorgenza precoce – persistente per tutto il corso della vita” e viene differenziato dal un tipo “adolescenziale”, in cui il comportamento antisociale generalmente si verifica in seguito all’affiliazione con coetanei devianti e non dura fino all’età adulta (Moffitt, 1993). I bambini disfunzionali e antisociali spesso non sono graditi agli altri bambini e vengono esclusi dai gruppi di ragazzi normali, si associano solo con altri bambini antisociali e diventano parte di una sottocultura deviante (Kupersmidt et al., 1990). Essi, quindi, mancano di modelli prosociali e non imparano come negoziare e adattarsi alla cultura di gruppo prevalente che adotta comportamenti prosociali. Gli atteggiamenti contrari all’autorità e l’incapacità di adattarsi alla classe causano insoddisfazione verso la scuola, crescente alienazione e disaffezione e comportamenti disfunzionali. I genitori dei bambini con disturbo della condotta mostrano di solito cattive modalità di gestione che causano e mantengono involontariamente i comportamenti aggressivi e antisociali del bambino (Patterson, 1982). Quando il genitore e il bambino utilizzano rinforzi avversivi per ottenere un comportamento, come il bambino che smette di fare i capricci o di lamentarsi solo sotto la minaccia di percosse, si verifica un’escalation ciclica di comportamenti coercitivi (Patterson, 1980). I genitori di bambini antisociali non hanno le competenze necessarie per gestire i propri figli perché non dicono loro come comportarsi; non controllano il comportamento dei propri figli per assicurarsi che sia quello desiderato e non riescono a imporre regole chiare e dirette associate a conseguenze positive e avversive (Patterson, 1982). Webster-Stratton e Spitzer (1991) hanno riscontrato che lo stile gestionale di questi genitori è più violento e critico, più permissivo, più caotico e incoerente; non in grado di controllare il comportamento dei propri figli, rinforzando così gli atteggiamenti non appropriati. I comportamenti prosociali vengono di solito ignorati o puniti. Questi atteggiamenti dei genitori sono spesso indotti dalle caratteristiche temperamentali dei bambini. I bambini con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività sono difficili da crescere. Possono indurre una genitorialità più negativa, controllante e coercitiva e sono vulnerabili a una eventuale comorbidità con il disturbo della condotta. Si è riscontrato che i bambini più piccoli affetti da DDAI, che hanno genitori meno critici, a 17 anni presentano una percentuale minore di disturbi della condotta rispetto a quelli con genitori fortemente critici (Taylor et al., 1996). Altri fattori associati con lo sviluppo di un disturbo della condotta sono il deficit della lettura, un basso QI, una scarsa performance accademica, l’affiliazione con coetanei devianti, la conflittualità genitoriale, fattori di rischio propri del territorio e l’abuso infantile. L’atteggiamento dei genitori sembra essere il fattore di maggiore influenza sul comportamento dei bambini (Burke et al., 2002). 212 I disturbi della condotta nei bambini piccoli Perché utilizzare una terapia cognitivo comportamentale I bambini con disturbo della condotta presentano una serie di deficit e distorsioni cognitive (Crick e Dodge, 1994). Ricordano un numero maggiore di input ostili nelle situazioni sociali, fanno attenzione a pochi stimoli quando devono interpretare il significato del comportamento altrui e, in situazioni ambigue, attribuiscono agli altri intenzioni ostili (Dodge e Newman, 1981; Dodge, 1986; Dodge et al., 1990). Quando sono in conflitto, i bambini con disturbo della condotta sottostimano il proprio livello di aggressività e di responsabilità nel dare inizio a uno scontro (Lochman, 1987). In situazioni di problem-solving interpersonale, i bambini con disturbo della condotta generano un numero minore di soluzioni verbali assertive e molte più soluzioni orientate all’azione e aggressive (Dodge e Newman, 1981). Quando sono preoccupati, o in situazioni che potrebbero generare ansia, mostrano pattern anomali di identificazione delle emozioni e hanno più difficoltà ad anticipare sentimenti di paura e tristezza. Quando sono molto eccitati, confondono questa sensazione con la rabbia e, come risultato, danno risposte maggiormente orientate all’azione. Tuttavia, quando vengono incoraggiati a utilizzare risposte volontarie al posto di quelle automatiche, mostrano maggiori soluzioni competenti e assertive (Lochman et al., 1991). I bambini con disturbo della condotta/disturbo oppositivo provocatorio, da soli o in comorbidità, selezionano le più frequentemente risposte aggressive rispetto ai bambini affetti solo da DDAI (Matthys et al., 1999). I bambini con disturbo della condotta sembrano avere una visione positiva dell’aggressività e del suo utilizzo nella risoluzione di problematiche sociali; si aspettano che le proprie azioni aggressive riducano le conseguenze negative, credono che il comportamento aggressivo possa accrescere l’autostima e considerano il potere e la vendetta sociale più importanti dell’affiliazione (Slaby e Guerra, 1988). I deficit cognitivi dei bambini con disturbo della condotta possono essere affrontati con percorsi di educazione emotiva, di autorinforzo, di addestramento ad assumere la prospettiva dell’altro e di problem-solving sociale. Queste sono componenti della maggior parte dei training sulle competenze di problem-solving e hanno lo scopo di insegnare ai bambini come utilizzare il problem-solving interpersonale secondo un approccio step-by-step (Kazdin et al., 1987) Anche i pensieri distorti possono essere trattati in concomitanza attraverso il training nella competenze di problem-solving, attraverso un costante riferimento a concetti di veridicità, sicurezza e a ciò che le persona sente. In questo capitolo, descriviamo un approccio cognitivo comportamentale al disturbo della condotta per bambini fra i 6 e gli 11 anni. Il trattamento di questi problemi in adolescenza è discussa da Lochman et al. nel Capitolo 25. 213 Veira Bailey Il processo diagnostico Il processo diagnostico dovrebbe essere ampio e non dovrebbe includere solamente la diagnosi del disturbo, ma anche una valutazione della competenza genitoriale. Bisognerebbe prendere in considerazione l’eventualità di un abuso infantile, di una malattia mentale nei genitori e la presenza o l’assenza di sistemi di supporto all’interno del territorio. Si deve anche analizzare il funzionamento sociale del bambino a scuola, con gli adulti e con i coetanei, e la natura e il grado delle sue difficoltà scolastiche. Si dovrebbe condurre una misurazione psicometrica di eventuali deficit cognitivi. È importante individuare eventuali comorbidità con il disturbo ipercinetico; che spesso presenta un quadro dominante caratterizzato da gravi sintomi antisociali, associati a competenze genitoriali palesemente scarse e a un possibile abuso. Questa situazione potrebbe essere un classico tranello diagnostico, dal momento che il disturbo ipercinetico, se non trattato, è associato a un elevato rischio di comportamenti antisociali persistenti (Moffitt, 1990a, b). Gli approcci cognitivo comportamentali al disturbo ipercinetico vengono descritti nel Capitolo 14. Un’altra difficoltà diagnostica è costituita da un bambino che è già coinvolto in un lavoro con un clinico esperto e che, anche se asintomatico al momento dell’intervista, è impulsivo e distraibile in altre situazioni. L’utilizzo di questionari standardizzati (Conners, 1969; Behar e Springfield, 1974; Routh, 1978; Barkley, 1990; Goodman, 1997; Goodman et al., 1998) potrebbe essere d’aiuto nella diagnosi. Un problema differente si verifica si è in presenza di una diagnosi corretta di disturbo ipercinetico – caratterizzato da disattenzione, iperattività e impulsività – ma poiché non è stata condotta una valutazione approfondita, non ci si accorge della presenza di un disturbo della condotta. Si dovrebbe considerare anche la presenza di sintomi depressivi o ansiosi. Il comportamento presuntuoso e antiautoritario di molti bambini con disturbo della condotta potrebbe mascherare la presenza di problemi emotivi. Questo atteggiamento si verifica anche con bambini che hanno un QI al di sotto della media. In questo caso la non collaborazione nei test potrebbe essere erroneamente attribuita a un disturbo della condotta poiché i deficit cognitivi diventano evidenti solo quando vengono fuori gravi difficoltà nel problem-solving. La mancanza di competenze sociali potrebbe essere collegata non solo a scarse competenze genitoriali ma anche a un intrinseco deficit nell’empatia. In alcuni casi potrebbe rendersi necessaria una valutazione del contesto sociale, non solo per verificare la presenza di eventuali rischi per la sicurezza del bambino, ma anche per valutare la necessità di concedere aiuti sul piano finanziario e per la casa. Interventi: considerazioni generali Dati i molteplici fattori di rischio che influenzano lo sviluppo di un disturbo della condotta, il trattamento ha maggiori probabilità di successo se questi vengono tutti affrontati singolarmente. L’applicazione di un intervento multimodale richiede, per 214 I disturbi della condotta nei bambini piccoli evitare conflitti e confusioni, una coordinazione molto attenta dei vari elementi implicati e una regolare rapporto di consulenza con altre agenzie, fra cui la scuola e i servizi sociali. Occasionalmente, i bambini potrebbero necessitare di un ricovero in unità di cura territoriali o in reparti specializzati. Il numero di studi sufficientemente controllati che confrontano fra loro queste due modalità è piuttosto limitato. Uno di questi confronti, per quanto viziato, ha mostrato che la collocazione in un’unità territoriale dava risultati quantomeno uguali a quelli dell’unità di ricovero (Wimsberg et al., 1980). Ci sono prove sostanziali a favore dell’efficacia di un trattamento multisistemico con gli adolescenti. Tuttavia, l’efficacia dell’intervento in bambini fra i 6 e 12 anni non è stata ancora testata con rigore (Farmer et al., 2002). In questo gruppo più giovane, il training gestionale per i genitori è essenziale per modificare l’effetto molto potente del modelling che avviene a casa e del rinforzo dei comportamenti antisociali che altrimenti avrebbero ottime probabilità di persistere. Per aiutare i genitori con pensieri disfunzionali o pensieri automatici negativi, come “Non posso lasciargli avere l’ultima parola” o “il medico pietoso fa la piaga purulenta”, che interferiscono con l’efficacia della propria genitorialità, si può includere una componente cognitiva. Training gestionale per i genitori Le basi teoriche e pratiche di questo lavoro sono state sviluppate da Patterson, Reid e colleghi presso l’Oregon Social Learning Center (OSLC). Essi parlano di una escalation ciclica di interazioni coercitive fra il genitore e il bambino – l’ipotesi coercitiva. Si ipotizza che i bambini imparino a sfuggire o a evitare le critiche dei genitori aumentando i comportamenti negativi (per es. scoppi d’ira e atteggiamenti provocatori) e questo a sua volta fa aumentare le risposte negative dei genitori (rimproveri, grida e percosse). Nel tempo, il “training coercitivo” continua e fa aumentare sempre più la frequenza e l’intensità dei comportamenti aggressivi genitore-bambino. Così, i genitori e il bambino sono intrappolati in “un ciclo di rinforzi avversivi” che effettivamente sviluppa un disturbo della condotta (Patterson, 1982). In aggiunta al rinforzo negativo, il bambino sperimenta anche un reale modello di comportamento antisociale osservando i comportamenti aggressivi dei genitori. Questi potrebbero anche rinforzare positivamente i comportamenti disfunzionali del bambino – per esempio accorgendosi di lui solo quando strilla o si comporta male e ignorandolo quando gioca con calma. Cinque sono le componenti del programma OSLC per la gestione della famiglia: 1. Si insegna ai genitori a individuare i comportamenti problematici e a tenere traccia di quando si verificano a casa – per es. registrare la compliance versus la non compliance. 2. Si insegnano ai genitori tecniche di rinforzo come gli elogi, i sistemi a punti, offerte e ricompense. 3. Quando i genitori vedono i propri bambini che si comportano in maniera non appropriata, imparano ad applicare punizioni di media severità o a privare il bam215 Veira Bailey bino di determinati privilegi per un breve tempo – per es. non si vede per 1 ora la televisione o non si utilizza la bicicletta. 4. Si insegna ai genitori a “monitorare” (o supervisionare) i bambini in tutti i momenti, anche quando sono lontani da casa. Questo vuol dire sapere dove sono i propri figli in ogni momento, cosa stanno facendo e quando saranno di ritorno a casa. 5. Infine, si insegnano ai genitori strategie di problem-solving e di negoziazione. Diventano anche sempre più responsabili della progettazione dei propri programmi. Questo programma di solito prevede 20 ore di contatto diretto con le singole famiglie e include visite a casa per migliorare la generalizzazione delle strategie apprese dai genitori. Forehand e McMahon (1981) hanno sviluppato un altro programma individuale di parent training (Helping the Non-Compliant Child) per trattare i comportamenti ribelli dei bambini piccoli fra i 3 e gli 8 anni. Questo programma prevede l’utilizzo di comandi alfa e beta. Gli autori avevano osservato che i genitori di bambini obbedienti danno un numero decisamente maggiore di comandi alfa, mentre quelli di bambini con disturbo della condotta danno molti più comandi beta. I comandi alfa sono caratterizzati da chiarezza, specificità e direttività; vengono dati uno per volta e sono seguiti da un intervallo di 5 secondi in attesa del comportamento richiesto. I comandi beta, invece, sono flussi inutili e assillanti di parole, concatenazioni verbali di istruzioni e commenti vaghi, spesso posti sotto forma di domanda e seguiti da razionalizzazione. Un esempio di comando beta è: “Quante volte ti ho detto, se non esci di lì, Tony … non so come riuscirò a non metterti le mani addosso … Tony, cosa ti ho detto … sai che ho avuto una brutta giornata, con quella lettera dai funzionari assistenziali e adesso la TV è rotta!” Si insegna ai genitori a dare comandi alfa utilizzando istruzioni chiare, specifiche e dirette e aspettando 5 secondi affinché il bambino obbedisca al comando. Il bambino inoltre viene chiamato per nome e il genitore stabilisce con lui un contatto oculare diretto. Si incoraggiano i genitori a utilizzare una voce ferma, ma non fredda, e a trattenersi dal dire ai propri bambini cosa smettere di fare. Il Parent-Child Interaction Training (PCIT) prevede due fasi di training: un’interazione diretta dal bambino in cui i genitori mettono in pratica competenze di gioco non direttivo per modificare la qualità della relazione e un’interazione diretta dal genitore che si focalizza sul miglioramento delle competenze genitoriali che imparano a dare istruzioni chiare, elogi in seguito a comportamenti appropriati e procedure di time-out per comportamenti disobbedienti. Si porta avanti il trattamento in una stanza di gioco clinica, equipaggiata con uno specchio unidirezionale e si comunicano ai genitori le strategie appropriate attraverso una “ricetrasmittente da orecchio”. Questo si chiama il Parent-Child Game. Poiché il gioco avviene in un contesto naturalistico questa procedura è massimamente utile con i bambini piccoli. Scott (2002) riassume le caratteristiche di un programma di parent training efficace per singole famiglie o gruppi. • 216 Contenuto Sequenza strutturata degli argomenti, introdotti raggruppandoli per tematiche e secondo un ordine preciso, per un periodo che va da 8 a 12 settimane. Gli argo- I disturbi della condotta nei bambini piccoli • • • • • • • • • menti possono riguardare il gioco, gli elogi, gli incentivi, la disciplina e la fissazione di limiti, la promozione di comportamenti socievoli autodeterminati dal bambino e la calma dei genitori. Riferimento costante all’esperienza dei genitori e alle loro difficoltà. Basi teoriche esplicite e fondate su ricerche empiriche. Disponibilità di un manuale dettagliato per permettere la replicabilità. Applicazione Approccio collaborativo che riconosce i sentimenti e le convinzioni dei genitori. Normalizzazione delle difficoltà e incoraggiamento dell’umorismo e del divertimento. Supporto ai genitori nel mettere in pratica i nuovi approcci durante le sedute e nei compiti a casa. Il genitore e il bambino vengono si incontrano insieme in un lavoro familiare – e i genitori soli in alcuni programmi di gruppo. Si fornisce, se necessario, un servizio di baby-parking, mensa di buona qualità e servizio trasporto. I terapeuti vengono regolarmente supervisionati per assicurare l’aderenza al trattamento e per sviluppare competenze nuove. Discussione di gruppo delle videocassette in cui si mostrano modelli di comportamento genitoriali Webster-Stratton ha sviluppato un programma di parent training per bambini piccoli con disturbo della condotta, il Group Discussion Videotape Modeling Programme (GDVM). Questo programma include componenti del Forehand, McMahon e Patterson e anche competenze comunicative e di problem-solving (D’Zurilla e Nezu, 1982; Webster-Stratton, 1982). Il programma base è costituito da 10 videocassette in cui si mostrano modelli di comportamento genitoriale. Ci sono 250 scenette della durata di circa 1-2 minuti. Il gruppo è costituito da 8-12 genitori per volta. Dopo ogni scenetta, il terapeuta conduce una discussione di gruppo sulle interazioni più importanti e incoraggia il brainstorming, il problem-solving, il role play e il ripasso. Si assegnano ai genitori dei compiti a casa per esercitare una serie di competenze, ma i bambini non sono inclusi. Si fanno grandi sforzi per utilizzare modelli di sesso, età, cultura, livello socioeconomico e temperamento diverso, al fine di accrescere la potenza del modeling, permettendo ai genitori di identificarsi con i modelli. Il programma è stato utilizzato anche dai genitori di bambini con disturbo della condotta come intervento autosomministrato: vedevano le videocassette e facevano gli esercizi senza la supervisione di un terapeuta o il supporto del gruppo. Di recente sono state aggiunte al programma altre 6 videocassette, chiamate ADVANCE, che si focalizzano su problematiche familiari, su strategie di problem-solving e su come insegnare ai bambini a risolvere e a gestire la propria rabbia con più efficacia (Web217 Veira Bailey ster-Stratton, 1994). Il training per accrescere le capacità di gestione dei genitori attraverso un lavoro su determinate problematiche come lo stress lavorativo, le discussioni familiari e le preoccupazioni personali, ha permesso che i miglioramenti comportamentali dei bambini durassero nel tempo (Dadds et al., 1987) e ha ridotto l’attrito in famiglia (Prinz e Miller, 1994). Per problemi comportamentali di media gravità, spesso è sufficiente fornire solo una brochure (Clark et al., 1976; McMahom e Forehand, 1978). I principali vantaggi di programmi di parent training di gruppo efficaci sono le basse percentuali di abbandono rispetto agli interventi individuali (10-20% versus 30%) e i costi minori (approssimativamente ¼ ) rispetto agli interventi individuali di pari efficacia. Risultati recenti sulla replicazione del Programma di Webster-Stratton in contesti clinici ordinari, utilizzando personale clinico regolare, sono particolarmente promettenti dal momento che includevano interventi in comunità socialmente deprivate (Scott et al., 2001b). Il lavoro con le singole famiglie Le tecniche di terapia familiare enfatizzano i principi generali piuttosto che la gestione degli antecedenti e delle conseguenze di specifici comportamenti target. Pongono l’enfasi sul cercare di modificare i pattern disadattivi di interazione e di comunicazione fornendo una serie di linee guida sulla gestione del bambino, sul come rafforzare i legami generazionali, sulle interazioni personali fra i membri della famiglia, sulle relazioni coniugali e sul miglioramento dell’autostima dei caregiver. I programmi comportamentali individuali per i bambini con disturbo della condotta, che utilizzano i genitori come co-terapeuti, si sono rivelati più efficaci quando si lavora specificamente sugli antecedenti e sulle conseguenze del comportamento target. Definire il modello con l’espressione ABC aiuta i genitori e il terapeuta a ricordarne gli aspetti più salienti (Herbert, 1987): A. sta per eventi Antecedenti – ciò che succede immediatamente prima del comportamento target. B. sta per il comportamento target C. sta per le Conseguenze – ciò che succede subito dopo il comportamento target. Fare attenzione agli antecedenti e alle conseguenze dei comportamenti target permette di applicare interventi per accrescere i comportamenti prosociali che hanno istruzioni più chiare e rinforzi positivi (“beccare il bambino mentre fa qualcosa di buono”) in seguito alla manifestazione di comportamenti desiderabili. Il comportamento antisociale può essere ridotto attraverso una serie di tecniche fra cui l’estinzione, l’ipercorrezione, l’allontanamento da un rinforzo positivo, l’insegnamento e il rinforzo di comportamenti prosociali incompatibili con quelli antisociali. 218 I disturbi della condotta nei bambini piccoli Tecniche cognitive e comportamentali utilizzate nel lavoro con il bambino Gli approcci di training sulle competenze sociali (vedere il Capitolo 23) sono sempre più utilizzati con bambini piccoli affetti da disturbo della condotta. All’inizio, erano state sviluppate delle procedure di condizionamento operante, che ricompensavano i comportamenti prosociali e scoraggiavano quelli antisociali. Sono state utilizzate anche strategie di modelling, in cui l’insegnamento avviene attraverso l’osservazione di adulti o bambini che mettono in atto il comportamento sociale appropriato. La procedura di coping modeling, con il terapeuta o un altro adulto che accompagna il bambino per tutta la durata del compito, anche nella gestione di eventuali ricadute e del senso di frustrazione, si è rivelato più efficace del mastery modelling in cui si mostrava semplicemente il comportamento ideale o perfetto (Meichenbaum e Goodman, 1971). È stato utilizzato anche il coaching per trasmettere i principi di comportamenti socialmente competenti, spesso attraverso l’utilizzo del role-play di situazioni problematiche, per esempio come comportarsi se si viene colpiti da un altro bambino o punititi ingiustamente da un insegnante. Un approccio utilizzato dagli Hahnemann Programmes (Spivack et al., 1976) enfatizza la presenza di deficit nel pensiero alternativo, ossia nella capacità di generare soluzioni multiple ai problemi interpersonali; nel pensiero consequenziale, la capacità di prevedere le conseguenze immediate e a lungo termine della soluzione e nel pensiero finalizzato, la capacità di pianificare una serie di azioni per conseguire l’obiettivo, programmando le modalità per superare gli ostacoli all’interno di una cornice temporale realistica. Per iniziare con il problem-solving, si utilizzano concetti verbali molto semplici– per esempio oppure e diverso per aiutare a generare alternative “Io posso colpirlo oppure possono dirgli che sono spaventato” – “colpire è diverso da dire”. Il training nel problem-solving cognitivo interpersonale enfatizza l’importanza primaria delle comunicazioni interpersonali e delle capacità di negoziazione, considerando il punto di vista dell’altra persona e raggiungendo un compromesso nelle situazioni sociali. Il training permette di sviluppare processi di pensiero: come pensare piuttosto che cosa pensare. Lo scopo della terapia per i bambini con disturbo della condotta è di porre rimedio ai deficit e alle distorsioni nel comportamento e nelle cognizioni. Sono stati sviluppati numerosi programmi e metodologie per il PSST e la maggior parte condividono numerosi elementi. L’educazione emotiva permette al bambino di identificare e dare un nome alle differenti emozioni e alle situazioni in cui queste si verificano. Il terapeuta potrebbe fungere da modello per l’espressione di sentimenti e per la manifestazione di empatia con gli altri utilizzando anche immagini e giochi per aumentare il repertorio di emozioni analizzate. L’automonitoraggio del comportamento e dei sentimenti di cui si può valutare l’intensità permette ai bambini di acquisire maggiore controllo di sé e di gestire i propri comportamenti e sentimenti. L’autoistruzione potrebbe prevedere l’utilizzo di un approccio “Fermati! Pensa! Cosa posso fare?” per inibire o rallentare le risposte automatiche, mentre le tecniche di autorinforzo insegnano ai bambini a utilizzare un discorso interiore positivo – per es. “Ben fatto, non ho risposto” – per aumentare 219 Veira Bailey lo sviluppo di competenze prosociali. La metodologia dell’assumere il punto di vista dell’altro in contesti sociali utilizza delle scenette o vignette, role-play che fungono da modello e feedback per aiutare i bambini a diventare consapevoli delle intenzioni degli altri nelle situazioni sociali. Gli elementi fondamentali del problem-solving sono: definire il problema; generare una serie di soluzioni alternative; valutare i pro e i contro di ciascuna soluzione; scegliere un piano per affrontare il problema, portarlo avanti e monitorarlo. Questi elementi fondamentali possono essere adattati per gruppi di età diverse. Nei bambini molto piccoli la generazione di alternative, prima di passare alla valutazione dei vantaggi e degli svantaggi di ciascuna, potrebbe risultare un compito troppo difficile e causare confusione. Per i bambini delle scuole elementari, il “Think Aloud Programme” (Camp e Bash, 1985;) utilizza un cartone che ha come protagonista Ralph, un orso, per insegnare delle procedure di autoistruzione nel problem-solving: “Qual è il problema? Cosa posso fare? Funziona? Come ho fatto?” Nella generazione di soluzioni alternative, si può utilizzare un elemento divertente per allentare la rigidità del pensiero chiedendo, per esempio, cosa potrebbe suggerire il piccolo uomo verde venuto da Marte. È anche importante ricordare che una delle alternative possibili da valutare deve essere sempre anche quella di “nessun cambiamento”. In contesti gruppali, la generazione di alternative e la valutazione delle soluzioni possono essere altamente produttive, dal momento che il modello dei coetanei (possibilmente prosociale) e le idee degli altri bambini amplieranno il repertorio dei membri del gruppo (Bailey e Vickers, 2003). I bambini con disturbo della condotta spesso hanno bisogno di aiuto per identificare i propri problemi con cura dal momento che sono particolarmente inclini ad attribuire le proprie difficoltà alle intenzioni ostili degli altri. Hanno probabilmente anche bisogno di coraggio per prendere in considerazione delle soluzioni alternative alle difficoltà interpersonali che sono assertive ma non aggressive. Si possono insegnare ai bambini delle procedure di autocontrollo come la Turtle Technique, in cui il bambino si ritira in un guscio immaginario per valutare il problema. Le strategie cognitive per il controllo dell’impulsività vengono forniti nello Stop and Think Workbook (Kendall, 1989). Si può introdurre la ristrutturazione cognitiva parallelamente al problem-solving includendo considerazioni su concetti di imparzialità, sicurezza e su come si sentirebbe l’altra persona pensando di modificare le convinzioni e gli atteggiamenti base. I terapeuti possono essere modello dell’espressione di sentimenti e di un’appropriata empatia con gli altri. Gli aspetti centrali della ristrutturazione cognitiva includono: l’identificazione del pensiero e il suo monitoraggio; il collegamento fra pensieri, sentimenti e comportamenti; mettere in discussione e modificare i pensieri distorti e disfunzionali e apprendere modi alternativi di fare fronte alle situazioni difficili. Con i bambini piccoli, per favorire l’espressione dei pensieri, si possono utilizzare delle nuvolette sopra i fumetti o dei cartoni e delle immagini, mentre con i bambini più grandi si può tenere un semplice diario o registrazione dei pensieri. È importante, a tutte le età, che il bambino comprenda che sono solo i suoi pensieri a essere messi in discussione. Non dovrebbero sentirsi “sbagliati” o né rimproveranti. Per incoraggiare la generalizzazione dei com220 I disturbi della condotta nei bambini piccoli portamenti prosociali, appresi nella terapia, a casa e a scuola, si dovrebbero stabilire degli obiettivi e utilizzare tecniche condizionamento operante. Gli obiettivi dovrebbero essere sempre specifici e raggiungibili e attentamente monitorati. L’utilizzo contingente di rinforzi sociali (per es. elogi, soprattutto l’approvazione da parte di una persona che ha valore agli occhi del bambino), attività rinforzo (piacevoli) e rinforzi concreti (ricompense) può essere adattato ai bisogno del singolo bambino. Accoppiare i rinforzi dei genitori, degli insegnanti o del terapeuta con altri rinforzi è particolarmente importante per i bambini con disturbo della condotta, dal momento che spesso hanno cattive relazioni con le figure di autorità e sono scarsamente motivati dai rinforzi degli adulti. Altre tecniche si potrebbero focalizzare in particolare sull’ansia (Garrison e Stolberg, 1983) o sulla gestione della rabbia (Lochman et al., 1987) e potrebbero utilizzare un feedback di gruppo attraverso lavagne, carte, video, role-play e discussioni di gruppo. Gli interventi che affrontano esplicitamente le competenze di gestione della rabbia, per esempio riconoscere cosa la innesca (riconoscimento degli indizi di rabbia), e in cui si provano mentalmente specifiche strategie di coping sembrano dare risultati meno positivi, sia nel caso di disturbo della condotta sia di DDAI (Hinshaw et al., 1984; Lochman e Curry, 1986). Il lavoro di gruppo con i bambini Le tecniche appena descritte possono facilmente essere adattate per essere utilizzate in un contesto di gruppo. Dovrebbero essere incorporate in una matrice di attività divertenti affinché la terapia stessa sia divertente per il bambino. Quando si lavora con i gruppi, il terapeuta dovrebbe fare attenzione alla composizione del gruppo ed essere in grado di gestire e controllare il comportamento del gruppo stesso, attraverso metodologie comportamentali, come il rinforzo positivo in seguito alla partecipazione, in modo da contenere i comportamenti disfunzionali e permettere alla terapia di andare avanti. Ci vorrebbe sempre cautela nel mettere insieme un gruppo eterogeneo di bambini con disturbi da comportamento disfunzionale. Non solo questo sarebbe un gruppo difficile da gestire ma, nei bambini più grandi, sono stati descritti effetti iatrogeni che potrebbero peggiorare il comportamento (Mulvey et al. 1993; Dishion et al., 1999). Il Dinosaur Child Training Curriculum,per i bambini fra i 4 e gli 8 anni che hanno un disturbo della condotta a insorgenza precoce, è stato sviluppato utilizzando scenette videoregistrate che rappresentano bambini che fronteggiano situazioni stressanti in una varietà di maniere (Webster-Stratton et al., 2001). Si potrebbe vederli mentre controllano la propria rabbia con la Turtle Technique o mettere in pratica il problemsolving a casa e a scuola; farsi delle amicizie; affrontare il rifiuto sociale e le prese in giro; prestare attenzione agli insegnanti; trovare alternative all’infastidire un bambino seduto vicino a loro in classe e collaborare con i membri della famiglia, con gli insegnanti e i compagni di classe. Alla “Dinosaur School si insegna ai bambini a mettersi da soli in situazioni di allontanamento da un rinforzo positivo e quale discorso interiore utilizzare in questi momenti – per es. “Posso superare tutto questo e riuscire a calmarmi”, “Posso tornare indietro e riuscire” e “Io vado bene, ho solo commesso un errore”. Il modelling 221 Veira Bailey interattivo tramite il video è basato su un modello di coping in cui i bambini vengono incoraggiati a discutere l’utilizzo di competenze sociali positive in differenti situazioni e a trovare nuove soluzioni per problemi noti, per esempio essere rimproverato da un insegnante. I bambini venivano incoraggiati a identificare i sentimenti dei bambini del video e a discuterne le possibili ragioni per accrescere le proprie capacità di empatia. Rapporti con la scuola Un rapporto con gli insegnanti favorisce la generalizzazione delle competenze apprese attraverso il rinforzo dei comportamenti prosociali e permette di modificare le convinzioni non adeguate o i comportamenti non appropriati degli insegnanti stessi. Questi potrebbero anche essere aiutati attraverso un percorso formativo sulla gestione e sulla strutturazione della classe (Wheldall e Lam, 1987), attraverso un training sulle metodologie di pensiero positivo (Wheldall e Merrett, 1991) e sul problem-solving (Kendall e Bartel, 1990). Potrebbe anche essere necessario integrare specifici adattamenti educativi per un bambino i cui risultati scolastici sono scarsi. Gli approcci che le scuole utilizzano contro il bullismo (Olweus, 1994) possono essere utili nel ridurre una cultura scolastica di comportamento antisociale. Un approccio molto promettente è lo SPOKES Intervention Programme per i bambini a rischio di esclusione sociale (S. Scott, comunicazione personale).Questo è un intervento sul territorio che costituito da due componenti: un programma generale sul sostegno alla genitorialità, basato sulla discussione gruppale di videocassette delle videocassette di modelling di Webster-Stratton, e un programma di alfabetizzazione per i bambini sotto la guida dei genitori. Questo programma combina due interventi empiricamente fondati (Sylva e Hurry, 1995; Scott et al., 2001b) e si è riscontrato che è efficace nel migliorare significativamente il comportamento sociale e la lettura dei bambini. In una scuola primaria locale, il programma non provocava stigmatizzazioni, era richiesto e discretamente frequentato e garantiva un elevato livello di soddisfazione nei genitori. Risultati Le strategie di training gestionale per i genitori sono piuttosto note per essere fra le tecniche più efficaci nel trattamento dei disturbi da comportamenti disfunzionali, dal momento che portano a miglioramenti sostanziali e clinicamente significativi per almeno due terzi dei bambini trattati (Brestan e Eyberg, 1998). Tuttavia, i miglioramenti a casa non sono necessariamente accompagnati da miglioramenti a scuola. Inoltre, alcuni genitori non vogliono partecipare a questi programmi e altri hanno difficoltà nel mettere in pratica o nel mantenere le competenze apprese. I bambini con un disturbo della condotta presentano attribuzioni più negative e ostili, deficit nelle proprie competenze sociali, abilità di problem-solving compromesse e un ridotto autocontrollo, 222 I disturbi della condotta nei bambini piccoli che contribuiscono alle difficoltà relazionali anche con i coetanei (Webster-Stratton e Hammond, 1997). Negli interventi diretti sui bambini, prove randomizzate e controllate hanno dimostrato che, soprattutto in associazione con i programmi per i genitori, gli interventi che si focalizzano sulle competenze sociali, sul problem-solving e sulle strategie di gestione del conflitto riducevano efficacemente i problemi della condotta (Kazdin et al., 1992; Kazdin, 1996, 1997; Webster-Stratton e Hammond, 1997) e promuovevano migliori relazioni con i pari (Webster-Stratton Hammond, 1997). Gli effetti persistevano in entrambi gli interventi dopo 1 anno. Sfortunatamente, i genitori che hanno difficoltà presentano anche caratteristiche che sono associate con scarsi risultati (Webster-Stratton, 1989a; Patterson, 1991). Questi fattori includono problematiche sociali multiple, difficoltà coniugali, genitori single con status socioeconomico basso e ideologia fortemente punitiva. Possono quindi essere aggiunte delle componenti per affrontare queste difficoltà, come nel caso del programma advanced di Webster-Stratton. Una relazione con i servizi sociali potrebbe essere utile quando sono presenti queste problematiche sociali multiple, utilizzando forse assistenti sociali per il supporto familiare e forme di affidamento diurno o temporaneo per ridurre lo stress; mentre la terapia di coppia per affrontare i problemi relazionali dei genitori potrebbe ridurre la conflittualità coniugale che interferisce con le capacità genitoriali. Altre componenti aggiunte con successo ai programmi per i genitori includono la terapia cognitivo comportamentale per le madri depresse (Sanders e McFarland, 2000) e tecniche di comunicazione e supporto al partner (Dadds et al., 1987). I principi comportamentali alla base del training gestionale per i genitori hanno una validità di facciata che i genitori apprezzano e che potrebbe quindi accrescere la compliance. Questi programmi sono generalmente ben accettati e hanno un’elevata consumer satisfaction (Webster-Stratton, 1989b). Tuttavia, mentre l’insegnamento di competenze genitoriali rafforza i genitori, gli pone anche delle richieste forti, con conseguenti difficoltà di coinvolgimento nella terapia e elevati tassi di drop-out (Kazdin et al., 1992). Anche se i programmi che trattano i bambini con disturbo della condotta si sviluppano regolarmente e gli elementi terapeutici vengono verificati in prove controllate e randomizzate, il problema centrale di lavorare con famiglie che sono difficili da coinvolgere resta. Nonostante sia molto efficace e gradito ai genitori, il parent training non è sempre disponibile in tutti i paesi del mondo (Hoagwood, 2001; Scott, 2002). Un’indagine sulla pratica attuale dei clinici nel Regno Unito ha trovato che il 24% non offriva alcun parent training né di gruppo né alla singola famiglia e, fra coloro che lo offrivano, il training dello staff in programmi empiricamente fondati era variabile (Richardosn e Joughin, 2002). Inoltre, sembra utile riconoscere che il disturbo della condotta è una condizione cronica e che potrebbero essere necessarie delle “sedute di ripasso”. Il costo per l’utilizzo dei servizi pubblici (incluso l’affidamento, la cura residenziale e servizi di educazione speciale) per i bambini con un disturbo della condotta è dieci volte maggiore dei bambini della popolazione generale (fino a 27 anni) (Scott et al., 2001a). 223 Veira Bailey Dal momento che l’ansia generale relativa alla delinquenza e alla violenza è elevata, è importante sottolineare il bilancio costi-benefici e i potenziali guadagni di un intervento precoce su questi bambini (Offord, 1989; Light e Bailey, 1993), come le opportunità concesse ai terapeuti di applicare interventi creativi. Bibliografia American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edn. Washington, DC: American Psychiatric Association. Bailey, V. and Vickers, B. (2003). Cognitive behavioural group work with children. In E. Garralda and C. Hyde (eds.), Managing Children with Psychiatric Problems. London: BMJ Books, pp. 79-95. Barkley, R. A. (1990). 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Quando questi problemi assumono forme estreme, compromettendo il funzionamento sociale e scolastico dei bambini coinvolti, possono essere considerate sintomi di un disturbo psichiatrico o psicologico. Ci sono attualmente due principali classificazioni di questo disturbo. La prima è quella di Disturbo Ipercinetico della Classificazione Internazionale dei Disturbi (ICD) (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1994); questa è la classificazione utilizzata nella maggior parte dei paesi europei. Sulla base di questa definizione, circa lo 1-2% dei bambini di età scolare soffre di questo disturbo (Danckaerts e Taylor, 1995). La seconda classificazione è quella di Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell’Associazione Americana di Psichiatria. Ci sono criteri meno severi per una diagnosi di DDAI e la percentuale di incidenza è fra il 3-5% dei maschi e lo 1-2% delle femmine. Ciò non di meno, il DDAI è un disturbo della salute mentale cronico e invalidante (Associazione Americana di Psichiatria, 1994). In questo capitolo, ci baseremo sulla definizione di DDAI. I bambini affetti da DDAI presentano per definizione livelli patologicamente elevati di disattenzione, impulsività e iperattività e questi bambini spesso patiscono una compromissione sostanziale del proprio funzionamento quotidiano a casa, a scuola e nei contesti relazionali. Il comportamento di bambini con DDAI è spesso caratterizzato da inadeguatezza evolutiva e segue una traiettoria di sviluppo che persiste nell’adolescenza e nell’età adulta. Il DDAI, una volta considerato un disturbo acuto, è ormai stato riformulato come disturbo cronico, che dura tutta la vita (American Academy of Pediatrics, 2001). Ciascuno dei tre fondamentali sintomi del DDAI può presentare conseguenze piuttosto pericolose e costose per questi bambini, le loro famiglie e i coetanei, così come per la società in genere, dal momento che questi bambini diven229 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker tano adolescenti e adulti. Per queste e altre ragioni, il trattamento efficace del DDAI nell’infanzia rappresenta un problema serio per i genitori, gli insegnanti, i medici e i professionisti della salute mentale. I bambini con DDAI vengono di solito identificati e inviati al trattamento dai genitori o dalla scuola. Gli insegnanti potrebbero essere i primi a riconoscere i problemi comportamentali dei bambini con DDAI, forse perché sono maggiormente in grado, rispetto ai genitori, di confrontare il comportamento di questi bambini con quello degli altri bambini normali, o perché le richieste di attenzione e di controllo degli impulsi sono maggiori in un contesto scolastico che a casa (per esempio stare seduti al banco tutto il giorno, portare a termine compiti che richiedono attenzione sostenuta). Una volta identificato a scuola, l’invio più comune è ai medici di base e poi ai professionisti della salute mentale per una diagnosi e un trattamento. Una formulazione del caso per un DDAI, non diversa da quella presentata per altri disturbi in altri capitoli di questo volume, implica un approccio integrato e uniforme alla valutazione, al trattamento e al follow-up: Con questo intendiamo: (1) selezione accurata degli strumenti di misura e diagnostici che possono individuare gli obiettivi del trattamento e essere anche misure di follow-up e (2) analisi funzionale globale nel corso della valutazione per arrivare a un piano di intervento che si focalizza sul trattamento del bambino proprio in quei contesti e in quegli ambiti in cui mostra delle compromissioni funzionali. In un’epoca in cui i professionisti sono costretti mantenere al minimo il numero delle sedute, l’importanza di snellire l’intero processo terapeutico non può essere sottostimata. Il nostro approccio minimizza il processo iniziale della diagnosi ed enfatizza invece la parte del trattamento. Secondo questa visione, è meglio che la valutazione sia condotta dai clinici che hanno l’occhio rivolto al successivo piano di intervento e che possono applicare trattamenti individuali empiricamente fondati adattandoli alle difficoltà che il singolo bambino presenta. Processo diagnostico Una valutazione appropriata di un DDAI inizia con la diagnosi, ma non finisce lì. Come può testimoniare qualunque clinico o professionista esperto, bambini con gli stessi sintomi di disattenzione, impulsività e iperattività, segnalati da insegnanti e genitori, potrebbero presentarsi completamente diversi di fronte al clinico. In parte, questo è dovuto al fatto che solo un sottoinsieme di sintomi sono necessari alla diagnosi. Questa variabilità è in parte dovuta anche alle differenti compromissioni funzionali e ai contesti in cui queste sono più salienti. Certamente, non sono di solito i sintomi indicati nel DSM-IV a spingere i genitori o gli insegnanti a richiedere un trattamento (Angold et al., 1999), ma è più spesso, la compromissione funzionale che essi sperimentano in ambito relazionale e scolastico. Tenendo questo a mente, è cruciale che il professionista valuti tutte le compromissioni che ogni singolo bambino si trova a vivere. Una diagnosi di un DDAI nell’infanzia si dovrebbe basare sulla concordanza delle indicazioni fornite dai genitori e dagli insegnanti con i criteri del Associazione Americana di Psichiatria, 1994). Sulla base del raggruppamento dei sintomi si possono 230 Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività identificare tre sottotipi: con disattenzione predominante, con iperattività-impulsività predominanti e il tipo combinato. Per soddisfare i criteri diagnostici, i bambini devono presentare questi sintomi da un’età molto precoce (ossia insorgenza prima dei 7 anni) e per almeno 6 mesi. Il bambino deve mostrare compromissioni verificabili in almeno due contesti (casa o scuola o contesti ricreativi) o essere segnalato da almeno due adulti non appartenenti allo stesso contesto (di solito l’insegnante e il genitore). L’Accademia Americana di Pediatria (2000) fornisce delle linee guida per un approccio globale alla valutazione del DDAI. Si dovrebbero raccogliere informazioni e somministrare scale di valutazione agli adulti che conoscono bene il bambino nel proprio ambiente naturale e ci si dovrebbe accertare della duplice segnalazione dei sintomi e dell’accordo su quali siano i sintomi che causano delle compromissioni importanti nella vita quotidiana a casa, a scuola e negli ambienti ricreativi. Per la diagnosi si utilizzano di solito interviste strutturate con le madri; scale di valutazione compilate da insegnanti e genitori i cui item sono spesso i sintomi del DSM e queste scale sono strumenti utili anche su un piano costi-benefici. Sfortunatamente, la compromissione non viene ben misurata dalle scale di valutazione tradizionalmente utilizzate nella valutazione della salute mentale nell’infanzia. Tuttavia, una scala di valutazione semplice e breve per genitori e insegnanti, che misuri la compromissione in diversi ambiti importanti per i bambini con DDAI (relazioni con gli adulti e i pari, funzionamento in classe e a casa e successo accademico), è stata sviluppata e validata (G. A. Fabiano e colleghi, dati non pubblicati). Le linee guida dell’Accademia Americana di Pediatria per la diagnosi sottolineano che nessun test medico (per es. esami neuropsicologici) o psicologico (per es. neuropsicologiche) è sono diagnostico per sé, anche se potrebbe essere d’aiuto nella diagnosi o nell’escludere eventuali comorbidità (come disturbi dell’apprendimento o epilessia). Le linee guida fanno inoltre notare che se un bambino con DDAI si comporta bene e non mostra sintomi durante la visita, queste informazioni non possono essere utilizzate per escludere un DDAI; tuttavia, se un bambino mostra subito compromissioni e sintomi, queste osservazioni potrebbero servire a confermare ciò che riferiscono i genitori, gli insegnanti e altri del contesto naturale in cui vive il bambino. Poiché i bambini con DDAI tendono a essere cattivi valutatori dei propri problemi comportamentali esteriorizzati, l’intervista al bambino ha una scarsa utilità nel processo diagnostico. I bambini con DDAI hanno spesso percezioni di sé non accurate, gonfiano sistematicamente il proprio valore e mostrano una mancanza di insight nei confronti delle proprie difficoltà (Hoza et al., 2002). Queste difficoltà potrebbero spiegare gli effetti limitati che le terapie cognitive hanno avuto su questi bambini, di cui si discuterà più avanti. Tuttavia, parlare con un bambino con DDAI potrebbe fare luce su l’eventuale presenza di sintomi interiorizzati o di disturbi del pensiero e l’intervista quindi potrebbe essere utile a questi scopi. Anche se far parlare e ascoltare questi bambini potrebbe non avere un gran valore diagnostico, la maggior parte dei clinici considerano utile l’intervista per osservare direttamente il bambino in un contesto clinico e l’interazione con i genitori, sperando di avere ulteriori intuizioni sulla natura e sulla gravità dei problemi. Anche se storicamente la maggior parte dei ricercatori e dei clinici della comunità psichiatrica ha fortemente enfatizzato l’importanza di una diagnosi accurata per il DDAI, sulla base del DSM, e di utilizzare i sintomi indicati come target del trattamento 231 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker e come misura dell’esito dell’intervento, oggi si è sempre più convinti che i target del trattamento debbano essere le compromissioni funzionali della vita quotidiana e non solo i sintomi (Scotti et al., 1996). Il ruolo centrale che la compromissione gioca nella diagnosi e nel trattamento del DDAI può essere confermato dal fatto che (1) è proprio la compromissione, ossia i problemi nel funzionamento quotidiano causati dai sintomi, a indurre la richiesta di trattamento (Angold et al., 1999) e che (2) la compromissione in ambiti chiave del funzionamento (per es. relazioni con i pari, competenze genitoriali, successo scolastico) – e non i sintomi in quanto tali – media gli esisti a lungo termine dei bambini che hanno disturbi da comportamento disfunzionale (Hinshaw, 1992; Chamberlain e Patterson, 1995; Coie e Dodge, 1998). Pertanto, la valutazione della compromissione nel funzionamento quotidiano diventa l’elemento più importante della valutazione iniziale e pone la basi di un trattamento efficace. Le principali ragioni dell’invio possono essere trasformate in target individualizzati efficaci e socialmente rilevanti. Così, la compromissione dovrebbe essere il focus del trattamento e della valutazione in itinere dei problemi quotidiani del bambino, per verificare se sia necessario calibrare e /o modificare il trattamento. Lo sviluppo di un piano di intervento e l’adattamento di questo all’individuo può essere possibile solo attraverso un’analisi funzionale approfondita. L’analisi funzionale si basa sul modello A-B-C – approccio che descrive la relazione funzionale fra gli antecedenti del comportamento (A; ossia, contesto, persone, ora del giorno), il comportamento stesso (B) e le conseguenze del comportamento (C; ossia quello che il bambino ottiene dal comportamento – attenzione, rimozione delle richieste) (vedere Mash e Terdal 1997, per una discussione approfondita di come condurre un’analisi funzionale nelle fasi iniziali del piano di trattamento). È importante notare che la valutazione e la formulazione del trattamento sono processi costanti, dal momento che i problemi del bambino cambiano nel tempo e richiedono un monitoraggio e una modifica costanti. Trattamento comportamentale All’interno di questo volume che fornisce una rassegna completa delle terapie cognitivo comportamentali, questo capitolo potrebbe differire significativamente dagli altri. Nello specifico, anche se la CBT si è rivelata efficace per molti altri disturbi, non si è mostrata tale per il DDAI. Anche se i sintomi principali del DDAI (disattenzione, impulsività e iperattività) potrebbero far ritenere il disturbo un buon candidato per la CBT, 15 anni di interventi cognitivo comportamentali applicati a bambini disattenti e impulsivi mostrano che questi sono piuttosto refrattari a simili interventi. Sono state applicate numerose forme di CBT ai bambini con DDAI, fra cui le auto-istruzioni verbali, le strategie di problem-solving, il modelling cognitivo, l’automonitoraggio, l’autovalutazione, l’autorinforzo e altre ancora. Una rassegna di questi studi ha consistentemente documentato la scarsa efficacia degli approcci di mediazione cognitiva nei bambini con DDAI (Abikoff, 1987; Hinshaw, 2000; Pelham, 2002). Pertanto, recenti prove cliniche per il DDAI hanno riguardato principalmente interventi comportamentali e non cognitivi (per es. MTA Cooperative Group, 1999). 232 Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività Poiché i trattamenti con mediazione cognitiva non hanno ricevuto supporto empirico (Pelham et al., 1998), quelli riassunti qui hanno per lo più uno stampo comportamentale. Tuttavia, gli approcci con mediazione cognitiva verranno discussi nel caso di esempi contraddittori. Anche se i dati disponibili non sono del tutto definitivi, sembra che la CBT, associata a interventi di condizionamento operante, possa dare risultati positivi che saranno descritti in seguito insieme ai relativi trattamenti multimodali per il DDAI. Gli interventi cognitivi sono stati originariamente sviluppati negli anni ’70 per accrescere la generalizzazione di trattamenti comportamentali molto diffusi con i bambini – soprattutto quelli con problemi di impulsività. Un trattamento globale per il DDAI Numerose rassegne recenti hanno stabilito l’efficacia delle tecniche di modificazione comportamentale a scuola e a casa nel trattamento del DDAI (Pelham et al., 1998; DuPaul e Eckert, 1997; G. A. Fabiano e W. E. Pelham, dati non pubblicati). La terapia comportamentale e il trattamento farmacologico con stimolanti sono gli unici due trattamenti empiricamente fondati per il DDAI (Accademia Americana di Pediatria, 2001). In generale, gli interventi comportamentali esaminati in questi studi generavano miglioramenti considerevoli rispetto alle condizioni di controllo. È nostra convinzione che quattro siano le componenti fondamentali di un trattamento globale del DDAI: il parent training, la consulenza agli insegnanti, l’intervento sul bambino e il trattamento farmacologico con stimolanti del sistema nervoso centrale (vedere la Tabella 14.1). Tabella 14.1 Componenti di un trattamento di modificazione comportamentale, efficace e intensivo, per il DDAI Parent training Approccio comportamentale; il terapeuta insegna ai genitori tecniche di contingency management da utilizzare con il bambino Focus su specifici comportamenti target che riflettono il grado di compromissione in ambiti multipli di funzionamento (per es. relazioni con gli adulti e i coetanei, relazioni con i fratelli, compiti a casa, funzionamento scolastico e familiare) Il modello tipico è di gruppo, con sedute settimanali all’inizio e con il terapeuta che progressivamente è sempre meno presente Si verifica regolarmente l’aderenza alle componenti del trattamento e gli obiettivi vengono continuamente ampliati, cancellati o modificati sulla base di una costante analisi funzionale del comportamento Si forniscono supporto e contatto fino a quando necessario (anni versus mesi o settimane) cont... 233 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker Esistono programmi di mantenimento o prevenzione delle ricadute (per es. sono previsti piani per la gestione delle ricadute – ossia sedute di ripasso – o problemi ciclici dei genitori – ossia sedute per la gestione dello stress). Ristabilire il contatto nel corso delle principali transizioni evolutive (per es. l’adolescenza) Intervento a scuola Approccio comportamentale; il terapeuta insegna delle tecniche di contingency management agli insegnanti e l’insegnante le applica in classe Focus su specifici comportamenti target che riflettono il grado di compromissione in ambiti multipli di funzionamento (per es. relazioni con gli adulti e i coetanei, progresso accademico, funzionamento in classe) Lavoro di consulenza con gli insegnanti – all’inizio faccia-a-faccia settimanale o sedute telefoniche, poi il contatto diminuisce Si verifica regolarmente l’aderenza alle componenti del trattamento e gli obiettivi vengono continuamente ampliati, cancellati o modificati sulla base di una costante analisi funzionale del comportamento Si fornisce sostegno scolastico per numerosi anni di scuola dopo la fine della consulenza (fino a quando necessario) Esiste un programma di mantenimento e di prevenzione delle ricadute (per es. programmi per tutta la scuola, training in servizio per tutto il personale scolastico, inclusi gli amministratori, addestramento dei genitori a lavorare con gli insegnanti per monitorare/modificare i programmi applicati in classe) Ristabilire il contatto nel corso delle principali transizioni evolutive (per es. passaggio dalla scuola primaria (elementare) a quelle secondarie (medie) (superiori)) Intervento sul bambino Approccio comportamentale ed evolutivo –lavoro diretto in contesti naturali o analoghi, non in contesti clinici Focus su specifici comportamenti target che riflettono il grado di compromissione in numerosi ambiti (per es. amicizie, interazione fra pari, relazioni con gli adulti, competenze accademiche, funzionamento familiare e scolastico) Applicato da figure paraprofessionali Se disponibile, applicare in estate trattamenti intensivi (9 ore al giorno per 8 settimane) e/o nel corso dell’anno scolastico, dopo la scuola e il sabato (di 6 ore) Si verifica regolarmente l’aderenza alle componenti del trattamenti, e gli obiettivi vengono continuamente ampliati, cancellati o modificati sulla base di una costante analisi funzionale del comportamento Si fornisce il trattamento per tutta la durata di tempo necessaria (anni versus settimane o mesi) Esiste un programma di mantenimento e di prevenzione delle ricadute (per es. integrazione con il trattamento scolastico o quello dei genitori, sedute di ripasso, lavori con gli amici) cont... 234 Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività Ristabilire il contatto nel corso delle principali transizioni evolutive (per es. passaggio dalla scuola primaria (elementare) a quelle secondarie (medie) (superiori)) Combinazione con trattamento farmacologico a base di stimolanti Utilizzato come trattamento di prima linea solo in caso di disturbi pervasivi, moderatamente o gravemente invalidanti Questa necessità si valuta dopo l’inizio del trattamento comportamentale: La decisione sul “quando” iniziare con i farmaci dipende dalla gravità e dalla responsività del bambino ai trattamenti comportamentali, dalle preferenze dei genitori e dalle risorse presenti in famiglia e a scuola Si dovrebbero condurre delle prove farmacologiche randomizzate e controllate a scuola per verificare queste necessità e stabilire quale sia la dose minima complementare all’intervento comportamentale La frequenza e la durata del trattamento farmacologico vengono determinate sulla base di una valutazione in itinere delle compromissioni del bambino in diversi ambiti, monitorando attentamente gli effetti principali e collaterali per modificare i dosaggi e giustificare la necessità effettiva del farmaco. I primi tre punti si occupano dei trattamenti di modificazione del comportamento e sono componenti necessarie di un intervento globale. Crediamo che gli interventi psicosociali per il DDAI dovrebbero sempre essere quelli di prima linea, e che, anche se altri potrebbero non essere d’accordo, il trattamento farmacologico dovrebbe essere solo aggiuntivo a quello comportamentale, quando questo da solo non è sufficiente. Quando si utilizzano trattamenti comportamentali globali, solo una minoranza di bambini con DDAI (25%) avrà bisogno di un trattamento aggiuntivo con stimolanti (MTA Cooperative Group, 1999). Questi probabilmente sono quei bambini che hanno disturbi moderatamente o gravemente invalidanti e pervasivi in contesti differenti. Gli obiettivi del trattamento comportamentale dovrebbero essere le problematiche socialmente più rilevanti del funzionamento quotidiano del bambino, con un’elevata validità di facciata. Se queste vengono modificate portano con molta probabilità a migliori esisti a lungo termine in questi ambiti: difficoltà nelle relazioni con i coetanei, funzionamento accademico e relazioni familiari. Si dovrebbero trattare tutte le compromissioni che un bambino presenta, ambito per ambito; iniziando da quelli in cui si verificano i comportamenti maggiormente problematici e, quando possibile, collegando fra loro i differenti contesti (per es. casa, scuola, attività post-scolastiche). È importante che i clinici non inizino un intervento comportamentale fino a che non hanno ricevuto indicazioni chiare di collaborazione e impegno da parte dei genitori e della scuola. A volte i genitori si aspettano di portare il bambino da uno psicologo che lo incontrerà individualmente e glielo restituirà guarito. I genitori devono prima di tutto capire che non sarà così ed essere motivati a lavorare con il terapeuta sulle difficoltà del proprio bambino, sulla base dell’approccio dell’apprendimento sociale. Per generare una situazione di prontezza al trattamento in genitori non preparati a questa eventualità e per preparare la strada all’intervento comportamentale, i clinici potrebbe235 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker ro trovare utile l’applicazione di alcune tecniche dell’intervista motivazionale (vedere il Capitolo 5). È anche importante che i genitori arrivino a rendersi conto che il DDAI è un disturbo cronico e pervasivo che dura nell’adolescenza e nell’età adulta; anche se i sintomi e il grado di compromissione potrebbero variare. Come tale, i genitori devono acquisire familiarità con il fatto che il trattamento psicosociale sarà a lungo termine e intensivo e applicato in tutti i contesti in cui vive il bambino, per tutto il tempo che sarà necessario. In un buon intervento, i clinici che hanno contatti settimanali con i genitori e con la scuola per 10-12 settimane, possono causare cambiamenti clinicamente significativi nella maggior parte dei bambini con DDAI. Si procederà al mantenimento di questi cambiamenti attraverso procedure appropriate, per fare sì che i risultati ottenuti possano permanere. Interventi comportamentali a casa I programmi comportamentali di parent-training costituiscono il primo di due classi di trattamenti consolidati per il DDAI (Pelham et al., 1998). I pacchetti di parent-training, manualizzati e ampiamente diffusi, per i bambini con DDAI includono quelli sviluppati da Barkley (1998), Webster-Stratton (2003), Hembree e McNeil (1995), Sanders et al. (1998) e Cunningham et al (1993). Tutti questi programmi, così come altri, hanno basi empiriche molto solide e vengono discussi più dettagliatamente in un’altra sede all’interno di questo volume (vedere il Capitolo 13). La Tabella 14.2 mostra una tipica sequenza campione di sedute di parent-training, tratta dal programma COPE (Community Parent Education) (Cunningham et al., 1993). Tabella 14.2 Esempio del curricolo di 10 sedute settimanali del programma di parent-training COPE 236 Seduta Contenuto 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Serata introduttiva e Introduzione al DDAI Attenzione, Ricompense, Attenzioni Bilanciate fra fratelli Ignorare i comportamenti Sistemi a punti 1 Le transizioni e spiegazioni quando-allora Pianificare in anticipo Sistemi a punti 2 (Response Cost) Allontanamento dal rinforzo positivo 1 Allontanamento dal rinforzo positivo 2 Problem-Solving e chiusura Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività I tipici programmi di parent-training vengono portati avanti per 8-16 settimane, individualmente o in gruppi, con la possibile aggiunta di successive sedute di mantenimento. In tutti questi programmi, i genitori vengono prima di tutto informati sulla natura e sulla prognosi a lungo termine del DDAI. Si spiega loro che i farmaci, anche se somministrati, nel caso di una minoranza di bambini con DDAI, dovranno essere associati agli approcci comportamentali; perché solo i cambiamenti comportamentali, causati da un nuovo stile di vita e nuove capacità di gestione dei genitori, avranno un impatto a lungo termine sulla prognosi del bambino. Di seguito si insegnano tecniche focalizzate sul modelling del comportamento del proprio bambino: ricompense ed elogi, punizioni ed essere modello di comportamenti appropriati. Si consigliano inoltre delle letture e si assegnano i compiti a casa settimanalmente, fra cui tenere traccia del comportamento dei propri bambini e applicare le nuove strategie apprese. Le tecniche vengono insegnate in sequenza, partendo da procedure semplici, come aumentare i rinforzi contingenti e comunicare meglio i comandi, fino ad arrivare a quelle più complesse che includono i sistemi a punti e le procedure di allontanamento dal rinforzo. Una versione semplificata di una delle componenti tipiche di un programma da applicare a casa – un sistema a punti o a gettoni – può essere scaricato gratuitamente dal sito http://wings.buffalo.edu/adhd. È un semplice programma autosomministrato di 20 pagine per creare un sistema a punti a casa. Il sistema a punti si chiama Home Daily Report Card ed è integrato con lo School Daily Report Card descritto in seguito. Anche se la maggioranza dei programmi si focalizza sul contingency management che i genitori possono utilizzare con i propri figli, si possono inserire moduli aggiuntivi per trattare problematiche come il disaccordo fra i genitori su come allevare il bambino, lo stress dei genitori, la depressione e il DDAI nei genitori (A. M. Chronis et al., dati non pubblicati). Il parent-training si può facilmente accoppiare ad altri trattamenti, quelli per eventuali psicopatologie dei genitori o quelli per la gestione dello stress; affrontare le difficoltà cicliche e debilitanti dei genitori potrebbe essere necessario al fine di massimizzare l’impatto del parent-training comportamentale. Anche se i programmi tradizionali di parent-training sono stati creati e generati in contesti clinici, i condizionamenti relativi al tempo e alle risorse finanziarie hanno sempre più contribuito all’applicazione di programmi di gruppo (vedere il capitolo 13). Pertanto, gli attuali programmi per genitori vengono di solito condotti in setting di gruppo con l’aggiunta di sedute individuali quando necessarie. Data la cronicità della malattia e i cambiamenti evolutivi che si verificano nel DDAI (ossia la pubertà, cambiamenti a scuola, relazioni genitore-bambino), potrebbe spesso essere utile ristabilire un contatto con la famiglia al momento delle principali transizioni evolutive – per es. in adolescenza, quando i problemi dei bambini di DDAI spesso peggiorano ed essi diventano più riluttanti ad assumere i farmaci. Questo evidenzia la necessità di una supervisione costante e controllata e di un contatto con le famiglie. La maggior parte dei programmi di parent-training presentati precedentemente utilizzano format didattici simili. Diverso è il programma COPE (Cunningham et al., 2003) che gli autori utilizzano nella propria clinica. Il programma COPE differisce da un approccio standard di parent-training in diversi puti. Prima di tutto, si applica con gruppi molto ampi di 15-30 genitori, rendendolo molto efficace su un piano di costi. Secondo, piuttosto che essere un approccio didattico, il COPE Parent Training Lea237 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker ders utilizza brevi vignette videoregistrate e l’interrogazione socratica per coinvolgere il gruppo e permettere ai partecipanti di essere i principali protagonisti di tutti i discorsi; accrescendo così l’attività e la coesione di gruppo. I genitori stessi finiscono con l’aiutarsi l’uno con l’altro per sviluppare strategie da adottare e utilizzare con i propri bambini. Abbiamo osservato che i genitori che, come gruppo, sono in grado di generare e valutare competenze genitoriali alternative senza avere un professionista che dica loro cosa fare, sono maggiormente in grado di risolvere i problemi da soli e pertanto applicano le competenze che hanno appreso nel loro ambiente. Interventi comportamentali a scuola Dal momento che la grande maggioranza dei bambini con DDAI viene inviata in trattamento per problemi scolastici nel Nord America e in Europa, tutti i bambini con questa condizione sono penalizzati nel proprio rendimento scolastico e quindi il trattamento nel contesto scuola è centrale nell’intervento del DDAI. Nel corso degli anni sono stati sviluppati molti programmi di training, manuali, guide e testi per la gestione della classe con studenti con DDAI e questi possono essere applicati sia in classi di educazione regolare sia in quelle di educazione speciale (Walker e Walker, 1991; Pfiffner, 1996; DuPaul e Stoner, 2003). Il clinico può pianificare le modifiche alle istruzioni per lo studente con DDAI e trasmetterle poi all’insegnante. La Tabella 14.3 illustra un esempio di una sequenza di 11 sedute che i clinici possono utilizzare come guida nella consulenza agli insegnanti. Tabella 14.3 Esempio di una sequenza per la consulenza agli insegnanti Seduta 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 238 Contenuto Introduzione al DDAI, motivazioni e rassegna dei trattamenti, ottenere l’impegno dell’insegnante e della scuola, introduzione ai principi comportamentali Stabilire e operazionalizzare le regole della classe Note di Report Giornaliere Casa-Scuola (essenziali) Modifiche nella struttura e nelle istruzioni Attenzione, elogi, ricompense Dare comandi efficaci e fare rimproveri, rinforzare le regole e utilizzare contingency management del tipo “quando-allora” Interventi per tutta la classe Contingency management di gruppo Response Cost/Sistemi a punti o a gettoni per il bambino Time Out (in classe, in presidenza, esclusione sistematica) Discussione sull’invio a servizi speciali o sul collocamento in classi speciali Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività Come con i genitori, il primo passo per la maggior parte degli interventi in classe è quello di fornire informazioni sul DDAI e collaborare con gli insegnanti per mettere in atto le strategie comportamentali. Queste tecniche, che di solito sono ben note agli insegnanti, includono semplici interventi che possono essere incorporati nella classe– per esempio sviluppare e applicare un buon insieme di regole di classe. Le regole di classe, che gli autori hanno sviluppato per il proprio Summer Treatment Program sono: “avere rispetto degli altri”, “obbedire agli adulti”, “lavorare in silenzio”, “stare fermi nell’area/ nella sedia assegnata”, “utilizzare adeguatamente i materiali e le proprietà”, “alzare la mano per parlare o per chiedere aiuto” e “attenersi al compito assegnato/portare a termine le assegnazioni” (Pelham et al., 1997). Queste regole sono state stilate dopo molti anni di lavoro nelle scuole e dopo aver amalgamato fra loro le regole più comuni utilizzate dagli insegnanti. I bambini con DDAI devono essere immediatamente informati delle violazioni di una regola e devono subire delle conseguenze sistematiche per aver rispettato o violato le regole della classe. Gli insegnanti vanno incoraggiati a elogiare sempre i comportamenti appropriati, a ignorare i comportamenti non adeguati e a cercare di assicurarsi che questi non vengano rafforzati dall’attenzione dei coetanei. Gli studi sulla gestione della classe, fino dagli anni ’70, hanno mostrato che gli insegnanti fanno con commenti negativi con una frequenza tre volte maggiore di quelli positivi. Gli insegnanti vanno spronati a invertire questo dato, con gli elogi che superano i rimproveri/comandi con un rapporto di 3 a 1. Gli insegnanti possono anche essere incoraggiati modalità simili a quelle dei genitori per dare i comandi, al fine di massimizzare la possibilità di compliance (Walker e Walker, 1991). La componente più importante dell’intervento a scuola per un bambino con DDAI è l’utilizzo di una Nota di Report Giornaliera Individualizzata. Questa nota è uno strumento di comunicazione giornaliera casa-scuola che: (1) permette al bambino di conoscere quali sono i suoi obiettivi giornalieri a scuola e cosa ha fatto per raggiungerli e (2) permette una comunicazione casa-scuola attraverso la quale l’insegnante può informare i genitori sulla performance del bambino. Questa nota può essere un documento separato o può essere inserito nel folder dei compiti a casa del bambino. Gli insegnanti scelgono i target comportamentali che il bambino deve soddisfare, forniscono un feedback regolare e ricompense giornaliere, a scuola e a casa, per il conseguimento degli obiettivi. Un simile sistema permette ai genitori e agli insegnanti di essere sulla stessa lunghezza d’onda nel trattare il bambino. Un modello didattico di 10 pagine per creare una nota casa-scuola può essere scaricato gratuitamente dal sito http://wings. buffalo.edu/adhd. Può essere facilmente integrata con la nota di casa sopra indicata. Le regole della scuola, apprendere i comandi corretti, gli elogi e le note sono componenti necessarie degli interventi scolastici per il DDAI, ma spesso non sono sufficienti a trattare il comportamento in contesti scolastici. Quando le note sono utili, ma esistono ancora possibilità di miglioramento, esistono interventi comportamentali più complessi che possono essere utilizzati in classe, fra cui i sistemi a punti/gettoni, il time out, il contingency management per la classe e il gruppo. Questi sono interventi più potenti delle note, ma sono anche più complessi e difficoltosi per un insegnante che deve portarli avanti senza aiuto. Se la nota non è sufficiente, la scelta, per un insegnante o un genitore, è o passare a interventi comportamentali più intensivi o aggiungere un 239 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker basso dosaggio di stimolanti a un regime di note. Le preferenze dei genitori e degli insegnanti e le risorse/condizionamenti sono fattori chiave in una simile decisione (vedere la discussione seguente). Interventi sul bambino Gli interventi sul bambino con DDAI sono utili in aggiunta alle strategie di gestione genitoriale e della classe che si basano sulla manipolazione degli antecedenti, delle conseguenze e delle contingenze (Pelham e Fabiano, 2000). Tuttavia gli interventi sul bambino di solito non implicano tecniche cognitivo comportamentali tradizionali che si basano su una qualche consapevolezza, da parte del bambino, di avere delle difficoltà. Piuttosto, gli interventi sul bambino sono particolarmente importanti per lavorare direttamente sulle scarse competenze relazionali (Pelham e Hoza, 1996; vedere anche il Capitolo 23) e per insegnare abilità che migliorano l’autoefficacia. All’interno di un intervento globale o multimodale, alcune componenti dirette al bambino sono: (1) programmi di training sulle competenze sociali o sul problem-solving (che spesso utilizzano strategie cognitivo comportamentali o autoistruzioni); (2) interventi in contesti di gioco; (3) interventi a scuola; (4) training di gestione della rabbia o (5) training in abilità sportive. Come indica la Tabella 14.2, i professionisti che incorporano interventi sul bambino nel proprio piano di trattamento dovrebbero assumere un approccio comportamentale ed evolutivo e si dovrebbero focalizzare sui comportamenti che riflettono le compromissioni nei molteplici ambiti di funzionamento (per es. amicizia, interazione con i coetanei, competenze scolastiche), rilevanti per lo sviluppo di nuove abilità nel bambino. Questi target vengono trattati meglio in un contesto clinico. Spesso, gli interventi sul bambino vengono integrati in interventi più ampi, che includono programmi per la scuola o dopo la scuola o il sabato o estivi e il lavoro con i genitori. I campi estivi terapeutici (Pelham e Hoza, 1996; Pelham et al., 1997) incorporano numerosi trattamenti comportamentali empiricamente fondati per la classe e per le attività ricreative (per esempio sistemi a punti con ricompense e componenti responsecost, rinforzo sociale, time out, training nelle competenze sociali e nel problem-solving e peer tutoring) che combinano potenti tecniche comportamentali con training su materie scolastiche e sport comuni per i bambini. Questi programmi intensivi sono stati ampiamente studiati e hanno una sostanziale base empirica (Pelham et al., in stampa). Un intervento globale che include i campi estivi, il parent training comportamentale e la consulenza comportamentale agli insegnanti – tutti indicati nella Tabella 14.1 – è stato utilizzato nel Multimodal Treatment Study per il DDAI (MTA Cooperative Group, 1999; Pelham et al., 2000). I risultati hanno mostrato che il trattamento comportamentale globale era molto efficace, con risultati che indicavano cambiamenti importanti in molteplici ambiti di compromissione. Questi cambiamenti erano ancora presenti 1 anno dopo il trattamento, in modo che il 68% dei bambini che avevano ricevuto il trattamento comportamentale aveva un livello di funzionamento così buono da indurre la sospensione degli stimolanti (MTA Cooperative Group, in stampa). Le 240 Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività informazioni su come condurre un campo estivo possono essere ottenute sul sito http:// www.summertreatmentprogram.com. Il campo estivo è un esempio di trattamento sul bambino con DDAI che si focalizza sulle relazioni con i pari. Ha un impatto importante sul funzionamento dei bambini, ma non può essere facilmente applicato negli attuali contesti di salute mentale. I clinici che vogliono utilizzare alcune componenti del campo estivo, possono incorporarne degli aspetti nei gruppi di training sulle competenze sociali che conducono settimanalmente in integrazione con il parent-training. Anche se questi interventi sono meno intensi, si sono rivelati utili nell’ambito delle relazioni fra i pari, quando associati al parent-training (Pfiffner e McBurnett, 1997). Farmaci stimolanti Molti studi nell’area del trattamento del DDAI hanno mostrato che i farmaci da soli sono un trattamento a breve termine efficace e che combinati con il trattamento comportamentale mostrano effetti incrementali rispetto a quelli dei trattamenti comportamentali isolati (Swanson et al., 1995; Pelham e Waschbusch, 1999). Perché allora suggeriamo i farmaci solo come alternativa secondaria di trattamento? La ragione principale può essere spiegata con l’affermazione “non fare danni”. I trattamenti comportamentali non hanno effetti collaterali riconosciuti, mentre i farmaci stimolanti del sistema nervoso centrale hanno numerosi potenziali effetti collaterali. Se è disponibile un trattamento meno pericoloso e meno invasivo, questo dovrebbe essere sempre provato prima di uno più invasivo. Secondo, come già evidenziato, studi recenti hanno mostrato che circa i due terzi dei bambini con DDAI, trattati con interventi comportamentali globali, staranno così bene che i farmaci non saranno necessari (MTA Cooperative Group, in stampa). L’unico modo che i genitori hanno di sapere se i propri figli possono essere trattati efficacemente senza i farmaci è fare una prova prima della modifica comportamentale. Alcuni clinici credono che ci siano casi in cui è giustificabile utilizzare i farmaci come prima linea di trattamento, soprattutto quando la condizione è pervasiva e severa. Questa visione è controversa e gli autori di questo capitolo non sono d’accordo. I farmaci, come trattamento isolato, hanno numerosi limiti, di cui i clinici e i genitori dovrebbero essere consapevoli. Anche quando utili, i farmaci stimolanti spesso falliscono nel “normalizzare” i bambini con DDAI. In uno studio recente, da un quarto alla metà dei bambini con DDAI mostravano una normalizzazione ascrivibile solo ai farmaci (Swanson et al., 2001). Inoltre, nessuno studio ha dimostrato effetti positivi a lungo termine del trattamento farmacologico in ambiti di funzionamento importanti. Anche dopo dieci anni di trattamento, i farmaci non influenzano positivamente nessuna delle gravi compromissioni potenziali all’ingresso nell’adolescenza o nell’età adulta (Swanson et al., 1995). Secondo, i farmaci funzionano solo all’interno di un sistema, che per la maggior parte dei bambini trattati è la giornata scolastica. Questo permetterebbe un miglioramento nella relazione insegnante-bambino e con coetanei, ma lascia l’ambiente familiare per lo più inalterato. Anche i bambini che ricevono dosaggi a lento rilascio o frequenti, non sono sotto l’effetto dei al momento di andare a letto e 241 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker alla mattina presto. Qualunque clinico che ha lavorato con le famiglie di bambini con DDAI può concordare che le routine del mattino (prepararsi per andare a scuola) e quelle serali (prepararsi per andare a letto) sono molto spesso problematiche e il solo affidamento sui farmaci lascerebbe un gap nel trattamento di questi periodi. Anche quando i farmaci sono attivi, alcune aree di compromissione non vengono influenzate, fra cui le strategie di problem-solving, le relazioni genitore-bambino, le competenze genitoriali, la conoscenza dei bambini o il profitto nello sport, il successo scolastico e le competenze sociali. I trattamenti psicosociali sono necessari per generare cambiamenti in questi ambiti. Un altro limite degli stimolanti è la ormai nota discontinuità degli adolescenti con DDAI nell’assunzione dei farmaci, mettendone in discussione l’efficacia su questa popolazione. Se i genitori si basano unicamente sui farmaci per controllare il comportamento dei propri bambini, potrebbero essere demotivati ad apprendere e applicare con costanza buone pratiche genitoriali. Al contrario insegnare ai genitori e agli insegnanti competenze fondamentali di gestione del comportamento, genera cambiamenti a lungo termine nel bambino e permette la generalizzazione ad altri bambini presenti nella vita dei genitori e degli insegnanti. Infine, i farmaci potrebbero avere potenziali effetti collaterali a lungo termine molto gravi, che ancora non sono stati ben compresi. Per esempio, dati recenti suggeriscono che l’interruzione della crescita sia un problema molto più vasto di quello che si pensava prima (MTA Cooperative Group, in stampa). Per queste e altre ragioni, è nostra convinzione che i farmaci dovrebbero essere aggiunti alla terapia comportamentale solo dopo che le strategie comportamentali sono state adattate al bambino e applicate e che, dopo tutto ciò, i problemi continuano a persistere. Per i casi più gravi di DDAI – forse un terzo – un trattamento farmacologico aggiuntivo può sostanzialmente migliorare il livello di funzionamento. Gli psicostimolanti sono i farmaci più comunemente prescritti per il DDAI, fra cui il metilfenidato (Ritalina) e i composti amfetaminici (Dexedrina, Adderall). Oggi sono sempre più popolari forme a lento rilascio, fra cui lo Adderall XR, il Concerta, la Ritalina LA e il Metadato. Fra i trattamenti di seconda linea, nessuno dei quali è stato approvato dalla Federal Drug Administration, sono inclusi gli antidepressivi (triciclici, inibitori selettivi del reuptake della serotonina, Wellbutrin), la clonidina, i principali tranquillanti, il litio e altri (per es. ansiolitici). Questi farmaci di seconda linea vengono a volte combinati con gli stimolanti, ma ci sono scarse prove che siano efficaci per il DDAI e poche prove della loro sicurezza. Si dovrebbero discutere approfonditamente con i genitori i costi-benefici di un eventuale utilizzo di farmaci di seconda elezione prima che i medici li prescrivano. Un’ultima questione relativa ai farmaci è rappresentata dalla frequenza di assunzione e dalla quantità di farmaco che dovrebbero assumere. Alcuni esperti suggeriscono che tutti i bambini dovrebbero ricevere tre dosi al giorno, 7 giorni a settimana, 52 settimane all’anno. Gli autori dissentono con questo approccio. Come per ogni altro trattamento, gli stimolanti vengono utilizzati per ridurre il grado di compromissione e per migliorare il livello di funzionamento in ambiti chiave. Pertanto, il regimen farmacologico si dovrebbe basare strettamente sul grado di compromissione. Un bambino dovrebbe ricevere farmaci solo nei contesti e nei momenti in cui è presente la compromissione e quando altri trattamenti non apportano benefici. Per alcuni bambini, questo potrebbe significare solo a scuola, mentre per altri potrebbe significare assumere 242 Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività i farmaci a casa nella sera o nei fine settimana. Relativamente al dosaggio, recenti linee guida indicano che le dosi dovrebbero essere ottimizzate o massimizzate – aumentarle fino a che non si verifica un plateau nei miglioramenti (Accademia Americana di Pediatria, 2001). Una simile strategia ignora che ci sono dei ritorni sintomatologici mano a mano che la dose degli stimolanti cresce oltre un certo livello moderato (ossia 0.3 mg/kg o 10 mg metilfenidato per dose); che gli effetti collaterali aumentano e che i benefici diminuiscono. Considerate tutte queste cose, minimizzare la dose di un bambino è un obiettivo importante. Quando invece i farmaci vengono somministrati sulla base del grado di compromissione e utilizzando il dosaggio più basso possibile, si può raggiungere questo risultato. Se si utilizzano i farmaci, è ovviamente importante farlo insieme agli psicologi che sono coinvolti nell’applicazione dei programmi comportamentali e degli insegnanti. Le decisioni sulla frequenza e sul dosaggio dei farmaci non possono essere prese con efficacia senza un feedback da questi professionisti. Discussione Il trattamento del DDAI richiede un approccio globale e individualizzato all’intervento. Il trattamento deve essere veramente globale se si vogliono alleviare le compromissioni associate al DDAI. La valutazione, condotta idealmente attraverso una Impairment Rating Scale, deve essere continua e costante, con note casa-scuola giornaliere che vengono costantemente monitorate e adattate. Il parent-training, il training degli insegnanti con report regolari, l’intervento sul bambino per le difficoltà relazionali con i pari e, a volte, i farmaci sono le pietre angolari di un trattamento di successo. Tutte queste componenti di intervento hanno prove empiriche. Poiché sappiamo che il DDAI è un disturbo cronico, un trattamento multimodale e continuato nel tempo dovrebbe essere la regola e non l’eccezione. Per la maggior parte dei bambini con DDAI, questo significherà anni, piuttosto che settimane o mesi di trattamento. Bibliografia Abikoff, H. (1987). An evaluation of cognitive behavior therapy for hyperactive children. In B. B. Lahey and A. E. Kazdin (eds.), Advances in Clinical Child Psychology. New York: Plenum Press, pp. 171-216. American Academy of Pediatrics (2000). Clinical practice guideline: diagnosis and evaluation of the child with attention-deficit/hyperactivity disorder. Pediatrics, 105, 1158-70. (2001). Clinical practice guideline: treatment of the school-aged child with attention-deficit/hyperactivity disorder. Pediatrics, 108, 1033-44. American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edn. Washington, DC: American Psychiatric Association. Angold, A., Costello, E. J., Farmer, E. M. Z., Burns, B. J. and Erkanli, A. (1999). Impaired but 243 William E. Pelham Jr. e Kathryn S. Walker undiagnosed. 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Il termine è sinonimo di altri termini più vecchi quali “handicap mentale”; “anormalità mentale” e “ritardo mentale”. Gli americani invece, con l’espressione “disturbi dell’apprendimento” indicano i “ritardi specifici dello sviluppo”, come la dislessia o la discalculia. I bambini che hanno un disturbo dello sviluppo grave e generalizzato sono a maggiore rischio di disturbi emotivi e comportamentali (vedere Turk, 1996a per una rassegna). Avere un bambino con grave disturbo dello sviluppo è anche fonte di serie problemi per i genitori (Gath, 1977; Dupont, 1986; Romans-Clarkson et al., 1986) e i fratelli ( Gath e Gumley, 1987; Gath, 1989). L’aspetto più gravoso con cui si devono confrontare i genitori sono i problemi comportamentali associati al disturbo dello sviluppo, più che il grado di compromissione intellettiva. Tuttavia, ci sono prove empiriche che associano la probabilità di avere un disturbo psichiatrico grave con la gravità del disturbo dello sviluppo e con le relative disfunzioni del sistema nervoso centrale (Rutter et al., 1970; Bernal e Hollins, 1995). Nel caso dei “disturbi dello spettro autistico” o dei “disturbi pervasivi dello sviluppo”, la disabilità assume la forma di compromissioni qualitative multiple nelle competenze interazionali e sociali, linguistiche e comunicative, di tendenze ritualistiche/ ossessive e deficit immaginativi (Wing, 1996). Questi si manifestano in una serie di maniere differenti. Gli individui potrebbero essere “distaccati”, ossia non danno inizio o non rispondono a scambi sociali; o potrebbero essere “passivi”, ossia rispondere solo se interpellati da altri e non danno inizio spontaneamente dalle interazioni sociali. Molti potrebbero essere “attivi ed eccentrici”, ossia hanno frequenti approcci sociali e 247 Jeremy Turk interazioni in maniera altamente caotica, non appropriata, ingenua, bizzarra e unilaterale. I disturbi dello spettro autistico possono verificarsi in associazione con qualunque livello di funzionamento mentale. Tuttavia, c’è un’associazione fra le caratteristiche autistiche e la riduzione dell’abilità intellettuale. Circa i due terzi degli individui appartenenti allo spettro dei disturbi autistici hanno un QI inferiore a 70, mentre la percentuale delle caratteristiche autistiche aumenta con il diminuire delle competenze intellettive. Pertanto, circa il 50% degli individui che hanno una disabilità intellettuale moderata o profonda (con un QI inferiore a 50) possono essere diagnosticati come autistici tipici o atipici. In una famiglia che ha un figlio con una disabilità evolutiva, la terapia cognitivo comportamentale (CBT) potrebbe avere un focus individuale sul bambino. Più spesso altri membri della famiglia vengono utilizzati come co-terapeuti, o certamente sono essi stessi il focus della terapia. Il lavoro con i bambini con disabilità evolutive e i loro caregiver ha confermato proprio che per quanto una persona possa avere un’invalidità intellettiva o sociale, può sempre beneficiare degli approcci cognitivi (Kushlick, 1989). È importante vedere se l’individuo può prendere in considerazione delle ipotesi alternative e se crede di poterle verificare nella pratica. L’idea che il pensiero complesso si sviluppi nella tarda infanzia, è stata superata dalla consapevolezza di come ogni persona, per quanto piccola o con una disabilità di sviluppo, possa comunque trarre beneficio dalle tecniche cognitive. Questo capitolo inizia con una definizione della psicoterapia cognitivo comportamentale applicata alle famiglie con un bambino con difficoltà di sviluppo. Poi vengono analizzate le componenti importanti della CBT per questo tipo di disturbo. Segue una discussione sull’importanza di distinguere i deficit dalle distorsioni cognitive. Si descrive l’importanza dell’analisi funzionale del comportamento e dei pensieri, fornendo degli esempi di errori logici comuni e di tecniche cognitive utili per questo gruppo di clienti. Il capitolo si conclude con una descrizione di alcuni aspetti teorici particolarmente rilevanti in questo ambito: lo stile attributivo (Alloy et al., 1984) e il dolore cronico (Wikler et al., 1981). Definizione La psicoterapia cognitivo comportamentale applicata alle famiglie con un bambino con difficoltà di sviluppo può essere così definita: qualunque approccio terapeutico che interviene direttamente sul comportamento e/o sui pensieri dell’individuo o dei caregiver, come mezzo per indurre un cambiamento nel funzionamento del bambino con difficoltà di sviluppo, dei genitori o dei fratelli come individui o come gruppo. Questa definizione sottolinea che esistono una serie di tecniche applicabili a questo contesto di lavoro. Inoltre, il focus della psicoterapia e gli esiti desiderati variano a seconda della famiglia, dei problemi presenti e dello psicoterapeuta. Sono proprio alcuni principi fondamentali degli approcci cognitivi a essere particolarmente adatti. 248 I bambini con disturbi dello sviluppo Questi si basano su un fondamento della CBT, in cui il terapeuta non agisce per persuadere il cliente o la famiglia che il loro punto di vista non è logico o coerente con la realtà. La competenza dello psicoterapeuta è quella di assistere il cliente e la famiglia nel fare questa scoperta da sé. Aspetti importanti della psicoterapia cognitivo comportamentale La psicoterapia cognitivo comportamentale ha a che fare con il presente (“il quie-ora”). Questo è particolarmente utile nel caso degli individui con disabilità dello sviluppo che hanno una capacità limitata di riflettere ampiamente e profondamente sui sentimenti più reconditi sotto forma verbale. Inoltre, il senso del tempo che passa può essere fortemente compromesso negli individui con disturbi dello sviluppo o con disturbi dello spettro autistico. In particolare, le compromissioni sociali e comunicative che caratterizzano i disturbi dello spettro autistico impongono allo psicoterapeuta di non basarsi solo sulla parola e anche l’introspezione è piuttosto complessa. Spesso, queste terapie verbali si basano proprio su quegli aspetti della vita mentale fortemente compromessi nell’autismo, fra cui la capacità di assumere la prospettiva dell’altro, l’introspezione, l’utilizzo di metafore, il simbolismo e i significati nascosti all’interno del linguaggio e della comunicazione. Gli approcci a orientamento psicodinamico (Sinason, 1992) prevedono un lavoro molto intenso e spesso si protraggono per tempi piuttosto lunghi. Inoltre, le prove empiriche della loro efficacia si basano molto su report di casi individuali da parte del piccolo gruppo di fanatici di questo approccio. Al contrario, gli approcci cognitivo comportamentali sono brevi, focalizzati sul problema e collaborativi perché prevedono una partnership fra il terapeuta, il cliente e la famiglia (“empirismo collaborativo”). La priorità data alla chiarificazione e alla definizione dei problemi specifici su cui lavorare e alla verifiche empirica dei risultati, non solo permette di assicurare, al terapeuta e alla famiglia, la natura e il grado del cambiamento, ma anche di giustificare tali approcci sul piano clinico ed economico. A questo proposito, è di prioritaria importanza utilizzare definizioni chiare; compiti a casa attraverso i quali applicare nel mondo reale la “teoria” appresa nel corso delle sedute terapeutiche e analizzare i risultati a ogni incontro successivo. Uno dei principali ruoli della terapia è quello di persuadere e incoraggiare il bambino e la famiglia a prendere in considerazione e provare sul campo ipotesi alternative. Le componenti importanti della psicoterapia cognitivo comportamentale: • • • • • • • affrontano il presente (“qui-e-ora”); sono orientate al problema; sono obiettive; hanno definizioni chiare; sono collaborative; prevedono l’assegnazione di compiti a casa e incoraggiano a prendere in considerazione e mettere in pratica ipotesi alternative. 249 Jeremy Turk L’approccio terapeutico porta esso stesso ad acquisire competenze attraverso sedute di ripasso comportamentale strutturate, cicliche e adeguatamente rinforzate. Queste sono le basi di una serie approcci recenti, piuttosto popolari, per promuovere l’evoluzione di bambini con disturbi dello spettro autistico, per esempio il programma Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children (TEACCH) (Panerai et al., 2002) e l’approccio di Lovas. Kendall e Lochman (1994) descrivono bene “l’atteggiamento mentale” del terapeuta cognitivo comportamentale che lavora con i bambini e gli adolescenti e che combina le qualità del consulente (collaborando nel prendere in considerazione nuove idee), del diagnostico (che integra e decodifica le informazioni) e dell’educatore (che insegna attraverso l’esperienza e il coinvolgimento). Queste stesse caratteristiche sono importanti per il terapeuta quando lavora con le famiglie e con le sotto-unità familiari in cui è presente un bambino con una disabilità dello sviluppo e inoltre sono complementari alle ben note variabili terapeutiche “non specifiche”: accettazione positiva incondizionata, empatia, calore umano e genuinità. Deficit cognitivi versus distorsioni cognitive Tradizionalmente, la psicoterapia cognitiva si focalizza sulle distorsioni cognitive che compromettono la capacità di dare giudizi sulle situazioni in maniera realistica e produttiva. Tuttavia, gli individui con disabilità dello sviluppo hanno ritardi evolutivi più generalizzati e pervasivi. Questo significa che alcuni processi cognitivi utili sono spesso sottosviluppati o inadeguati (vedere la Figura 15.1). Inoltre, in molti individui che soffrono di autismo, potrebbero esserci specifiche aree di deficienza cognitiva, per esempio l’assenza di una teoria della mente (BaronCohen, 1989), l’incapacità di comprendere e dare un nome alle emozioni (Hobson, 1986) e una debolezza nel senso basilare di coerenza (Happé, 1994). I deficit o le distorsioni cognitive potrebbero portare a stati mentali e a pattern comportamentali e stati emotivi inadeguati e/o dannosi. Tuttavia, è importante individuare la causa di simili stati mentali patologici dal momento che l’intervento varierà di conseguenza. I deficit cognitivi possono essere migliorati attraverso strategie psicoeducative ed esercizi supervisionati mirati allo sviluppo della capacità di prendere in considerazione differenti prospettive (per esempio “Bene, forse qualcun altro potrebbe vedere le cose differentemente. Se fossi qualcun altro che osserva ciò che stai facendo, pensando o sentendo, cosa avresti pensato? Cosa avresti fatto?) Un simile approccio è tutt’altro che facile con individui che hanno un disturbo dello spettro autistico. Non bisogna mai sottostimare il grado di compromissione della capacità di assumere la prospettiva altrui e della capacità di comprendere i pensieri e i sentimenti di un’altra persona, che potrebbe anche presentarsi in associazione a una capacità intellettiva superiore alla media. A questo proposito, spesso è chiaramente ingannevole indicare gli individui con sindrome di Asperger (Wing, 1996) come individui che hanno “un tipo di autismo con livello di funzionamento globale elevato”, semplicemente perché hanno un QI nella media o sopra la media. Una definizione più 250 I bambini con disturbi dello sviluppo appropriata della sindrome di Asperger è: “una grave forma di disturbo dello spettro autistico, complicata dalla frequente associazione con un’intelligenza almeno nella media e con un’insight piuttosto intricata delle proprie disabilità di sviluppo”. Figura 15.1 Deficit cognitivi versus distorsioni cognitive Deficit Distorsioni Funzioni cognitive inadeguate o sottosviluppate. Per es. teoria della mente Fraintendimenti Pensieri disadattivi Inadeguati e/o dannosi: • stati mentali • pattern comportamentali • emozioni • • • • Psicoeducativi Considerazione di prospettive differenti Focus sull’apprendere dall’esperienza Approccio di Problem-Solving Ristrutturazione cognitiva I deficit cognitivi si possono in parte trattare attraverso un approccio basato sull’apprendimento esperienziale e sul problem-solving. Questo approccio include i seguenti punti: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. identificare i problemi specifici su cui lavorare; decidere in quale ordine affrontare i problemi; negoziare obiettivi realistici; chiarire i passi necessari al raggiungimento degli obiettivi; generare il massimo numero di soluzioni possibili; ponderare i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna soluzione; prendere decisioni su come affrontare il primo passo della decisione scelta; fare esercizio; valutare il successo e, se necessario, considerare come avrebbe potuto andare ancora meglio; 10. prendere decisioni sul passo successivo e procedere oltre. 251 Jeremy Turk Al contrario, le distorsioni cognitive vengono meglio gestite attraverso tecniche più tradizionali di ristrutturazione cognitiva. Attwood (2003) presenta il ruolo di questi aspetti quando si sviluppa una cornice per un intervento cognitivo comportamentale, evidenziando l’importanza di valutare e riconoscere lo stadio di sviluppo dell’individuo in termini di competenze sociali e capacità di fare amicizie. A suo parere, infatti, gli individui con disturbi dello spettro autistico sono pazienti complessi da trattare a causa della frequente combinazione fra ritardo e distorsioni nell’acquisizione delle abilità sociali e comunicative. Pertanto, sono necessarie delle modifiche all’approccio terapeutico per adattarsi al profilo delle abilità cognitive, sociali, comunicative e intellettuali del cliente. Ciò non di meno, Attwood (2003) illustra l’utilità di un’ampia serie di approcci cognitivo comportamentali per individui con disturbi dello spettro autistico che sperimentano, come disturbi secondari, ansia e depressione. Questi approcci includono tecniche pratiche di gestione dell’ansia, della depressione e della rabbia; educazione sugli stati d’umore; ristrutturazione cognitiva; gestione dello stress; autoriflessione ed esercizio. Lo stesso autore ha anche pubblicato un’eccellente e comprensibile guida pratica, diventata un best seller, sulla sindrome di Asperger e la sua gestione (Attwood, 1997). Approcci simili vengono descritti da Bauminger (2002) nel resoconto di un progetto sulla facilitazione della comprensione socio-emotiva e dell’interazione sociale in bambini con autismo e buone capacità intellettive. Il programma di 7 mesi si focalizzava sull’insegnamento del problem-solving interpersonale, sulla conoscenza delle emozioni e sull’interazione sociale. All’inizio, le percentuali di interazioni sociali positive aumentavano. Questo era evidenziato da una maggiore frequenza e qualità di contatto visivo, dalla capacità di condividere le esperienze con i coetanei e da un maggiore interesse nei pari. Tuttavia, l’intensità e la durata di questi interventi necessaria per apportare un cambiamento, era chiaramente notevole e la durata doveva essere a lungo termine. Pertanto, simili programmi dovrebbero poter essere applicati in contesti quotidiani, la scuola e la casa, allo scopo di far diventare i genitori i protagonisti degli input a lungo termine, mentre il supporto terapeutico dei professionisti si allenta progressivamente. La triade cognitiva Le convinzioni disadattive nelle famiglie che hanno un bambino con disabilità dello sviluppo, proprio come nel caso di altri gruppi di clienti, possono essere raggruppate in tre aree comunemente indicate come la “triade cognitiva” (Beck, 1976). Questa triade cognitiva è costituita da assunti cognitivi fondamentali che si riferiscono al sé, al futuro e al proprio ambiente circostante. Questi assunti sono quelli alla base di tutte le altre asserzioni e attribuzioni (“costrutti fondamentali”). Pertanto la bassa autostima di un individuo con disabilità evolutive, e di altri membri della famiglia, è un’evenienza piuttosto frequente, come evidenziato da affermazioni quali “Sono un fallimento. Sono ottuso, stupido e brutto”. È presente con altrettanta frequenza una visione negativa del futuro in affermazioni come: “Andrà di male in peggio, lo so. Non puoi imbrogliarmi, dottore” e in molte visioni negative delle persone e degli eventi circostanti. Un esempio 252 I bambini con disturbi dello sviluppo potrebbe essere : “Le persone hanno buone intenzioni ma davvero non capiscono cosa stiamo passando e davvero non possono essere d’aiuto”. Alcuni aspetti psicologici potrebbero essere appropriati e certamente potrebbero rappresentare l’obiettivo della terapia. Per esempio, potrebbe essere necessaria una piena consapevolezza e comprensione della natura e del grado dei limiti di sviluppo del bambino e delle loro implicazioni, al fine di prevenire azioni e interventi potenzialmente disadattivi e nocivi da parte dei caregiver. Questi potrebbero derivare da tendenze depressive familiari ascrivibili alla disabilità di un membro della famiglia e a problematiche di lutto e dolore cronico (vedere di seguito). Spesso è necessario anche prendere in considerazione alcuni aspetti molto pratici, come la continua ricerca da parte della famiglia della causa della disabilità del bambino, in assenza di eziologie identificabili. A questo riguardo, il terapeuta non deve suggerire di smettere in questa ricerca (questo comportamento infatti di solito incoraggia la ricerca ed è inutile per la famiglia che potrebbe addirittura intensificare i comportamenti disadattivi). In simili circostanze è più adeguato coinvolgere la famiglia in una discussione sulle analisi condotte, sui risultati ottenuti e sui relativi significati, e sul potenziale valore di ulteriori indagini. Per esempio, ci possono essere le ragioni psicologiche sufficienti per intraprendere analisi genetiche e indagini su immagini neurologiche, se questo darà alla famiglia la convinzione di aver esaurito tutte le vie possibili. È inoltre possibile che queste indagini siano state recentemente revisionate e abbiano fatto emergere dati nuovi, eziologicamente importanti, che possono essere utilizzati non solo nel processo dell’elaborazione definitiva del lutto della famiglia e nella costruzione di una progettualità per il futuro, ma anche nel counseling genetico e in interventi multidisciplinari più appropriati (vedere Turk e Sales, 1996 per una discussione completa dell’importanza della diagnosi). Per la maggior parte degli individui con autismo, non è possibile individuare una causa specifica, anche se è ben noto che la base genetica è molto forte. Tuttavia, in una minoranza significativa, si può identificare un’eziologia specifica – per es. sindrome dell’X fragile (Turk e Graham, 1997), sclerosi tuberosa (Harrison e Bolton, 1997), sindrome di Smith-Magenis (Vostanis et al., 1994) e fenilchetonuria non trattata (Hackney et al., 1968). Data la natura evolutiva delle difficoltà intellettive, sociali e comunicative e i frequenti e radicati assunti familiari che le accompagnano, la combinazione di approcci comportamentali e cognitivi diventa particolarmente utile. Per una famiglia depressa, fisicamente e psicologicamente inerte, le strategie comportamentali, come l’assegnazione graduale di compiti, sono ben applicabili e utili. Per esempio, una famiglia socialmente isolata e introspettiva può essere incoraggiata a uscire e a svolgere attività di svago, anche se questo potrebbe essere contrario alla propria natura e inclinazione e contrario all’umore prevalente (“Non importa se non ve la sentite. Fatelo e basta. Fate quello che fareste se vi sentiste più felici – o quello che eravate soliti fare quando eravate felici”). Sono anche importanti le rassicurazioni verso il diffuso convincimento di essere egoisti (“Devi occuparti del tuo benessere e della tua salute psicologica se vuoi essere in grado di fare il meglio per il tuo bambino che ha dei problemi”). Anche riflettere sull’impatto di questo evento sugli altri membri della famiglia (“Come se la cavano i fratelli e le sorelle? Credi che siano stati influenzati dalla sua disabilità e dai comportamenti fastidiosi?”) è un’azione che deve essere fortemente incoraggiata. Una volta chiarito il problema, si possono introdurre gli approcci cognitivi, spostando quindi l’enfasi da interventi ba253 Jeremy Turk sati sulle attività a quelli che trattano pensieri e assunti. Mentre la pianificazione delle attività è efficace nel produrre cambiamenti, il lavoro di revisione dei pensieri radicati, delle attribuzioni e degli assunti è importante per mantenere questi benefici nel tempo per tutti i membri della famiglia, prevenendo delle ricadute. Gli approcci cognitivi e quelli comportamentali sono complementari e vengono di solito utilizzati contemporaneamente (in proporzione variabile), indipendentemente dalla gravità e dalla natura del problema del bambino e dalla gravità e dal profilo delle difficoltà evolutive. L’applicabilità degli approcci cognitivo comportamentali al lavoro diretto sugli individui con disabilità intellettive è stata dimostrata scientificamente. Per esempio, Bramston e Sence (1985) hanno confrontato gli approcci cognitivo comportamentali con i training nelle competenze sociali in un campione di individui istituzionalizzati con ritardo mentale moderato. Gli autori hanno trovato che il pacchetto comportamentale aveva prodotto un miglioramento significativo nella performance delle competenze sociali di base. Tuttavia, il pacchetto cognitivo era associato a un numero significativamente maggiore di soluzioni alternative proposte. Quindi, entrambi gli approcci, hanno un ruolo in aspetti differenti del cambiamento. Tristemente, ma forse prevedibilmente, gli autori hanno anche riscontrato che gli approcci di training non producevano benefici durevoli e che i miglioramenti nelle competenze non erano associati a cambiamenti nelle valutazioni di competenza sociale complessiva da parte dello staff. L’analisi funzionale Gran parte del tempo dedicato alle famiglie che hanno un bambino con una disabilità dello sviluppo si focalizza sull’analisi funzionale dei attuali comportamenti problematici. Questi comportamenti spesso non sono un derivato obbligatorio della disabilità. Possono e devono essere trattati e modificati, anche se l’estinzione totale è improbabile. I comportamenti problematici gravi, disfunzionali e distruttivi sono una delle ragioni più comuni di invio a trattamento. Alcuni quadri frequenti includono gravi forme di autolesionismo, di aggressività, di comportamenti caotici, disorganizzati e iperattivi e inadeguatezza sociale. Il diario dettagliato della natura, della frequenza e della gravità di questi comportamenti deve essere accompagnato dalle informazioni sugli antecedenti (dove, quando, con chi, cosa stava succedendo?). Si devono anche raccogliere dati sulle conseguenze de comportamento (Come risultato, ha ottenuto più attenzione? Quel comportamento gli ha permesso di sfuggire qualcosa? È riuscito ad assicurarsi la solitudine e la libertà dalle pressioni a interagire con altri? Il comportamento sembra avere una funzione autostimolante?) Questo approccio include la nota tecnica ABC per identificare i possibili rinforzi dei comportamento inadeguati, responsabili della sua insorgenza e mantenimento fino all a scomparsa delle tendenze più adattive (vedere Oliver, 1995 per una discussione dettagliata del ruolo dell’analisi funzionale nel valutare le tendenze autolesionistiche in bambini con difficoltà dello sviluppo). L’equivalente cognitivo della metodologia ABC è simile. In queste situazioni, un evento Attivante innesca un assunto cognitivo basato sulle esperienze passate e tendenze attributive che hanno come risultato un Comportamento e dei sentimenti conseguenti. 254 I bambini con disturbi dello sviluppo La sequenza potrebbe iniziare molto presto in una famiglia con un bambino disabile. Per esempio, la nascita di un bambino con un disturbo dello sviluppo conclamato, potrebbe far credere che tutte le attività della famiglia saranno negative, stressanti e insoddisfacenti e portare a sentimenti depressivi e a ritiro dalle attività sociali e di divertimento. L’insorgenza di pensieri disadattivi potrebbe, per esempio, verificarsi quando un bambino più piccolo supera a scuola il bambino con disabilità dello sviluppo, creando nei genitori la convinzione che non ci sarà nessun ulteriore sviluppo intellettuale. Questo può portare a sentimenti depressivi associati a comportamenti che rinforzano ulteriormente la convinzione familiare secondo cui tutta la vita dovrebbe girare intorno al bambino con disabilità dello sviluppo. Fornire nelle sedute terapeutiche degli esempi di molteplici analisi funzionali comportamentali e cognitive, anche come parte degli esercizi a casa, aiuta a comprendere come particolari comportamenti e convinzioni vengano innescati e rinforzati, e come questi comportamenti e convinzioni possano a loro volta incoraggiare stati d’umore e comportamenti adattivi o disadattivi. Errori logici L’ingenuità umana sembra non conoscere confini nella ricostruzione di eventi in modo da rafforzare la visione di sé, delle cose circostanti e del futuro che si sta sviluppando. Tuttavia, ci sono una serie di errori logici che ricorrono nelle valutazioni di queste famiglie. Se il terapeuta riesce a individuarli, può intervenire strategicamente per forzare la discussione su sistemi di assunti cognitivi spesso profondi, innescando così un cambiamento cognitivo, e quindi emotivo e comportamentale. L’interferenza arbitraria descrive la tendenza a trarre conclusioni negative sulla base di impressioni soggettive, anche in assenza di prove concrete a supporto di queste visioni. Per esempio: “Le famiglie sono felici solo con un bambino che ha successo su un piano scolastico e sociale. Noi non saremo mai felici”. L’astrazione selettiva consiste nel giudicare ripetutamente una situazione sulla base di un frammento di informazione disponibile, focalizzandosi solo su determinati aspetti negativi e ignorando i fattori contraddittori. Per esempio: “Dici che dobbiamo assumere una visione a lungo termine del suo sviluppo, stando alla larga da terapie passeggere non verificate. Bene, non ha fatto progressi per due anni, ma ora grazie all’approccio alternativo che abbiamo iniziato 2 mesi fa sta iniziando a camminare e a parlare dopo tutto questo tempo”. L’ingrandimento o l’esagerazione catastrofica consistono nell’esagerare l’intensità, l’impatto o il significato degli eventi e nel dare alle situazioni ulteriori significati non supportati dall’evidenza oggettiva. Per esempio: “Non voleva andare a dormire la scorsa notte. Non c’è speranza per noi”. La personalizzazione o l’autoreferenzialità è la tendenza a collegare in relazioni causali eventi esterni a se stessi. Per esempio: “Le sue caratteristiche autistiche sono diventate manifeste quando sono tornata part-time al lavoro. Sono responsabile del suo peggioramento”. 255 Jeremy Turk Il pensiero dicotomico o tutto-o-nulla consiste nel pensare in termini estremistici, o assoluti, “bianco o nero”. Per esempio: “O sei sveglio o stupido, hai successo oppure no, hai una famiglia felice e realizzata o triste e fallimentare. Non ci sono vie di mezzo”. Il pensiero superstizioso consiste nel credere in relazioni causa-effetto fra eventi non contingenti. Per esempio: “Se solo potessimo trovare un modo in cui possa comunicare allora tutto andrebbe bene”. Tecniche cognitive La varietà delle tecniche cognitive disponibili vogliono tutte incoraggiare una valutazione più razionale delle prove a favore e contro specifici assunti cognitivi fondamentali. Gli studi confermano che queste possono essere utilizzate con successo con ragazzi con disabilità dello sviluppo che soffrono di depressione (Lindsay et al., 1993), con incubi stereotipati ricorrenti (Bradshaw, 1991) e anche in casi di abuso sessuale. Inoltre, le tecniche cognitivo comportamentali di contingency management, le procedure decelerative, l’istruzione verbale, i programmi di autogestione e le istruzioni visive e di immaginative sono state considerate particolarmente proficue (Whitman, 1994). Nel thought catching il terapeuta interviene attivamente interrompendo il flusso di conversazione della famiglia o dell’individuo per focalizzarsi su un particolare pensiero o su una attribuzione per valutarne la validità – per es. “Fermalo proprio lì …trattienilo … hai appena detto che la cosa che ti deprime di più sono i problemi di tuo figlio nell’esprimere i propri sentimenti. Cos’è? Il tuo partner/tuo figlio/ gli altri figli ne sono a conoscenza? Questo lo/li deprime? Succede sempre? Questa tecnica si collega efficacemente con le strategie psicoeducative. La conoscenza trasmessa in momenti strategici della terapia può essere particolarmente efficace nell’orientare il bambino e la famiglia verso la realtà. Inoltre, la consapevolezza di fatti appena appresi potrebbe avere un impatto diretto sullo stato emotivo e, di conseguenza, sul comportamento. Per esempio, riconoscere un deterioramento comportamentale negli adolescenti con autismo (cambiamenti normali dell’adolescenza, fluttuazioni ormonali, cambiamenti nella routine, maggiore consapevolezza delle limitazioni e della dipendenza personale, crescenti ansie della famiglia sul futuro) può aiutare ad alleviare i sensi di colpa e a orientare nuovamente i membri della famiglia verso un maggiore supporto reciproco e una gestione più appropriata che include strategie di sopravvivenza. La verifica delle ipotesi e la generazione di alternative sono tecniche centrali dell’approccio del problem-solving cognitivo. Sono la prova della natura condivisa, interattiva e collaborativa delle psicoterapie cognitivo comportamentali e dell’importanza di dotare tutti i punti di vista di prove certe. La ristrutturazione cognitiva è facilitata dall’analisi funzionale (vedere sopra). Può essere favorita dal terapeuta che incoraggia la riformulazione delle frasi per eliminare le espressioni assolute (“mai dire mai”) – per es. “Deve frequentare una scuola tradizionale. Non possiamo farci una ragione di mandarlo in una scuola speciale”. I genitori possono essere incoraggiati a riformulare simili espressioni per esempio così: “Preferiremmo davvero che frequentasse una scuola normale. Abbiamo delle difficoltà a farci 256 I bambini con disturbi dello sviluppo una ragione della prospettiva di educazione speciale”. Questi spostamenti non sono certamente semplici, ma rendersi conto che le situazioni possono essere viste sotto una luce diversa, e con maggiore flessibilità, può dare notevoli benefici. L’automonitoraggio deriva da questi approcci. Una volta che il bambino e la famiglia sono consapevoli dell’importanza dei processi cognitivi e di come questi possano essere analizzati e modificati, dovrebbero essere incoraggiati a sviluppare la tendenza automatica al monitoraggio dei propri pensieri e a diventare essi stessi terapeuti cognitivi, contribuendo così a ridurre la durata della terapia e a minimizzare la dipendenza dal terapeuta. Le tecniche di depersonalizzazione aiutano a combattere la convinzione che tutto giri intorno a sé (egocentrismo). È molto comune per le famiglie con un membro disabile avere standard doppi, sulla base dei quali si giudicano più duramente degli altri (“Dovremmo essere in grado di fare fronte, è solo colpa nostra se non ce la facciamo. Ci sono altre famiglie che stanno molto peggio”). Spiegare alla famiglia la logica alla base di a simili affermazioni può innescare un discorso terapeutico e costruttivo. Le riattribuzioni possono essere importanti per i professionisti così come per le famiglie. Un individuo che ha parlato a un meeting scientifico, sulle necessità delle famiglie con figli affetti da un disturbo dello sviluppo, la definiva la “famiglia con disturbo dello sviluppo ”. Certamente, intendeva un famiglia con un membro con disturbo dello sviluppo. Tuttavia, c’era una verità importante nella percezione di questo interlocutore, e cioè come la famiglia percepisce se stessa come risultato dell’avere un bambino con disturbo dello sviluppo, e anche questo è un buon terreno per un lavoro cognitivo. Lo stile attributivo Proprio come i comportamenti hanno una base situazionale determinata dal tempo, dal luogo e dalla compagnia, lo stesso vale per gli atti cognitivi. Tuttavia, è stata riscontrata un’ampia variabilità individuale nel grado in cui le persone vengono influenzate dagli eventi (“Non sono le cose in se stesse a influenzare il modo in cui le vediamo ”). Esistono tre dimensioni di stile attributivo che Seligman et al. (1984) hanno identificato e che contribuiscono a quello che essi definiscono “the word in your heart”. La dimensione interno-esterno è affine alla vecchia nozione di locus of control. Alcuni individui si sentono responsabili degli eventi che gli accadono, mentre altri credono che questi siano la conseguenza di coincidenze fortunate o meno. Più un individuo crede di avere un controllo sugli eventi, più si sentirà in grado di poter modificare le cose positivamente. Similmente, meno uno si sente responsabile degli eventi negativi, maggiore sarà l’autostima. Pertanto, molti individui sembrano essere in grado dall’inizio di rendersi conto che “il cambiamento deve venire da dentro” e che la loro valutazione degli eventi e il conseguente adattamento sono cruciali. Altri invece si sentono alla deriva in un mare di correnti imprevedibili che li sospingono casualmente in varie direzioni. Quest’ultimo punto di vista è comune negli adolescenti con difficoltà di sviluppo e le loro famiglie, che si devono confrontare con la lotta apparentemente insolubile di una dipendenza continua versus l’apparente impossibilità di una vera autonomia (Kymissis 257 Jeremy Turk e Leven, 1994). Il lavoro individuale può essere intrapreso per mettere in dubbio le valutazioni del tipo tutto-o-nulla e per lavorare su ambiti di vita in cui il sviluppare il controllo personale e l’influenza sugli eventi. La dimensione globale-specifico riguarda la contingenza dei propri stati mentali. Sentirsi depressi o disperati potrebbe essere collegato a particolari circostanze o situazioni (su cui per deduzione si può lavorare) o essere percepito come una tendenza pervasiva non collegata a eventi specifici. La visione a un estremo potrebbe essere che la propria intera vita è una rovina ed è insoddisfacente, contro un’altra prospettiva secondo cui determinate situazioni o eventi producono o riaccendono sentimenti profondi di dolore e perdita, mentre altri promuovono un ragionevole senso di benessere, anche se la felicità resta qualcosa di elusivo. La dimensione stabile-instabile è il corollario temporale della precedente. Gli eventi saranno sempre destinati a essere negativi o lo sono soltanto in un determinato momento (o per ragioni particolari?) Sulla base di queste tre dimensioni, Seligman et al. (1984) hanno costruito una scala di ottimismo. Seligman e colleghi ipotizzano che coloro che hanno un punteggio alto su questa scala tendono a: avere più successo, stare più in salute, dare migliori risultati sotto pressione, sopportare meglio lo stress e, addirittura, vivere più a lungo. Simili dichiarazioni ottimistiche sono estreme ma lo stile attributivo predominante, valutato sulla base di queste tre dimensioni, è un fenomeno utile da prendere in considerazione e ha anche un valore predittivo su come vengono ricostruiti gli eventi e quindi su quali sono i comportamenti e le emozioni più probabili. Queste concetti hanno una validità di facciata molto consistente. Più di recente la ricerca ha confermato l’importanza dei pattern abituali sulle convinzioni soggettive che le persone si costruiscono in relazione alle cause degli eventi (“Quando le cose che vanno male la causa è sempre il disturbo dello sviluppo”) (Seligman et al., 1990). Sembra che questo stile esplicativo possa predire non solo lo state mentale prevalente ma anche la situazione fisica – per es. l’attività atletica. Seligman et al. (1990) hanno applicato con successo l’analogia di un’abitudine o una dipendenza a simili pattern attributivi, usuali in famiglie con un bambino con disturbo dello sviluppo. La maggior parte delle persone riesce a rendersi contro di come i modi di pensare siano radicati e di come spesso l’allontanamento da queste modalità sia un processo doloroso e caratterizzato, a volte, dal desiderio incontrollabile di ritornare alle precedenti modalità di pensiero patologico. Non è chiaro perché si dovrebbe verificare questa urgenza di riadottare pattern attributivi cognitivi disadattivi, ma ci potrebbe essere un collegamento con una modesta, ma convincente, letteratura che suggerisce una base genetica ai modi di pensare (Schulman et al., 1993). Lutto e dolore cronico Una componente essenziale delle competenze psicoterapeutiche, quando si lavora con famiglie che hanno un bambino con difficoltà di sviluppo, è la comprensione dei processi di lutto e di dolore. Le famiglie che vivono l’esperienza dell’arrivo di un bambino con disabilità attraverseranno una serie di stadi psicologici, che riflettono il 258 I bambini con disturbi dello sviluppo dolore per la perdita del bambino idealizzato e per l’arrivo invece di un bambino con disabilità (Bicknell, 1983). La negazione della realtà è molto comune e varia da una momentanea incapacità di comprendere o riconoscere la novità (“shock”) fino al rifiuto a lungo termine della disabilità e dei bisogni del bambino. In seguito, la protesta e la rabbia vengono spesso dirette a chi porta le cattive notizie, ma potrebbero anche essere dirette a se stessi sotto forma di senso di colpa e depressione, accompagnati da un’autocolpevolizzazione irrazionale per gli eventi ritenuti responsabili del problema. Il comportamento di ricerca può essere interiore (“indagine dell’anima”) o in termini più concreti – per es. andare a cercare molteplici opinioni professionali o provare molte terapie di moda di dubbio beneficio. Di solito, queste fasi vengono sostituite da una nuova identità individuale e familiare (“adattamento”). Proprio come nel caso del lutto, è stato riscontrato un fenomeno di “dolore cronico”. In questo caso, i problemi ciclici del ragazzo disabile e le differenze con gli altri sollecitano il genitore e riaccendono sentimenti di dolore e alcuni dei processi sopra citati (Wikler et al. 1981). Sono i tempi, di solito, a enfatizzare le differenze del bambino rispetto agli altri – per es. rimanere indietro sul piano dello sviluppo rispetto a un fratello più giovane, avere bisogno dell’assegnazione a classi di educazione speciale, non essere in grado di praticare uno sport o di socializzare come altri bambini o ritornare a una vita di dipendenza a casa dopo essere stato a scuola. Wikler e colleghi (1981) hanno trovato che solo il 25% dei genitori aveva sperimentato una sofferenza legata ai tempi. La maggior parte dei genitori sperimentava una successione di stati positivi e negativi senza un trend generale verso l’alto. Sembrava anche che i professionisti avessero sovrastimato quanto fossero state preoccupanti le esperienze precoci, e sottostimato quanto lo fossero le più recenti. Il dolore cronico rispetto all’adattamento a tempi differenti sembrava caratterizzare le esperienze dei genitori di bambini con disturbi dello sviluppo. Questo dolore era più periodico che continuo. Il messaggio cognitivo importante per i terapeuti e le famiglie è che il dolore cronico non è una risposta anormale. È una reazione normale a situazioni anomale. Molte delle tecniche sopra descritte saranno utili nell’affrontare questo cambiamento cruciale di prospettiva. Mentre il dolore cronico è una risposta normale, le tecniche cognitive possono facilitarne il progresso grazie alla comprensione e allo sviluppo di utili strategie di coping. Valutazioni specifiche e prove di efficacia La potenzialità, di individui con disturbi dello sviluppo, anche piuttosto gravi, di trarre benefici da approcci cognitivi è stato confermata (Kushlick, 1989). Gli studi hanno anche dimostrato l’efficacia delle tecniche cognitive nell’aiutare le persone con difficoltà dello sviluppo che soffrono di depressione (Lindsay et al., 1993) e incubi ricorrenti (Bradshaw, 1991). I lavori che indicano i benefici derivanti da specifiche tecniche cognitivo comportamentali sono stati passati in rassegna prima (Whitman, 1994). Da una prospettiva familiare, la comprensione precoce che i genitori hanno della natura e delle implicazioni del disturbo del proprio bambino, è cruciale ai fini del259 Jeremy Turk l’accettazione e dell’istituzione precoce di interventi curativi appropriati e preventivi. Ci sono prove secondo cui l’accettazione dei genitori e un orientamento alla realtà, dipendono da come e quando vengono delicatamente comunicate queste informazioni. Come viene condivisa questa informazione è un aspetto altrettanto importante. I genitori vogliono che sia detta loro la verità, per quanto dolorosa, e il prima possibile. Si richiedono incontri opportuni e multipli per fare fronte all’inevitabile shock e per la negazione necessaria in seguito a una simile cattiva notizia così dirompente (Cunningham et al., 1984). È essenziale che ci sia un counseling da parte di una persona ben informata. Un ottimismo eccessivo o scarso, da parte di chi dà l’informazione, può essere estremamente preoccupante (Carr, 1985). La scontentezza derivante dalla rivelazione della diagnosi e del grado di compromissione non si può evitare e può avere effetti avversi a lungo termine molto profondi. Tunali e Power (1993) hanno enfatizzato che, piuttosto che cercare di determinare se la famiglia di un ragazzo disabile si sta adattando o meno, si dovrebbero identificare numerosi predittori di un adattamento riuscito, fra cui la soddisfazione coniugale, l’armonia e la qualità dell’atteggiamento genitoriale, la presenza di entrambi i genitori a casa e l’accettazione e la comprensione della condizione di disabilità. Gli approcci di problem-solving attivo sono positivamente associati con l’adattamento, mentre approcci come l’evitamento e il pensiero illusorio sono collegati a elevati livelli di stress. Tuttavia, Tunali e Power (1993) affermano che è spesso difficile dire questi siano effettivamente dei “predittori” o le conseguenze di un coping riuscito. Procedono delineando un modello di adattamento a situazioni ineluttabili, quando viene minacciata una necessità, sulla base della “ridefinizione”. Si fa l’esempio di un cambiamento comportamentale forzato nella famiglia (per es. meno tempo disponibile per attività piacevoli) associato a ulteriori cambiamenti cognitivi che sono paralleli ai cambiamenti della situazione (per es. la svalutazione delle attività piacevoli). Simili input possono essere considerati strategie di prevenzione terziaria – che hanno lo scopo di ridurre le complicazioni e la disabilità associata ai disturbi consolidati, soprattutto quelli diventati cronici (Turk, 1996b). Pertanto, la prevenzione terziaria include non solo un intervento attivo mirato alla condizione attuale, ma anche una riabilitazione per ridurre potenziali problemi secondari, minimizzare la disabilità e prevenire l’handicap nonostante la persistenza di alcune compromissioni. Ricerche future C’è la necessità di ulteriori indagini strutturate sugli approcci cognitivo comportamentali per persone giovani con difficoltà dello sviluppo e le loro famiglie. Le tecniche devono essere chiaramente definite – per es. approcci di problem-solving, approcci psicoeducativi e di verifica delle ipotesi. Questo vale anche per le difficoltà presenti – per es. lutto familiare patologico, dolore cronico e depressione. Un buon esempio del grado di dettaglio richiesto in questo settore è fornito da Willner et al. (2002) nella loro prova randomizzata e controllata dell’efficacia del gruppo cognitivo comportamentale di gestione della rabbia per clienti con disturbi dello sviluppo. Il trattamento consisteva 260 I bambini con disturbi dello sviluppo di nove sedute di gruppo della durata di 2 ore. Le tecniche utilizzate comprendevano il brainstorming, il role-play e l’assegnazione di compiti a casa. Gli argomenti affrontati includevano i fattori che innescano la rabbia, le componenti fisiologiche e comportamentali della rabbia, le strategie comportamentali e cognitive per evitare che la rabbia aumentasse e i modi accettabili per manifestare la rabbia. La valutazione includeva due questionari, completati dai clienti e dai loro caregiver prima e dopo l’intervento, su situazioni che provocano rabbia. Un follow-up a 3 mesi mostrava il mantenimento dei miglioramenti nel tempo. Si richiede un follow-up a lungo termine per stabilire quanto siano durevoli i benefici su un piano psicologico e comportamentale. Questo richiederà un ulteriore affinamento delle scale di valutazione per i disturbi emotivi e comportamentali nei ragazzi con disturbi dello sviluppo. Tuttavia, ci sono già prove positive sufficienti dei benefici di approcci cognitivi, limitati nel tempo e focalizzati sul problema, con questo gruppo di ragazzi. L’applicabilità di particolari approcci a problemi specifici e la natura e l’intensità del training per il terapeuta sono punti che devono ancora essere chiariti. Bibliografia Alloy, L. B., Peterson, C., Abramson, L. Y. and Seligman, M. E. (1984). Attributional style and the generality of learned helplessness. Journal of Personality and Social Psychology, 46, 681-7. Attwood, T. (1997). Asperger’s Syndrome: A Guide for Parents and Professionals. London: Jessica Kingsley. (2003). Framework for behavioral interventions. Child and Adolescent Psychiatric Clinics of North America, 12, 65-86. Baron-Cohen, S. (1989). The autistic child’s theory of mind: a case of specific developmental delay Journal of Child Psychology and Psychiatry, 30, 285-97. Bauminger, N. (2002). The facilitation of social-emotional understanding and social interaction in high-functioning children with autism: intervention outcomes. Journal of Autism and Developmental Disorders, 32, 283-98. Beck, A. T. (1976). 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L’incidenza riferita per l’adolescenza varia dall’1% al 6% della popolazione generale, con un recente studio inglese in cui il 2% degli adolescenti aveva avuto un episodio recente di depressione maggiore (Meltzer et al., 2000). Le percentuali nei bambini sono decisamente minori, probabilmente nell’ordine di 1 su cento. C’è una notevole possibilità di comorbidità con altri disturbi emotivi e anche con il disturbo della condotta. Studi di follow-up hanno dimostrato che le persone giovani con depressione hanno un rischio maggiore di avere episodi successivi rispetto a quelle con altri disturbi psichiatrici. Esiste anche un maggiore rischio di tentato suicidio e suicidio portato a termine. Ora sono disponibili una serie di trattamenti per la depressione maggiore nelle persone giovani. Per esempio, risultati recenti suggeriscono che gli inibitori del reuptake specifico della serotonina possono essere efficaci (Emslie et al., 1997; Keller et al., 2001; Emslie et al., 2002). Tuttavia, in molti casi, i trattamenti psicologici sono attualmente la prima linea d trattamento. Sono stati analizzati una serie di differenti trattamenti psicologici per bambini e adolescenti depressi. Probabilmente quelli meglio valutati sono le terapie cognitivo comportamentali (CBT). Questo capitolo fornisce un resoconto pratico della CBT per la depressione nella tarda infanzia e nell’adolescenza. Il capitolo inizia con una breve rassegna della teoria alla base della CBT e di alcuni principi generali di trattamento. Poi si descrivono le tecniche basilari della CBT. Il capitolo si conclude con una breve rassegna sulle prove empiriche. Basi teoriche Il modello cognitivo della depressione La CBT per la depressione include tecniche basate su una varietà di differenti modelli teorici della depressione che, essenzialmente, si hanno come focus primario, aspetti differenti della sintomatologia. 265 Richard Harrington Il modello cognitivo della depressione e il lavoro di Aaron Beck (Beck, 1967, 1983) sono familiari alla maggior parte dei professionisti della salute mentale. Nel modello cognitivo della depressione, i pensieri sono l’esperienza primaria di depressione; le componenti emotive e comportamentali sono secondarie. Beck ha descritto i pensieri caratteristici degli individui depressi, che implicano distorsioni della realtà unite a sensazioni di scarso valore personale, autocolpevolizzazione, una percezione schiacciante delle responsabilità e un desiderio di fuggire (vedere Figura 16.1). Figura 16.1 Modello cognitivo della depressione Esperienza precoce Formazione di assunti cognitivi disfunzionali Incidenti critici Attivazione delle assunti Pensieri automatici negativi sul sé, sul mondo, sul futuro Sintomi di depressione Comportamentali Cognitivi Motivazionali Emotivi Fisici I processi cognitivi tipici della depressione includono forme di pensiero irrazionale, fra cui l’ipergeneralizzazione e l’esagerazione delle caratteristiche negative dell’esperienza. I principali pattern cognitivi prevedono una visione negativa del sé, del proprio passato, delle presenti esperienze e del futuro. Pertanto, gli individui depressi distorcono sistematicamente la propria esperienza mantenendo le proprie convinzioni e evitando sempre di più le attività, dal momento che anticipano un esito negativo. La terapia cognitiva, pertanto, dal focus sui sintomi e sui comportamenti, arriva lavoro sui pensieri in situazioni specifiche e, infine, sugli assunti cognitivi e sulla filosofia dell’individuo, ossia sugli schemi (vedere la Figura 16.1). La terapia si basa sull’identificazione dei pensieri negativi che sono associati ai sentimenti di depressione. Inoltre, da una prospettiva comportamentale, c’è un’enfasi sul farsi coinvolgere in maggiori attività che sono positive e remunerative. 266 I disturbi depressivi I modelli cognitivi della depressione nelle persone giovani Il disturbo depressivo è molto meno comune nei bambini che negli adolescenti (Angold et al., 1998). Questa evidenza ci porta a domandarci quale età devono avere i bambini prima di poter sperimentare tutta la gamma dei sintomi propri del disturbo depressivo adulto. I bambini sono in grado di riconoscere i propri stati emotivi dall’età di 2 ani, e, in età prescolare, iniziano a differenziare le emozioni fondamentali e a comprenderne il significato (Kovacs, 1986). Tuttavia, anche se sperimentano fallimenti ripetuti, i bambini di età prescolare non si scoraggiano facilmente e mostrano solo raramente indizi di impotenza appresa (Rholes et al., 1980). Nello stadio delle operazioni concrete (fra i 7 e gli 11 anni), il bambino inizia a capire che ci sono alcuni aspetti che restano costanti quando avvengono delle trasformazioni (Piaget, 1970). L’egocentrismo decresce e il bambino inizia a sviluppare l’autoconsapevolezza e a valutare la propria competenza attraverso il confronto con gli altri (Dweck e Elliot, 1983). Il sé viene percepito in termini più psicologici che fisici e compaiono concetti di colpa e vergogna. Pertanto sono possibili attribuzioni negative sul sé, costanti e relativamente stabili. Inoltre, i bambini iniziano a comprendere le implicazioni di determinati tipi di eventi avversi. È all’incirca a questa età, per esempio, che la maggior parte dei bambini riesce a capire che la morte è un evento permanente (Lansdown, 1992). Allo stesso tempo, il vocabolario emotivo del bambino si espande, e i bambini iniziano a fare distinzioni di natura sottile fra la tristezza e la rabbia. In altre parole, all’incirca fra gli 8 e gli 11 anni, la maggior parte dei bambini può sperimentare e riferire molti dei pensieri che si riscontrano nella depressione adulta. I bambini depressi mostrano un insieme di deficit e distorsioni cognitive simili a quelli riscontrati negli adulti. Spesso hanno una bassa autostima e distorsioni cognitive, come l’attenzione selettiva alle caratteristiche negative di un evento (Kendall et al., 1990). Inoltre, i bambini depressi hanno maggiori probabilità, rispetto a quelli non depressi, di sviluppare attribuzioni negative (Kaslow et al., 1988). Per esempio, Curry e Craighead (1990) hanno riscontrato che gli adolescenti più depressi attribuivano le cause degli eventi positivi a cause esterne instabili. Adattamento della CBT alle persone giovani Il lavoro di Beck con gli adulti ha significativamente influenzato il lavoro con i bambini più grandi e con gli adolescenti. Wilkes e colleghi (Wilkes e Rush, 1988; Wilkes et al., 1994) hanno descritto come la metodologia di Beck possa essere applicata nel lavoro con gli adolescenti depressi. In una serie di studi, Stark e colleghi hanno sviluppato e valutato un programma globale per bambini depressi fra i 9 e i 12 anni e i loro genitori (Stark et al., 1987; Stark, 1990; Stark et al., 1991). Sulla base della tesi secondo cui la depressione deriva da una disfunzione cognitiva e da deficit di competenze, i bambini e i genitori iniziano un processo psicoeducativo allo scopo di acquisire competenze più adattive e tecniche di problem-solving. Negli studi di Stark, si utilizza un format di gruppo. 267 Richard Harrington Applicando un modello cognitivo comportamentale alternativo, Lewinsohn e colleghi hanno sviluppato il “Coping with Depression Course”. Questo corso è stato successivamente applicato con successo ai bambini più grandi e agli adolescenti (Clarke et al., 1990; Lewinsohn et al., 1990; Clarke et al., 1992; Clarke et al., 1995; Lewinsohn et al., 1996; Clarke et al., 1999). Il focus principale è sull’apprendere competenze emotive e abilità di coping per fronteggiare eventi negativi, che potrebbero portare a una depressione e all’autorinforzo. Il programma è disponibile in format di gruppo, con un programma parallelo per i genitori. L’atteggiamento del terapeuta Una caratteristica centrale di tutte le forme di CBT per la depressione in adolescenza è l’atteggiamento collaborativo. Questo significa che il terapeuta dovrebbe evitare di comportarsi come qualcuno che sa tutto e che prescrive ogni giorno soluzioni ai problemi. Piuttosto, il ragazzo dovrebbe considerare il terapeuta più come una guida, come qualcuno che lo aiuta a trovare la propria soluzione ai problemi. La collaborazione dovrebbe essere evidente in tutti gli stadi della terapia, e in tutte le parti della sedute terapeutica. Per esempio, l’inizio della seduta terapeutica dovrebbe essere un esercizio congiunto fra l’adolescente e il terapeuta. I terapeuti devono ricordare tuttavia, che gli adolescenti non sono abituati ad esprimere il proprio punto di vista sulle situazioni e potrebbero avere difficoltà a gestire domande come “cosa facciamo oggi?” Potrebbe invece essere meglio chiedere all’adolescente quali sono i suoi attuali problemi e poi di aiutarlo a sceglierne uno o due per la seduta. La collaborazione è necessaria anche per la gestione dei compiti a casa (vedere più avanti). Un’altra caratteristica chiave dell’atteggiamento del terapeuta è l’incoraggiamento della pratica. Il termine pratica si riferisce a due aspetti della CBT. Il primo è che la CBT fa uso di osservazioni in vivo dei comportamenti e dei pensieri alla base della depressione. La depressione non si considera qualcosa che “arriva improvvisamente” o che è il risultato di processi inconsci. Piuttosto, è un problema che può essere compreso in termini di avversità, di pensieri e di comportamenti. Il secondo aspetto pratico della CBT è l’utilizzo di “un approccio sperimentale alla terapia”. Il terapeuta non ha tutte le risposte e spesso propone degli esperimenti che gli adolescenti possono fare. Per esempio, una telefonata al padre per confermare gli accordi per una visita potrebbe essere un esperimento, solo per vedere se funziona. Un’importante caratteristica della CBT è l’utilizzo del problem-solving. Molti adolescenti depressi conducono vite stressanti e difficili ed è facile colludere con la convinzione dell’adolescente che niente possa cambiare. Il terapeuta deve, tuttavia, adottare un approccio ottimistico al problem-solving. Allo stesso tempo, dovrebbe riconoscere che alcuni adolescenti depressi vivono in situazioni estremamente difficili e che determinati pensieri possono essere realistici. Per esempio, potrebbe essere impossibile per un adolescente stabilire una relazione stabile e durevole con un genitore alcolista e abusante. Questo significa che, in tutti i casi, si deve tentare di coinvolgere la famiglia o i caregiver nella terapia. I membri della famiglia giocano un ruolo importante nello sviluppo delle convinzioni che gli adolescenti hanno del mondo. Quindi potrebbe esse268 I disturbi depressivi re necessario coinvolgere i membri della famiglia in alcune sedute, anche se il terapeuta dovrebbe sempre tenere a mente che la CBT è essenzialmente una terapia individuale (vedere di seguito e anche il Capitolo 7 per un ulteriore resoconto delle problematiche sul coinvolgimento dei genitori). Struttura di un programma cognitivo comportamentale Strutturazione delle sedute La strutturazione delle sedute è un elemento essenziale della CBT. La struttura è importante perché permette di trattare efficacemente i problemi nel tempo disponibile. Un format tipico per una seduta di CBT potrebbe essere: 1. revisione dello stato del bambino, inclusi eventi recenti; 2. stabilire un ordine del giorno che include la revisione congiunta dei compiti a casa e la scelta dei target della seduta; 3. rivedere i compiti a casa; 4. definire i target della seduta – per es. definire un problema, problem-solving, identificazione degli eventi negativi ecc.; 5. stabilire i compiti a casa per la volta successiva; 6. feedback sulla seduta. Un tipico programma di CBT Dopo un invio per una CBT, bisognerebbe condurre una valutazione approfondita, attraverso interviste e questionari, per chiarire nel dettaglio la sintomatologia presente e fissare una baseline in base alla quale misurare il cambiamento. Questionari utili sono, per i bambini, il Children’s Depression Inventory (Kovacs, 1981) e, per gli adolescenti, il Mood and Feelings Questionnaire (Angold et al., 1987). Potrebbero essere utilizzate anche misure dell’ansia, delle competenze sociali e dell’autostima. Poi si discutono gli obiettivi della terapia che dovrebbero essere il più specifici possibile. Un obiettivo potrebbe essere quello di sentirsi meno depressi, ma anche la risoluzione di altri problemi correlati, segnalati dal bambino o dal ragazzo. Si spiega il processo terapeutico e si sottolinea l’importanza dei compiti a casa. Durante le prime sedute, il lavoro si focalizza sul chiarimento di quali sono, al momento, le attività giornaliere del bambino e sull’imparare a tenere un diario. In seguito alla comparsa di un umore depresso, i ragazzi spesso hanno riducono le proprie attività e un diario giornaliero può essere utile per stabilire il grado di questa riduzione. I bambini e i genitori potrebbero essere incoraggiati ad accrescere il proprio livello di attività. Si controlla il vocabolario utilizzato dal bambino per descrivere i propri sentimenti (educazione emotiva) e poi si fanno dei collegamenti fra le attività e i sentimenti. A 269 Richard Harrington questo stadio, ci si potrebbe accordare su specifiche assegnazioni per i compiti a casa, che potrebbero accrescere la gamma o il numero delle attività da cui il bambino trae un senso di soddisfazione o di piacere. È importante ripristinare quelle attività che prima erano fonte di piacere, ora interrotte, e le normali routine quotidiane. Suggerire viaggi o divertimenti, come nel caso degli adulti, non è utile (pianificazione delle attività). Questi interventi comportamentali possono spesso indurre un miglioramento significativo nell’umore. A questo punto si riesce spesso a fare chiarezza sulla capacità del bambino o dell’adolescente di lavorare a un livello più cognitivo e se sia possibile utilizzare la ristrutturazione cognitiva. Per coloro che hanno un’espressione delle emozioni meno articolata, potrebbe essere utile introdurre tecniche di problem-solving – per es. lavorare su problemi che si hanno con i compagni o a scuola. L’aspetto chiave della terapia cognitiva è identificare i pensieri automatici negativi. Nei bambini e nelle persone giovani, come negli adulti, si analizzano dettagliatamente i pensieri propri di alcune situazioni specifiche. Per spiegare ai bambini certe tecniche, si può utilizzare la metafora del replay; ossia, rivivere mentalmente la situazione e descrivere i pensieri associati a essa. Se si notano cambiamenti nello stato emotivo nel corso della seduta, i terapeuti potrebbero anche fare domande su alcuni pensieri specifici, mentre il bambino racconta un’esperienza. Per identificare i pensieri disadattivi si possono utilizzare il diario, la scrittura creativa o anche affermazioni tratte da questionari. Il terapeuta può domandare se i pensieri tratti da questi materiali siano collegati alle esperienze quotidiane. I processi di ristrutturazione cognitiva implicano anche un lavoro sulle interpretazioni irrazionali e sull’identificazione di tematiche ricorrenti, come, per esempio, sentirsi indegno di amore. Questo lavoro si conduce analizzando nei dettagli le prove reali che si hanno in relazione a particolari pensieri e i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna forma di pensiero. In pratica, le tecniche mirano a insegnare come riconoscere e mettere in discussione i pensieri automatici negativi; come generare pensieri più realistici e aumentare le autoaffermazioni positive. È importante tenere a mente, tuttavia, che con i bambini e gli adolescenti la ristrutturazione cognitiva non è sempre possibile o appropriata. Molto dipende dal problema presente e dal livello di sviluppo del ragazzo. Indicazioni per la CBT La ricerca e l’esperienza clinica suggeriscono che coloro che hanno maggiori probabilità di trarre benefici da un approccio cognitivo comportamentale condividono una serie di caratteristiche. Primo, il disturbo depressivo è una parte predominante del disagio attuale. Mentre si sa poco del ruolo della comorbidità nel predire l’esito terapeutico, l’esperienza clinica suggerisce che quando il quadro clinico è dominato da problematiche non depressive (per es. aggressività e assenza da scuola) è difficile focalizzare il ragazzo e la famiglia sul disturbo dell’umore. Secondo, il ragazzo deve riconoscere di avere un problema e deve voler fare qualcosa per se stesso. Terzo, anche la famiglia deve riconoscere la presenza di un problema e deve essere preparata a supportare la terapia. Inoltre, coloro che hanno esiti positivi con questo l’approccio di solito partecipano alle sedute ed eseguono i compiti a casa. 270 I disturbi depressivi Controindicazioni alla CBT Anche se la CBT si utilizza ampiamente per la depressione in infanzia e in adolescenza, non è in grado di curare tutti. Ci sono numerose controindicazioni. Livello evolutivo Supponiamo che Ben e Simon si siano appena trasferiti in un’altra città e stiano per andare alla loro prima festa. La mamma di Ben, quando lo accompagna alla festa, gli dice: “cerca di ricordare i nomi di tutti gli altri bambini così dopo mi racconterai di ognuno di loro”. Il padre di Simon dice: “ci vediamo qui dopo”. Quale bambino ricorderà il numero maggiore di nomi? Se i bambini hanno meno di 7 o 8 anni, ricorderanno lo stesso numero di nomi. Se hanno 11 anni o più, Ben ricorderà più nomi di Simon. Quando i bambini rispondono a simili istruzioni, in base alle quali viene chiesto loro di ricordare, stanno utilizzando la metacognizione. L’espressione “metacognizione” si riferisce alla consapevolezza che il bambino ha dei propri processi cognitivi. Viene anche utilizzata per descrivere funzioni esecutive come la pianificazione, l’attivazione di regole, il monitoraggio dell’apprendimento e la valutazione di un prodotto cognitivo. Alcune delle tecniche utilizzate nella CBT prevedono la consapevolezza dei propri atti cognitivi o la capacità di utilizzare processi esecutivi, o entrambe queste competenze. Per esempio, molti programmi richiedono di portare a termine alcuni compiti a casa che potrebbero implicare un certo grado di pianificazione (per es. telefonare a un amico per vedere se è realmente arrabbiato). I bambini piccoli potrebbero avere delle difficoltà, perché è improbabile che pianifichino le azioni prima di metterle in atto. Similmente, un’attività chiave di alcuni programmi cognitivi è l’analisi delle prove a favore e contrarie a determinate convinzioni, tipo “i miei amici non vogliono frequentarmi”. Tuttavia la capacità di confrontare, su un piano puramente mentale, assunti teorici e prove pratiche, emerge solo gradualmente nel corso dell’adolescenza. I bambini con meno di 10 anni tendono a ignorare le prove che vanno contro le proprie convinzioni. È solo con la media adolescenza che la maggior parte degli individui sviluppa la competenza di separare la teoria dalla pratica (vedere Capitoli 2 e 8). L’adolescenza, quindi, è un periodo di transizione nello sviluppo cognitivo. Lo stadio evolutivo è pertanto, una determinante importante nella scelta della tecnica più adatta a quel bambino specifico. Come regola generale, i bambini più grandi e gli adolescenti rispondono meglio ai trattamenti cognitivi dei bambini più piccoli. Si potrebbero così utilizzare tecniche differenti con bambini di differenti età. Gravità del disturbo È ormai comprovato che i casi più gravi rispondono meno bene alla CBT rispetto a quelli di media gravità. Per esempio, Jayson e colleghi (Jayson et al., 1998) hanno riferito che una maggiore compromissione sociale è associata a una risposta ridotta alla 271 Richard Harrington CBT, in adolescenti con depressione maggiore. Come regola generale, gli adolescenti la cui depressione è così invalidante da non permettergli di avere un buon funzionamento, almeno in un ambito sociale (per es. non riuscire a frequentare la scuola), hanno minori probabilità di rispondere bene alla CBT rispetto a quelli con una compromissione media o moderata. Contesto sociale I disturbi depressivi nei giovani sono profondamente radicati in un contesto sociale. Questo ha implicazioni sia sulla gestione dei problemi del bambino sia sulla probabilità di risposta al trattamento. Nessun trattamento ha buone probabilità di riuscita se non vengono soddisfatti alcuni bisogni basilari, fra cui la presenza di adeguate opportunità educative o la sicurezza della collocazione della famiglia. Per esempio, i bambini che vengono frequentemente spostati da una casa all’altra non trarranno probabilmente giovamento dalla CBT, o da qualunque altro tipo di intervento psicologico. Tecniche fondamentali Valutazione, fissazione degli obiettivi e formulazione iniziale La valutazione ha lo scopo di fornire una descrizione dettagliata dei problemi attuali coerente con una formulazione cognitivo comportamentale delle difficoltà del bambino. La valutazione dovrebbe anche permettere di raccogliere informazioni sul contesto sociale del bambino e sui suoi punti di forza e di debolezza. L’intervista iniziale comincia con una revisione globale dei problemi attuali e dei sintomi associati. In collaborazione con il bambino e la famiglia, il terapeuta porta avanti un’analisi dettagliata delle vaghe lamentele presentate per far uscire invece i problemi target più specifici. Lo scopo è generare una breve lista di problematiche maggiormente stressanti per il bambino e i genitori, e che sono le più adatte al trattamento. Le misure standardizzate del comportamento o delle emozioni del bambino posso essere d’aiuto nel definire questi problemi e sono spesso una buona misura di cambiamento. Il terapeuta poi tenta di identificare le distorsioni cognitive o i deficit che spesso accompagnano la depressione (vedere sopra). Infine, si fa una valutazione del contesto sociale del bambino rispetto alla famiglia, alle relazioni con i pari, al vicinato e alla scuola. Ci dovrebbe essere un’enfasi particolare sull’identificazione dei punti di forza intrinseci al bambino e alla famiglia e all’ambiente sociale allargato. La formulazione cognitivo comportamentale si basa sulle informazioni raccolte nella valutazione iniziale. Dovrebbe essere una formulazione scritta del problema in cui si evidenziano i fattori cognitivi e comportamentali chiave ritenuti responsabili dell’insorgenza o del mantenimento delle difficoltà del bambino. Dovrebbe includere anche il ruolo dei fattori esterni, per esempio difficoltà familiari o problemi con i coetanei, sulla visione che il bambino ha di sé e del mondo. La formulazione è quasi 272 I disturbi depressivi sempre multilivello e identifica numerose priorità per il trattamento. Lo sviluppo di una formulazione è una parte essenziale della CBT con i ragazzi. Formazione e coinvolgimento del bambino e della famiglia Tutte le forme di CBT dovrebbero iniziare con una spiegazione della diagnosi e del modello di trattamento. La natura di questa spiegazione dipende dal livello di sviluppo cognitivo del bambino. I ragazzi che hanno sviluppato quelle che Piaget (Piaget, 1970) definiva “competenze di pensiero formale” possono di solito comprendere la stessa concettualizzazione della CBT che verrebbe data a un adulto. Per esempio si potrebbe spiegare la relazione fra i pensieri di una persona, su di sé e sul proprio ambiente, i comportamenti e le emozioni. Molti bambini e giovani adolescenti hanno tuttavia difficoltà a “pensare al pensiero” e hanno bisogno di spiegazioni più appropriate al livello di sviluppo. Il terapeuta potrebbe raccontare al bambino una storia su una situazione sociale (per es. un estraneo che bussa alla porta) a cui si possono dare numerose differenti interpretazioni e analizzare con lui i vari diversi pensieri e sentimenti che si presentano alla mente. Per esempio, come si potrebbe sentire il bambino, se pensasse che l’estraneo ha il volto dell’assassino mostrato al telegiornale della sera? Alcune fiabe, come I vestiti nuovi dell’imperatore, potrebbero essere uno strumento utile per indagare che idea ha il bambino sul potere del pensiero e sulla convinzione di poter determinare il proprio comportamento (Wilkes et al., 1994). Anche se le CBT è di solito considerata un trattamento individuale o di gruppo, si tende sempre di più a incoraggiare i genitori a giocare un ruolo nella terapia. Il coinvolgimento dei genitori è importante per diverse ragioni. Primo, i genitori o altri significativi possono essere spesso molto utili per mettere in pratica il programma terapeutico – per es. possono aiutare a rinforzare l’assegnazione dei compiti a casa. Inoltre, possono fornire informazioni sullo stress presente nella vita del ragazzo e sulla persistenza di determinati sintomi che il bambino potrebbe non voler raccontare (per es. relazioni con i coetanei e comportamento antisociale). Secondo, speso sono proprio i genitori a richiedere una terapia. Terzo, i comportamenti e gli atteggiamenti dei genitori potrebbero essere importanti nel predisporre o mantenere fattori rilevanti nella problematica del bambino. Il Problem-Solving Un ingrediente base degli approcci cognitivo comportamentali per la depressione nei bambini è il problem-solving. Anche se gli antecedenti immediati di molti disturbi depressivi sono spesso specifiche emozioni o pensieri, questi sono provocati da problemi esterni. Questi problemi, di solito, sono di natura interpersonale, e coinvolgono la famiglia o i coetanei. Addestrare i bambini nel problem-solving li aiuta a trattare questi problemi esterni e fornisce loro anche un modello utile per numerose procedure cognitivo comportamentali. Il problem-solving nei bambini prevede gli stessi passi del modello adulto. Il bambino viene prima incoraggiato a identificare un problema 273 Richard Harrington risolvibile e poi a generare quante più soluzioni possibili. Si sceglie la migliore e poi si identificano i passi per portarla avanti e il bambino la prova nella pratica. Infine, si valuta tutto il processo. Principali tecniche cognitive In alcuni bambini e adolescenti, queste tecniche potrebbero essere utili, anche se, come già evidenziato, l’utilizzo è minore con i bambini rispetto agli adolescenti e agli adulti. A tutte le età, si pone l’enfasi sull’automonitoraggio – ossia, sul tenere traccia dei propri pensieri e sulla registrazione delle relazioni fra pensieri e altri fenomeni come i comportamenti o esperienze recenti. Negli adolescenti più grandi, si possono far emergere i pensieri utilizzano più o meno le stesse tecniche degli adulti. Nei bambini più piccoli, è spesso necessario utilizzare metodologie evolutivamente più appropriate. Per esempio, i cartoni animati, come il Thought Detective (Stark, 1990), possono aiutare a rappresentare l’immagine del bambino attivamente coinvolto nella comprensione dei propri pensieri e comportamenti. La ristrutturazione cognitiva è una parte importante di numerosi programmi di CBT. Il primo passo è identificare un pensiero e trascriverlo. Poi, si prendono in considerazione le argomentazioni e le prove che lo supportano e lo sconfessano. Infine, i pazienti dovrebbero trarre una conclusione sensata sulla base delle prove disponibili. I pensieri problematici sono spesso supportati da orientamenti mentali caratteristici e da convinzioni sul sé o sul mondo. Esempi tipici sono la convinzione che per essere felici si debba piacere a tutti e quella che l’aggressività sia un modo legittimo di gestire il conflitto interpersonale. Questi orientamenti cognitivi di solito non possono essere identificati attraverso lo stesso approccio utilizzato con i pensieri problematici, dal momento che, nella mente, non sono pienamente articolati. Sono piuttosto regole implicite, inferibili spesso dal comportamento della persona. Negli ultimi stadi della terapia, con gli adolescenti più grandi, si potrebbe incoraggiare il paziente a cercare i pattern di reazione alle situazioni che tradiscono queste assunti fondamentali. Simili tecniche possono essere particolarmente utili nella prevenzione delle ricadute. Principali tecniche comportamentali Parallelamente alle metodologie cognitive, il terapeuta utilizza anche importanti tecniche comportamentali. Le tecniche di esposizione si utilizzano quando il bambino evita una situazione temuta, come la scuola. Molti programmi includono sistemi di contingency management, in cui si stabilisce un sistema di ricompense per rinforzare i comportamenti desiderati. I sistemi di rinforzo per i bambini, di solito prevedono il coinvolgimento dei genitori, ma in alcuni programmi c’è un’enfasi sull’autorinforzo, dove è il bambino a ricompensare se stesso. La maggior parte dei disturbi psichiatrici dell’infanzia sono peggiorati dall’inattività. Una pianificazione delle attività prevede una programmazione, nella giornata 274 I disturbi depressivi del bambino, di attività finalizzate e divertenti. Il bambino, il terapeuta e i genitori collaborano per pianificare le attività giornaliere del ragazzo ora per ora. Si utilizzano anche specifiche tecniche comportamentali per trattare determinati sintomi. Per esempio, i disturbi del sonno potrebbero essere ridotti attraverso misure di igiene del sonno. Si potrebbe utilizzare un training di rilassamento per i sintomi somatici dell’ansia. Problematiche tecniche frequenti Prove randomizzate hanno indicato che la CBT è promettente nella gestione dei disturbi depressivi (vedere di seguito). Tuttavia, alcuni pazienti non rispondono all’iniziale corso di trattamento o lo abbandonano prima di averlo concluso. Questi sono problemi comuni frequenti che possono verificarsi nel corso di una CBT con ragazzi e che, almeno in parte, rendono conto di una mancata risposta al trattamento. Fattori relativi al terapeuta Uno degli errori più comuni che commettono i professionisti, è quello di prendere pazienti non adatti alla CBT. La maggior parte degli studi di ricerca sulla terapia cognitiva sono basati su casi selezionati. La pratica clinica dovrebbe essere di solito confinata ai casi indicati in questi studi. Pertanto, per esempio, l’efficacia della terapia con gli adolescenti depressi è stata dimostrata quasi sempre in campioni che non presentavano condizioni significative di comorbidità (Harrington et al., 1998b). Pertanto non si può presumere che adolescenti con una depressione e un grave disturbo della condotta risponderanno al trattamento nella stessa maniera di quelli “solo” depressi. Un altro problema comune è il fallimento nella costruzione di un’adeguata formulazione cognitivo comportamentale. Questo può portare all’applicazione di tecniche “manualizzate” non adatte alle necessità dell’individuo. Anche l’atteggiamento del terapeuta potrebbe causare dei problemi. Per esempio, molti bambini che vengono inviati per una terapia si trovano in situazioni di vita difficili e credono che le proprie difficoltà non possano essere risolte. In questi casi, il terapeuta potrebbe cadere nella convinzione che “tutti si sentirebbero così” in quella stessa situazione. Questo punto di vista di solito non è corretto. È importante che il terapeuta abbia un approccio ottimistico al problem-solving e che non contribuisca a una visione catastrofica del problema. Fattori relativi al paziente Anche le convinzioni del paziente possono portare a difficoltà nel corso della terapia. Alcuni ragazzi arrivano in trattamento convinti che tutti i propri problemi saranno curati dalla terapia psicologica. È importante che comprendano i limiti di una terapia cognitiva. Il terapeuta deve assicurarsi che vengano fissati obiettivi specifici e realistici all’inizio della terapia. Altri ragazzi denigrano la terapia con affermazioni come “Ho 275 Richard Harrington già fatto cinque sedute e non è cambiato nulla”. In questi casi, il terapeuta dovrebbe spiegare che il trattamento spesso segue un corso variabile, con alti e bassi. Possono sorgere molti problemi tecnici in una CBT con persone giovani. Uno dei più comuni è il fallimento nel portare a termine i compiti assegnati per casa. In questi casi, il terapeuta dovrebbe prima di tutto fare un ripasso della seduta precedente e assicurarsi di revisionare adeguatamente i compiti a casa. È importante per i esempio che i pazienti più giovani ripetano l’assegnazione per assicurarsi di aver capito. I problemi con i compiti a casa possono essere spesso prevenuti. Il terapeuta dovrebbe inoltre rivedere i compiti a casa nel corso della seduta. Deve essere costante e non smettere fino a che i compiti non sono stati fatti. Un altro problema comune è il silenzio dell’adolescente nel corso della seduta. In questi casi, il terapeuta dovrebbe allentare un pò la pressione dicendo, per esempio, “Sarò io a parlare per un pò” Una volta che l’adolescente inizia a parlare, il terapeuta può cercare di capire la fonte del problema. Fattori relativi ai genitori Gli atteggiamenti dei genitori possono essere una determinante molto potente dell’esito di un trattamento. Alcuni genitori credono che il loro bambino stia semplicemente “inventando tutto” e che non abbia davvero un problema, “Ne uscirà crescendo.” Alcuni hanno invece la visione opposta e credono che i problemi del bambino siano così gravi e così parte della sua personalità che non si possa fare niente con la terapia. Un’analisi attenta di queste convinzioni da parte del terapeuta, seguita da una spiegazione adeguata, può aiutare a modificare questi atteggiamenti. Lunghezza del trattamento e follow-up I programmi per i bambini con depressione tendono a essere piuttosto brevi, fra 12-16 sedute in 8 settimane (Clarke et al., 1990). Si sono dimostrate efficaci anche CBT da 8 sedute (Wood et al., 1996). Dal momento che i disturbi depressivi tendono a essere scomparire e poi ritornare, sono state sviluppate anche forme più lunghe, di due tipi. La prima implica la continuazione del trattamento dopo che la fase acuta dei sintomi è migliorata. A quel punto, il bambino entra in una terapia di mantenimento che è di solito più intermittente rispetto alla fase iniziale del trattamento. Lo sviluppo di forme continuative di CBT è allo stadio iniziale, ma ci sono prove indiziarie utili ai fini della prevenzione delle ricadute (Kroll et al., 1996). Il secondo modello prevede “check-up” periodici in cui il ragazzo ritorna dal terapeuta (Kazdin, 1997). Ogni ritorno di sintomi può così essere trattato precocemente. 276 I disturbi depressivi Le prove empiriche Sono almeno sei gli studi randomizzati e controllati sulla CBT in campioni scolastici di bambini con sintomi depressivi (Reynolds e Coats, 1986; Stark et al., 1987; Kahn et al., 1990; Liddle e Spence, 1990; Marcotte e Baron, 1993; Weisz et al., 1997). Di solito si iniziava con uno screening sulla depressione attraverso un questionario e poi si inserivano i ragazzi che avevano avuto punteggi elevati in un intervento di CBT di gruppo. In tre prove, la CBT era superiore all’assenza di trattamento. Anche se questi risultati sono promettenti, potrebbero non necessariamente essere applicabili a casi di effettivo disturbo depressivo. Tuttavia, una meta-analisi (Harrington et al., 1998a) su sei prove randomizzate su casi con diagnosi clinica di disturbo depressivo (Lewinsohn et al., 1990; Reed, 1994; Vostanis et al., 1996b; Wood et al., 1996; Brent et al., 1997; Clarke et al., 1999 ha riscontrato che la CBT era significativamente superiore a condizioni di controllo, come essere inseriti in lista d’attesa o fare un training di rilassamento (pooled odds ratio di 2.2). La CBT è pertanto un trattamento promettente per la depressione negli adolescenti. Ciò non di meno, ha delle limitazioni. La prima è che quelli con disturbo depressivo grave rispondono meno bene di quelli in condizioni medie o moderate (Clarke et al., 1992; Brent et al., 1998; Jayson et al., 1998; Brent et al., 1999). Secondo, anche se chi propone i trattamenti psicosociali spesso reclama benefici a lungo termine per lo sviluppo psicologico degli adolescenti, questo deve ancora essere pienamente dimostrato. Poche prove hanno fornito dati di follow-up superiori a pochi mesi e quelli che lo hanno fatto non hanno di solito riscontrato effetti a lungo termine (Vostanis et al., 1996a; Wood et al., 1996; Birmaher et al., 2000). Terzo, non è chiaro quali siano i processi psicologici che correlano con un esito migliore. La base del cambiamento terapeutico è pertanto incerta. Infine, anche se la CBT è stata descritta in manuali dettagliati (Clarke et al., 1990), pochi centri offrono un training ai terapeuti che vogliono lavorare con questo gruppo di età. Conclusioni Nel complesso, questo capitolo ha suggerito che la CBT è efficace per disturbi depressivi medi e moderatamente gravi. Non è, tuttavia, un “cura tutto”. La ricerca futura dovrà stabilire se è altrettanto efficace in forme gravi del disturbo depressivo e come possa essere meglio combinata con altri trattamenti, per esempio i farmaci. Un’altra questione chiave è come utilizzare i risultati della ricerca nella pratica clinica. 16.13 Riconoscimenti Ringraziamo il National Coordinating Centre for Health Technology Assessment e la PPP Foundation che finanziano le prove sulla CBT condotte dall’autore di questo capitolo. I punti di vista e le opinioni espresse qui non riflettono necessariamente quelle di queste istituzioni. 277 Richard Harrington Bibliografia Angold, A., Costello, E. J., Pickles, A. and Winder, F. (1987). The Development of a Questionnaire for Use in Epidemiological Studies of Depression in Children and Adolescents. London: Institute of Psychiatry. Angold, A., Costello, E. J. and Worthman, C. M. (1998). Puberty and depression: the roles of age, pubertal status and pubertal timing. Psychological Medicine, 28, 51-61. Beck, A. T. (1967). Depression: Clinical, Experimental and Theoretical Aspects. New York, Harper and Row. (1983). Cognitive therapy of depression: new perspectives. In P. J. Clayton and J. E. 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Anche se alcuni bambini riescono comunque ad avere una vita normale, questo è un disturbo che tipicamente compromette il funzionamento scolastico, sociale e professionale. Quindi, oltre a ridurre la morbidità associata al disturbo ossessivo compulsivo in età pediatrica, i progressi nel trattamento precoce hanno la potenzialità di ridurre la morbidità adulta. Negli ultimi 15 anni, la terapia cognitivo comportamentale (CBT) si è dimostrata il trattamento di elezione per il disturbo ossessivo compulsivo per tutto l’arco della vita (Marche et al., 1997). Diversamente da altre psicoterapie, applicate di solito senza risultati (March e Leonard, 1996), c’è una relazione logica coerente e convincente fra la CBT, il disturbo e l’esito specifico (Foa e Kozak, 1991). Nonostante il consenso di esperti sul fatto che la CBT sia di gran lunga il miglior trattamento psicosociale, i clinici lamentano che i propri pazienti non aderiscono ai trattamenti comportamentali e i genitori lamentano che i clinici hanno un addestramento scarso nella CBT. Oltre al fatto che non ci sono clinici addestrati nella CBT, molti bambini e adolescenti, se non la maggior parte, non ha accesso alla CBT. Questa sfortunata contingenza potrebbe essere evitabile se si comprendesse appieno l’efficacia della CBT per bambini e adolescenti con disturbo ossessivo compulsivo. 281 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa Dopo una discussione sul processo diagnostico in età pediatrica, questo capitolo andrà avanti analizzando lo stato attuale della CBT per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini e negli adolescenti. Vengono descritti i principi alla base del trattamento e si presenta brevemente il protocollo di CBT applicato dagli autori in contesti clinici e di ricerca (Marche Mulle, 1998). Di seguito si presentano gli studi empirici a favore dell’utilizzo della CBT e le future direzioni per la ricerca. Si conclude con un insieme di suggerimenti clinici. Il lettore che desidera seguire il protocollo dovrebbe comprare e utilizzare la versione pubblicata del manuale di trattamento (March e Mulle, 1998). Valutazione Una valutazione adeguata del disturbo ossessivo compulsivo in età pediatrica dovrebbe includere un’analisi approfondita dei sintomi attuali e passati del disturbo, della gravità dei sintomi e delle compromissioni funzionali a questi associate e un’analisi di eventuali comorbidità. Inoltre, si dovrebbero valutare i punti di forza del bambino e della famiglia così come la conoscenza che hanno del disturbo stesso e di come trattarlo. Ci sono numerosi strumenti di self-report o somministrati dal clinico che possono essere utilizzati per guidare questo tipo di valutazione. Gli autori di solito inviano una serie di importanti questionari di self-report alla famiglia, da completare prima della prima visita, e poi rivedono questo materiale prima di incontrare il bambino. Se risulta evidente da questi questionari che ci sono, in aggiunta al disturbo ossessivo compulsivo, anche sintomi di depressione o problemi d’ansia, il focus della terapia includerà anche questi. La Anxiety Disorders Interview Schedule for Children (ADIS-C) è un’intervista semistrutturata che può essere utilizzata per indagare eventuali comorbidità con grande accuratezza; gli autori utilizzano la ADIS nell’attuale studio collaborativo che esamina l’efficacia ascrivibile alla CBT, alla sertralina, al trattamento combinato con queste due e a un placebo (Franklin et al., 2003). Per una rassegna sui sintomi del disturbo ossessivo compulsivo e per la valutazione della gravità di quelli attuali, utilizziamo la checklist della scala di gravità Children’s Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (CY-BOCS) (Scahill et al., 1997). Prima di somministrare questa scala, è importante determinare se l’intervista al bambino dovrebbe avvenire o meno in presenza di un genitore. Nella prova randomizzata controllata degli autori, si conduce un’intervista congiunta; ponendo le domande al bambino, ma sollecitando allo stesso tempo anche un feedback dal genitore. In contesti che non sono di ricerca, c’è maggiore flessibilità e la decisione di intervistare il bambino da solo o con un genitore può essere presa discutendone prima con il genitore, osservando il comportamento nella sala d’attesa del bambino e della famiglia e anche nel corso dell’intervista se necessario. Per esempio, se è evidente che un paziente è riluttante a discutere determinati sintomi con un genitore presente (per es. ossessioni sessuali), il terapeuta può tralasciare l’item della checklist CY-BOCS e lasciarsi un pò di tempo alla fine dell’intervista per ritornare su queste questioni, potenzialmente sensibili, da solo con il paziente. Il nostro mantra nella clinica è “cogli 282 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi l’informazione”, il che significa che se la presenza del genitore accresce la validità del processo valutativo allora bisognerebbe coinvolgerlo nell’intervista – altrimenti, il bambino va intervistato da solo. Prima di somministrare la CY-BOCS, il terapeuta dovrebbe spiegare cosa sono le ossessioni e le compulsioni, utilizzando degli esempi se il bambino e/o i genitori hanno difficoltà a comprenderli. In questa occasione si può anche parlare al bambino o all’adolescente dell’incidenza, della natura e del trattamento del disturbo ossessivo compulsivo, cosa che potrebbe accrescere il desiderio di rivelare i propri sintomi specifici. I bambini potrebbero sentirsi gli unici sulla terra ad avere paure ossessive di fare male a una persona amata; in questo caso, introdurre esempi tipo “una volta ho incontrato un bambino che...”, fa crollare questo mito e minimizza il senso di isolamento che di solito lo accompagna. Nel corso della prima visita è anche importante osservare il comportamento del bambino e indagare se certi comportamenti (per es. movimenti e vocalizzazioni insolite) siano compulsioni designate a neutralizzare le ossessioni o a ridurre lo stress. I tic presentano una frequente comorbidità con il disturbo ossessivo compulsivo ed è importante cercare di fare una diagnosi differenziale, dal momento che le compulsioni e i tic verranno affrontati con differenti tecniche di trattamento. Inoltre, come già menzionato, alcuni bambini consapevoli delle proprie ossessioni potrebbero avere timore di raccontare le paure ad alta voce. In questo problema può essere d’aiuto indagare le ossessioni comuni attraverso una checklist, piuttosto che chiedere al bambino di rivelare le proprie paure e esprimergli la propria comprensione (per es. “molti bambini che incontro fanno difficoltà a parlare di questo tipo di paure”).Gli autori hanno riscontrato che si deve garantire flessibilità nel modo in cui viene portata avanti questa rivelazione. Così, per esempio, gli autori permettono al bambino di scrivere le paure o di fare un cenno con la testa quando il terapeuta descrive paure simili. In questo modo, possiamo comunicare al bambino e alla famiglia che riconosciamo la difficoltà della rivelazione. Gli autori utilizzano anche esempi tratti da diagnosi precedenti (per es. “Ricordo che pochi mesi fa un bambino della tua età mi disse che aveva paura di toccare il proprio cane perché aveva paura di perdere il controllo e di fargli male”), anche se, quando citano simili esempi, trasmettono chiaramente ai bambini e alle famiglie la propria attenzione nel non violare la confidenzialità. Segue una breve descrizione dei principali strumenti valutativi. La CY-BOCS Lo strumento primario per la valutazione del disturbo ossessivo compulsivo è la Y-BOCS, che indaga separatamente ossessioni e compulsioni relativamente al tempo che portano via, all’angoscia e all’interferenza che causano, al grado di resistenza e di controllo. Gli autori utilizzano la versione pediatrica (Scahill et al., 1997) per registrare i sintomi presenti e passati del disturbo ossessivo compulsivo, la gravità iniziale, la gravità complessiva, la preponderanza relativa delle ossessioni o delle compulsioni e il grado di insight. La CY-BOCS è uno strumento di valutazione clinica che unisce i dati osservativi e quelli tratti dai report dei genitori e del bambino. 283 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa La ADIS La ADIS per i bambini e gli adolescenti è un’intervista semistrutturata per valutare i disturbi d’ansia nella giovinezza (Silverman e Albano, 1996) sulla base dei sintomi del Manuale Diagnostico e Statistico IV (DSM-IV) (Associazione Americana di Psichiatria, 1994).Rispetto ad altri strumenti disponibili, come la Diagnostic Interview Schedule for Children (DISC), ha eccellenti proprietà psicometriche con i sintomi interiorizzati. La ADIS utilizza un format intervistatore-osservatore, permettendo così al terapeuta di trarre informazioni dall’intervista e dalle osservazioni cliniche. Si traggono de punteggi relativi a: (1) diagnosi specifiche e (2) livello di interferenza in relazione alla diagnosi. Sono state dimostrate adeguate proprietà psicometriche. La Children’s OCD Impact Scale (COIS) La versione per i genitori della ODC Impact Scale, da utilizzare nell’analisi della compromissione funzionale ascrivibile al disturbo, è ancora in fase di validazione, ma allo stato attuale dell’arte, mostra già alcuni indizi preliminari di adeguatezza psicometrica e sensibilità al cambiamento (Piacentini et al., 2001). Questo strumento ci permette d stimare se i miglioramenti nella CY-BOCS siano il risultato di una reale normalizzazione riscontrabile dall’analisi della compromissione funzionale. Di recente, è stata sviluppata una versione nuova e più breve di questa scala, le cui proprietà psicometriche sembrano favorevoli (Piacentini et al., 2001) Multidimensional Anxiety Scale for Children (MASC) La MASC ha quattro fattori e sei sottofattori – ansia fisica (tensione/rilassamento, somatica/autonomica), evitamento di potenziali danni (perfezionismo, coping ansioso), ansia sociale (umiliazione/rifiuto, ansia da performance) e ansia da separazione – e viene utilizzata in una serie di studi sull’esito del trattamento, finanziati dal National Institute of Mental Health (NIMH). La MASC mostra un’elevata affidabilità test-retest in campioni clinici (coefficiente di correlazione intraclasse >0.92) e scolastici (ICC>0.85); anche la validità convergente/divergente è buona (March, 1998b). Il Children Depression Inventory (CDI) Il CDI è una scala di self-report a 27 item che misura i sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e interpersonali della depressione (Kovacs, 1996). Ogni item è costituito da tre affermazioni, fra cui il bambino deve scegliere quella che meglio descrive il suo attuale funzionamento. Gli item ricevono un punteggio fra 0 e 2; e i punteggi totali vano da 0 a 54. La CDI mostra un’adeguata affidabilità e validità. Questa scala è utile per la valutazione dei sintomi depressivi al fine di ideare un intervento personalizzato. 284 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi Anamnesi medica Si dovrebbero analizzare anche le anamnesi mediche dei pazienti con disturbo ossessivo compulsivo pediatrico, facendo particolare attenzione alla presenza di ricorrenti infezioni da streptococco. I bambini con un disturbo ossessivo compulsivo causato dallo streptococco (Paediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorder Associated with Sterptococcal Infection o PANDAS) potrebbero richiedere un trattamento in qualche modo differente; inoltre la percentuale di questi che sviluppa successivamente un disturbo ossessivo compulsivo è attualmente sconosciuta e pertanto gli esperti concordano tutti sul fatto che non si possa fare una diagnosi di questo disturbo dopo aver riscontrato, a posteriori, la presenza di un PANDAS (Swedo et al., 1998), anche se questa è un’evenienza piuttosto comune (Giulino et al., 2002). I criteri diagnostici attuali per considerare il PANDAS un fattore eziologico rilevante, prevedono la presenza di almeno due episodi possibilmente documentati di degenerazione in disturbo ossessivo compulsivo in associazione a tic, in presenza di un’infezione da streptococco. Sfortunatamente, fare una diagnosi retrospettiva incontrovertibile di PANDAS è praticamente impossibile in una popolazione clinica di individui con disturbo ossessivo compulsivo (Giulino et al., 2002). A livello clinico, i bambini che mostrano indizi inconfutabili di PANDAS dovrebbero essere inviati a qualcuno per un appropriato trattamento dell’infezione da streptococco del gruppo A β-emolitico (GABSH). Dopo essere stati trattati per questa infezione, il clinico dovrebbe poi prendere in considerazione una CBT e/o un’eventuale farmacoterapia con inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) presentati di seguito. In sintesi, le scale, le interviste e i questionari precedentemente menzionati, potrebbero essere d’aiuto nella raccolta pre-trattamento di informazioni cliniche rilevanti e nella valutazione dei progressi al post-trattamento. Nella ricerca condotta dagli autori, questa è la pratica clinica di routine. Speriamo che lo sviluppo di una modalità efficace per la valutazione degli esiti potrebbe stimolare ricerche sull’efficacia in contesti clinici reali. Tuttavia, fino a che le misure utilizzate nella nostra ricerca non vengono snellite e ridotte alle componenti essenziali, le limitazioni economiche, di tempo e personali potrebbero restringerne l’applicabilità ad altri contesti. Il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo pediatrico con la CBT Rassegna Ci sono una serie di psicoterapie dinamiche, familiari e supportive che vengono applicate inutilmente e, alla luce delle attuali conoscenze, erroneamente ai bambini e agli adolescenti con disturbo ossessivo compulsivo. Per la maggior parte, le psicoterapie orientate all’insight, individuali e familiari, si sono rivelate deludenti sia con i bambini sia con gli adulti. Ora sono invece disponibili trattamenti cognitivo comportamentali empiricamente validati, efficaci e flessibili per numerosi disturbi mentali dell’infanzia, fra cui il disturbo ossessivo compulsivo (March et al., 2001). 285 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa Negli adulti, il trattamento cognitivo comportamentale del disturbo ossessivo compulsivo di solito implica un approccio a tre stadi: la raccolta di informazioni, l’applicazione della tecnica comportamentale esposizione allo stimolo/prevenzione della risposta (EX/RP) sotto la guida del terapeuta e poi come compito a casa, e un training di generalizzazione e di prevenzione delle ricadute. Le tecniche di esposizione e flooding graduale hanno una forte base empirica e clinica (Franklin et al., 2002). L’analisi delle componenti suggerisce che la tecnica esposizione allo stimolo/prevenzione della risposta sia un ingrediente attivo del trattamento: l’esposizione riduce l’ansia fobica e la prevenzione della risposta riduce i rituali (Foa et al., 1984). Il rilassamento si è rivelato una componente inattiva del trattamento cognitivo comportamentale per il disturbo ossessivo compulsivo ed è stato utilizzato come placebo attivo in studi brevi (4-6 settimane) sugli adulti (Fals-Stewart et al., 1993). Gli interventi cognitivi, anche se efficaci in alcuni studi (per es. van Oppen et al., 1995) potrebbero generalmente essere meno potenti del binomio EX/RP nel ridurre i sintomi del disturbo stesso. Strumenti Anche se la CBT viene da sempre indicata come il trattamento psicoterapeutico di elezione per i bambini e gli adolescenti con disturbo ossessivo compulsivo (King et al., 1998), solo ora stanno emergendo prove empiriche consistenti (March et al., 2001). In pratica, è soprattutto il binomio EX/RP, generalmente simile agli interventi per gli adulti, a costituire il tipico pacchetto di trattamento di CBT. EX/RP Così come applicata al disturbo ossessivo compulsivo, l’esposizione allo stimolo è giustificata dalla frequente riduzione del livello di ansia dopo un contatto abbastanza prolungato con lo stimolo temuto. Pertanto, un bambino che ha paura dei germi deve confrontarsi con situazioni temute, significative ma a basso rischio, fino a che la sua ansia non diminuisce. Un’esposizione ripetuta, in prove cliniche, è associata a una diminuzione dell’ansia, riduzione specifica rispetto a contesto di esposizione, fino a che il bambino non teme più il contatto con determinati stimoli fobici. L’esposizione è definitivamente efficace quando si elimina anche il rinforzo negativo derivante dai rituali o dal comportamento di evitamento attraverso la prevenzione della risposta o del rituale. Per esempio, un bambino che si preoccupa dei germi non solo deve toccare cose “sporche”, ma deve anche trattenersi dal rituale di lavarsi fino a che la sua ansia non diminuisce sostanzialmente. La tecnica EX/RP viene di solito applicata gradualmente (a volte viene definita esposizione graduale) e i target dell’esposizione sono sotto il controllo del paziente o, cosa meno desiderabile, del terapeuta. Gli approcci intensivi potrebbero essere particolarmente utili per i casi di disturbo particolarmente resistente al trattamento o per pazienti che desiderano risultati molto rapidi (Franklin et al., 1998). 286 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi La terapia cognitiva Sono stati utilizzati numerosi interventi cognitivi per fornire al bambino un “kit” che faciliti la compliance con le procedure di EX/RP (Soechting e March, 2002).Gli obiettivi della terapia cognitiva, che potrebbero essere più o meno utili a seconda del bambino e della natura del disturbo ossessivo compulsivo, di solito includono l’accrescimento del senso di autoefficacia, della percezione di prevedibilità e controllabilità delle situazioni e della probabilità di esisto positivo attribuibile a se stessi nelle prove EX/RP. Gli interventi specifici includono: (1) il discorso interiore costruttivo; (2) la ristrutturazione cognitiva e (3) il non attaccamento o, per dirla diversamente, minimizzare gli aspetti ossessivi della soppressione del pensiero. Ognuno di questi aspetti va personalizzato a seconda degli specifici sintomi del disturbo e deve armonizzarsi con le competenze cognitive del bambino, con il livello di sviluppo e con le differenze individuali di preferenza fra le tre tecniche. Simili metodi sono spesso incorporati nei programmi EX/RP, dove le procedure cognitive vengono utilizzate per supportare e completare la tecnica EX/RP piuttosto che per sostituirsi a essa. Estinzione Poiché l’interruzione dei rituali o dei comportamenti di evitamento rimuove il loro effetto di rinforzo negativo; la prevenzione del rituale è, a livello tecnico, una procedura di estinzione. Per convenzione, tuttavia, l’estinzione viene di solito definita come l’eliminazione dei comportamenti collegati al disturbo ossessivo compulsivo, attraverso la rimozione del rinforzo positivo che i genitori danno ai rituali. Per esempio, con un bambino che presenza rituali di ricerca di rassicurazione, il terapeuta potrebbe chiedere ai genitori di trattenersi dal gratificare la ricerca rituale di rassicurazione. L’estinzione di solito produce effetti molto rapidi, ma può essere difficile da applicare quando il comportamento del bambino è bizzarro o molto frequente. Inoltre, le procedure di estinzione non consensuali spesso generano uno stress incontrollabile per il bambino, compromettono l’alleanza terapeutica, fanno perdere importanti target della tecnica EX/RP non adatti a procedure di estinzione e, cosa più importante, non riescono ad aiutare il bambino a interiorizzare una strategia per opporsi al disturbo. Quindi, come nel caso della tecnica EX/RP, porre il programma di estinzione sotto il controllo del bambino porta a una maggiore compliance e a esiti migliori. Il modelling e lo shaping Il modelling – diretto (il bambino capisce che il terapeuta gli sta mostrando comportamenti di coping più adeguati o adattivi) o indiretto (il terapeuta è modello informale di un comportamento) – può aiutare ad accrescere la compliance con le procedure EX/RP e la generalizzazione dei risultati ai compiti a casa. Mirato ad accrescere la motivazione ad assecondare le procedure di EX/RP, lo shaping implica il rinforzo positivo di approssimazioni graduali a un comportamento target desiderato. Il modeling e lo 287 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa shaping riducono l’ansia anticipatoria e forniscono un’opportunità di mettere in pratica un discorso interiore costruttivo prima e durante la tecnica EX/RP. Dal momento che la procedura EX/RP non si è dimostrata particolarmente utile con la lentezza ossessiva, il modeling e lo shaping sonno attualmente il trattamento di elezione per i bambini con questo sottotipo di disturbo ossessivo compulsivo. Sfortunatamente, spesso si verificano delle ricadute quando lo shaping assistito dal terapeuta, la fissazione di limiti e procedure di velocizzazione vengono esclusi dalla vita del bambino. Procedure di condizionamento operante Su un piano clinico, il rinforzo positivo non altera direttamente i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo, ma aiuta a incoraggiare la compliance alle procedure di EX/RP e pertanto produce un beneficio clinico notevole, anche se indiretto. Al contrario, la punizione (definita come l’imposizione di un evento avversivo) e le procedure response-cost (definite come la rimozione di un evento positivo) si sono dimostrate inutili. La maggior parte dei programmi di CBT utilizzano abbondanti rinforzi positivi liberali per la tecnica EX/RP e vietano l’applicazione di procedure di contingency management avversive a meno che queste non siano mirate a trattare altri comportamenti disfunzionali che non rientrano nell’ambito del disturbo ossessivo compulsivo. Dal momento che il disturbo ossessivo compulsivo stesso è un potente stimolo avversivo, le procedure di EX/RP che hanno successo portano al desiderio di venire coinvolti in ulteriori procedure di EX/RP attraverso un rinforzo negativo (ossia l’eliminazione dei sintomi del disturbo ossessivo compulsivo accresce la compliance con la EX/RP) come manifestato da una generalizzazione non pianificata a nuovi target di EX/RP, mano a mano che il trattamento va avanti. Trattamento individuale versus familiare La psicopatologia familiare non è una condizione né necessaria né sufficiente per l’insorgenza di un disturbo ossessivo compulsivo; ciò non di meno, la famiglia influenza, ed è influenzata, dal disturbo (Amir et al., 2000). Quindi, anche se mancano dati empirici, le osservazioni cliniche suggeriscono che una combinazione di sedute familiari e individuali rappresenta la soluzione migliore per la maggior parte dei pazienti. Un tipico protocollo di CBT Il protocollo utilizzato da March et al. nel proprio studio del NIMH (discusso in seguito), è un esempio alquanto tipico di un regime di esposizione graduale (Marche Mulle, 1998) ed è costituito da 14 sedute, per un periodo di 12 settimane, che si dipanano in cinque fasi: (1) fase psicoeducativa, (2) training cognitivo, (3) mappatura del disturbo ossessivo compulsivo, (4) esposizione e prevenzione del rituale e (5) prevenzione delle ricadute e training di generalizzazione. Come mostrato nella Tabella 17.1, 288 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi eccetto per la settimana 1 e 2, in cui i pazienti vengono due volte a settimana, tutte le visite hanno cadenza settimanale, durano 1 ora e prevedono un contatto telefonico di 10 minuti fra una visita e l’altra pianificato nel corso delle settimane 3-12. Tabella 17.1 Il protocollo di trattamento della CBT Visita Obiettivi Settimane 1 e 2 Psicoeducativi Training cognitivo Settimana 2 Settimane 3-12 Settimane 11-12 Visite 1, 7 e 9 Target Modello neurocomportamentale Chiamare il disturbo con il suo nome Fissare una gerarchia degli stimoli Mappatura del disturbo ossessivo Ristrutturazione cognitiva EX/RP immaginarie e in vivo compulsivo Target, piani di ricaduta e followTraining cognitivo up Esposizione e prevenzione Diminuire i rinforzi al disturbo osdella risposta sessivo compulsivo Prevenzione delle ricadute Arruolare i genitori come co-teraSedute con i genitori peuti L’attività psicoeducativa che identifica il problema presente con il disturbo ossessivo compulsivo, il training cognitivo e lo sviluppo di una gerarchia degli stimoli (mappatura del disturbo ossessivo compulsivo) si verificano dalla prima alla quarta seduta. Le EX/RP si verificano nelle sedute dalla cinque alla dodici, con le ultime due sedute che includono un training di generalizzazione e la prevenzione delle ricadute. In ogni seduta si stabiliscono degli obiettivi, si rivede il lavoro precedente, si danno nuove informazioni, si esercitano nuove competenze sotto la guida del terapeuta, si assegnano i compiti a casa per la settimana successiva e si prevedono procedure di monitoraggio. I genitori vengono coinvolti principalmente nelle sedute uno, sette e undici, e queste ultime due sedute hanno lo scopo di guidare i genitori nell’assistere il proprio figlio nel fare i compiti assegnati per casa. Anche le sedute 13 e 14 prevedono un input significativo da parte dei genitori. I genitori eseguono un check-in con il terapeuta all’inizio di ogni seduta, e il terapeuta fornisce un feedback, descrivendo gli obiettivi di ciascuna seduta e il progresso del bambino nel trattamento. Il terapeuta lavora con i genitori per aiutarli a trattenersi dall’insistere su compiti EX/RP non appropriati, cosa piuttosto comune nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo pediatrico. Il terapeuta li incoraggia anche a elogiare il bambino quando oppone resistenza alle paure ossessive e ai rituali, e, allo stesso tempo, a focalizzare la propria attenzione sugli elementi positivi nella vita del bambino, un intervento tecnicamente definito come rinforzo differenziale di comportamenti alternativi. In alcuni casi, il coinvolgimento 289 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa notevole della famiglia nei rituali e/o il livello evolutivo del bambino richiedono che i membri della famiglia assumano un ruolo più centrale nel trattamento. È importante notare che i protocolli di CBT permettono una sufficiente flessibilità per apportare adattamenti sulla base del quadro sintomatologico. Cruciale per il successo di qualunque protocollo di CBT è la capacità di applicare trattamenti guidati da protocolli strutturati in una maniera appropriata su un piano evolutivo (Clarke, 1995). Nell’ottica degli autori, la CBT si è mostrata efficace nei bambini fino dall’età di 5 anni. L’adeguatezza evolutiva viene garantita permettendo una flessibilità nel protocollo di trattamento e rispettando i vincoli degli obiettivi fissati nella seduta. Più specificamente, il terapeuta adatta il livello del discorso al funzionamento cognitivo, alla maturità sociale e alla capacità di attenzione sostenuta di ciascun paziente. I pazienti più giovani richiedono hanno maggiormente bisogno di essere ridirezionati e di essere coinvolti in diverse attività per mantenere elevato il livello di attenzione e di motivazione. Gli adolescenti sono di solito più sensibili agli effetti del disturbo sulle interazioni con i pari, che richiedono una discussione più approfondita. Gli interventi cognitivi in particolare, richiedono un adattamento al livello di sviluppo del paziente, così, per esempio, agli adolescenti non piacerebbe assegnare al disturbo ossessivo compulsivo un soprannome sgradevole, mentre ai bambini sì. Si utilizzano anche metafore evolutivamente adeguate, rilevanti per le aree di interesse e di conoscenza del bambino, per promuovere un coinvolgimento attivo nel processo di trattamento. Per esempio, un adolescente che giocava a calcio riusciva a comprendere meglio concetti formulati con una terminologia di strategie offensive e difensive, come quella che si utilizza nel gioco (per es. bloccare le incursioni). Quando ci sono pazienti con sintomi che coinvolgono alcuni membri della famiglia, il coinvolgimento della famiglia stessa nel piano di trattamento dovrà essere curato con attenzione. Tuttavia, anche se il manuale (Marche e Mulle, 1998) include una sezione sugli adattamenti particolari per il livello di sviluppo, specifici per ciascuna seduta di trattamento, il format generale e gli obiettivi delle sedute di trattamento sono gli stessi per tutti i bambini. Corso iniziale del trattamento Per mostrare un tipico corso iniziale di un trattamento, March e Mulle (1995) hanno utilizzato un disegno entro i soggetti a baseline multipla unito a valutazioni globali delle settimane di trattamento, con una bambina di 8 anni che presentava un disturbo ossessivo compulsivo trattata solo con una CBT. Undici settimane di trattamento avevano portato a una remissione completa dei sintomi in questa bambina di 8 anni con disturbo ossessivo compulsivo di tipo semplice; i benefici del trattamento erano presenti ancora a 6 mesi di follow-up. La Figura 17.1 mostra il progresso nel trattamento, per ogni settimana, per ciascun sintomo della baseline. Ciascuna casella indica una settimana di trattamento. L’asse delle Y (verticale) rappresenta i punteggi di paura per ciascun sintomo, sulla gerarchia dei sintomi, presente alla baseline; i sintomi vengono rappresentati come barre sull’asse delle X (orizzontale). All’inizio, la riduzione dei sintomi all’interno di ciascuna baseline era specifica rispetto ai target della EX/RP per quella baseline. Come succede spesso, 290 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi tuttavia, una volta che il paziente “aveva capito”, la generalizzazione presentava un rallentamento mano a mano che ci si avvicinava ai sintomi più complessi, ossia quelli al top della gerarchia. Il miglioramento rallentava alla fine della gerarchia, nella parte più alta, ma il progresso generale continuava fino a che la maggior parte, se non tutti i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo non avevano subito una remissione e un rallentamento e la generalizzazione era adeguata. Figura 17.1 Baseline multiple nel tempo. SUDS, unità soggettive di angoscia valutate su un indice di fobia da 0 (nessun problema) a 10 (rapporto pessimo). Sintomi chiave: 1, toccare la bocca; 2, mangiare uno snack dopo aver toccato delle piante; 3, non lavarsi prima dei pasti; 4, rimettere nuovamente maglioni a collo alto; 5, toccare qualcosa di appiccicoso; 6, toccare pietanze liquide; 7, utilizzare nuovamente gli asciugamani; 8, toccare un gatto; 9, utilizzare l’Ajax; 10, utilizzare i detergenti della Windex; 11, vernice tossica; 12, toccare persone malate. 291 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa Studi sugli esiti del trattamento Studi empirici Mentre si aspettano ancora i risultati di numerosi studi controllati e randomizzati tuttora in corso sul confronto fra la CBT e altri trattamenti attivi o gruppi di controllo, la letteratura esistente è già sufficientemente consistente da aver generato un’accettazione diffusa fra gli esperti della CBT come trattamento di elezione per i bambini e gli adolescenti con il disturbo ossessivo compulsivo. Efficacia Analisi non controllate pubblicate a oggi (Franklin et al., 1998; March, 1998a; Franklin et al., 2001; March et al., 2001) hanno dato risultati decisamente simili: al post trattamento, la maggioranza dei pazienti aveva risposto, con una riduzione media alla CY-BOCS fra il 50% e il 67%. Anche se per trarre delle conclusioni sono necessari studi controllati e randomizzati, queste riduzioni nella CY-BOCS, associate alla CBT, sono notevoli. Tuttavia, a complicare l’interpretazione dei risultati c’è il fatto che molti, se non la maggior parte, dei pazienti assumevano farmaci inibitori selettivi del reuptake della serotonina, prima o durante il corso della CBT e pertanto non è stato possibile separare gli effetti della sola CBT. Risposta alla frequenza e alla durata La maggior parte degli studi pubblicati sugli esiti della CBT nei casi di disturbo ossessivo compulsivo pediatrico hanno utilizzato un regime terapeutico a frequenza settimanale. Al contrario, Wever e Rey (1997) hanno utilizzato un protocollo intensivo di CBT che includeva due sedute per la raccolta delle informazioni, seguite da dieci sedute giornaliere di CBT per 2 settimane. Franklin et al. (1998) non hanno riscontrato alcuna differenza fra 14 sedute settimanali per 12 settimane o 18 sedute in 4 settimane, ma l’interpretazione di questi risultati è ostacolata dall’assenza dell’assegnazione casuale. Presi insieme, gli studi disponibili suggeriscono che i pazienti rispondono bene alla CBT applicata su base settimanale o intensiva. Data la maggiore accettabilità del trattamento settimanale per i pazienti e per chi lo eroga, la maggior parte dei terapeuti utilizzerà probabilmente il protocollo da 14 sedute per 12 settimane (March e Mulle, 1998) che gli autori hanno analizzato nel proprio studio collaborativo del NIMH. Durata Gli studi epidemiologici suggeriscono che il disturbo ossessivo compulsivo è una condizione cronica. Tuttavia, la ricerca clinica negli adulti mostra che gli esiti a lungo termine per i pazienti trattati solo con la CBT o con la CBT unita ai farmaci sono di 292 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi solito favorevoli. Foa e Kozak (1996) hanno concluso che i benefici raggiunti con la terapia comportamentale persistono senza continuare il trattamento, mentre quelli raggiunti solo con i farmaci richiedono la persistenza del trattamento per restare tali. Come nei pazienti adulti, anche nei bambini e negli adolescenti il disturbo ossessivo compulsivo è una malattia mentale cronica. Per esempio, nel primo studio di follow-up del NIMH, il 68% dei pazienti presentava una diagnosi clinica di disturbo ossessivo compulsivo al follow-up (Flament et al., 1990). In un seguente studio di follow-up più sistematico a 2 e 7 anni (Leonard et al., 1993), il 43% soddisfaceva ancora i criteri per un disturbo ossessivo compulsivo; solo l’11% era completamente asintomatico. Il settanta per cento continuava ad assumere i farmaci al momento del follow-up e questa è la prova manifesta dei limiti del trattamento ricevuto da questi pazienti. I tre studi pilota sul disturbo ossessivo compulsivo pediatrico che hanno incluso una valutazione al follow-up (March et al., 1994; Wever, 1994; Franklin et al., 1998) supportano la durata dei risultati ottenuti con la CBT, con benefici terapeutici presenti fino a 9 mesi dopo il trattamento. Inoltre, dal momento che di solito la ricaduta segue l’interruzione del trattamento farmacologico, i risultati di March et al. (1994), secondo cui il miglioramento era presente in sei pazienti su nove dopo l’interruzione dei farmaci, fornisce un supporto limitato all’ipotesi secondo cui la CBT inibisce la ricaduta quando si interrompono i farmaci. Un confronto diretto fra la CBT e la farmacoterapia I risultati di un confronto singolo, in un campione piccolo, fra la CBT e il trattamento con clomipramina indicava progressi, rispetto alla baseline, ascrivibili a entrambi e la superiorità della CBT rispetto alla clomipramina (de Haan et al., 1998). Nello studio di Franklin e colleghi (Franklin et al., 1998), che confrontavano i risultati della CBT in pazienti che assumevano o meno i farmaci, 12 dei 14 pazienti erano migliorati almeno del 50% nella gravità dei sintomi pre-trattamento della Y-BOCS, e, nella grande maggioranza, questi miglioramenti persistevano al follow-up; la riduzione media nella Y-BOCS era del 67% al post-trattamento e del 62% al follow-up (media epoca di follow-up: 9 mesi). Non sembravano evidenti differenze fra coloro che avevano ricevuto un’esposizione graduale versus intensiva o fra coloro che avevano assunto o meno i farmaci. Pertanto, una risposta definitiva alla domanda se la CBT e i farmaci da soli diano risultati differenti o se la combinazione sia equivalente o migliore di una terapia con uno dei due soltanto, attende ancora i risultati della prova controllata randomizzata di Duke/Penn Disponibilità, accettabilità e tollerabilità Gli esperti hanno proposto la CBT, ponendo l’enfasi sulla tecnica EX/RP, come il trattamento di elezione per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini e negli adolescenti (March et al., 1997), ma numerose barriere potrebbero limitarne l’utilizzo diffuso. Primo, pochi terapeuti hanno un’esperienza notevole nella CBT per il disturbo 293 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa ossessivo compulsivo pediatrico; pertanto, la CBT di solito, quando possibile, è disponibile solo in aree vicine ai principali centri medici. Secondo, anche quando il trattamento è disponibile, alcuni pazienti e famiglie rifiutano il trattamento perché “troppo complicato”. Una volta coinvolti nella CBT, alcuni pazienti trovano lo stress iniziale, causato dal confronto con pensieri e situazioni temute senza ricorrere ai soliti rituali, così avversivo da indurli ad abbandonare il trattamento. Nel protocollo degli autori, si utilizza una gerarchia di EX/RP, si coinvolge attivamente il paziente nella scelta degli esercizi di esposizione e si inseriscono tecniche di gestione dell’ansia per i pochi che ne hanno bisogno. Come risultato, i tassi di abbandono negli studi pilota e nelle prove di confronto fra trattamenti (dati non pubblicati) sono bassi, cosa che a sua volta suggerisce che la grande maggioranza dei bambini e adolescenti può tollerare e trarre beneficio dalla CBT, quando questa viene applicata da clinici esperti e facendo attenzione alle problematiche evolutive. I mediatori dell’esito di trattamento Il problema di interesse primario per i clinici e i ricercatori che cercano di raffinare e migliorare gli esisti di trattamento è: “quale trattamento per quale bambino e con quali caratteristiche”. Il senso comune suggerisce che i pazienti con disturbo ossessivo compulsivo che traggono beneficio dalla CBT e dai farmaci differiscono per aspetti importanti, anche se non del tutto compresi. Tuttavia, oltre alla comorbidità con il disturbo schizotipico (Baer et al., 1992) e con i tic (McDougle et al., 1993), che potrebbero rappresentare impedimenti al trattamento e indicazioni possibili per un’aggiunta di neurolettici, la scarsa letteratura empirica sui mediatori dell’esito del trattamento negli adulti, non fornisce un supporto evidente a nessuno dei potenziali predittori proposti da Goodman et al (1994) nella rassegna sulle prove farmacologiche per il disturbo ossessivo compulsivo. Di contro, i predittori di una risposta positiva al trattamento comportamentale sono la presenza di rituali, il desiderio di eliminare i sintomi, la capacità di monitorare e riportare i sintomi, l’assenza di condizioni di comorbidità che complicano il quadro clinico, la volontà di cooperare con il trattamento e indicatori psicofisiologici (Foa e Emmelkamp, 1983). Mentre molti hanno suggerito che la presenza di comorbidità, soprattutto con i tic, la mancanza di motivazione o di insight e la presenza di psicopatologia familiare potrebbero predire uno scarso risultato nei bambini in una CBT, non ci sono ancora basi empiriche, oppure sono scarse, sulla base delle quali predire l’esito di trattamenti psicosociali in bambini che intraprendono un trattamento psicosociale. Al contrario, una letteratura piuttosto estesa sui predittori dell’esito del trattamento farmacologico non riesce a identificare alcuna variabile predittiva. Per esempio, in una recente prova multipla con sertralina e placebo in bambini e adolescenti con disturbo ossessivo compulsivo (March e Mulle, 1998), né l’età, né l’etnia, né il sesso, né il peso corporeo, né i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo alla baseline, né i valori depressivi alla baseline, né la comorbidità, né lo status socioeconomico, né il livello plasmatico della sertralina o della desmetilsertralina erano predittori dell’esito del trattamento. 294 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi Dato che la letteratura di ricerca è ancora indecisa su quale trattamento - la CBT, la farmacoterapia con un inibitore selettivo del reuptake della serotonina o la loro combinazione – sia il migliore per i bambini con disturbo ossessivo compulsivo, i predittori sintetizzati nella Tabella 17.2 (che gli autori considerano potenziali mediatori dell’esito del trattamento nello studio comparativo attualmente finanziato dal NIMH sulla CBT, sui farmaci da soli e sulla combinazione fra i due) dovrebbero essere tutti valutati, quando si struttura un piano di trattamento per i bambini e gli adolescenti con questo disturbo. Tabella 17.2 Variabili predittori Area Variabili analizzate Età, sesso, etnia, status socioeconomico Demografica QI totale, QI verbale e di performance Profilo neurocognitivo PANDAS, peso, altezza e storia ostetrica Anamnesi medica Profilo sintomatologico, gravità iniziale, impatto Fattori specifici per il disturbo ossessivo sul funzionamento, insight e storia del trattamencompulsivo to Aspettativa sul trattamento Aspettativa sul trattamento Sintomi e disturbi interiorizzati ed esteriorizzati, Comorbidità tic Sintomi generali, depressione, ansia e disturbo Psicopatologia dei genitori ossessivo compulsivo Stress dei genitori, espressione delle emozioni e Funzionamento familiare stress coniugale Direzioni future Rassegna Gli sforzi della ricerca sono ora focalizzati (o lo saranno a breve) su otto aree: (1) eseguire prove comparative fra farmaci, CBT e combinazione fra due, per determinare se l’azione dei farmaci e della CBT nel ridurre i sintomi sia sinergica o sommativa; (2) eseguire studi di follow-up per analizzare le percentuali di ricaduta e l’utilità di sedute di ripasso nel ridurre il rischio di ricaduta; (3) analizzare le componenti, il confronto, per esempio, fra la tecnica EX/RP, la terapia cognitiva e la loro combinazione, per valutare il contributo relativo nella riduzione dei sintomi e nel grado di accettabilità del trattamento; (4) confrontare i trattamenti individuali con quelli familiari per determinare quale sia il più efficace con i bambini; (5) sviluppare trattamenti innovativi per 295 John S. March, Martin Franklin e Edna Foa determinati sottotipi di disturbo ossessivo compulsivo, la lentezza ossessiva primaria, il disturbo ossessivo compulsivo con ossessioni predominanti e con tic, che non rispondono bene alle procedure di EX/RP; (6) indirizzare l’innovazione del trattamento a fattori come la disfunzione familiare, che limitano l’applicazione della CBT ai pazienti con questo disturbo; (7) esportare i trattamenti dai contesti di ricerca a quelli clinici, a popolazioni cliniche divergenti e differenti, per verificare l’accettabilità e l’efficacia della CBT come trattamento per il disturbo ossessivo compulsivo dei bambini e degli adolescenti nel mondo reale e (8) una volta passata la fase iniziale del trattamento, gestire le risposte parziali, la resistenza al trattamento, la perseveranza e l’interruzione del trattamento stesso. Prove comparative di trattamento Nonostante nella prassi attuale, come trattamento elettivo per il disturbo ossessivo compulsivo pediatrico, si suggerisca l’applicazione della CBT da sola o la combinazione di questa con un farmaco inibitore selettivo del reuptake della serotonina (Marche t al., 1997), l’efficacia relativa della CBT e dei farmaci, da soli o in combinazione, resta incerta. Pertanto, sono necessari studi comparativi ben disegnati che indaghino gli esiti del trattamento sia negli adulti sia nei bambini. Quindi è di particolare importanza lo studio comparativo sugli esiti del trattamento che gli autori concluderanno a breve, finanziato dal NIMH, sui trattamenti del disturbo ossessivo compulsivo (Franklin et al., 2003). Questo studio mette a confronto l’entità e la durata dei miglioramenti ottenuti, con un trattamento di 5 anni, su un campione di 120 ragazzi volontari (60 per area), fra gli 8 e i 16 anni, con una diagnosi clinica, secondo il DSM-IV, di disturbo ossessivo compulsivo, in quattro condizioni di trattamento: trattamento con sertralina (MED), CBT specifica per il disturbo ossessivo compulsivo (CBT), combinazione dei due (COMB) e due condizioni di controllo (placebo (PBO) e supporto educativo (ES)). Il disegno sperimentale prevede due fasi. La fase I confronta gli esiti delle condizioni sperimentali, MED, CBT, COMB, con le condizioni di controllo. Nella Fase II, i pazienti che avevano risposto al trattamento progredivano a un trattamento discontinuo di 16 settimane per valutare la durata degli effetti del trattamento. La misura principale dell’esito sono stati i valori della Y-BOCS. Sono state anche condotte valutazioni insensibili al trattamento ai seguenti stadi: settimana 0 (pre-trattamento); settimane 1, 4, 8 e 12 (fase I) e settimane 16, 20, 24 e 28 (fase II). Oltre a confrontare la relativa efficacia e durata dei trattamenti specifici, questo studio analizza anche gli effetti tempo-azione; gli effetti differenziali dei trattamenti su aspetti specifici del disturbo ossessivo compulsivo, fra cui la compromissione funzionale; e i predittori della risposta al trattamento. Una volta concluso, questo studio sarà seguito da una prova comparativa della CBT versus un trattamento con un neurolettico atipico in pazienti che non rispondono bene al farmaco inibitore selettivo del reuptake della serotonina. 296 Psicoterapia cognitivo comportamentale per i disturbi ossessivo compulsivi Sintesi Nonostante i limiti nella letteratura di ricerca, la psicoterapia cognitivo comportamentale da sola o in combinazione alla farmacoterapia attualmente si conferma il trattamento d’elezione per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini e negli adolescenti. Idealmente, le persone giovani con un disturbo ossessivo compulsivo dovrebbero prima essere sottoposte a una CBT ottimizzata per disturbo ossessivo compulsivo a insorgenza nell’infanzia e, se non si ha una risposta immediata, passare a una CBT intensiva o all’aggiunta di una farmacoterapia parallela con un farmaco inibitore selettivo del reuptake della serotonina. Inoltre, dal momento che la psicoterapia cognitivo comportamentale, comprese alcune sedute di ripasso nelle fasi di sospensione del farmaco, potrebbe migliorare gli esiti a breve e lungo termine nei pazienti trattati con i farmaci; tutti i pazienti che assumono farmaci potrebbero anche ricevere una CBT parallela. A questo proposito, le tesi avanzate a sfavore della CBT per il disturbo ossessivo compulsivo, che semplicemente sostituisca i sintomi, il pericolo dell’interrompere i rituali, l’uniformità dei sintomi appresi e l’incompatibilità con la farmacoterapia, si sono tutte rivelate infondati. Forse il mito più insidioso è che la CBT sia un trattamento semplicistico che ignora i “problemi reali”. Gli autori credono che sia vero l’opposto. Aiutare i pazienti a fare un cambiamento rapido e difficile, in un lasso di tempo breve, richiede competenza clinica e un trattamento con focus specifico. Attualmente, si ritiene che i trattamenti per il disturbo ossessivo compulsivo pediatrico dovrebbero essere solitamente condotti da un team multidisciplinare localizzato in un contesto clinico simil-specialistico. Tradurre la pratica specialistica per l’applicazione nei servizi territoriali è essenziale se si vuole rendere questi trattamenti efficaci, come la CBT per il disturbo ossessivo compulsivo, disponibili su vasta scala ai bambini e agli adolescenti che soffrono di questo disturbo. Riconoscimenti Questo manoscritto, adattato da March et al. (2001), è stato supportato in parte dal NIMH Grants 1 R10MH55121 (Drs March e Foa) e 1 K24MHO1557 (Dr March) e dalla famiglia di Robert e Sarah Gorrell. Bibliografia American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edn. Washington, DC: American Psychiatric Association. Amir, N., Freshman, M. and Foa, E. B. (2000). 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Piuttosto, l’ansia può essere meglio concepita come un continuum con i disturbi d’ansia che si collocano all’estremo di gravità (Schniering et al., 2000).La necessità di un intervento nei bambini il cui livello di ansia è invalidante è evidenziata dalle ricerche che mostrano come questi bambini e adolescenti, quando non si interviene adeguatamente, hanno una prognosi significativamente più infausta rispetto a coloro che vengono aiutati (Dadds et al., 1997). Diagnosi La quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV; Associazione Americana di Psichiatria, 1994) include le seguenti categorie di disturbi d’ansia, che possono essere riscontrati anche nei bambini: disturbo d’ansia da separazione, disturbo da attacchi di panico, agorafobia, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo post-traumatico da stress, disturbo acuto da stress, fobia specifica, fobia sociale e disturbo d’ansia generalizzato. Anche se non esistono categorie specifiche per i disturbi d’ansia nell’infanzia, il DSM-IV tiene in considerazione le differenze nella manifestazione dell’ansia nei bambini conseguenti alle differenze cognitive ed evolutive. Per esempio, i criteri evidenziano che, diversamente dagli adulti, i bambini e gli adolescenti potrebbero non necessariamente considerare le proprie paure o i comportamenti ansiosi come qualcosa di eccessivo o non ragionevole. Inoltre, i sintomi come il pianto, i capricci e restare attaccati ai genitori sono ritenuti in301 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee dicatori comportamentali dell’ansia nei bambini. Dato che l’ansia è una caratteristica comune e spesso transitoria dell’infanzia, il DSM-IV asserisce inoltre che i sintomi del disturbo devono essere presenti per almeno 6 mesi prima che possa essere effettuata una diagnosi. Descrizione dei disturbi e incidenza Il disturbo d’ansia da separazione è caratterizzato da un’ansia che compare quando il bambino si deve allontanare dalla casa e dalle figure di attaccamento ed è eccessiva e inadeguata per l’età, mentre la fobia sociale è caratterizzata dalla paura di una o più situazioni in cui è essere valutati dagli altri. I bambini con fobia sociale temono di agire in un modo che sia per loro umiliante o imbarazzante – pertanto, le situazioni sociali potrebbero essere evitate per prevenire che questa possibilità si verifichi. La caratteristica primaria del disturbo d’ansia generalizzato è uno stato di preoccupazione eccessivo e incontrollabile. I bambini con disturbo d’ansia generalizzato si preoccupano di tutto: della salute, della scuola (per es. i compiti a casa), della situazione finanziaria della famiglia, degli avvenimenti nel mondo (per es. la guerra o i disastri naturali), di situazioni nuove, delle performance sportive, e hanno anche preoccupazioni relative alle relazioni interpersonali. Alcuni fra i sintomi di questo disturbo sono: irrequietezza, affaticamento, difficoltà di concentrazione, irritabilità, tensione muscolare e disturbi del sonno. Il disturbo ossessivo compulsivo (vedere il Capitolo 17) è caratterizzato dalla presenza di pensieri, immagini o impulsi che vengono percepiti come intrusivi e angoscianti (ossia le ossessioni), e da comportamenti ripetitivi che hanno lo scopo di ridurre la probabilità che si verifichi un evento temuto (ossia le compulsioni). Il disturbo post-traumatico da stress (vedere il Capitolo 20) potrebbe verificarsi dopo aver sperimentato, aver assistito o essersi confrontati con eventi che hanno minacciato o causato la morte o un danno serio al sé o agli altri. Il disturbo da attacchi di panico è caratterizzato da frequenti e inaspettati attacchi di panico che sono accompagnati da sintomi fisiologici (per es. accelerazione del battito cardiaco e vertigini) e cognitivi (per es. paura di morire, di avere un infarto o di perdere il controllo), mentre l’agorafobia porta all’evitamento di situazioni per la paura di non essere in grado di fuggire o di ricevere aiuto nel caso di un attacco di panico. Eziologia e mantenimento dell’ansia infantile È importante comprendere quali sono i fattori implicati nell’eziologia e nel mantenimento dell’ansia infantile per poter adattare e modificare gli interventi alle necessità dei bambini e delle famiglie. Gli studi che analizzano l’eziologia dell’ansia infantile si sono focalizzati su tre aree principali: la genetica, il temperamento e i fattori ambientali. Per una rassegna più dettagliata di questi fattori, si può fare riferimento 302 I disturbi d’ansia a Chorpita e Barlow (1998), Hudson e Rapee (in stampa), Manassis e Bradley (1994) e Rapee (2001). Ci sono prove convincenti a sostegno di una base genetica dell’ansia: i geni spiegherebbero circa il 30-40% della varianza (Andrews et al., 1990). Hudson e Rapee (in stampa) hanno suggerito che questa vulnerabilità genetica si manifesta attraverso il temperamento del bambino. Il temperamento è lo stile comportamentale innato del bambino, in parte mediato dai geni, che si esprime attraverso la reattività e la regolazione del sistema nervoso (Prior et al., 2000). Anche se il temperamento sembra giocare un ruolo nello sviluppo dell’ansia, non tutti i bambini che possiedono questa vulnerabilità temperamentale sviluppano un disturbo. Pertanto, ci sono altri fattori, oltre alla genetica e ai suoi correlati temperamentali, che contribuiscono allo sviluppo dell’ansia. Gli studi sui gemelli hanno mostrato che i fattori ambientali danno un grande contributo allo sviluppo di sintomi e di disturbi d’ansia (per es. Topolski et al., 1997; Eley e Stevenson, 2000). Numerose ricerche hanno indagato i modi in cui l’ambiente familiare può influenzare lo sviluppo e il mantenimento dell’ansia. I fattori implicati nello sviluppo dell’ansia infantile, relativi all’ambiente familiare, includono lo stile genitoriale, l’atteggiamento dei genitori nei confronti dell’evitamento e l’apprendimento per osservazione. Una rassegna della letteratura sullo stile genitoriale e sull’ansia ha rivelato una consistente relazione fra questa e uno stile più invischiato e controllante (Rapee, 1997). La ricerca indica che i genitori potrebbero giocare un ruolo nella promozione dei comportamenti ansiosi del proprio figlio. Barrett e colleghi (1996b) hanno chiesto ai bambini ansiosi e a un gruppo di controllo di interpretare e suggerire piani di azione per situazioni ambigue. I bambini ansiosi interpretavano più facilmente le situazioni come minacciose e selezionavano piani di azione di evitamento, rispetto a quelli del gruppo di controllo. Dopo una discussione con i propri genitori sulla situazione, la probabilità di selezionare un’interpretazione minacciosa e un piano di azione di evitamento aumentava drammaticamente. L’esame del contenuto delle discussioni familiari ha rivelato che i genitori dei bambini ansiosi appoggiavano il comportamento evitante del bambino, essendo essi stessi modelli di evitamento, verbalizzando i propri dubbi sulle capacità del bambino e fornendo accettazione e conforto quando il bambino mostrava un comportamento evitante (Dadds et al., 1996). Resta da determinare se sia l’atteggiamento dei genitori a promuovere l’evitamento o il comportamento ansioso del bambino a innescare risposte iperprotettive. È possibile che entrambi questi fattori contribuiscano allo sviluppo dell’ansia (Rapee, 2001). Anche altre figure nell’ambiente del bambino (per es. insegnanti, coetanei e fratelli) potrebbero rinforzare i comportamenti ansiosi o di evitamento. L’insorgenza di un disturbo d’ansia può essere collegata anche alla presenza di stressor esterni ambientali. Il disturbi post-traumatico da stress è un esempio estremo di come l’esposizione a un evento esterno possa causare ansia. Infine, è stato riscontrato che i bambini ansiosi avevano vissuto un gran numero di eventi stressanti nei 12 mesi che precedenti l’insorgenza dei problemi, se paragonati con bambini non ansiosi (Goodyer e Altham, 1991). 303 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee Modello integrativo per lo sviluppo dell’ansia Sulla base delle prove precedenti, Rapee (2001) e Hudson e Rapee (in stampa) hanno proposto un modello generale per illustrare le molteplici vie possibili che portano allo sviluppo di un disturbo d’ansia (vedere Figura 18.1). In questo modello si ipotizza che alcuni bambini nascano con una vulnerabilità genetica all’ansia. Questa vulnerabilità si manifesta attraverso il temperamento del bambino, indicato da elevati livelli di arousal e di emotività, e da uno stile di coping evitante. A sua volta, il temperamento potrebbe guidare il bambino a selezionare contesti che rinforzano e contribuiscono al mantenimento dell’evitamento e, in particolare, potrebbe innescare negli altri , come i genitori, risposte protettive. “L’iperprotezione” potrebbe aumentare la percezione di minaccia del bambino e diminuire la sua percezione di controllo sul pericolo (Rapee, 1997). I genitori dei bambini ansiosi di solito sono essi stessi ansiosi e questa ansia li rende particolarmente vulnerabili a cadere in un ciclo iperprotettivo. Figura 18.1 Modello per lo sviluppo dell’ansia (Rapee, 2001; Hudson e Rapee, in stampa) Fattori genetici Ansia Genitoriale Vulnerabilità all’ansia Livello di arousal ed emotività Evitamento Alterazioni della elaborazione Rinforzo ambientale dell’evitamento Effetti dell’ambiente sociale Effetti ambientali esterni Disturbo d’ansia Il modello pone inoltre l’attenzione sul potenziale ruolo dell’apprendimento sociale nello sviluppo dell’ansia. L’apprendimento attraverso l’osservazione di altri significativi e attraverso le informazioni che questi comunicano, potrebbe accrescere l’evitamento 304 I disturbi d’ansia del bambino e la percezione di minaccia, e ridurre il senso di controllo del pericolo. Queste esperienze potrebbero verificarsi indipendentemente dal temperamento del bambino o potrebbero interagire con il fattore di vulnerabilità all’ansia. Inoltre, i bambini ansiosi spesso selezionano situazioni in cui è più probabile imbattersi in modelli di comportamento ansioso. Per esempio, i bambini inibiti di solito hanno amici anche essi inibiti. Oppure un temperamento inibito potrebbe evolvere in un disturbo attraverso la mediazione di fattori esterni. Anche se alcuni eventi possono innescare l’ansia indipendentemente dalla vulnerabilità, il loro impatto è maggiore su coloro che già hanno una vulnerabilità intrinseca. Esiti del trattamento Sono state raccolte sempre più prove dell’efficacia di interventi relativamente brevi di CBT nel ridurre l’ansia dei bambini e nel migliorare il livello generale di funzionamento. In generale, gli studi controllati randomizzati sulla CBT per l’ansia infantile includono componenti psicoeducative sulla natura dell’ansia, il training di rilassamento, la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione graduale allo stimolo ansiogeno. Queste competenze vengono poi consolidate attraverso l’assegnazione di compiti pratici fra una seduta e l’altra. Kendall (1994) ha condotto la prima prova randomizzata controllata per esaminare l’efficacia della CBT con i bambini ansiosi utilizzando il programma “Coping Cat”. Questo programma affronta le componenti cognitive e comportamentali dell’ansia. I bambini fra i 9 e 13 anni (n=47) con disturbi d’ansia ampi partecipavano alle 16 sedute del programma di trattamento individuale. Al post trattamento, il 64% dei partecipanti non aveva più una diagnosi d’ansia, rispetto al 5% dei bambini del gruppo di controllo in lista d’attesa. I bambini mostravano un miglioramento significativo in misure compilate dai genitori e di self-report dell’angoscia, nelle strategie di coping riferite dai genitori e in misure di osservazione del comportamento. Il cambiamento nella diagnosi e il miglioramento in misure di self-report erano presenti anche a 1 anno di follow-up. Questi risultati sono stati replicati in una seconda prova randomizzata (Kendall et al., 1997). Gli studi hanno anche indagato l’efficacia del trattamento di gruppo. Il trattamento di gruppo offre numerosi vantaggi, fra cui quello costi-benefici e uno scorrimento più rapido delle liste di attesa. Flannery-Schroeder e Kendall (2000) hanno assegnato casualmente 37 bambini, fra gli 8 e i 14 anni con diagnosi di ansia generalizzata, a due condizioni sperimentali: trattamento di gruppo, trattamento individuale. Il gruppo di controllo erano bambini in lista d’attesa. L’intervento era costituito da 18 sedute basate sul manuale del “Coping Cat “ di Kendall. Come nei precedenti studi di Kendall (Kendall, 1994; Kendall et al., 1997), il coinvolgimento dei genitori era minimo. Entrambe le condizioni sperimentali davano risultati clinicamente significativi. Al post-trattamento, se paragonati con l’8% del gruppo di controllo, il 73% dei bambini sottoposti a trattamento individuale e il 50% a quello di gruppo non soddisfaceva più i criteri diagnostici del pre-trattamento. I bambini delle due condizioni sperimentali, al post-trattamento a al follow-up dopo 3 mesi, mostravano anche miglioramenti più significativi 305 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee nei sintomi d’ansia riferiti dai genitori e dal bambino stesso e nelle strategie di coping. Flannery-Schroeder e Kendall (2000) hanno concluso che non c’era complessivamente differenza fra i bambini assegnati alle due condizioni di trattamento, dal momento che i benefici dell’intervento individuale e di gruppo erano simili. Pertanto, sembra che sia possibile adottare trattamenti di gruppo efficaci ma meno costosi, assicurandosi allo stesso tempo che i bambini ricevano un trattamento ottimale. I genitori nel trattamento Sulla base della teoria e dei risultati empirici che attribuiscono un ruolo fondamentale all’ansia genitoriale e all’apprendimento per osservazione, nel mantenimento e nello sviluppo dell’ansia nei bambini, numerosi studi hanno cercato di determinare se fosse possibile ottenere risultati ancora migliori includendo i genitori nel trattamento. Il coinvolgimento dei genitori è progressivamente aumentato dal contatto minimo previsto nel “Coping Cat “ di Kendall (Kendall, 1994; Kendall et al., 1997) per arrivare alle attuali sedute di trattamento per genitori e bambini insieme (per es. Rapee, 2000). Dadds et al. (1992) hanno condotto il primo studio sull’inclusione di una componente significativa per i genitori (Family Anxiety Management; FAM) e hanno effettuato un confronto con un programma parallelo di CBT focalizzato solo sul bambino. Questa componente insegnava ai genitori tecniche per gestire meglio il bambino, per esempio premiare i comportamenti coraggiosi e tenere sotto controllo quelli ansiosi. Ai genitori veniva anche insegnato come gestire le proprie preoccupazioni emotive, come identificare i propri comportamenti ansiosi e come diventare essi stessi modelli di l’applicazione pratica del problem-solving e di risposte proattive a situazioni temute. Al post-trattamento, il 70% del gruppo CBT + FAM non aveva più una diagnosi di ansia. Anche i bambini mostravano un miglioramento su misure compilate dai genitori e di self-report. Barrett et al. (1996a) hanno ampliato questo studio confrontando fra loro tre condizioni: CBT individuale (n=28), CBT con aggiunta della componente familiare (CBT + FAM; n = 25) e gruppo di controllo in lista d’attesa (n= 26). Anche se, in una serie di misure completate dal bambino e dai genitori, i bambini nelle condizioni CBT e CBT + FAM avevano performance migliori del gruppo di controllo, per il gruppo CBT + FAM questo miglioramento era più consistente rispetto al gruppo della CBT individuale. Le indagini al follow-up hanno mostrato che i benefici aggiuntivi ottenuti con la FAM erano maggiori per i bambini rispetto agli adolescenti. Anche Mendlowitz e colleghi (1999) hanno confrontato una CBT di gruppo per genitori e bambini (n=18), una CBT individuale (n=23) e una CBT di gruppo solo per i genitori (n=21). Tutti i gruppi mostravano un certo miglioramento dal pre al post trattamento, in confronto al gruppo di controllo in lista d’attesa, ma i bambini nel gruppo di trattamento genitorebambino mostravano miglioramenti più consistenti nelle misure di ansia e depressione e nell’utilizzo di strategie di coping adattive. Pertanto, sembrerebbe che includere i genitori nel trattamento, possa accrescere l’efficacia della CBT per i bambini ansiosi più piccoli. Inoltre, anche l’inclusione di una componente di gestione dell’ansia per i genitori potrebbe amplificare gli effetti (Cobham et al., 1998). 306 I disturbi d’ansia Rapee (2000) ha analizzato se i benefici riferiti, ascrivibili al trattamento individuale e familiare, erano evidenti anche in una terapia di gruppo breve. I bambini fra i 7 e i 16 anni (n= 95), con differenti diagnosi d’ansia, avevano partecipato al programma di nove sedute “Cool Kids”, simile a quello di Barrett et al. (1996a). Quelli sottoposti al trattamento mostravano miglioramenti significativamente maggiori del gruppo di controllo, in misure di ansia. Questi benefici erano ancora presenti e, in alcuni casi erano addirittura maggiori, al follow-up a12 mesi. Nonostante il format di gruppo e il numero ridotto delle sedute, la grandezza dell’effetto era simile a quella riscontrata in studi sul trattamento individuale (per es. Kendall, 1994; Barrett et al., 1996a). Uno studio recente condotto da Manassis e colleghi (2002) hanno confrontato l’efficacia della terapia con gruppi familiari rispetto a quella con una singola famiglia. I bambini in entrambe le condizioni mostravano dei progressi; tuttavia, i punteggi clinici di funzionamento generale erano decisamente migliori per i bambini nella condizione di gruppo. Non c’erano differenze fra i due trattamenti nelle misure completate dai bambini e dai genitori. Contrariamente alle aspettative, i bambini con elevata ansia sociale ottenevano risultati più significativi con un trattamento individuale. Manassis e colleghi hanno suggerito che forse la situazione di gruppo era troppo onerosa per i bambini con ansia sociale e quindi interferiva con l’apprendimento di nuove competenze. In linea con le nuove inclinazioni verso i trattamenti di gruppo, recenti ricerche si sono focalizzate sul migliorare l’applicazione del trattamento su un piano costi-benefici. Un esempio possono essere le tecniche di auto-aiuto. In uno studio attualmente in corso nella clinica presso cui lavorano gli autori, il trattamento applicato attraverso i genitori sotto forma di materiali per la biblioterapia viene confrontato con il trattamento di gruppo usuale. I dati preliminari indicano approssimativamente che il 20% dei bambini non aveva più la stessa diagnosi dopo la biblioterapia, rispetto al 60% del trattamento di gruppo e del 5% della lista di attesa (Abbott et al., 2002). In un ulteriore sviluppo, si riscontra che gli effetti della biblioterapia possono essere accresciuti dal contatto clinico occasionale attraverso il telefono o la e-mail (Lyneham e Rapee, 2002). Gli interventi di CBT per l’ansia infantile sono efficaci a lungo termine? Numerosi studi hanno dimostrato che interventi di CBT relativamente brevi mantengono la propria efficacia nel lungo termine. Kendall e Southam-Gerow (1996) hanno condotto un follow-up a 2 e 5 anni con i bambini che avevano partecipato allo studio di Kendall nel 1994. I risultati indicavano che i benefici erano ancora presenti sia in termini di status diagnostico, sia di punteggi alle misure compilate dai genitori e di selfreport. Un follow-up a 6 anni dello studio originale di Barrett et al. (1996a), sulla CBT individuale e sulla CBT + FAM, ha trovato che l’85.7% dei bambini non soddisfaceva più i criteri diagnostici per il disturbo d’ansia (Barrett et al., 2001). I miglioramenti, , valutati attraverso misure completate dal clinico, dai genitori e di self-report, erano ancora presenti al follow-up a 12 mesi. Inoltre, la CBT e la CBT + FAM di gruppo erano egualmente efficaci. Un follow-up a lungo termine di una CBT breve per gruppi di famiglie ha riscontrato che i bambini continuavano a mostrare un miglioramento nel 307 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee tempo, con il 91% dei partecipanti che al follow-up dopo 3 anni non aveva più alcuna diagnosi, rispetto al 71% del post-trattamento (Toren et al., 2000). Conclusione In sintesi, le prove suggeriscono che la maggior parte dei bambini può essere trattata, con un buon grado di successo, con interventi di CBT individuali o di gruppo relativamente brevi. Il successo potrebbe essere maggiore includendo i genitori nel trattamento, soprattutto con i bambini più piccoli. Gli effetti del trattamento sono più significativi per i bambini con genitori ansiosi, se anch’essi ricevono un trattamento di gestione dell’ansia. Cosa importante, i benefici avuti nel corso del trattamento sembrano essere presenti a lungo termine. I risultarti degli studi sull’efficacia della CBT per l’ansia infantile applicata con differenti modalità (per es. biblioterapia e programmi via e-mail), forniscono ulteriori opportunità a coloro che lavorano con i bambini e che vivono in aree rurali isolate, o a coloro che non possono intraprendere una terapia a causa di motivi economici o personali. Trattamento Questa sezione fornirà una rassegna del programma di trattamento attualmente in uso alla Macquarie University Child and Adolescent Anxiety Clinic, Sydney, Australia. Il programma ha dato ottimi risultati su bambini con disturbo d’ansia generalizzato (vedere Rapee, 2000). Le componenti vengono descritte nel dettaglio da Rapee et al. (2000). Una copia del manuale di trattamento e del libro di esercizi “Cool Kids” è disponibile sul sito della clinica www.psy.mq.edu.au/MUARU. Struttura del programma Il programma “Cool Kids”, utilizzato presso la clinica in cui lavorano gli autori, si basa sul modello cognitivo comportamentale del “Coping Cat” di Kendall e del “Coping Koala” di Barrett et al. (1996a). Il programma degli autori è indirizzato alle famiglie e utilizza piccoli gruppi, ma sono stati raggiunti buoni risultati anche con il trattamento di singole famiglie, di bambini e di adolescenti. Pertanto, i terapeuti che non possono tenere un gruppo, possono adattare il programma a singole famiglie. I gruppi di “Cool Kids” sono costituiti da 5-7 famiglie: il bambino e, se possibile, entrambi i genitori. Il programma prevede dieci sedute di 2 ore per 16 settimane. Le prime sette sedute sono settimanali, mentre le ultime tre sedute sono scaglionate a intervalli. Questa progressiva riduzione del contatto dà alle famiglie il tempo di esercitare le competenze e di abituarsi al distacco dal terapeuta. Nel programma, si assegno anche i compiti a casa, che i bambini e i genitori devono completare ogni settimana. Questi compiti permettono di consolidare il materiale appreso nella seduta e di esercitare le competenze apprese. Cia308 I disturbi d’ansia scuna seduta inizia con benvenuto ai membri del gruppo e con la revisione dei compiti a casa. In seguito, il terapeuta passa del tempo solo con i ragazzi (40-60 minuti), segue un periodo in cui sta solo con i genitori (40-60 minuti). Alla fine di ciascuna seduta, il gruppo intero si riunisce per un riassunto della seduta e per l’assegnazione dei compiti pratici (10-25 minuti). Componenti del programma “Cool Kids” Gli obiettivi principali del programma sono: (1) apprendere nuove competenze per la gestione dell’ansia; (2) ridurre l’evitamento delle situazioni temute e (3), alla fine, affrancarsi dai genitori e dal terapeuta utilizzando le competenze e la conoscenza acquisiti attraverso la terapia. Le procedure specifiche includono tecniche psicoeducative, la ristrutturazione cognitiva (pensiero “realistico” o “detective thinking”), l’esposizione graduale agli stimoli ansiogeni (“la scaletta”) e tecniche di gestione per i genitori. Ci sono anche moduli opzionali che trattano altre problematiche spesso rilevanti nei bambini ansiosi, fra cui le competenze sociali, l’assertività e le prese in giro. Questo permette al terapeuta di modificare il programma sulla base delle necessità del singolo cliente o del gruppo. La sezione seguente discute le componente principali del Cool Kids. Componente psicoeducativa Si forniscono ai genitori le informazioni sulla natura, sulle cause e sui fattori di mantenimento dell’ansia. Queste informazioni servono a chiarire la differenza fra ansia “salutare” e “malata”, a spiegare gli aspetti fisiologici, cognitivi e comportamentali dell’ansia e come questi saranno affrontati con le differenti procedure del trattamento. I bambini parlano delle proprie emozioni e dei diversi modi in cui sperimentano l’ansia. Pensiero realistico o detective thinking Nel programma degli autori, la ristrutturazione cognitiva viene definita “pensiero realistico”, con gli adolescenti, e “detective thinking” con i bambini. I bambini scelgono il proprio super-eroe o detective preferito, che li aiuterà a cercare gli “indizi” o le “prove” contro i propri pensieri ansiosi o contro le proprie previsioni di possibili eventi negativi, quando si trovano in presenza di situazioni o stimoli temuti. L’espressione “pensiero realistico” si utilizzata con i genitori e gli adolescenti, per spiegare che lo scopo è quello di modificare le convinzioni non realistiche e non tutte le convinzioni negative, in convinzioni positive. I ragazzi vengono incoraggiati a soppesare tutte le prove a favore e contro le proprie previsioni negative, per generare “pensieri calmanti” che siano credibili. Anche ai genitori si insegna la ristrutturazione cognitiva, in modo da poter assistere il proprio bambino nella tecnica e affrontare, se necessario, le proprie paure. La spiegazione della ristrutturazione cognitiva inizia introducendo i genitori e il ragazzo, attraverso degli esempi, al collegamento fra situazioni, pensieri e sentimenti. 309 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee All’inizio del trattamento, si chiede ai ragazzi di monitorare le situazioni, i pensieri e il livello di ansia (su una scala di “preoccupazione”). Lo scopo di questo esercizio è esercitarsi nell’identificare i pensieri ansiosi in modo da poterli mettere in discussione. Il terapeuta poi tratta (con i genitori e gli adolescenti) le due principali distorsioni cognitive proprie degli individui ansiosi: sovrastimare la probabilità che accadano eventi spiacevoli e sovrastimare la negatività delle conseguenze dell’evento, qualora dovesse realmente verificarsi. Si insegnano ai membri del gruppo differenti tecniche per raccogliere prove contro la verosimiglianza della propria previsione che succederà qualcosa di negativo, sulla base delle proprie esperienze passate e della conoscenza generale. In seguito gli adolescenti fanno un ulteriore passo, imparando a identificare e mettere in discussione le conseguenze dell’evento temuto. Si chiede ai ragazzi di registrare, su dei moduli, le situazioni in cui si sentono ansiosi, le previsioni negative sulla situazione e le prove contro queste previsioni. Poi i ragazzi imparano a generare “pensieri calmanti” basati su una valutazione realistica dell’evento ansiogeno. La ristrutturazione cognitiva può essere uno strumento importante nella riduzione dell’ansia; tuttavia, coloro che cercano di educare i bambini in questa tecnica si imbattono spesso in alcuni ostacoli comuni. Per esempio, alcuni bambini diventano così ansiosi in una situazione temuta da non ricordarsi di applicare il detective thinking. In questo caso, si possono utilizzare delle carte “indizio” per ricordare ai bambini il proprio pensiero calmante per quella situazione. Se la famiglia si accorge dell’approssimarsi di una situazione difficile, il bambino può esercitare il detective thinking prima che si verifichi l’evento. Un altro problema comune è che alcuni bambini hanno difficoltà a comprendere i concetti alla base della ristrutturazione cognitiva. È pertanto importante che i bambini siano in grado di identificare i propri pensieri ansiosi e comprendere il collegamento che c’è fra pensieri e sentimenti, prima di metterli in discussione. Con i bambini che hanno difficoltà con la ristrutturazione cognitiva, si possono applicare tecniche alternative di gestione dell’ansia, fra cui le auto-istruzioni (vedere Meichenbaum, 1977) e il rilassamento (vedere Rapee et al., 2000) Esposizione graduale (“la scaletta”) Lo scopo dell’esposizione è incoraggiare i bambini ad affrontare le situazioni di cui hanno paura e che di solito evitano. Questo si fa in maniera graduale o “a scaletta”, iniziando con le situazioni meno temute per incoraggiare la compliance. L’esposizione graduale permette ai bambini di imparare che: (1) la situazione non è minacciosa e (2) che hanno la capacità di affrontarla (Foa e McNally, 1996; Williams, 1996). L’esposizione è probabilmente la strategia di trattamento più efficace per la riduzione dell’ansia nei bambini e negli adulti (Rapee et al., 2000). Nel programma degli autori, si insegna la ristrutturazione cognitiva prima di introdurre l’esposizione graduale – così, al momento dell’esposizione, il ragazzo ha già identificato le prove contrarie alla presunta negatività di determinati eventi e, attraverso la sperimentazione diretta dell’evento stesso, può rinforzarle direttamente. I terapeuti potrebbero pensare di combinare l’esposizione al rilassamento, per aiutare i bambini a padroneggiare l’ansia eccessiva in situazioni temute. 310 I disturbi d’ansia I genitori e i bambini avranno bisogno di una spiegazione attenta delle motivazioni logiche alla base della tecnica di esposizione graduale e di come agisce, dato che l’esposizione richiede ai bambini di affrontare situazioni che probabilmente hanno causato angoscia in passato. I genitori non vogliono che il bambino affronti determinate paure perché hanno paura che non sia in grado di tollerare l’ansia o intervengono in aiuto del proprio figlio per fargli evitare la situazione. È importante discutere il comprensibile senso di impotenza e di colpa che i genitori a volte si trovano a vivere, quando incoraggiano i propri figli ad affrontare situazioni di cui hanno paura. Se anche il genitore teme la situazione, può tentare egli stesso l’esposizione per essere un modello di coraggio per il proprio bambino. L’ansia relativa alla tecnica di esposizione può essere affrontata assegnando al bambino un certo controllo sul processo. I bambini scelgono le paure che vorrebbero superare insieme ai propri genitori. Si dice loro che inizieranno dalle situazioni più semplici e che passeranno allo stadio successivo quando si sentiranno pronti per farlo. Gli adolescenti di solito sono in grado di generare la propria “scaletta” con l’aiuto del terapeuta; tuttavia, come minimo, i genitori devono essere consapevoli di ciò che sta facendo il ragazzo in modo da potergli fornire incoraggiamento e ricompense. Dopo aver analizzato alcuni esempi di scalette, i genitori e i bambini vengono incoraggiati a creare insieme una lista di situazioni temute. Si chiede alle famiglie di generare una lista di paure, che vengono suddivise in elevate, medie e lievi, e di aiutare il proprio bambino ad assegnare un punteggio di paura a ciascuna situazione. Questa lista di paure e di preoccupazioni viene poi utilizzata per sviluppare una specifica gerarchia o “scaletta” di eventi per ciascuna paura. I bambini e i genitori selezionano una situazione temuta su cui vorrebbero lavorare e iniziano a costruire una scaletta, con passi di difficoltà crescente. Il gruppo può essere di aiuto nella selezione di altri stadi attraverso il brainstorming. È importante che i bambini inizino con piccoli passi in modo da acquisire sicurezza in se stessi e nella tecnica. È probabile che il bambino dovrà ripetere ogni gradino della scala più volte prima di passare al livello successivo di difficoltà. Il processo dovrebbe essere costantemente supervisionato, per assicurarsi che i bambini non stiano affrontando gradini troppo difficoltosi (o non abbastanza difficili). I terapeuti devono accertarsi che la famiglia esca dalla seduta con un’idea chiara, concreta e specifica di quale gradino deve essere affrontato, quando e dove, e di quale sarà il premio specifico che il ragazzo riceverà dopo aver completato il compito. Se i genitori collaborano allo sviluppo della scaletta ci si assicura che abbiano il tempo e le risorse per assistere il bambino in ciascun passo. Si promuove l’utilizzo di attività giornaliere, dal momento che i gradini che prevedono una quantità eccessiva di sforzo, di tempo o di risorse hanno meno probabilità di essere portati a termine. I bambini dovrebbero essere incoraggiati a utilizzare il detective thinking sul compito dell’esposizione, prima e dopo l’esercizio, per mettere in discussione le proprie convinzioni ansiose. I bambini avranno bisogno di incoraggiamento e motivazione per affrontare le situazioni temute. Il programma degli autori suggerisce di utilizzare elogi e ricompense, insieme a forme di “auto-rinforzo”. Si incoraggiano gli adolescenti a elogiare se stessi attraverso un discorso interiore positivo in seguito ai propri sforzi. Spesso i bambini ansiosi hanno standard di performance elevati e non realistici e questo contribuisce alla riluttanza che manifestano verso attività nuove o difficili. Si assegnano ai 311 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee bambini numerosi esercizi per incoraggiarli a elogiare se stessi dopo aver affrontato le proprie paure. Anche i genitori vengono educati sull’importanza di fornire elogi chiari e specifici relativi a un comportamento. Le ricompense dovrebbero essere utilizzate per rinforzare i tentativi del bambino di affrontare le proprie paure e possono assumere la forma di attività, elogi, oggetti materiali o punti da scambiare con delle ricompense, superata una certa quantità. Si fa notare ai genitori che le ricompense devono essere proporzionate all’obiettivo raggiunto. Se un bambino ha fatto un tentativo serio di affrontare la propria paura, dovrebbe essere ricompensato; tuttavia, dovrebbe ricevere una ricompensa maggiore se ha portato a termine il proprio compito con successo. È anche importante che la ricompensa e gli elogi vengano dati subito dopo l’esposizione, soprattutto nel caso dei bambini più piccoli. Nel corso del trattamento, i terapeuti devono affrontare tutte le difficoltà che si possono presentare nell’esposizione e cercare di trovare una soluzione con i membri del gruppo, sviscerando tutti gli aspetti del problema. Spesso un compito non viene portato a termine perché esageratemente ansiogeno. In questo caso, il bambino dovrà fare uno o due passi indietro, scegliere un gradino più basso della propria scaletta, per acquisire sicurezza prima di ritentare. È anche vitale far capire alle famiglie che i bambini hanno bisogno di trovarsi nella situazione temuta abbastanza a lungo per verificare la falsità della propria convinzione e per far scendere il livello dell’ansia e rendere così efficace l’esposizione. Se un bambino si allontana dal compito prima di aver constatato la falsità della propria convinzione, l’ansia non si ridurrà e potrebbe addirittura aumentare. I terapeuti avranno anche bisogno di controllare che vengano date le ricompense in modo coerente con l’accordo preso con i genitori e il bambino. Strategie di gestione per i genitori La componente gestionale del programma si focalizza sulle strategie che i genitori possono utilizzare per generare comportamenti coraggiosi nei propri figli e sulle strategie per ridurre i comportamenti ansiosi. Le strategie che aiutano la comparsa di comportamenti coraggiosi includono l’attenzione, il modelling, l’incoraggiamento dell’indipendenza e gli elogi e le ricompense. I genitori vengono incoraggiati a dedicare tempo e attenzione ai propri bambini quando sono coraggiosi o quando si comportano bene e a ignorarli quando agiscono in maniera ansiosa o disfunzionale. Essere modelli di comportamenti coraggiosi è un altro aspetto importante di cui il terapeuta deve occuparsi. Si chiede ai genitori di pensare a tutte le ansie che condividono con il proprio bambino e di affrontare queste paure eseguendo essi stessi il detective thinking e creando una propria scaletta. I genitori devono incoraggiare il bambino a essere indipendente essendo una guida, piuttosto che “fare le cose al suo posto” o permettergli di evitare le situazioni temute. Per esempio, quando un bambino è ansioso, un genitore potrebbe incoraggiarlo a esercitare il detective thinking piuttosto che permettergli di evitare la situazione. Le strategie per ridurre i comportamenti ansiosi includono la coerenza, evitare di dare rassicurazioni eccessive e mantenere sotto controllo le emozioni. I terapeuti devono sottolineare ai genitori l’importanza della coerenza nelle ricompense e nelle 312 I disturbi d’ansia punizioni. I genitori devono tener fede alle decisioni prese a riguardo e devono anche fare attenzione a non ricompensare accidentalmente il comportamento ansioso o capriccioso del bambino cedendo alle sue richieste (per es. quando piange o si lamenta). Entrambi i genitori devono accordarsi sui comportamenti che considerano appropriati affinché il loro atteggiamento sia coerente. Non si dovrebbero dare ai bambini rassicurazioni eccessive, poiché devono verificare che la situazione temuta è sicura, piuttosto che credere soltanto che sia sicura, e devono sperimentare di essere in grado di affrontarla davvero e non solo perché i genitori li hanno rassicurati a riguardo. Tuttavia, la rassicurazione è utile quando riguarda le capacità del bambino di gestire la situazione. Si discutono anche le tecniche per controllare le emozioni, dal momento che l’atteggiamento genitoriale tende a essere meno coerente quando i genitori sono emotivamente carichi. In occasioni come questa, è una buona idea che il genitore si allontani dalla situazione e chieda al proprio partner, a un nonno, a un amico o ad altre persone che possono fornire un supporto sociale, di passare del tempo con il proprio figlio. Casi esemplificativi Le seguenti storie si basano su casi trattati da Jennifer Allen presso la Macquarie University Child and Adolescent Anxiety Clinic. Alison (ansia da separazione, fobie specifiche) Alison, una bambina di 9 anni, è stata portata in terapia dalla madre e dal counselor della scuola. La mamma di Alison, Kathy, riferiva che Alison, al mattino prima di andare a scuola, si sentiva spesso male, faceva i capricci o piangeva. Molte volte nel corso dell’anno, Alison era stata in infermeria, lamentando dolori di stomaco, così Kathy era stata chiamata a scuola per riportarla a casa. Alison diceva di temere che succedesse qualcosa di male alla mamma quando non erano insieme, per esempio che la mamma avesse un incidente d’auto. Alison dormiva spesso con i genitori di notte perché aveva paura dei ladri. Spesso rifiutava anche gli inviti dei coetanei a giocare o a partecipare ai pigiama party a causa di queste paure. La sua ansia da separazione aveva anche un impatto sui genitori, dal momento che la mamma era molto stressata dal dover gestire i capricci di Alison e che i genitori non potevano uscire da soli. Alison soddisfaceva i criteri di una diagnosi primaria di disturbo d’ansia da separazione e di una diagnosi aggiuntiva di fobia specifica in relazione alla paura del buio. Le sedute iniziali si sono focalizzate sull’identificazione dei sintomi fisici dell’ansia e dei pensieri ansiosi e sulla comprensione del collegamento fra situazioni, pensieri e sentimenti. Quando iniziava a sentirsi ansiosa, Alison doveva ricordare a se stessa “dell’evidenza” che non era mai successo niente di male alla madre quando non stavano insieme e, pertanto, era improbabile che questo succedesse nel futuro. Alison scelse Jennifer Lopez (J-Lo) come supereroe per aiutarla a trovare gli indizi o le prove contro i propri pensieri ansiosi. Uno dei pensieri calmanti di Alison era la canzone di J-Lo “I’m gonna be alright”. 313 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee La lista di situazioni temute includeva andare a scuola, andare a casa di amici o a feste e dormire nel letto da sola. È stata costruita una scaletta per ciascuna di queste situazioni. Insieme ai genitori, sono state concordate le ricompense per ogni gradino superato. Spesso, le occasioni di esposizione si presentano da sole nel corso del trattamento. Per esempio, Alison sapeva che sarebbe stata invitata al pigiama party della sua migliore amica Annette di lì a un mese. Pertanto Alison e i genitori hanno deciso di includere questa situazione negli obiettivi. Alison aveva assegnato a questo compito, su una scala a 10 punti, un punteggio di paura pari a 8. L’obiettivo di Alison era: essere in grado di partecipare a un pigiama party da un amico senza preoccuparsi della madre (Tabella 18.1) Tabella 18.1 Scaletta di esposizione per Alison e valutazione delle situazioni su una scala di paura (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) Mentre si trova a casa di amici, la mamma si allontana per 10 minuti Mentre si trova a casa di amici, la mamma si allontana per 30 minuti Kathy lascia Alison a casa di Annette a giocare per 1 ora e se ne va Ripetere il compito precedente a casa di un’altra amica Kathy lascia Alison a casa di Annette a giocare per 2 ore Andare a casa di un’altra amica per cena Dormire dalla nonna una notte Dormire da Annette una notte Andare al pigiama party di Annette (3) (4) (5) (5) (6) (6) (7) (7) (8) Il programma degli autori utilizza anche l’esposizione nel corso delle sedute. Nella seduta, Alison e altri membri del gruppo giocavano al buio; un modo divertente di esporsi a questa situazione temuta. Alison e la famiglia dovevano fare lo stesso anche a casa, come compito di esercizio. Nella sesta seduta, il gruppo aveva organizzato una gita a un centro commerciale locale. Nella seduta precedente i genitori e i bambini avevano generato un elenco di situazioni da utilizzare nell’esposizione in vivo. I genitori dovevano assistere i propri figli nel detective thinking prima e dopo ciascun compito. Questo dava ai terapeuti la possibilità di osservare come i genitori assistevano il bambino nella ristrutturazione cognitiva e come gli fornivano un feedback. Il compito di Alison era quello di andare dall’altra parte del centro commerciale senza i genitori. Il terapeuta aveva notato che Alison “correva” per portare a termine il compito. Quindi, le ha chiesto Alison di ripetere il compito camminando più lentamente, fermandosi a giocare con il gioco elettronico nel negozio di informatica per 5 minuti prima di tornare dai genitori. Prima di affrontare questi compiti intra seduta, il terapeuta aveva discusso con Kathy le ansie relative alla sicurezza di Alison quando non si trovava con lei nel centro commerciale e la aveva aiutata a compilare la propria registrazione di detective thinking relativo a queste preoccupazioni. I genitori di Alison avevano trovato utile la componente gestionale, soprattutto in relazione ai capricci e alla frequenza scolastica. I genitori non le avevano più permesso 314 I disturbi d’ansia di stare a casa e non l’andavano a prendere quando era ansiosa. Era stata utilizzata una star chart con cui assegnare ad Alison una stella quando andava a scuola o dormiva da sola senza fare capricci. Alison scambiava questi punti con ricompense negoziate con i genitori. Il counselor e l’insegnante della scuola erano stati coinvolti anch’essi in qualità di “addestratori”, istituendo un sistema di ricompense sociali per la frequenza scolastica. Alla fine della terapia, Alison trascorreva felicemente il proprio tempo a casa di amici e i genitori riuscivano a uscire insieme a cena senza che lei si preoccupasse. Faceva ancora qualche capriccio prima di andare a scuola, ma questi si erano ridotti considerevolmente dall’inizio del trattamento di gruppo. Gli obiettivi di Alison per il futuro erano riuscire ad affrontare la lontananza dei genitori per un week-end ed essere in grado di partecipare a un campo scuola di 1 settimana l’anno successivo. Alison e i genitori prepararono una scaletta graduale per affrontare questi obiettivi su cui volevano lavorare dopo la fine del trattamento. Michael (disturbo d’ansia generalizzato e fobia sociale) Michael, un adolescente di 16 anni, era stato inviato dai suoi genitori, che lo avevano descritto come una “persona che si preoccupa sempre di cose non importanti”. Michael si preoccupava dei voti scolastici, “di cacciarsi nei guai” con gli insegnanti e i genitori, di eventi che succedevano nel mondo (per es. guerre e terrorismo), di farsi degli amici, del proprio futuro (per es. affrontare la scuola superiore e il lavoro) e di essere “perfetto” (per es. arrivare puntuale e commettere errori nei compiti scolastici). Come risultato di queste ansie, Michael non dormiva bene, aveva spesso mal di testa e si sentiva spesso irritabile. Oltre a queste preoccupazioni più generiche, Michael era ansioso in numerose situazioni sociali (per es. parlare in pubblico, feste e situazioni che richiedevano assertività) e quindi le evitava. Michael soddisfaceva i criteri per una diagnosi primaria di disturbo d’ansia generalizzato e una diagnosi aggiuntiva di fobia sociale. Michael riferiva anche alcuni sintomi di depressione, come una bassa autostima, ma questi non avevano la frequenza e la gravità previste dalla diagnosi. Nella valutazione, il padre di Michael, Stan, aveva rivelato di essere ancora in trattamento da uno psichiatra per la propria depressione. All’inizio della terapia, i moduli di auto-monitoraggio del pensiero di Michael rivelavano una lista molto estesa di preoccupazioni che innescavano l’ansia. Michael aveva difficoltà con la ristrutturazione cognitiva, soprattutto quando valutava i “costi” delle proprie previsioni negative. Per esempio, per Michael, il costo di fallire un test a scuola era catastrofico e i tentativi fatti dal terapeuta o da altri membri del gruppo per incoraggiarlo a considerare altri punti di vista avevano avuto un impatto quasi nullo sulla valutazione che egli faceva delle conseguenze. Il padre di Michael rinforzava le paure sulla scuola: sottolineava ripetutamente l’importanza di ottenere buoni voti e l’impatto che avrebbe potuto avere sul futuro di Michael un fallimento nell’ottenere i voti previsti. Il terapeuta aveva lavorato con Michael e i genitori integrando nella scaletta aspetti relativi al perfezionismo (Tabella 18.2) L’obiettivo di Michael era quello di non preoccuparsi se commetteva degli errori a scuola. I tentativi del terapeuta di 315 Jennifer L. Allen e Roland M. Rapee incoraggiare Stan ad applicare il pensiero realistico alle proprie paure sulla performance accademica del figlio non avevano dato risultati. Tabella 18.2 Scaletta di Michael e punteggi alla scala si preoccupazione (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) Consegnare intenzionalmente un tema con una macchia di inchiostro Arrivare intenzionalmente con 5 minuti di ritardo alla lezione Scarabocchiare la pagina di un compito da consegnare Commettere intenzionalmente un errore in classe in un esercizio di matematica Consegnare un tema con due errori di ortografia Dimenticarsi un libro necessario per il lavoro in classe Rispondere a una domanda in classe senza essere sicuro della risposta Dare intenzionalmente in classe una risposta sbagliata Scrivere intenzionalmente una risposta sbagliata sulla lavagna durante la lezione di matematica (3) (4) (4) (5) (6) (6) (7) (8) (9) Anche se nella seduta Michael aveva generato una scaletta, era piuttosto evidente che incontrava delle difficoltà a portare a termine i passi previsti. È possibile che Michael avesse generato questa scaletta e si fosse impegnato a seguirla per “sembrare bravo” agli occhi dei genitori e del terapeuta, soprattutto a causa del perfezionismo e della paura delle figure di autorità. Quindi la scaletta era stata nuovamente redatta per includere gradini con un punteggi di preoccupazione inferiori e ogni stadio è stato ripetuto più volte prima di passare a quello successivo. Anche i genitori di Michael incontravano difficoltà con la componente gestionale del programma, dal momento che il padre sembrava molto sulla difensiva e considerava qualunque informazione sulle strategie da utilizzare per promuovere comportamenti coraggiosi nei propri bambini come un attacco alle proprie capacità personali di padre. Ogni strategia suggerita dal terapeuta o da altri genitori del gruppo per ridurre l’ansia di Michael veniva rifiutata. Stan faceva ripetutamente commenti per tutto il corso della terapia del tipo “non ha senso perdere tempo” e “abbiamo provato tutto, non funziona niente”. La difficoltà di Michael a completare i gradini della propria scaletta alimentava ulteriormente queste convinzioni. L’esposizione durante la seduta prevedeva che alcuni membri del gruppo dovessero tenere un discorso improvvisato mentre venivano videoregistrati. Prima del discorso, era stato chiesto a Michael quali sintomi d’ansia gli altri avrebbero notato (per es. arrossire, tremare e evitare il contatto oculare) e quanto fosse distinguibile ciascun sintomo su una scala da 0 a 10. Gli altri adolescenti del gruppo erano concordi sul dare un feedback onesto su questi sintomi, utilizzando la stessa scala di valutazione. Il feedback del gruppo indicava che Michael sovrastimava l’ovvietà di questi sintomi d’ansia. Questo feedback era stato incluso nel pensiero realistico come ulteriore prova contro i 316 I disturbi d’ansia pensieri ansiosi. Anche Michael aveva scelto di completare numerosi compiti nel corso dell’escursione al centro commerciale per affrontare la propria paura dell’assertività, per esempio comprare un CD e poi chiedere di cambiarlo con un altro. Anche se Michael aveva fatto qualche progresso in relazione alle paure sociali, le preoccupazioni, soprattutto quella relativa alla scuola e al perfezionismo, non avevano subito cambiamenti significativi nel corso del trattamento. Michael e la famiglia sono l’esempio di una situazione in cui la terapia individuale potrebbe essere un approccio più indicato, perché offre più tempo per stabilire un rapporto terapeutico e per gestire alcune problematiche familiari come la depressione del padre. Bibliografia Abbott, M. J., Gaston, J. and Rapee, R. M. (2002). Bibliotherapy in the treatment of children with anxiety disorders. 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Ollendick Virginia Polytechnic University, Blacksbury, Virginia, Stati Uniti Introduzione Il rifiuto scolastico è un problema persistente relativo alla frequenza scolastica che mette a rischio lo sviluppo sociale, ambientale, scolastico e professionale di un ragazzo; contribuisce allo stress dei genitori preoccupati e del personale scolastico e rappresenta spesso una sfida reale per l’educazione e per i professionisti della salute mentale (Kahn et al., 1996). Alcuni autori (per es. Kearney e Silverman, 1996) utilizzano l’espressione comportamento di rifiuto scolastico per indicare una serie di problemi relativi alla frequenza, fra cui ripetute assenze ingiustificate. Altri che, operando una distinzione, considerano il rifiuto scolastico un problema di frequenza e le assenze ingiustificate un altro tipo di problema, utilizzano l’espressione rifiuto scolastico per indicare quei casi in cui il problema della frequenza è associato a uno stress emotivo (per es. King e Bernstein, 2001), ma non a comportamento antisociale (per es. Honjo et al. 2001) e in cui di solito il bambino resta a casa e non bighellona in giro (per es. Kameguchi e Murphy-Shigematsu, 2001). Come questi autori, anche gli autori di questo capitolo preferiscono distinguere il rifiuto scolastico dalle assenze ingiustificate, dal momento che richiedono spesso differenti approcci di intervento (Berg, 2002). Dopo il lavoro di Berg e colleghi (Berg et al., 1969; Bools et al., 1990; Berg, 2002), il rifiuto scolastico presenta queste caratteristiche: (1) riluttanza o rifiuto di andare a scuola; (2) il bambino di solito resta a casa nelle ore di scuola e non lo nasconde ai genitori; (3) preoccupazione emotiva al pensiero di dover andare a scuola, che potrebbe riflet321 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick tersi in una paura eccessiva, scoppi d’ira, tristezza o possibili e inspiegabili malesseri fisici; (4) assenza di gravi tendenze antisociali, oltre alla resistenza del bambino verso i tentativi dei genitori e (5) ragionevoli sforzi da parte dei genitori per di assicurarsi della frequenza scolastica. Così come per la distinzione fra rifiuto scolastico e assenze ingiustificate, questi criteri aiutano a distinguere fra il rifiuto e il ritiro, associato a uno scarso supporto, diretto o indiretto, da parte dei genitori (cf. Blagg, 1987; Kahn e Nursten, 1962). Fenomenologia Il rifiuto scolastico può presentarsi all’improvviso (per es. immediatamente dopo un’assenza giustificata per malattia) oppure può svilupparsi lentamente (per es. da piccole lamentele di non gradire la scuola, a una lentezza nel preparasi fino al secco rifiuto di andare). L’assenteismo potrebbe essere lungo (per es. mesi o anni a volte) o sporadico(ossia in giorni in cui sono determinate materie) o non presente (angoscia molto forte all’idea di andare a scuola senza alterazioni della frequenza). Lo stress emotivo associato al rifiuto scolastico potrebbe manifestarsi in molti modi, con vari livelli di gravità, in tempi e contesti differenti. Sul piano comportamentale, potrebbero verificarsi scoppi d’ira e di pianto quando si cerca di forzare il bambino ad andare a scuola. Per evitare l’angoscia associata con la frequenza, il bambino potrebbe rifiutarsi di uscire dal letto o di salire in macchina o sull’autobus che lo porta a scuola. Alcuni minacciano di scappare di casa o di farsi male (Coulter, 19965; Berg, 2002). Altri si dirigono a scuola e poi corrono a casa in stato di ansia ancora prima di essere arrivati, oppure, dopo essere arrivati ed essersi adattati, sperimentano nuovamente il giorno dopo la stessa angoscia e la stessa resistenza alla frequenza (Berg, 2002). Molti sintomi somatici si associano di frequente con il rifiuto scolastico. Le lamentele più comuni includono sintomi gastrointestinali (per es. diarrea, nausea e vomito), dolore (per es. mal di testa e dolori alla schiena), sintomi cardiopolmonari (per es. palpitazioni e fiato corto) e altri sintomi del sistema nervoso autonomo (per es. febbre e vertigini) (Honjo et al., 2001). La componente cognitiva del rifiuto scolastico implica la presenza di un pensiero distorto associato alla frequenza scolastica. I bambini potrebbero, per esempio, sovrastimare la probabilità di situazioni che provocano ansia a scuola o che accada qualcosa di male ai propri genitori, sottostimare la propria capacità di affrontare le situazioni, ingigantire o fare esclusivamente attenzione agli aspetti spiacevoli delle frequenza o fraintendere i pensieri e le azioni degli altri a scuola (per es. King et al., 1998a; Kearney, 2001). Con il tempo, il bambino potrebbe ritirarsi progressivamente, non farsi più coinvolgere dalle attività usuali e rifiutare qualunque contatto con i coetanei. Ci potrebbe essere anche un’intensificazione di problemi dell’umore e l’ansia potrebbe generalizzarsi ad altre situazioni (Torma e Halsti, 1975; Berg 2002). Il senso del proprio valore potrebbe deteriorare poiché si giudica diverso dai coetanei e non in grado di stare al passo con gli altri a scuola. In tutto ciò, la tensione familiare e lo stress dei genitori tendono ad aumentare. Anche se questo non è vero per tutti i casi di rifiuto scolastico (per es. Berg et al., 1993; Bernstein e Borchardt, 1996,) molti di questi ragazzi soddisfano i criteri diagno322 Il rifiuto della scuola stici per i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore o entrambi (per es. Last e Strauss, 1990; Bernstein 1991). Anche nel caso in cui questi criteri non vengono soddisfatti, questi bambini hanno comunque maggiori probabilità di avere sintomi problematici d’ansia (cf. Bools et al., 1990) e/o o depressivi (cf. Kearney, 1993). Una diagnosi di comorbidità è piuttosto comune (vedere Bernstein e Garfinkel, 1986; Last et al., 1987; Kast e Strauss, 1990) e si osservano trend prevedibili, nella diagnosi e nei sintomi, collegati all’età. Per esempio, nei bambini piccoli con rifiuto scolastico è più comune l’associazione con il disturbo d’ansia da separazione (vedere Lass e Strauss, 1990), mentre gli adolescenti hanno maggiori probabilità di soffrire di una fobia sociale o disturbo da attacchi di panico (vedere Last e Strauss, 1990; Bernstein e Borchardt, 1991) e di avere sintomi depressivi (vedere Baker e Wills, 1978). Il rifiuto scolastico si associa anche a comportamenti esteriorizzati. I ragazzi con questo problema potrebbero diventare testardi, polemici e mostrare comportamenti aggressivi quando i genitori cercano di portarli a scuola (Berg, 2002), anche se di solito non sono presenti comportamenti marcatamente antisociali, come rubare e compiere atti distruttivi (Berg, 2002). I ragazzi che rifiutano la scuola e hanno continui e molteplici comportamenti esteriorizzati, nel tempo potrebbero ricevere una diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio. Eziologia L’eziologia del rifiuto scolastico è spesso complessa e un modo utile per organizzare tutti i fattori potenzialmente rilevanti è quello di suddividerli in fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento. In ciascuno di questi tre gruppi, è probabile riscontrare una confluenza di fattori individuali, familiari, scolastici e relativi al territorio. La Tabella 19.1 presenta alcuni fattori che potrebbero essere implicati nello sviluppo e nel mantenimento del rifiuto scolastico. Valutazione La natura eterogenea del rifiuto scolastico, con varie presentazioni e numerosi fattori eziologici, evidenzia l’importanza di una valutazione multimodale. Di seguito presentiamo una serie di metodologie valutative che riflettono la terorizzazione cognitivo comportamentale del rifiuto scolastico. I dati tratti da queste misurazioni vengono utilizzati per formulare e verificare delle ipotesi sullo sviluppo e sul mantenimento del rifiuto scolastico. Alcuni dati saranno particolarmente utili per valutare l’efficacia di specifici interventi. Nel corso del processo diagnostico, si dovrebbe prima di tutto condurre un esame medico per escludere cause di ordine fisico, dato che il rifiuto scolastico è spesso associato a lamentele somatiche e a volte segue una reale malattia. Si dovrebbero consultare anche i professionisti già coinvolti nel caso (per es. medico di base, pediatra e funzionario scolastico). Oltre a raccogliere informazioni rilevanti ai fini della valutazione, questa prassi facilita in definitiva l’applicazione coerente del piano di trattamento. 323 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick Tabella 19.1 Fattori che potenzialmente contribuiscono allo sviluppo e al mantenimento del rifiuto scolastico Sviluppo del rifiuto scolastico (fattori predisponenti e precipitanti) - Fattori individuali Vulnerabilità allo stress, temperamento ansioso, insorgenza di depressione Assenze iniziali per problemi di salute Difficoltà scolastiche - Fattori familiari Malattia di un genitore Conflittualità coniugale o altri stress familiari (per es. difficoltà finanziarie, pressioni lavorative, isolamento sociale) Rifiuto scolastico in un fratello Madre che va al lavoro - Fattori scolastici Esperienze avversive a scuola (per es. bullismo, conflitto con un insegnante, isolamento sociale) Test, organizzazione delle classi, ora di educazione fisica, ecc. Cambiamento di scuola/classe/insegnante Esperienze insufficienti di successo e divertimento a scuola - Fattori relativi al territorio Maggiore competitività accademica Fattori economici che hanno un impatto sull’efficacia scolastica Eventi violenti/traumatici in prossimità della scuola Mantenimento del rifiuto scolastico (fattori di mantenimento) - Fattori individuali Rinforzo negativo attraverso l’evitamento degli aspetti stressanti della scuola (per es. stare in classe, mescolarsi agli amici, giustificare le assenze, stare al passo con i compiti) Bassa auto-efficacia Sviluppo o aggravamento della depressione - Fattori familiari Rinforzo positivo attraverso l’accesso involontario a esperienze e oggetti presenti a casa (per es. televisione, computer, animali domestici, giocattoli, cibo, attenzione dei genitori, passeggiate) Gestione incoerente delle assenze Genitorialità compromessa (per es. disattenzione verso i progressi del ragazzo, uso inefficace delle istruzioni), forse come risultato dello stress e/o di una bassa auto-efficacia Atteggiamenti che riflettono una rinuncia alla responsabilità e l’attesa che il ragazzo torni da solo a scuola - Fattori scolastici Comunicazione minima/problematica fra la famiglia e la scuola Insensibilità del sistema a voti dopo il ritorno a scuola del ragazzo Personale che involontariamente non è informato e non è supportante, riportando sempre l’attenzione sulle precedenti assenze del ragazzo. - Fattori del territorio Sostegno minimo per i genitori e le famiglie che si trovano ad affrontare questa situazione Incoerenza degli approcci e dei suggerimenti dei professionisti in relazione alla gestione della non frequenza. 324 Il rifiuto della scuola Intervista clinico comportamentale e osservazioni del comportamento L’intervista clinico comportamentale fornisce informazioni dettagliate sui comportamenti target (per es. il ragazzo che si rifiuta di uscire dal letto e in che modo i genitori gestiscono questi capricci) e le variabili che determinano e contribuiscono al mantenimento dei comportamenti stessi. Aiuta anche il a selezionare alcune procedure valutative e strumenti di misura seguito presentati e guida la selezione di eventuali metodologie aggiuntive di valutazione (per es. test psicoeducativi). Le linee guida per condurre le interviste con i ragazzi che rifiutano la scuola e i loro genitori sono state fornite da Blagg (1987) e da Heyne e Rollings (2002). Poiché questi ragazzi e i loro genitori hanno spesso una visione differente del problema, gli autori conducono interviste separate in modo che ciascuno possa liberamente esporre il proprio punto di vista (cf. Blagg, 1987).Troppo di frequente, i ragazzi non sono in grado o non vogliono identificare le ragioni delle proprie difficoltà (per es. Coulter, 1995) e quindi, per evitare di mettere compromettere lo sviluppo di un’alleanza terapeutica, gli autori non introducono subito il problema della non frequenza, per timore che questo esasperi la frustrazione o la resistenza dei pazienti. Gli autori si recano anche a scuola per intervistare il personale in relazione al funzionamento sociale, emotivo, comportamentale e scolastico del ragazzo. Si cerca di determinare se alcune delle paure o delle ansie del bambino si base sulla realtà, come per es. essere regolarmente vittima di episodi di bullismo. Sulla base del lavoro di Mansdorf e Luken (1987), l’intervista clinico comportamentale viene integrata da un’analisi delle autoaffermazioni, condotta separatamente con il ragazzo e i genitori (vedere Heyne e Rollings, 2002). Questa forma di valutazione serve a identificare i pensieri del bambino e dei genitori che potrebbero essere associati allo sviluppo e al mantenimento del rifiuto scolastico, e che potrebbero essere un focus del trattamento. Quando è possibile, le osservazioni dirette del ragazzo e dei genitori si fanno a casa e a scuola, facendo particolare attenzione a rilevare gli antecedenti e le conseguenze del rifiuto e dei comportamenti di resistenza. In alternativa, i genitori e il personale scolastico vengono addestrati e seguiti per osservare essi stessi il comportamento del ragazzo e registrarlo, attraverso diari di monitoraggio personalizzati (vedere Kearney (2001) per una discussione delle procedure di osservazione diretta del comportamento). Interviste diagnostiche Le interviste diagnostiche contribuiscono a creare un profilo delle difficoltà del ragazzo, quali sono e quanto gravi, e a pianificare trattamenti differenziali. La Anxiety Disorders Interview Schedule for Children (ADIS-C) di Silverman e Albano (1996) facilita la diagnosi differenziale fra le differenti tipologie di disturbo d’ansia presenti nel DSM-IV (Associazione Americana di Psichiatria, 1994). Centrata sui disturbi ansiosi, include anche alcune sezioni sui disturbi dell’umore e su quelli del comportamento. Sono disponibili differente forme di intervista per il bambino (ADIS-C) e i genitori (ADIS-P) e la diagnosi viene sviluppata sulla base di ciò che entrambe le parti riferiscono. Questa metodologia può essere molto utile, ma è lunga da som325 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick ministrare e richiede una buona competenza diagnostica del clinico (vedere Grills e Ollendick, 2002). Misure di self-report e di auto-monitoraggio Si possono utilizzare numerose misure di self-report psicometricamente solide per valutare i livelli di paura, ansia e depressione che i ragazzi vivono in relazione al rifiuto scolastico. Le misure dell’ansia e della paura includono: la Fear Survey Schedule for Children Revised (FSSC-R; Ollendick, 1983) e la sua versione più recente, la Fear Survey Schedule for Children-II (FSSC-II; Gullone e King, 1992); la Revised Children’s Manifest Anxiety Scale (RCMAS; Reynolds e Richmond, 1978), una nuova misura dell’ansia, la Spence Children’s Anxiety Scale (SCAS; Spence, 1998) e infine misure con un focus più preciso come la Social Anxiety Scale for Children-Revised (SASC-R; La Greca e Stone, 1993). Il Children Depression Inventory (CDI; Kovacs, 1992) viene di solito utilizzato per l’individuare i sintomi depressivi. Il Self-Efficacy Questionnaire for School Situations (SEQ-SS; Heyne et al., 1998) è una misura di self-report costruita specificamente per analizzare i pensieri dei ragazzi che rifiutano la scuola, in relazione alla propria capacità di affrontare situazioni potenzialmente ansiogene, come i compiti scolastici, o di gestire le domande dei compagni sulle assenze ripetute. Ci sono numerose rassegne recenti dettagliate di misure di self-report da utilizzare nella valutazione del rifiuto scolastico (vedere Ollendick e King; 1998; Kearney, 2001). L’auto-monitoraggio permette una valutazione più specifica dal momento che si chiede al ragazzo di riferire i comportamenti target, clinicamente rilevanti, mano a mano che questi si verificano, aiutandolo a identificare gli antecedenti e le conseguenze che contribuiscono al mantenimento del rifiuto scolastico (Ollendick e King, 1998). In funzione dell’età del ragazzo e della compliance, si possono utilizzare i diari di auto-monitoraggio per registrare i livelli di stress emotivo alla mattina a scuola e in situazioni specifiche, come le ore di alcune materie o stare nel cortile all’ora di pranzo. Misure completate dai genitori e dagli insegnanti Nella valutazione del rifiuto scolastico si utilizzano numerose misure completate dai genitori e dagli insegnanti. Per esempio, la Child Behavior Checklist (CBCL; Achenbach, 1991a) indaga le percezioni dei genitori sulle competenze e sui problemi comportamentali dei bambini fra i 4 e i 18 anni; la Teacher’s Report Form (TRF; Achenbach 1991b) è la versione corrispondente per il personale scolastico. Numerosi sono gli studi a sostegno delle proprietà psicometriche di questi strumenti e l’utilità clinica, è incrementata dal range molto ampio dei dati normativi per maschi e femmine di età diverse, anche per i punteggi alle sottoscale del ritiro sociale, problemi sociali, ansia/depressione, lamentele somatiche e comportamenti aggressivi. Spesso si chiede anche ai genitori di monitorare i comportamenti specifici di rifiuto (per es. la frequenza giornaliera, lo stress emotivo e i livelli di collaborazione o resistenza). Inoltre si possono indagare le 326 Il rifiuto della scuola risposte dei genitori al comportamento del ragazzo e il grado di stress vissuto dalla famiglia (cf. Kearney e Albano, 2000 a, b). La valutazione del funzionamento genitoriale e familiare è importante per comprendere il contesto in cui si verifica il rifiuto scolastico (cf. Kearney, 2001). Quando le interviste cliniche forniscono alcune prime indicazioni, gli autori chiedono ai genitori di completare il Beck Depression Inventory (Beck et al., 1996), il Brief Symptom Inventory (Derogatis, 1993) e la Abbreviated Dyadic Adjustment Scale (Sharpley e Rogers, 1984). I genitori e gli adolescenti che rifiutano la scuola di solito vengono invitati a completare la sottoscala di funzionamento generale del McMaster Family Assessment Device (Epstein et al., 1983). (Vedere Kearney (2001) per una rassegna su altre misure per i genitori e la famiglia che potrebbero essere utilizzate nella valutazione del rifiuto scolastico). Revisione dei registri di presenza La revisione dei registri di presenza a scuola dà informazioni utili sulla numerosità e sul pattern delle assenze. Assenze regolari associate a determinate attività (per es. gite scolastiche), materie (per es. educazione fisica o lingua) o giorni della settimana (per es. dopo gli incontri con i professori) potrebbero fare luce sui fattori che contribuiscono al mantenimento del rifiuto scolastico. Nei casi cronici, i genitori potrebbero essere pienamente consapevoli della numerosità delle assenze del proprio figlio solo di fronte ai registri di presenza dei mesi o degli anni passati Analisi funzionale sistematica Un’analisi funzionale sistematica e veloce per il rifiuto scolastico potrebbe essere facilitata dall’utilizzo della School Refusal Assessment Scale (SRAS; Kearney e Silverman, 1993), una misura di self-report (SRAS-C) con una versione corrispondente per i genitori (SRAS-P). La SRAS-C e la SRAS-P hanno 16 item che indagano quattro fattori implicati nel mantenimento dei comportamenti di rifiuto scolastico (come evidenziato nell’introduzione, l’espressione “rifiuto scolastico” viene utilizzata da alcuni autori per includere tutta una serie di problemi relativi alla frequenza, fra cui il rifiuto scolastico e le assenze ingiustificate; tuttavia, la valutazione del rifiuto scolastico di per sé viene facilitata anche dall’utilizzo della SRAS): (1) evitamento di stimoli che provocano emozioni negative; (2) fuga da situazioni sociali o di giudizio avversive; (3) comportamenti di ricerca dell’attenzione altrui e (4) ricerca di rinforzi tangibili al di fuori della scuola. Il fattore con il punteggio più alto (combinando i report del bambino e dei genitori) viene considerato quello principalmente responsabile del mantenimento del comportamento di rifiuto. Nello strumento sono anche indicati i trattamenti suggeriti per ciascuna dei fattori (vedere Kearney e Albano, 2000 a, b). Tuttavia, per determinare la forma più appropriata di intervento, le ipotesi individuate in questa analisi funzionale devono essere ulteriormente sviluppate alla luce di altre informazioni raccolte nel corso della valutazione (cf. Kearney, 2001). 327 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick Integrazione delle informazioni Le informazioni della valutazione vengono tutte raccolte per sviluppare un profilo diagnostico del ragazzo e una formulazione del caso. La formulazione del caso identifica i fattori individuali (per es. storia scolastica, pensieri, sintomi somatici, competenze sociali, difficoltà scolastiche ed eventuali comorbidità), quelli familiari (per es. ansia/ depressione dei genitori e modalità di gestione delle assenze) e scolastici (per es. supporto degli insegnanti e isolamento nel cortile) associati allo sviluppo e al mantenimento del rifiuto unitamente ai punti di forza dell’individuo, della famiglia e del contesto scolastico. Tutte queste informazioni rendono chiari i target dell’intervento che mira a ripristinare un normale regime di frequenza volontaria e a ridurre lo stress emotivo. Nel processo diagnostico e nel piano di intervento, si devono tenere in considerazione anche altre complicanze, fra cui l’impatto di uno status socioeconomico basso, la condizione di genitore single e la diversità etnica e culturale. Fra la valutazione e il trattamento, è prevista una seduta di feedback con il ragazzo e i genitori, spesso separati. Gli autori presentano i risultati della valutazione, li collegano al piano di trattamento e cercano di stimolare commenti, chiarificazioni e domande. Questo feedback ha lo scopo di generare una comprensione condivisa del problema e di promuovere un approccio collaborativo al problem-solving. Si contatta anche il personale scolastico più rilevante e gli si riassumono i risultati della valutazione. Trattamento Di tutti gli approcci di trattamento utilizzati (per es. ludoterapia, psicoterapia psicodinamica, terapia familiare e terapia cognitivo comportamentale (CBT)), solo la CBT è stata sottoposta a valutazioni rigorose in prove cliniche randomizzate ed è quello che a oggi ha il supporto empirico più incoraggiante. (King e Bernstein, 2001). La CBT si è rivelata superiore al gruppo di controllo in lista di attesa (King et al., 1998b) e altrettanto efficace a una terapia educativa di supporto (Last et al., 1998). Uno studio sui rispettivi benefici di una CBT individuale sul bambino e una sui genitori (Heyne et al., 2002) ne comprova ulteriormente l’efficacia con il rifiuto scolastico. Anche una prova clinica precedente (Kennedy, 1965) e uno studio comparativo non randomizzato (Blagg e Yule, 1984) presentano gli stessi risultati (sebbene di minore entità) per approcci più strettamente comportamentali nel trattamento del rifiuto scolastico. I trattamenti cognitivo comportamentali sottolineano lo scopo di un precoce rientro a scuola (Blagg, 1987; Mansdorf e Lukens, 1987; King et al., 1995; Heyne et al., 2002), proprio come negli approcci focalizzati sulla famiglia (Place et al., 2000) o nell’approccio psicodinamico (vedere la rassegna di Want, 1983). Pertanto, l’istruzione privata a casa è di solito sconsigliata (King e Bernstein, 2001). Un ritorno precoce ha lo scopo di contenere una eventuale escalation dei problemi associati alla perdita di ulteriori lezioni, al progressivo isolamento sociale, alla diminuzione della sicurezza in sé e del proprio valore e all’intensificazione dei comportamenti di evitamento. Di seguito si descrive il programma di CBT applicato dagli autori con il rifiuto scolastico: la terapia focalizzata sul bambino e il lavoro con i genitori (King et al., 328 Il rifiuto della scuola 1998b; Heyne et al., 2002). Il trattamento individuale prevede l’applicazione di procedure comportamentali e cognitive direttamente sul ragazzo, per aiutarlo ad acquisire e poi utilizzare le competenze necessarie ad affrontare il rientro a scuola e la frequenza regolare. Il lavoro sui genitori si focalizza sul ruolo che i genitori e gli insegnanti possono giocare, a casa e a scuola, nella gestione delle contingenze ambientali– quelle che contribuiscono al mantenimento del problema e quelle che facilitano la frequenza regolare e volontaria del ragazzo. Gli interventi sul bambino, sui genitori e a scuola si basano su un’attenta selezione delle componenti del trattamento in funzione del profilo diagnostico e della formulazione del caso. Questo approccio individualizzato, oltre a essere sensibile alla singolarità di ogni bambino, famiglia e contesto scolastico, tiene conto della co-occorrenza complessa di fattori potenzialmente coinvolti nello sviluppo e nel mantenimento del rifiuto scolastico, (cf. Barrett et al., 1996). Il trattamento è spesso intenso e prevede, nel corso di 4 settimane, fra sei e otto sedute per il ragazzo, fra cinque e otto sedute per i genitori e la consulenza e il contatto telefonico regolari per il personale scolastico. Il ragazzo e i genitori vengono incoraggiati a farsi coinvolgere, fra una seduta e l’altra, in esercizi, specifici per rinforzare e generalizzare le competenze al di là del contesto clinico e per rendere effettivo il cambiamento del ragazzo a casa e a scuola. La terapia focalizzata sul bambino La fase iniziale Di solito, i ragazzi che si rifiutano di andare a scuola, difficilmente desiderano essere coinvolti in una terapia che mira a farli tornare a un regime normale di frequenza e può essere molto impegnativo riuscire coinvolgerli nell’intervento. Il clinico potrebbe favorire il coinvolgimento attraverso un costante riconoscimento empatico delle difficoltà che il ragazzo deve affrontare, coltivando aspettative positive sul miglioramento della situazione ed trasmettendo fiducia nelle capacità del ragazzo e nelle strategie utilizzate. Anche altri testi presentano le strategie per coinvolgere i ragazzi che rifiutano la scuola (Heyne e Rollings, 2002; vedere anche il Capitolo 5). Dall’inizio dell’intervento, il clinico funge da modello per il problem-solving, fornisce le istruzioni necessarie e ne promuove l’applicazione. L’attività di brainstorming guidato ha lo scopo di individuare in anticipo le situazioni problematiche che potrebbero realisticamente presentarsi, di generare possibili soluzioni per gestire queste situazioni, di prendere in considerazione le conseguenze possibili delle soluzioni trovate e di scegliere una determinata soluzione particolare e il piano per utilizzarla (cf. Kendall et al., 1992). Il training di rilassamento fornisce al ragazzo un mezzo efficace di gestione e di riduzione dell’arousal ansiosa associata alla frequenza scolastica (per es. quando ci si avvicina alla scuola il giorno del rientro e si deve dare una spiegazione in classe). Quando i ragazzi imparano a identificare e gestire le sensazioni di malessere, si trovano in una posizione migliore da cui confrontarsi con situazioni problematiche e utilizzare altre competenze e strategie per affrontare la frequenza scolastica. Il training di rilassamento si utilizza in presenza di punteggi elevati alle sottoscale di alcune misure scelte (per es. 329 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick la sottoscala fisiologica della RCMAS e quella delle lamentele somatiche della CBCL e della TRF) e in presenza di frequenti lamentele somatiche nel corso dell’intervista clinica e diagnostica. Il training di rilassamento è anche una tecnica di gestione dello stress nei casi di disturbo d’ansia generalizzato, o nella fase di preparazione a procedure di desensibilizzazione (vedere di seguito). Per aiutare l’adolescente a rilassarsi al momento giusto, il clinico dovrebbe identificare una procedura accettabile e allo stesso tempo efficace (vedere la Tabella 19.2). Il training nelle competenze sociali viene utilizzato principalmente in due situazioni. Primo, quando il ragazzo riferisce incertezza e ansia nel rispondere alle domande dei coetanei e degli insegnanti relative all’assenza prolungata. Queste autorivelazioni vengono facilitate dall’utilizzo del SEQ-SS, oppure compaiono nel corso dell’intervista clinico comportamentale. Tabella 19.2 Procedure di training di rilassamento Procedura Descrizione Riferimento Bibliografico Rilassamento Muscolare Progressivo (RMP) per i bambini più grandi Versione modificata del RMP per gli adulti da utilizzare con i ragazzi. Il RMP è un processo per rilassare sistematicamente i vari gruppi muscolari del corpo Ollendick e Cerny (1981) Rilassamento Muscolare Progressivo (RMP) per i bambini più piccoli Utilizza l’immaginazione visiva per coinvolgere i bambini più piccoli Koeppen (1971) Tecnica Robot-Ragdoll Variazione del RMP, utile per bambini attivi che hanno difficoltà a stare seduti fermi e a farsi coinvolgere nel rilassamento Kendall et al. (1992) Training autogeno Il cliente ripete fra sé e sé una serie di frasi focalizzate sull’aspetto fisiologico lette dal terapeuta, che gli permettono di indurre uno stato di calma mentale e fisica Davis et al. (1995) cont.. 330 Il rifiuto della scuola Immaginazione guidata Il professionista guida il cliente attraverso una serie di scene visive (standard o personali) che evocano un senso di calma e rilassamento Esempi di standard in Bourne (1990) e Rapee et al. (2000) Tecniche di Respirazione Il cliente impara a controllare la frequenza e profondità del proprio respiro per gestire la tensione e l’ansia. Questa è una forma di rilassamento meno vistosa Andrews et al. (1994) Tratta da Heyne et al. (2002) Secondo, quando le competenze necessarie a costruire e mantenere le amicizie o ad affrontare le prese in giro o episodi di bullismo non sono pienamente sviluppate, e rendono il ragazzo vulnerabile all’isolamento e incline a evitare la scuola. Le competenze sociali, il ritiro sociale e le problematiche sociali vengono valutate attraverso le sottoscale degli strumenti CBCL, TRF, SRAS e RCMAS; attraverso l’intervista con i genitori, i bambini e il personale della scuola e attraverso l’osservazione nel contesto clinico. Si possono utilizzare anche misure più specifiche, come la SASC-R. Il potenziamento delle competenze sociali viene trattato nel Capitolo 23. Un aspetto vitale nel trattamento per il rifiuto scolastico è il focus sui pensieri del ragazzo. I giovani che vivono una condizione di stress emotivo potrebbero elaborare gli eventi in maniera distorta (per es. “So di non piacere all’insegnante perché alza la voce”), sovrastimare la probabilità di eventi negativi (per es. “mia madre cadrà mentre sto a scuola”), sottostimare le proprie risorse di coping (per es. “Non saprò cosa fare se l’insegnante mi fa una domanda”) e farsi coinvolgere in auto-valutazioni negative (per es. “Non ho speranza nello sport”). Nel corso della valutazione, gli indizi per una terapia cognitiva potrebbero manifestarsi nell’intervista clinico comportamentale con il bambino (con una valutazione aggiuntiva delle auto-affermazioni), nell’intervista diagnostica, nelle aspettative di auto-efficacia valutate attraverso il SEQ-SS, la sottoscala di preoccupazione/ipersensibilità della RCMAS e gli item del CDI. Ovviamente nel corso del trattamento potrebbero sorgere molte altre indicazioni. La terapia cognitiva con i ragazzi che rifiutano la scuola ha lo scopo di modificare i pensieri disadattivi per provocare un cambiamento nelle emozioni e nei comportamenti, per farlo tornare a un normale regime di frequenza. L’approccio “Seven Ds” può guidare l’applicazione della terapia, enfatizzando le componenti chiave: (1) describing, si descrive la terapia cognitiva, (2) detecting, si individuano i pensieri, (3) determining, si scelgono i pensieri su cui lavorare, (4) disputing, si mettono in discussione i pensieri disadattivi, (5) discovering, si individuano i pensieri adattivi e le affermazioni di coping, (6) doing, ci si esercita fra una seduta e l’altra e (7) discussing, s discutono gli esiti del compito a casa (Heyne e Rollings, 2002). I materiali che fanno uso di cartoni animati sono spesso utili per aiutare i bambini più piccoli a comprendere il collegamento fra 331 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick pensieri, sentimenti e azioni e per coinvolgerli nel processo di individuazione dei propri pensieri disadattivi e di scoperta di altri più adattivi (per es. Kendall et al., 1992; Barrett et al., 2000). In altre sedi sono presentate procedure argomentative più adatte alle capacità cognitive degli adolescenti (per es. Zarb, 1992; Beck, 1995). Fase applicativa Tornare a scuola, , tecnicamente una procedura di esposizione, rappresenta la componente principale della terapia per il rifiuto scolastico. Il rientro a scuola deve essere negoziato con il ragazzo, i genitori e il personale scolastico e va associato alle strategie preparatorie appena descritte. Quando i ragazzi non frequentano più da molto tempo (in opposizione a quelli che frequentano sporadicamente), gli autori suggeriscono di proporre il rientro a metà del trattamento. Questo permette al bambino di avere a disposizione un tempo sufficiente per sviluppare le competenze necessarie al rientro a scuola e gli dà l’opportunità di affrontare le difficoltà che sorgono durante e dopo il rientro a scuola in collaborazione con il terapeuta. Armati di pazienza e costanza, bisogna monitorare il progresso e rivedere il piano di rientro. Dal momento che molti ragazzi che rifiutano la scuola hanno elevati livelli d’ansia, di solito si negozia un ritorno graduale, ossia una desensibilizzazione in vivo attraverso l’esposizione. Questo approccio step-by-step aiuta a tenere sotto controllo l’ansia innescata dal rientro (per es. frequentare una materia il primo giorno, due il secondo, ecc.). Per gestire l’ansia associata al passaggio a fasi successive, il ragazzo fa affidamento sulle proprie capacità di rilassamento e sulle autoaffermazioni di coping. È molto importante che l’adolescente contribuisca attivamente a stabilire il piano di rientro graduale (vedere Heyne e Rollings, 2002). Quando l’ansia è molto alta, potrebbe essere necessaria una desensibilizzazione per immagini, prima del reale rientro. In questo caso, con i bambini più piccoli, bisognerebbe incorporare anche immagini emotive (cf. King et al., 2001). Alcune persone giovani e le loro famiglie preferiscono che il rientro a scuola sia completo fin dall’inizio. In questo caso lo stress è decisamente più intenso rispetto al rientro graduale, ma così si può prevenire o minimizzare l’imbarazzo nel dover spiegare perché escono da scuola a metà giornata. Un rapido rientro è probabilmente più adatto ai bambini piccoli con l’insorgenza recente o media. Concludere le sedute Per prevenire eventuali ricadute, alla fine del trattamento, il ragazzo potrebbe partecipare ad attività tipo il “Secrets to Success” (cf. “My Commercial”, Kendall et al., 1992). In questi programmi è possibile condividere le proprie idee su come affrontare efficacemente il rifiuto scolastico, sotto forma di poster, assumendo il ruolo “di esperto” del settore nel corso di una finta intervista audioregistrata o videoregistrata oppure conducendo “una chiacchierata motivazionale” per un altro clinico o per i membri della famiglia. Questa attività permette di rinforzare le abilità apprese, di celebrare i risultati ottenuti e costruire un modello di coping (Kendall et al., 1992) e di autostima 332 Il rifiuto della scuola (Kearney e Hugelshofer, 2000). Nel futuro, il poster o il nastro potrebbero servire come stimolo nella gestione positiva di ricadute. Il lavoro con i genitori La fase iniziale Si incoraggiano i genitori a manifestare eventuali dubbi sulla collocazione a scuola e in classe del proprio figlio, per ridurre l’impatto dell’ambivalenza verso queste situazioni sul piano di rientro stabilito. Quando emergono dei dubbi, utilizza il problem-solving per valutare tutti i vantaggi e gli svantaggi di un eventuale cambiamento. I genitori ansiosi, indifferenti o scettici potrebbero anche trovare utile materiale informativo sulla natura e lo sviluppo del rifiuto scolastico (vedere la Tabella 19.1 per un esempio), sui problemi emotivi e comportamentali, insieme a informazioni sull’efficacia degli attuali approcci di trattamento. Così si trasmette ai genitori l’importanza del proprio ruolo nell’affrontare il rifiuto scolastico e dà speranza nel cambiamento. Quando si decide per rientro a metà del trattamento, si aiutano i genitori a decidere come meglio affrontare questo passo. Alcuni fattori importanti sono la disponibilità di entrambi i genitori a promuovere la frequenza scolastica, conoscendo per esempio gli orari delle lezioni. Per creare un’esperienza positiva al primo giorno di rientro, è utile scegliere quello con il numero minore di materie e insegnanti non graditi. In preparazione del rientro, il clinico aiuta i genitori a pianificare e istituire a gestire routine mattutine (per es. alzarsi, farsi la doccia e vestirsi) e ostacolare l’accesso a rinforzi positivi quando il bambino resta a casa invece di andare a scuola. Questo riduce i vantaggi secondari che possono rinforzare le assenze. I vantaggi secondari vengono individuati nel corso dell’intervista clinico comportamentale e attraverso la sottoscala 4 della SRAS. I genitori che danno istruzioni vaghe e imprecise in relazione alla scuola, ricevono un training su come impartire comandi, come ottenere l’attenzione del ragazzo e come utilizzare istruzioni chiare e specifiche (cf. Forehand e McMahon, 1981). In coerenza con i principi del condizionamento operante, i genitori imparano a riconoscere e rinforzare i comportamenti di coping e la frequenza a scuola, e a ignorare i comportamenti non appropriati come i capricci, la negoziazione di date alternative per il rientro e le lamentele somatiche senza cause organiche note (Blagg, 1987; Kearney e Roblek, 1998). In questo training si utilizzano metodologie di modelling della performance, di ripasso e di feedback, permettendo ai genitori di acquisire sicurezza e di accrescere la propria competenza nell’utilizzo delle procedure. Con il tempo, i comportamenti non appropriati, se costantemente e serenamente ignorati, si riducono, mentre il rinforzo di un ambiente e di un’esperienza scolastica positiva suppliscono la necessità di rinforzi artificiali. Procedure basate sull’esposizione e sulla gestione del comportamento possono essere applicate ad aspetti problematici collegati con il rientro. Per esempio, un bambino con ansia da separazione potrebbe essere esposto a periodi progressivamente più lunghi di separazione dai genitori prima di tentare un rientro a scuola. I genitori di un bambino con ansia sociale potrebbero promuovere un maggiore coinvolgimento sociale nella prima metà del trattamento, prima del rientro a scuola. 333 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick Fase applicativa Nel corso dell’intervento, se il bambino non è arrivato a rientrare a scuola volontariamente, si incoraggiano i genitori a valutare l’utilizzo di un approccio più deciso. Dopo aver comunicato aspettative e istruzioni chiare in relazione alla frequenza, i genitori forse dovranno accompagnare il bambino a scuola, compito che deve essere accuratamente pianificato e supportato (Kennedy, 1965; Kearney e Roblek, 1998) Questa “pressione genitoriale professionalmente documentata” (cf. Gittelman-Klein e Klein, 1971) permette ai genitori di contrastare l’evitamento della scuola radicato nel ragazzo, mentre la conseguente esposizione alla frequenza scolastica può alla fine ridurre lo stress emotivo poiché il ragazzo vive eventi spontanei positivi a scuola. Sulla base dell’intervista clinico comportamentale, il clinico e i genitori individuano e sviluppano piani per gestire le situazioni potenzialmente problematiche (per esempio aiutare il bambino a uscire dal letto e a preparasi per andare a scuola, scortare il bambino a scuola e gestire i tentativi di fuga). I genitori spesso traggono beneficio dalle strategie cognitivo comportamentali che li aiutano a non perdere la calma e a dedicarsi pienamente al ripristino di un regime normale di frequenza e che gli permettono di trasmettere al bambino fiducia nelle sue capacità di affrontare il rientro a scuola. Nel corso della terapia cognitiva si devono trattare gli atteggiamenti e le convinzioni disadattivi dei genitori e alcuni potrebbero essere: “mio figlio non è capace di affrontare il rientro a scuola” (per es. Coulter, 1995); “Non dovrei forzarlo” (vedere Mansdorf e Lukens, 1987) e “qualcosa deve cambiare nella mente del mio bambino affinché sia in grado di frequentare la scuola” (vedere Anderson et al., 1998). I pensieri dei genitori possono essere valutati sistematicamente attraverso l’analisi delle autoaffermazioni. Concludere le sedute Nelle sedute finali ci si concentra sulla prevenzione delle ricadute, ripassando le componenti dell’intervento. Si dà particolare importanza alle strategie rilevatisi più utili, insieme alla discussione di possibili periodi ad alto rischio, alle indicazioni per una ricaduta imminente e alle risposte appropriate. Il clinico potrebbe condurre sedute di ripasso o di follow-up telefonico, con i genitori e con il ragazzo, nei momenti critici, come il rientro a scuola dopo un periodo di vacanza o dopo una malattia, un cambiamento di scuola o una risistemazione delle classi o gli esami (cf. Blagg e Yule, 1984; Kearney e Hugelshofer, 2000). Strategie da utilizzare a scuola per facilitare la frequenza Le strategie da utilizzare a scuola si focalizzano sul lavoro preparatorio e su strategie di gestione del comportamento a sostegno del reinserimento del ragazzo nel sistema scolastico. Se il ragazzo lo desidera, i compagni di classe potrebbero essere avvisati del suo rientro ed essere incoraggiati a dare il proprio supporto e a trattenersi dal fare domande sulle assenze. Il clinico e il personale scolastico potrebbero anche pensare a 334 Il rifiuto della scuola eventuali adattamenti, permanenti o temporanei, per andare incontro a esigenze particolari del ragazzo (per es. meno compiti a casa, recupero scolastico, cambio di classe e curricolo modificato). Gli autori hanno spesso riscontrato l’importanza critica di informare il personale scolastico sulle necessità speciali del bambino e sugli adattamenti introdotti per andargli incontro. Il personale scolastico maggiormente coinvolto potrebbe riceve un promemoria scritto per evitare che, per esempio, faccia domande al ragazzo, già angosciato, sulle assenze precedenti o che gli faccia pressione per restare a scuola per un periodo più lungo di quello concordato. Si identifica un membro dello staff che assume un ruolo supportivo e che potrebbe aiutare il ragazzo ad ambientarsi il giorno del rientro a scuola e a familiarizzare con la routine giornaliera e che può supervisionare da vicino la frequenza e il benessere emotivo in questo momento così delicato. Il ragazzo o un membro del personale possono scegliere uno o due studenti “amici” che forniscano un supporto nei primi giorni di rientro e che possano entrare in contatto con il ragazzo in eventuali assenze successive. Pianificare esperienze positive permette di rinforzare il ragazzo attraverso la frequenza scolastica; bisognerebbe inoltre identificare rinforzi specifici per la frequenza e gli sforzi fatti dal ragazzo. Il personale è spesso creativo nel costruire liste di esperienze e item rinforzanti da utilizzare in maniera differenziale in contesti di scuola primaria e secondaria (vedere Tabella 19.3). Il personale viene anche incoraggiato a ignorare volontariamente i comportamenti non appropriati, come implorare di andare a casa o i capricci, utilizzando lo stesso approccio supportante ma coerente dei genitori. Tabella 19.3 Possibili esperienze e item rinforzanti nel contesto scolastico Tipologia di rinforzo Esempi tratti da applicazioni nella vita reale Maggiore accesso a situazioni generalmente considerate positive Attrezzatura sportiva Tempo passato al computer Tempo passato in giardino Tempo extra per il gioco con gli amici Frequentare in più le ore di arte Sociale Supporto uno-a-uno con un membro del personale scolastico/con l’insegnante preferito Pranzo con un mentore speciale Una festa con gli amici e il coordinatore dell’anno Attività centrate sugli studenti all’ora di pranzo (per es. guardare un video) Stelle e francobolli Ruotare le gomme sulla macchina dell’insegnante Premio del preside cont.. 335 David Heyne, Neville King e Thomas H. Ollendick Privilegi Scegliere un’attività di classe Dare da mangiare al pesce Appendere i propri lavori artistici Supervisionare il momento del pranzo o controllare la cancelleria Essere il segretario dell’insegnante (per es. pulire/tenere in ordine la scrivania dell’insegnante) Tangibili Buoni mensa Barrette di cioccolato alla fine della giornata Riviste Fish and Chips per tutta la classe a pranzo Penne luccicanti Proprio come i genitori potrebbero avere atteggiamenti e convinzioni disadattive che riducono l’efficacia nella gestione del rifiuto scolastico, così è per molti insegnanti e altri professionisti che lavorano a scuola (cf. Coulter, 1995). La situazione necessita di un approccio paziente e sensibile. Altre scuole, invece, sono immediatamente favorevoli e danno subito inizio ad approcci creativi per sostenere il ragazzo (per es. stabilire programmi di classe che includano il bambino assente, bigliettini in cui i compagni scrivevano il perché sentivano la mancanza dell’amico).Il personale scolastico e i genitori vengono incoraggiati a sviluppare una comunicazione stretta nel corso dell’intervento. Questo assicura una chiara comprensione e una coerenza nell’applicazione del trattamento, per esempio un rientro graduale a scuola o una graduale assegnazione dei compiti a casa, può ridurre l’ansia dei genitori sulla capacità del ragazzo di affrontare le situazioni della giornata e permette di dare risposte immediate a eventi quali la fuga da scuola o segnali di una ricaduta. Commenti conclusivi La CBT per il rifiuto scolastico è un intervento breve, considerato accettabile dalle famiglie e dal personale scolastico (King et al., 1998b; Heyne, 1999). Anche se questa è spesso determinante nel ridurre lo stress emotivo dei ragazzi e nell’aiutarli a rientrare a scuola regolarmente e volontariamente, potrebbero essere necessarie altre forme di trattamento, soprattutto per gli adolescenti oltre i 14 anni (Heyne, 1999). Sulla base di un modello di fasi del trattamento (cf. Heyne et al., in stampa), l’intervento potrebbe iniziare con la CBT e, se la risposta è solo parziale, questa potrebbe essere portata avanti in forma modificata (per es. facendo maggiore attenzione a eventuali psicopatologie nei genitori e a ulteriori adattamenti in funzione di una depressione nel ragazzo) o si potrebbe aggiungere un intervento farmacologico. La combinazione fra la CBT e l’intervento farmacologico, anche se non sempre efficace in questi casi, potrebbe essere 336 Il rifiuto della scuola utile all’inizio del trattamento, per alcuni bambini che presentano una comorbidità con gravi disturbi depressivi e d’ansia (vedere Bernstein et al., 2001). Se dopo una serie di prove (nel dosaggio, nell’erogazione e nella durata) di CBT o di CBT associata all’intervento farmacologico non si hanno comunque dei risultati, si devono prendere in considerazione altri interventi, come la terapia familiare (cf. Kearney e Albano, 2000b), farmaci alternativi (cf. Heyne et al., in stampa) e contesti educativi differenti (cf. Place et al., 2000). Potrebbe essere necessario coinvolgere maggiormente sistemi che vanno oltre la famiglia, soprattutto quando questa si allea con il bambino fino al punto che la gestione genitoriale della frequenza è del tutto inibita (vedere Coulter, 1995). Riconoscimenti Gli autori riconoscono il sostegno di Ms Wendy Bristow, bibliotecaria del Victorian Child Psychiatry Training Department, per l’entusiastico aiuto fornito nel facilitare l’accesso alla letteratura rilevante. Questo capitolo è un adattamento da Heyne e King (in stampa). Bibliografia Achenbach, T. M. (1991a). 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La diagnosi era inizialmente controversa, soprattutto nel caso dei bambini, ma si è rivelata una cornice utile per descrivere e comprendere le reazioni a una serie di esperienze che minacciano la vita. Questo a sua volta ha portato al raffinamento degli interventi per i bambini: le terapie cognitivo comportamentali (CBT) ad ampio spettro, all’interno di un approccio multimodale che coinvolge la famiglia, sono il trattamento di elezione. Le reazioni post-traumatiche da stress nei bambini e negli adolescenti Il DPTS è stato riconosciuto per la prima volta dall’Associazione Americana di Psichiatria nella terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM; Associazione Americana di Psichiatria, 1980) e nella revisione del 1987 si afferma che può verificarsi anche nei bambini. L’edizione più recente, il DSM-IV (Associazione Americana di Psichiatria, 1994) descrive in maniera più dettagliata il modo in cui si potrebbero manifestare una serie di sintomi nei bambini. Il DPTS viene definito sulla base di: (1) un’esposizione a un evento, morte reale o minacciata, lesioni gravi, oppure una minaccia alla propria o altrui integrità fisica, vissuto in prima persona, di cui si è stati testimoni o con cui ci si è confrontati e in cui la risposta è stata di paura intensa, senso di impotenza od orrore; (2) esperienze ripetute in cui si rivive l’evento traumatico; (3) costante evitamento di stimoli che possono avere relazioni con l’evento o intorpidimento della responsività e (4) costanti sintomi di arousal fisiologico più elevato. 341 William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin La Classificazione Internazionale delle Malattie (Decima Edizione; ICD-10) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1992) adesso riconosce il DPTS come disturbo, ma i sintomi richiesti per soddisfare i criteri della diagnosi sono differenti. Nello specifico, l’ICD-10 stabilisce che i sintomi di intorpidimento emotivo non sono necessari per una diagnosi di DPTS, anche se spesso sono presenti. Sia il DSM, sia l’ICD-10 hanno un orientamento specifico agli adulti, ma poiché è ampiamente noto come sia difficile e insolito riscontrare nei bambini e negli adolescenti i sintomi di intorpidimento emotivo, i criteri dell’ICD-10 sembrano essere in qualche modo più adeguati. Nel lavoro con i bambini sopravvissuti a una serie di esperienze in cui era in pericolo la vita si riscontra effettivamente questo raggruppamento di sintomi – rivivere il trauma, l’evitamento e il maggiore livello di arousal. I sintomi principali si manifestano in modo diverso in età diverse e sono comuni anche un’altra serie di reazioni (vedere Terr, 1979; Kinzie et al., 1986; McFarlane, 1987; Yule e Williams, 1990; Pynoos et al., 1993; Vogle e Vernberg, 1993; La Greca et al., 2002). La maggior parte dei bambini sono disturbati da pensieri ripetuti e intrusivi relativi al trauma. Questi pensieri possono verificarsi sempre, ma sono più frequenti al momento dell’addormentamento. Altre volte, i pensieri e le immagini intrusive vengono attivati da stimoli nell’ambiente che ricordano l’evento. Sono frequenti sogni d’angoscia e incubi. I bambini più piccoli possono mostrare giochi e disegni ricorrenti che includono tematiche relative all’evento traumatico. Molti bambini sviluppano paure associate ad aspetti specifici dell’evento traumatico, con livelli di evitamento fobico in relazione a stimoli o fatti che ricordano il trauma. I bambini potrebbero evitare di pensare all’evento perché troppo stressante. Chi sopravvive spesso desidera moltissimo parlare dell’evento, ma ha molta difficoltà a farlo con i genitori o i coetanei. I bambini che sopravvivono possono diventare particolarmente attenti ai segnali di pericolo nell’ambiente, e vengono influenzati negativamente da racconti di altri eventi traumatici simili. I disturbi del sonno sono molto comuni, soprattutto nelle prime settimane dopo l’evento, e i bambini spesso si svegliano nel corso del ciclo di sonno. Sono frequenti difficoltà di separazione, anche fra gli adolescenti. Molti bambini mostrano comportamenti regressivi e antisociali. I bambini comunemente sperimentano difficoltà di concentrazione, soprattutto nel lavoro a scuola. I bambini riportano anche una serie di cambiamenti cognitivi. Dopo il trauma, molti considerano il mondo è un posto molto più pericoloso di quanto pensassero prima. Chi sopravvive impara che la vita è fragile e potrebbe credere di non diventare adulto. Spesso, in seguito al trauma, cambiano anche le priorità di vita. Alcuni bambini credono di dover vivere ogni giorno appieno e di non poter fare piani per il futuro. Altri capiscono di essersi eccessivamente preoccupati di problemi materiali o insignificanti e decidono di rivedere i propri valori, spesso scegliendo di aiutare gli altri. Molti sperimentano “il senso di colpa dei sopravvissuti ”, attribuendosi la responsabilità della morte altrui o dei gravi danni subiti dagli altri e credono che avrebbero dovuto fare di più per aiutarli a sopravvivere. Inoltre, sono comuni anche altre reazioni, fra cui depressione, ansia, comportamenti oppositivi e reazioni prolungate di lutto. Scheeringa e colleghi (Scheeringa e Zeanah, 1995; Scheeringa et al., 1995) hanno sviluppato un insieme alternativo di criteri sulla base del DSM-IV per diagnosticare 342 Il disturbo post-traumatico da stress il DPTS nei bambini piccoli (con meno di 4 anni). Anche se ancora sotto verifica e non utilizzate su larga scala, potrebbero rivelarsi utili nel guidare il lettore verso alcuni aspetti evolutivi importanti nei bambini traumatizzati (vedere anche Vernberg e Varela, 2001).Un’ulteriore considerazione degli aspetti evolutivi del DPTS può essere trovata in Salmon e Bryant (2002) e in Meiser-Stedman (2002). L’incidenza e la prevalenza del DPTS nei bambini In seguito a un iniziale scetticismo sulla possibilità che anche i bambini potessero sviluppare un DPTS, sono stati pubblicati numerosi studi sui sopravvissuti a disastri (vedere le rassegne in Vogel e Vernberg, 1993; Shannon et al., 1994; Pfefferbaum, 1997; Yule et al., 1999). Questi indicavano che, sulla base di valutazioni standard, l’incidenza del DPTS nei sopravvissuti era fra il 30 e il 60%. Più di recente, gli studi sui bambini sopravvissuti a incidenti stradali, nuovamente utilizzando metodologie standard, riferivano che circa il 25-30% sviluppava un DPTS (Yule, 2000). Pertanto, una sostanziale minoranza di bambini sviluppa un DPTS; allo stesso tempo, molti hanno buone capacità di recupero e non sviluppano un DPTS. Pertanto, l’esperienza di un evento traumatico è una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo di un DPTS. Uno degli studi più ampi sugli adolescenti dopo un disastro, è stato quello sui sopravvissuti all’affondamento della nave da crociera Jupiter, avvenuto nel 1988. Dei 400 bambini circa che erano a bordo, 200 sono stati seguiti regolarmente e sono stati sottoposti a valutazione sistematica 5-8 anni dopo (Yule et al., 2000). Il 52% aveva sviluppato un DPTS, soprattutto nelle prime settimane dopo il disastro. In linea con il punto di vista di Meichenbaum (1994), i casi ad insorgenza ritardata erano pochissimi. Un terzo circa aveva recuperato nel corso di 1 anno dall’insorgenza, ma un quarto soffriva ancora del disturbo a 5 anni, e il 34% soddisfaceva ancora i criteri 5-8 anni dopo l’affondamento. Pertanto, non solo i sopravvissuti al disastro sviluppavano in percentuale maggiore un DPTS rispetto a quando precedentemente indicato, ma i problemi rimanevano presenti per molti anni in una sostanziale minoranza dei casi. Anche in questo caso, si deve sottolineare che molti bambini non avevano sviluppato un DPTS e, di quelli che lo avevano sviluppato, la maggior parte aveva avuto un recupero spontaneo. Lo studio di follow-up sui sopravvissuti del Jupiter ha stabilito che gli adolescenti avevano sviluppato una serie di altri disturbi psichiatrici (Bolton et al., 2000). Mostravano percentuali considerevolmente alte di ansia e di disturbi affettivi, se paragonati al gruppo di controllo e le percentuali di diagnosi erano più elevate nelle femmine che nei maschi. I disturbi erano presenti soprattutto in quei bambini che avevano sviluppato anche il DPTS. 343 William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin Il modello cognitivo comportamentale del DPTS È evidente dalla precedente descrizione che i bambini effettivamente sviluppano il DPTS, ma è diventato sempre più chiaro che: (1) le reazioni dei bambini hanno confini più ampi di quelli indicati nel DSM (Associazione Americana di Psichiatria, 1994); (2) non tutti i bambini esposti al trauma sviluppano un DPTS (per es. Schwarz e Kowalski, 1991; Yule et al., 2000) e che (3) la maggior parte di loro recupera senza necessità di un trattamento. La ricerca nell’ultimo decennio ha fatto luce sui fattori di rischio, protettivi e di mantenimento del DPTS infantile, indicando che l’eziologia e il decorso nell’infanzia sono funzioni complesse del livello di sviluppo, della storia personale prima dell’esposizione al trauma (vedere Udwin et al., 2000), del temperamento, del funzionamento familiare (McFarlane, 1987; Bryce et al., 1989; Smith et al., 2001), della gravità oggettiva del trauma (Pynoos et al., 1987; Kuterovac et al., 1994), dello stile di coping post-traumatico e del supporto sociale (Vernberg et al., 1996), della natura del ricordo del trauma (Ehlers et al., 2003) e delle reazioni alle avversità secondarie (cf. Pynoos, 19949. Data questa cornice molto ampia, sono stati proposti numerosi modelli per spiegare lo sviluppo e il mantenimento della sintomatologia del DPTS. Più importanti per la CBT sono quelli derivati dalla teoria dell’apprendimento (vedere Keane et al., 1985) e quelli basati sulla teoria dell’elaborazione delle informazioni (vedere Foa et al., 1989), soprattutto dove il focus è sul giudizio e sull’atteggiamento verso l’evento. La teoria dell’apprendimento è stata fondamentale nella formulazione di interventi per il DPTS (vedere di seguito), ma non è d’aiuto nello spiegare le differenze individuali nelle reazioni (Foa et al., 1989). I modelli dell’elaborazione delle informazioni cercano di farlo, riconoscendo che gli stressor non possono essere del tutto definiti in termini oggettivi (Rachman, 1980). Questi modelli prendono in considerazione le differenze individuali nella valutazione della minaccia, nelle attribuzioni e nel significato attribuito al trauma. In tutte le teorizzazioni cognitive si ritiene che l’individuo applichi all’evento traumatico un insieme di convinzioni e di modelli sul mondo, su se stessi e sugli altri (Janoff-Bulman, 1985, 1992). L’esposizione al trauma fornisce informazioni incompatibili con questi modelli, ma tuttavia molto salienti. Le reazioni posttraumatiche hanno luogo quando non si riesce a integrare queste nuove informazioni nelle strutture di significati preesistenti (vedere Dalgliesh, 1999). Foa e Kozak (1986) danno un esempio di questo modello. Anche se è stato sviluppato dal lavoro con gli adulti traumatizzati, ci sono prove che la valutazione della minaccia, i processi attribuzionali e i cambiamenti negli atteggiamenti, fattori centrali nel modello cognitivo del DPTS negli adulti, sono fattori altrettanto importanti nel mediare l’integrazione dei ricordi traumatici anche nei bambini. In linea con il lavoro sugli adulti, (vedere Foa et al., 1991; Thrasher et al., 19949, Moradi (1996), utilizzando una modifica del test di Stroop, ha riscontrato nei bambini con DPTS, una specifica distorsione attentiva vero il materiale attinente al trauma. Questi risultati sono stati replicati di recente da Ribchester (2001) in uno studio su bambini che avevano sviluppato un DPTS dopo un incidente stradale. Anche i processi attribuzionali possono mediare i sintomi. Nei giovani sopravvissuti a un incidente marittimo, Joseph et al. (1993) hanno riscontrato che attribuzioni più interne e 344 Il disturbo post-traumatico da stress controllabili erano associate a pensieri intrusivi e a sentimenti depressivi 1 anno dopo l’incidente. In coerenza con la letteratura sugli adulti relativa alla “frantumazione” delle convinzioni precedenti il trauma (Janoff-Bulman, 1992), Johnson et al. (1996) riferiscono prove di cambiamenti nell’atteggiamento di bambini sopravvissuti a un terremoto, specificamente collegati alla sintomatologia del DPTS. L’evoluzione di gran lunga più importante nell’ambito dei modelli teorici nell’ultimo decennio è stata la pubblicazione dei modelli più esplicitamente cognitivi di Brewin (2001) e di Ehlers e Clark (2000). Brewin sottolinea il ruolo dei differenti processi di memoria e in particolare evidenzia che, mentre la maggior parte dei ricordi normali sono codificati verbalmente e sono facilmente accessibili, i ricordi traumatici vengono spesso immagazzinati senza essere elaborati e sono accessibili solo sulla base di input situazionali. La distinzione fra ricordi accessibili in base a indici situazionali (SAMs; situationally accessible memories) e ricordi accessibili verbalmente (Vams; verbally accessible memories) implica che, nel trattamento, per alterare la vividezza dei primi sia necessario codificarli verbalmente, in modo da innescare pattern di memorizzazione più normali. Ehlers e Clark (2000) considerano un importante il modo in cui il DPTS viene concettualizzato e classificato. Il DSM classifica il DPTS come un disturbo d’ansia ma, diversamente da altri disturbi d’ansia caratterizzati da convinzioni erronee di una minaccia incombente, il DPTS può essere più accuratamente descritto come un disturbo in cui la difficoltà sta nel ricordo di un evento già successo. Questa formulazione enfatizza la valutazione cognitiva originaria dell’evento traumatico e i successivi disturbi nella memoria autobiografica. Varie reazioni successive impediscono una risoluzione naturale di queste difficoltà, facendo sì che la terapia cognitiva debba trattare sia i giudizi fallaci sia la scarsa elaborazione e la contestualizzazione dei ricordi. Nel modello di Ehlers e Clark tre sono i fattori che influenzano lo sviluppo e il mantenimento del DPTS. Primo, i deficit nella memoria del trauma. Il ricordo è scarsamente elaborato e non è ben integrato nella memoria autobiografica. L’elaborazione cognitiva incompleta al momento dell’evento e l’evitamento cognitivo in seguito danno come risultato un ricordo frammentato che non evolve. “L’elaborazione data-driven” – che si concentra sugli aspetti sensoriali dell’evento piuttosto che sul significato – è un indicatore significativo di un’elaborazione cognitiva incompleta della reazione emotiva. Secondo, le valutazioni cognitive, in cui un giudizio eccessivamente negativo sull’evento porta a un senso di minaccia costante non giustificato. Terzo, i comportamenti di mantenimento e le strategie cognitive. La soppressione dei pensieri, l’evitamento, la ruminazione e la dissociazione persistente sono tutti esempi di strategie disfunzionali che hanno lo scopo di controllare le reazioni all’evento traumatico, ma che invece contribuiscono solo a mantenerle. Gli indici di queste variabili cognitive permettono di fare previsioni accurate su quali bambini svilupperanno e continueranno ad avere un DPTS dopo un incidente d’auto (Ehlers et al., 2003). I fattori di mantenimento sono pertanto i target primari della CBT con i bambini. I modelli cognitivo e comportamentale del DPTS sono ampiamente compatibili fra loro. Entrambi considerano l’esposizione a stimoli e a ricordi relazionati con il trauma, in dosi tollerabili, un elemento necessario per la riduzione dei sintomi e questa costituisce la base degli interventi cognitivo comportamentali. Le terapie cognitive pertanto si occupano della frammentazione della memoria del trauma. I bambini vengono 345 William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin incoraggiati a riferire l’accaduto e vengono aiutati non solo a riempire gli eventuali vuoti, ma, cosa più importante, anche a inserire il ricordo in una cornice temporale (fra le altre cose ripetere a se stessi che è successo nel passato e che non è più una minaccia presente). Si mettono in discussione le valutazioni erronee dei bambini e questi vengono aiutati a capire (quando è vero) che non hanno nulla da rimproverarsi. Vengono chiaramente identificati i sintomi, gli viene dato un nome, vengono normalizzati e spiegati. Vengono identificate le strategie di coping disfunzionali, come l’evitamento cognitivo e comportamentale, e ne vengono sviluppate delle altre. Infine, è importante aiutare i genitori a ricostruire le proprie convinzioni sull’evento traumatico e sulle eventuali conseguenze. Quando è possibile, i genitori dovrebbero essere coinvolti come co-terapeuti nel trattamento. La diagnosi del DPTS nei bambini e negli adolescenti Dal momento che il DPTS si sovrappone a numerosi ambiti di funzionamento, la valutazione deve essere,per forza di cose ampia e deve includere interviste dirette con il bambino, la raccolta di informazioni dalla famiglia e dagli insegnanti e l’utilizzo di questionari di self-report e di diari. Quando si intervistano i bambini, è importante ricordare che spesso sarà la prima volta in cui discutono l’evento nei dettagli. In un certo senso, allora, la prima intervista prevede un’esposizione alle immagini dell’evento e deve quindi essere gestita con attenzione. Pynoos e Eth (1986) descrivono in dettaglio una tecnica applicabile su larga scala per intervistare i bambini piccoli, subito dopo che sono stati testimoni di un evento traumatico. Il terapeuta deve avere la capacità di bilanciare la necessità di ottenere informazioni accurate con il tentativo di non compromettere la valenza terapeutica anche della la prima intervista. Ora sono disponibili una serie di misure standardizzate di self-report e di interviste semistrutturate (vedere McNally, 1991; Nader et al., 1994; Saylor e DeRoma, 2002 per rassegne onnicomprensive). Probabilmente la misura più utilizzata per la sintomatologia del DPTS è la Impact of Event Scale (IES) (Horowitz et al., 1979) che valuta i sintomi di intrusione ed evitamento, utilizzata con bambini fino dall’età di 8 anni (Yule e Williams, 1990; Yule e Udwin, 1991). Tuttavia, nella versione a 15 item alcuni sono troppo difficili per i bambini; pertanto, in seguito a diversi studi di analisi fattoriale, è stata sviluppata una nuova versione a 13 item per i bambini (Children and War Foundation, 2002; Smith et al., 2002). La Post-Traumatic Diagnostic Scale (PDS) (Foa et al., 1997) non solo include tutti e 17 i punti, indicati nel DSM come i principali sintomi del DPTS nei bambini e negli adolescenti, ma fornisce anche una scala continua che dovrebbe essere sensibili al cambiamento e pertanto utile nel corso della terapia. Di solito si conduce anche uno screening per valutare le eventuali comorbidità. Le misure utilizzate più comunemente per la depressione infantile, l’ansia e le fobie includono il Birleson Depression Inventory (Birleson, 1981), la Children’s Manifest Anxiety Scale (Reynolds e Richmond, 1978) e la Fear Survey Schedule for Children (Ollendick, 1983). Le interviste semistrutturate basate sui criteri del DSM possono aiutare nel pro346 Il disturbo post-traumatico da stress cesso diagnostico. La Clinician Administered PTSD Scale for Children (CAPS-C; Nader et al., 1994), la Diagnostic Interview Schedule for Children (DISC; Shaffer et al., 1996), la Diagnostic Interview for Children and Adolescent Revised (DICA; Reich et al., 1991) e la Anxiety Disorders Interview Schedule (ADIS-C; Silverman e Albano, 1996) richiedono tutte che l’intervistatore sia allenato nella somministrazione delle scale ed è stato dimostrato che possiedono una validità e un’affidabilità adeguate. Sfortunatamente, c’è una scarsità di approcci standardizzati per la valutazione delle reazioni di stress in bambini al di sotto degli 8 anni. Anche se i bambini fra i 3 e gli 8 anni riescono spesso a dare risposte verbali adeguate alle domande di misure standardizzate utilizzate con i più grandi, c’è la necessità di sviluppare misure adatte soprattutto ai bambini più piccoli. Dato che sia negli adulti (Ehlers e Steil, 1995) sia nei bambini (Ehlers et al., 2003) le misure della distorsione cognitiva spiegano un’ampia proporzione di varianza nella previsione di chi svilupperà un DPTS, allora la versione per i bambini del Post-Traumatic Cognitions Inventory (PCTI) (Foa et al., 1999) dovrebbe diventare una misura di processo molto utile, ma che in questo momento è ancora in fase di sviluppo. Il test di Stroop modificato (Moradi et al., 1999; Ribchester, 2001) è notevolmente promettente come mezzo per monitorare l’elaborazione cognitiva e per prevedere le risposte al trattamento, ma è ancora eccessivamente specializzata per l’utilizzo clinico di routine. È necessario condurre un’intervista approfondita con i genitori del bambino se la formulazione e il piano di trattamento vogliono ottenere successo. La maggior parte delle interviste semistrutturate prevede una versione per il bambino e una peri genitori e questo permette all’intervistatore di coprire tutti i sintomi in maniera sistematica. Questo è particolarmente importante quando i sintomi sono di natura particolarmente imbarazzante o quando il bambino non è consapevole del proprio comportamento. Oltre a includere tutti i sintomi attuali, la storia complessiva del pre-trauma aiuterà capire le reazioni usuali del bambino allo stress e le modalità di coping e, se la sintomatologia presente è in parte una funzione del temperamento precedente, quali cambiamenti nel comportamento sono stati indotti dall’evento traumatico e quali sono gli obiettivi di trattamento più appropriati. Tenere in considerazione il livello di sviluppo del bambino permetterà di valutare se alcune delle lamentele attuali, se ce ne sono, sono appropriate per l’età (per esempio ansia da separazione) e deve anche guidare la scelta del trattamento. Dato l’importante ruolo mediatore delle reazioni e delle paure dei genitori (vedere McFarlane, 1987) di solito è necessaria una valutazione di tutta la famiglia per determinare se anche gli adulti o i fratelli necessitino di un intervento e per dare consigli sulla gestione del bambino. Infine, un intervento efficace dipenderà anche da una valutazione globale della situazione di vita del bambino o della famiglia. Nei casi in cui l’evento traumatico è relativamente grave e la famiglia resta intatta (come in alcuni incidenti d’auto), alcune risorse familiari cruciali restano a disposizione del bambino. Nei casi in cui nell’evento traumatico sono stati coinvolti altri membri della famiglia, sarà probabilmente necessario lavorare con loro per essere d’aiuto al proprio bambino con maggiore efficacia. In altri casi invece – per es. quando il bambino ha perso uno dei genitori – sorgeranno problematiche molto pratiche relative all’aspetto sociale. In situazioni di violenza collettiva costante o di conflitto armato, tenere in considerazione il contesto in cui il bambino vive permetterà di giudicare se, quando e quale tipo di intervento è più appropriato. 347 William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin Trattamento Sulla base dei modelli cognitivi e comportamentali del DPTS, il focus della CBT sono le tecniche di esposizione per immagini e in vivo all’interno di un contesto terapeutico sicuro (Keane et al., 1985), per permettere un’adeguata elaborazione emotiva dei ricordi traumatici (Rachman, 1980). Il problema per il clinico è quello di aiutare chi è sopravvissuto a ricordare e a rivivere l’evento e le relative emozioni, in un modo che permetta di dominare l’angoscia piuttosto che amplificarla. Questo dipenderà per lo più dallo stabilire un ambiente sicuro e affidabile in cui l’evento traumatico può essere ricordato e discusso. I terapeuti devono essere preparati a porre ai bambini domande sugli aspetti più difficili dell’evento traumatico, ma allo stesso tempo devono assicurarsi che l’esposizione ai ricordi traumatici sia proposta in modo che il bambino non sia schiacciato dall’ansia. Per molti di loro, rivivere su un piano immaginario l’esperienza traumatica potrebbe essere troppo difficile e si devono trovare altri modi per accedere ai ricordi traumatici. Chiedere ai bambini di disegnare la propria esperienza spesso facilita il richiamo alla memoria dell’evento e delle relative emozioni (Pynoos e Eth, 1986) e, con i bambini più piccoli, il gioco potrebbe avere la stessa funzione (Misch et al., 1993). L’esposizione per immagini e in vivo resta una componente chiave della CBT. Si chiede ai bambini di raccontare l’accaduto e di indicare quanto fossero preoccupati. I terapeuti osservano il bambino da vicino per notare quando si blocca su particolari “momenti caldi” della narrazione, per poi ritornare su queste parti del ricordo. Saigh (1987a) è stato il primo a mostrare che, come Rachman(1980) aveva previsto, sono necessarie sedute di esposizione più lunghe del normale se si deve verificare una desensibilizzazione e una riduzione dei sintomi. Saigh (1992) ha di conseguenza sintetizzato un processo di intervento a cinque fasi che prevede una componente informativa, una di training immaginativo, una di training di rilassamento, l’esposizione a stimoli ansiogeni e il debriefing e Saigh et al. (1996) hanno discusso nel dettaglio l’utilizzo del flooding per il DPTS nei bambini. Gli sviluppi più recenti hanno trattato l’elaborazione emotiva, sulla base dei risultati della psicologia cognitiva sperimentale nel campo della memoria e delle emozioni. P. Smith e colleghi (dati non pubblicati) hanno sviluppato un manuale di trattamento di dieci sedute per i bambini e gli adolescenti con DPTS. Questo manuale è attualmente ancora sotto valutazione come parte di una prova controllata randomizzata da parte degli autori e si basa per gran parte sul modello cognitivo comportamentale del DPTS di Ehlers e Clark (2000). Il trattamento ha cinque obiettivi principali: (1) i ricordi del trauma devono essere elaborati e integrati nella memoria autobiografica in modo che si riduca l’esperienza di rivivere i sintomi; (2) devono essere modificate le valutazioni erronee del trauma e/o dei sintomi del DPTS in modo da ridurre il senso di minaccia imminente; (3) devono essere eliminate le strategie di coping disfunzionali che impediscono l’elaborazione dei ricordi, che esasperano i sintomi o che ostacolano una riconsiderazione dei giudizi problematici; (4) devono essere identificate e modificate le convinzioni disadattive dei genitori relative al trauma e alle sue sequele e (5) i genitori devono collaborare in qualità di co-terapeuti. Molto spesso, come parte della reazione traumatica e dell’evitamento degli stimoli che ricordano l’evento, i bambini avranno ristretto le attività precedenti. Nel corso del 348 Il disturbo post-traumatico da stress trattamento, verranno incoraggiati a “rivendicare le proprie vite” partecipando ad attività divertenti. Queste attività potrebbero far parte dei compiti a casa settimanali. La parte del trattamento relativa all’esposizione assumerà di solito la forma di un rivivere l’evento sul piano immaginario. Il bambino viene incoraggiato a raccontare l’accaduto, ma anche a concentrarsi su come si sentiva in quel momento, cosa pensava e quali altre sensazioni sperimentava. Mano a mano che il racconto prende forma, si procederà all’elaborazione e i ricordi verranno inseriti in una cornice temporale corretta. La seduta viene audioregistrata e si dà al bambino una copia della cassetta da ascoltare fra le sedute. In una parte di ciascuna seduta, si valuta il progresso fatto con i genitori e si spiegano loro i fondamenti logici di ciascuno stadio della terapia. In sintesi, l’esposizione nel contesto di una relazione sicura e fidata è il cuore della CBT per il DPTS nei bambini. Si deve fare attenzione che le sedute di esposizione siano sufficientemente lunghe da permettere una desensibilizzazione e da promuovere un’elaborazione emotiva – il racconto ripetitivo da solo non è sufficiente. Inoltre, a seconda dell’età del bambino, del tempo trascorso dall’evento traumatico e dal pattern dei sintomi, si possono utilizzare una serie di altre tecniche, per affrontare sintomi particolarmente stressanti e per costruire strategie di coping per il futuro. In questo capitolo ci siamo concentrati sul lavoro individuale che prevede anche un coinvolgimento della famiglia, ma si dovrebbe sottolineare che possono essere scelti una serie di altri interventi di stampo cognitivo comportamentale come il debriefing di un incidente critico stressante, un intervento preventivo (Dyregrov, 1991) e la terapia di gruppo (per es. Galante e Foa, 1986; Yule e Udwin, 1991) e la scelta della strategia di trattamento dipende principalmente dalla natura dell’evento traumatico e dal tempo trascorso da esso. Inoltre, è stato sviluppato un manuale per fornire un primo aiuto ai bambini colpiti da guerre e da disastri naturali (Smith et al., 1999; Smith et al., 2002; cf. www.childrenandwar.org. I risultati iniziali del suo utilizzo in questo campo sono stati molto positivi. Efficacia del trattamento La CBT che implica un’esposizione prolungata a stimoli traumatici e trattamenti mirati alla gestione dell’ansia si è rivelata efficace nella riduzione dei sintomi del DPTS in indagini rigorosamente controllate negli adulti (vedere Foa e Meadows, 1997 e Olasov-Rothbaum et al., 2000 per una rassegna). La ricerca sulla CBT nei bambini con DPTS è indietro rispetto a quella degli adulti (vedere Vernberg e Vogel, 1993; Cohen et al., 2000). Una delle indagini più rigorosamente controllate pubblicate fino a oggi è stata portata avanti con bambini che avevano subito un abuso sessuale. Berliner e Saunders (1996) hanno riscontrato che l’aggiunta di interventi di CBT non migliorava l’efficacia della terapia di gruppo più tradizionale. Al contrario, Deblinger et al., (1996) hanno trovato la terapia di gruppo cognitivo comportamentale superiore rispetto a quella tradizionale, soprattutto con il coinvolgimento dei genitori. Cohen e Mannarino (1996, 1997, 1998) hanno condotto due prove controllate randomizzate sulla CBT per bambini sessualmente abusati e hanno avuto risultati am349 William Yule, Patrik Smith e Sean Perrin bigui. Nel primo studio con 68 bambini abusati di età prescolare, un intervento di CBT focalizzato sul bambino e un genitore dava risultati migliori di una terapia supportiva non direttiva condotta solo con il bambino e questi risultati erano ancora presenti a 6 e 12 mesi di follow-up (Cohen e Mannarino, 1997). In una prova controllata randomizzata successiva con 49 bambini fra i 7 e i 14 anni, mentre la CBT era superiore alla terapia supportiva non direttiva nel ridurre la depressione e nel migliorare la competenza sociale, non sono state riscontrate differenze di gruppo in misure del DPTS (Cohen e Mannarino, 1998). Similmente, Caleano et al. (1996) hanno assegnato casualmente 32 bambini abusati di età scolare a un trattamento di CBT di gruppo di otto sedute e non hanno riscontrato differenze nei sintomi del DPTS. King et al. (2000) hanno trattato 36 bambini abusati fra i 5 e i 17 anni: CBT individuale solo con il bambino; CBT con la famiglia; controllo in lista d’attesa. Il trattamento attivo si era rivelato migliore del gruppo di controllo e questi miglioramenti erano presenti anche a 12 settimane, ma il coinvolgimento dei genitori non accresceva l’efficacia del trattamento. Per una rassegna di studi meno controllati, vedere King et al. (1999). Goenjian et al. (1997) hanno paragonato la CBT con l’assenza di trattamento, in bambini traumatizzati dopo un terremoto in Armenia. Gli interventi a scuola includevano la discussione di gruppo sul trauma, il rilassamento e la desensibilizzazione, l’elaborazione del lutto e la normalizzazione delle risposte e questi si erano rivelati superiori all’assenza di trattamento sulla base di misure di self-report del DPTS e dello stress. L’intervento non aveva ridotto la depressione nel gruppo, ma i bambini nella condizione di nessun trattamento, diventavano più depressi nel corso dello studio. March et al. (1998) hanno verificato l’efficacia di una CBT di gruppo di 18 settimane per il DPTS in 17 bambini e adolescenti che avevano avuto un solo incidente traumatico. Otto dei 14 soggetti che avevano portato a termine il trattamento (57%) non mostravano più alcun segno di DPTS alla fine del trattamento e altri quattro non presentavano più il DPTS a 6 mesi di follow-up (percentuale complessiva di recupero del 86%). Saigh (1987 a, b, 1989) ha descritto una serie di casi singoli a baseline multipla dimostrando l’efficacia di una prolungata esposizione per immagini, per i bambini con DPTS derivante da violenza interpersonale e guerra. Sulla premessa che la prevenzione è meglio della cura, ci sono stati una serie di studi su adulti esposti a eventi traumatici, in cui venivano prima utilizzati interventi per la gestione della crisi. L’intervento descritto con maggiore chiarezza è stato il Critical Incident Stress Debriefing di Mitchell, ma c’è stato un considerevole dibattito sulla sua efficacia complessiva e di altri interventi precedenti che hanno utilizzato modelli radicalmente differenti, ma comunque definiti come “debriefing” (vedere Raphael e Wilson, 2000; Dyregrov 2001) per una discussione di queste problematiche). Pochi studi sui risultati di interventi precoci sono stati condotti con i bambini. Yule (1992) ha osservato che i bambini che frequentavano incontri di debriefing dopo un incidente navale avevano punteggi migliori a una serie di misure, rispetto ai bambini che non avevano ricevuto un simile aiuto. Tuttavia le inferenze fatte sulla base di questo studio non controllato devono essere minime, dal momento che anche il gruppo di debriefing aveva ricevuto ulteriori trattamenti. Prove più consistenti derivano dalla prova sul debriefing non controllata di Stallard e Law (1993) che indicava miglioramenti significativi in misure standardizzate di self-report in un piccolo gruppo di bambini piccoli 350 Il disturbo post-traumatico da stress coinvolti in un incidente stradale. Al momento, non si sa se tutti i sopravvissuti ne traggano beneficio o se sia meglio applicare il debriefing solo in alcuni casi. Ricerca futura Sono necessarie ulteriori ricerche in una serie di ambiti. Si deve affinare la comprensione della fenomenologia e del corso a lungo termine delle reazioni post-traumatiche da stress per età e tipologia di trauma, al momento ostacolate dalla mancanza di misure standardizzate appropriate all’età dei bambini. Analizzare in che modo i bambini spiegano e danno un significato agli eventi traumatici, come descrivono i propri atteggiamenti post-traumatici, quelli a verso il mondo e se stessi e analizzare i cambiamenti nell’elaborazione dell’informazione (preconscia) contribuirà a una piena comprensione delle reazioni traumatiche da stress. Cosa più importante, c’è necessità di ricerche sugli esiti del trattamento sul DPTS nei bambini e negli adolescenti. Sono necessari studi su bambini con DPTS, segnalati e non, e su gruppi di controllo attentamente selezionati prima che possano essere raggiunte delle conclusioni nette sulla cronicità dei sintomi e sull’efficacia degli attuali trattamenti. Bibliografia Aaron, J., Zaglul, H. and Emery, R. E. (1999). Posttraumatic stress in children following physical injury. Journal of Pediatrìe Psychology, 24, 335-45. American Psychiatric Association (1980). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 3rd edn. Washington, DC: APA. (1994). 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CAPITOLO 21 I disturbi dell’alimentazione Anne Stewart Warneford Hospital, Oxford, Regno Unito Introduzione I disturbi dell’alimentazione sono comuni nelle adolescenti, con tassi di prevalenza per l’anoressia e per la bulimia nervosa che sono rispettivamente dello 0.3%-0.6% e del 1% (Fairburn e Beglin, 1990; Whitaker et al., 1990; Rathner e Messner, 1993; Van Hoeken et al., 1998). I problemi nell’alimentazione che non raggiungono i criteri diagnostici sono molto più comuni (Childress et al., 1993). Molte adolescenti hanno pensieri negativi relativi alla propria forma fisica e al proprio peso e questo spesso le porta a fare delle diete per migliorare l’immagine di sé (Killen et al., 1994; Smolak e Levine, 1994). La dieta è un ben noto fattore di rischio per i disturbi dell’alimentazione (Patton et al., 1990) e, nelle adolescenti che sviluppano un disturbo dell’alimentazione, si possono identificare alcuni pensieri negativi. Anche quelle che riacquistano il proprio peso possono continuare ad avere pensieri negativi sul proprio corpo e, quindi, sono vulnerabili a un’ulteriore perdita di peso (Fairburn et al., 1993a). Nelle adolescenti che sviluppano queste difficoltà è spesso presente una bassa autostima (Button et al., 1996). La terapia cognitivo comportamentale (CBT) può essere un approccio terapeutico utile per affrontare i pensieri negativi, sulla forma fisica e sul peso; gli assunti cognitivi fondamentali e per promuovere il cambiamento comportamentale (Garner et al., 1997; Wilson et al., 1997). Tuttavia, i modelli sviluppati per gli adulti richiedono un adattamento per essere utilizzati con le adolescenti (Lock, 2002). Questo capitolo si occupa della CBT negli adolescenti con disturbi dell’alimentazione, focalizzandosi sull’anoressia nervosa e sulla bulimia nervosa. Primo, vengono descritte le caratteristiche diagnostiche e cliniche di questi disturbi, e di seguito si indicano le basi per l’applicazione della CBT. Infine, si presenta il modello cognitivo dello sviluppo e del mantenimento dei disturbi dell’alimentazione e si descrive nel dettaglio la CBT basata su questo modello. 357 Anne Stewart Caratteristiche cliniche e diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione I criteri diagnostici dell’anoressia nervosa sono i seguenti: perdita di peso (maggiore del 15% rispetto al peso precedente), timore di riacquistare il peso perduto, percezione anormale del proprio corpo e della propria forma fisica, cambiamenti ormonali e il rifiuto di riacquistare il peso. I criteri diagnostici della bulimia nervosa sono: abbuffate, purghe (attraverso il vomito, i lassativi, l’alimentazione restrittiva o l’eccessivo esercizio fisico) e l’eccessiva preoccupazione della forma fisica e del peso. Nella realtà, molte adolescenti presentano caratteristiche miste o presentazioni atipiche. Le caratteristiche cliniche comuni includono bassa autostima, cattiva immagine corporea, preoccupazione eccessiva della forma fisica e del peso, mancanza di senso di identità, preoccupazione del cibo e della dieta, ritiro sociale, difficoltà relazionali, necessità di autocontrollo e rifiuto del piacere. Nell’anoressia nervosa, i sintomi della fame complicano il quadro e, nella bulimia nervosa, il vomito e il binge eating possono essere associati ad altri comportamenti impulsivi, fra cui l’abuso di droga e alcol o l’autolesionismo. Queste caratteristiche fanno parte del modello cognitivo descritto in seguito. Prove empiriche sull’efficacia della CBT nei disturbi dell’alimentazione Bulimia nervosa Per la bulimia nervosa, la CBT viene considerata il trattamento di elezione. Dalla pubblicazione dell’articolo di Fairburn (1981) sull’applicazione della CBT nella bulimia nervosa, sono state condotte più di 30 prove comparative (per es. Fairburn et al., 1986a; Agras et al., 1989; Fairburn et al., 1991; Agras et al., 1992; Fairburn et al., 1993a; Thackwray et al., 1993; Fairburn et al., 1995; Walsh et al., 1997). In ciascuna prova, la CBT si è rivelata eguale, se non superiore, a tutte le modalità di trattamento con cui è stata confrontata (trattamenti attivi e condizioni di controllo). Gli studi con un follow-up a lungo termine hanno riscontrato che i benefici erano presenti anche dopo (Agras et al., 1994; Fairburn et al., 1999). La terapia interpersonale è egualmente efficace nel lungo termine (Fairburn et al., 1991) e potrebbe rappresentare un’alternativa utile per i pazienti che non rispondono bene o che non accettano la CBT. Nonostante sia efficace nel breve e lungo termine, un numero significativo di pazienti risponde parzialmente al trattamento e alcuni non rispondono affatto (Fairburn et al., 1992). Fairburn et al. (2003) suggeriscono che la sfera d’azione tipica della CBT dovrebbe essere ampliata per includere, oltre agli elementi standard, un focus su problematiche interpersonali, di autostima, di perfezionismo e di intransigenza. C’è un interesse crescente verso i trattamenti di auto-aiuto per la bulimia nervosa e sono disponibili numerosi manuali (Schmidt e Treasure, 1993; Cooper, 1995; Fairburn, 1995). Indagini controllate indicano l’efficacia dell’auto-aiuto nei casi meno 358 I distirbi dell’alimentazione gravi, soprattutto se l’auto-aiuto si accompagna con alcune sedute con il terapeuta (Treasure et al., 1994; Carter e Fairburn, 1998; Cooper et al., 1996). A oggi, non sono state pubblicate prove controllate sulla CBT con le adolescenti con bulimia nervosa, anche se alcune adolescenti sono state incluse in alcuni studi sugli adulti. Ci sono anche poche ricerche che valutano altre forme di terapia. Dodge et al. (1995) hanno riportato miglioramenti significativi nei comportamenti alimentari di adolescenti con bulimia nervosa alla fine di un trattamento, basato sull’approccio di terapia familiare di Maudsley. Lock (2002) ha riferito buoni risultati su adolescenti con bulimia nervosa che avevano ricevuto un approccio cognitivo comportamentale con aggiunta della componente familiare. L’anoressia nervosa La CBT sta iniziando a essere sempre più utilizzata con l’anoressia nervosa, anche se non ci sono ancora prove convincenti della sua efficacia. Un caso riferito da Cooper e Fairburn (1984) ha dato indicazioni di effetti positivi. Tuttavia, sono stati intrapresi pochi studi controllati sulla psicoterapia in genere. Channon et al. (1989) hanno paragonato la CBT con il trattamento comportamentale e con “i trattamenti comuni” e hanno riscontrato presentavano miglioramenti significativi al follow-up a 6 mesi, anche se la CBT sembrava il trattamento più accettato. Tuttavia, questo studio aveva dei limiti metodologici. Serfaty et al. (1999) hanno condotto una prova randomizzata controllata che paragonava le indicazioni sulla dieta alimentare da tenere con una CBT ambulatoriale per l’anoressia nervosa. Al follow-up a 6 mesi, 23 pazienti su 25 nel gruppo della CBT frequentavano ancora le sedute di trattamento, mentre tutto il gruppo delle indicazioni dietologiche aveva abbandonato. Il gruppo della CBT mostrava cambiamenti significativi nel BMI (indice di massa corporea) e nei punteggi all’Eating Disorder Inventory (EDI). A oggi, non sono state condotte prove controllate su adolescenti con anoressia nervosa. Tuttavia, l’approccio familiare sembra essere efficace con questa popolazione (Russell et al., 1992; Dare et al., 1995; Robin et al., 1999; Eisler et al., 2000), anche se nessuno di questi studi ha utilizzato un gruppo di controllo in condizione di “non trattamento”. Il modello di lavoro con le adolescenti con bulimia e anoressia nervosa descritto in questo capitolo si basa sulle ricerche esistenti. Tuttavia, le prove empiriche per la CBT non sufficienti e c’è un urgente bisogno di prove controllate e ben progettate. Il modello cognitivo dei disturbi dell’alimentazione nell’adolescenza Sono stati sviluppati una serie di modelli cognitivi adulti della bulimia e dell’anoressia nervosa (Fairburn, 1981; Vitousek e Orimoto, 1993; Cooper, 1997; Wolff e Serpell, 1998; Fairburn et al., 1999b; Fairburn et al., 2003). Un modello cognitivo per i disturbi nell’adolescenza deve includere aspetti evolutivi, fra cui ruolo della famiglia e delle relazioni con i pari. 359 Anne Stewart La maggior parte dei modelli esistenti si focalizzano sui fattori di mantenimento. Certamente, capire come un disturbo dell’alimentazione possa auto-rinforzarsi è essenziale per procedere nel trattamento. Inoltre, per alcuni pazienti, negli ultimi stadi del trattamento, potrebbe essere utile comprendere come si siano sviluppati i propri problemi. I seguenti modelli sull’insorgenza e il mantenimento dei disturbi dell’alimentazione si basano su altri modelli esistenti, e tengono in considerazione, allo stesso tempo, fattori sistemici ed evolutivi. Sviluppo dei disturbi dell’alimentazione Il modello cognitivo dei disturbi emotivi, sviluppato da Beck (1976), è la base comprendere come si sviluppano i disturbi dell’alimentazione (Figura 21.1.). L’esperienza precoce viene modellata da una serie di influenze genetiche e ambientali. Alcuni studi sui fattori di rischio hanno fatto luce sulle esperienze precoci rilevanti nei disturbi dell’alimentazione (Fairburn et al., 1997, 1999b; vedere Figura 21.1). Una combinazione di questi esperienze precoci potrebbe, in alcune persone, portare allo sviluppo di assunti fondamentali disfunzionali: Non sono degno d’amore, non vado bene, sono vulnerabile, ho molti difetti, sono sotto il controllo degli altri, merito di essere punito. Da questi assunti cognitivi fondamentali potrebbero derivare una serie di convinzioni relative alla forma fisica, al peso, e a questioni più generali, per es. Per essere attraente, devo essere magra, per avere successo devo essere magra, devo avere il controllo di tutto, devo fare tutto alla perfezione per le persone che mi amano, non posso permettermi di divertirmi. Queste convinzioni si sviluppano nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza, tuttavia, la loro forza e salienza potrebbe non divenire ovvia fino a che non vengono attivate da incidenti critici. La pubertà in se stessa potrebbe rappresentare un incidente critico per molte ragazze. Dopo la pubertà, l’immagine corporea delle ragazze spesso si deteriora e compare un’eccessiva preoccupazione dell’apparenza fisica e la convinzione di essere grasse (Shore e Porter, 1990). Una serie di studi hanno riscontrato che i problemi dell’alimentazione aumentano nella pubertà (Koff e Rierdan, 1993; Levine et al., 1994). Certamente, una pubertà precoce è un fattore di rischio per successivi disturbi dell’alimentazione (Fairburn et al., 1997). Nel corso della pubertà, si verificano una serie di cambiamenti evolutivi che per alcune ragazze possono essere problematici, soprattutto se queste sono già vulnerabili. Alcuni cambiamenti sono l’adattamento ai cambiamenti biologici, lo sviluppo di relazioni, la conquista dell’indipendenza, affrontare pressioni di lavoro e sviluppare una propria identità. Eventi di vita stressanti, come la conflittualità coniugale, un ambiente abusante o critiche sul peso e sulla forma fisica possono attivare gli assunti e le convinzioni e potrebbero emergere pensieri automatici negativi, che si combinano a un senso di perdita del controllo e a una bassa autostima. L’adolescente potrebbe mettersi a dieta per credere di avere un maggiore controllo e per piacersi di più. Questo modello evolutivo è particolarmente importante per quelle adolescenti che hanno una storia di pensieri negativi fortemente radicati, precedenti al disturbo dell’alimentazione. Tuttavia, per alcune adolescenti, la bassa autostima è successiva al disturbo dell’alimentazione, piuttosto che essere un fattore di rischio pre-esistente. 360 I distirbi dell’alimentazione Figura 21.1 Modello cognitivo dello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione: le esperienze precoci VulnerabilitàInfluenze generaliInfluenze ambientali Individuale dell’ambiente relative alla dieta, al Perfezionismo Conflittualità fra genitori peso e alla forma fisica Precedente obesità Critiche Pressione sociale alla Storia familiare di Aspettative elevate magrezza depressione/ Iperprotezione Membri della famiglia Abuso di sostanze Affettività minima con disturbi Bassa autostima Maltrattamento dell’alimentazione fisico/ abuso Commenti ripetuti sul Sessuale peso e sulla forma fisica Convinzioni Evitamento del piacere Per es. Non valgo nulla Non sono segno d’amore Non sono attraente Per es. Devo avere il controllo Devo essere magra per essere felice Mi devo punire Pubertà Cambiamenti biologici Relazioni Competenze di lavoro Identità Autonomia Incidenti critici Stress Lavoro eccessivo Assunti Cognitivi Commenti sul peso e sulla forma fisica Attivazione Pressioni socioculturali della assunzioni e delle convinzioni Pensieri negativi Sono grassa, brutta Non vado bene Non ho il controllo Dieta Restrizioni alimentari esagerate 361 Anne Stewart Mantenimento del disturbo alimentare Una volta sviluppati atteggiamenti e comportamenti alimentari anormali, una serie di fattori contribuiscono al mantenimento di questo comportamento. Il seguente modello di mantenimento è adattato dai modelli cognitivi sviluppati da Fairburn (1981) e da Fairburn et al. (1999b). Come evidenziato da Fairburn et al. (1999a), nelle adolescenti sono molto importanti le problematiche relative al controllo, dal momento che molte di loro cercano di assumere il controllo sulle proprie vite, quando molti aspetti sembrano invece sfuggirgli. In questo modello sono preminenti anche i fattori familiari, relativi ai coetanei e allo sviluppo (Figura 21.2). Figura 21.2 Fattori di mantenimento dei disturbi alimentari nelle adolescenti Bassa autostima Comportamenti Autolesionistici Altri pensieri negativi Iperpreoccupazione della forma fisica e del peso e necessità di controllo Fattori comportamentali Controllo del peso Stato di inedia Restrizione degli interessi Rigidità Pienezza di stomaco Perdita di indizi di fame Umore basso Scarsa concentrazione Evitamento Incertezza Complessità Sentimenti Problemi 362 Eccessive restrizioni nella dieta Fattori Familiari Approvazione Attenzione Controllo Dipendenza Ansia Elevata Umore basso Binge eating Purghe Fattori sociali Competizione con i coetanei Fattori emotivi Maggiore senso di controllo e padronanza Sentirsi speciali Maggiore autostima Perfezionismo Ansia elevata /umore basso I distirbi dell’alimentazione Al centro di questo modello ci sono i pensieri disadattivi sulla forma fisica e sul peso e la necessità di controllare tutto. Questa preoccupazione potrebbe indurre restrizioni eccessive nella dieta, che possono portare o a uno stato di inedia (come nel caso dell’anoressia nervosa) o al binge eating seguito da purghe (come nel caso della bulimia nervosa). Una serie di fattori contribuiscono al mantenimento di questo processo. Fattori emotivi individuali La restrizione della dieta e la conseguente perdita di peso possono all’inizio generare un senso di maggiore controllo e padronanza. Questo innalza temporaneamente l’autostima. La ragazza crede che, solo se riuscirà a perdere altro peso o se sarà ancora più attenta alla propria dieta, l’autostima continuerà ad aumentare. Le ragazze che hanno tratti perfezionistici sono portate a sviluppare restrizioni alimentari molto efficaci e rigide che rinforzano il senso di successo. Inoltre, in seguito alla perdita di peso le adolescenti si sentono spesso speciali e diverse e possono quindi avere paura di perdere tutto se dovesse riacquistare il proprio peso. In alcune adolescenti, la restrizione della dieta o il binge eating possono anche essere un mezzo per affrontare stati emotivi negativi, come un’ansia elevata o un umore depresso. Fattori comportamentali Di solito, le ragazze con disturbi dell’alimentazione si pesano spesso o controllano spesso le parti del proprio corpo. Si preoccupano per presunti difetti e così rinforzano la fissazione sulla forma fisica e il peso. Fattori familiari L’effetto del disturbo alimentare sulla famiglia potrebbe contribuire al mantenimento del comportamento in una serie di modi. Primo, l’iniziale perdita di peso potrebbe generare approvazione nei genitori, anche se con il passare del tempo l’approvazione potrebbe trasformarsi in preoccupazione. Di solito una grave perdita di peso catalizza l’attenzione dei genitori su di sé, aspetto spesso vissuto come positivo; spesso si ha paura di perdere tutto mano a mano che si riacquista peso. Secondo, il senso di padronanza che spesso deriva dalle restrizioni potrebbe essere considerato l’unico modo di mantenere un controllo nella famiglia dove, forse, invece ne hanno poco. Terzo, molte ragazze con disturbi alimentari vogliono essere rassicurate dai propri genitori, soprattutto dalle madri, sul fatto di essere attraenti. Questa rassicurazione potrebbe funzionare a breve, ma quando è eccessiva potrebbe contribuire al peggioramento del problema, in un modo simile a quello delle ansie relative alla salute. Quarto, alcune ragazze non vogliono crescere e diventare indipendenti. La perdita di peso potrebbe rappresentare un modo per rimanere dipendenti 363 Anne Stewart dalla propria famiglia ed evitare i problemi della crescita. Infine, nel momento in cui la figlia sviluppa un’anoressia, i genitori potrebbero attraversare le proprie difficoltà di mezza età e questo li rende più distratti e meno consapevoli del problema. Fattori sociali La dieta è un’esperienza molto comune per le adolescenti (Hill et al., 1992). La perdita di peso può essere un mezzo per avere l’approvazione dei coetanei, almeno a breve termine. Mano a mano che il peso scende ulteriormente, i compagni potrebbero preoccuparsi e anche questo comportamento può essere un rinforzo involontario. Evitamento L’adolescenza è un periodo di incertezza e di importanti decisioni. Questo può essere difficoltoso per alcuni ragazzi, soprattutto se hanno già una bassa autostima. Il disturbo dell’alimentazione può essere un modo di evitare le incertezze e le complessità della vita. Le restrizioni nella dieta danno l’illusione di uno stile di vita sicuro e prevedibile. Inedia Gli effetti dell’inedia possono contribuire al mantenimento del disturbo. L’umore depresso e la scarsa energia che derivano dall’inedia rendono difficile qualunque sforzo in direzione di un cambiamento. I sintomi fisici nell’inedia, come la perdita dell’appetito e un senso di sazietà, rendono più difficile mangiare, a causa della paura di perdere il controllo. La restrizione degli interessi e il ritiro sociale spostano il senso di identità personale tutto sull’anoressia, e questo rende più difficile smettere. La rigidità del pensiero rende difficile assumere un punto di vista razionale e compiere cambiamenti in direzione della salute. Binge eating In alcune ragazze, una dieta eccessiva innesca il binge eating, seguito da metodologie compensative di controllo del peso come il vomito. Il circolo vizioso aiuta a mantenere costante questo processo (vedere Fairburn et al., 1986a). Fattori di recupero Nello sviluppare un modello per il mantenimento del disturbo, è importante essere consapevoli dei “fattori di recupero”, ossia dei punti di forza che aiutano le ragazze a 364 I distirbi dell’alimentazione riprendersi. Potrebbero essere risorse individuali o familiari o insite in buone relazioni con i coetanei. Valutazione La valutazione globale è il primo passo essenziale nella gestione dei disturbi dell’alimentazione. La Tabella 21.1 sintetizza le componenti della valutazione iniziale. È importante coinvolgere la ragazza e la famiglia nel trattamento. Le adolescenti con un disturbo dell’alimentazione, in particolare quelle con anoressia nervosa, sono spessi ambivalenti nei confronti del trattamento ed è importante avere a disposizione un tempo sufficiente per individuare le conseguenze positive e negative del disturbo e i sentimenti relativi al trattamento. È essenziale un approccio collaborativo fin dall’inizio. (Per idee utili su come motivare i pazienti vedere il Capitolo 5; Schmidt e Treasure, 1993; Treasure e Schmidt, 1997; Treasure e Ward, 1997). Tabella 21.1 Valutazione • Attuali abitudini alimentari (inclusi pattern di alimentazione, binge eating, vomito, altri metodi di controllo del peso) • Problematiche associate (depressione, ansia, autolesionismo intenzionale, abuso di droga e alcol) • Storia clinica (oscillazioni del peso, regolarità delle mestruazioni, storia psichiatrica precedente) • Storia evolutiva precoce (fra cui eventuali abusi infantili) • Background familiare (fra cui disturbi dell’alimentazione) • Valutazione fisica (altezza e peso, lo stato cardiovascolare, la forza muscolare, esami del sangue) • Questionari standardizzati (EDE-Q, EAT, BDI, BAI) • Valutazione della famiglia (livello di supporto alla famiglia, atteggiamento verso i problemi della figlia, relazione coniugale) • Valutazione individuale (atteggiamento verso i problemi dell’alimentazione, motivazione, obiettivi) EDE-Q, Eating Disorder Examination – Questionnaire; EAT, Eating Attitudes Test; BDI, Beck Depression Inventory; BAI, Beck Anxiety Inventory La CBT Le fasi del trattamento e il ruolo della famiglia L’approccio qui descritto si basa sulla letteratura di ricerca disponibile nel campo della CBT e degli approcci familiari ai disturbi dell’alimentazione nell’adolescenza e sul modello cognitivo precedentemente descritto. 365 Anne Stewart Come per gli adulti, la CBT per l’anoressia e la bulimia nervosa prevede tre fasi. Anche se queste si sovrappongono, il focus specifico è differente. La prima fase si occupa principalmente di ristabilire pattern normali di alimentazione e, nel caso dell’anoressia nervosa, di ripristinare un certo peso. Le strategie saranno per lo più comportamentali. La seconda fase si focalizza sui fattori di mantenimento del disturbo, fra cui la preoccupazione eccessiva per peso e la forma fisica, i pensieri disadattivi e la necessità di controllo. La ragazza viene aiutata a sviluppare una visione di sé più realistica e positiva e ad assumersi le proprie responsabilità. La fase finale si occupa della prevenzione delle ricadute, aiutando la ragazza e la famiglia a sviluppare strategie di coping per il futuro. Nell’anoressia nervosa, è essenziale coinvolgere la famiglia per tutto il corso del trattamento, soprattutto con le adolescenti più giovani. Questo intervento segue lo stesso pattern del modello di trattamento familiare sviluppato dal gruppo di Maudsley (Dare et al., 1995), con l’aggiunta di una terapia cognitiva individuale. Nella prima fase, il trattamento è per lo più comportamentale su base familiare ed è un adattamento della prima fase del Maudsley. La seconda fase prevede un lavoro cognitivo individuale con la ragazza, che si va ad aggiungere al lavoro comportamentale. Anche il lavoro con i genitori (e i fratelli, se è il caso) continua in parallelo e si incoraggia la ragazza ad assumersi sempre di più la responsabilità della propria alimentazione e a considerare i propri genitori come alleati. Il lavoro sulla famiglia nella fase finale potrebbe includere problematiche tipiche dell’adolescenza, come l’indipendenza e la separazione, e la prevenzione delle ricadute. Anche questa fase è simile a quella finale del Maudsley. Gli approcci familiari con la bulimia non hanno prove sufficienti, tuttavia l’esperienza clinica suggerisce che potrebbero essere utilizzati anche in questo caso. Una CBT familiare per adolescenti con bulimia nervosa è stata descritta da Lock (2002). Le pazienti sono di solito più grandi e più motivate a intraprendere dei cambiamenti. Pertanto, con alcune all’inizio si potrebbe lavorare su un piano individuale, considerando i membri della famiglia come alleati in questo lavoro. L’anoressia nervosa Fase 1 La prima fase di trattamento prevede un lavoro sulla famiglia per permettere alla ragazza di ristabilire pattern normali di alimentazione e di riprendere peso. Di solito, in questa fase, la ragazza è riluttante a frequentare il trattamento e potrebbe addirittura non essere consapevole del proprio problema. Pertanto, il sostegno familiare è un fattore cruciale nella promozione del cambiamento. Il lavoro con la famiglia prevede una serie di componenti, fra cui dare informazioni alla famiglia sulle conseguenze nocive del disturbo, separare l’identità della ragazza dal disturbo alimentare e incoraggiare i genitori a prendersi carico dell’alimentazione della propria figlia. Il terapeuta mira a rafforzare e sostenere i genitori nel loro compito. Il focus è sulle problematiche presenti piuttosto che sulle cause. I genitori, all’inizio, potrebbero avere difficoltà nell’equilibrare empatia e fermezza, e avranno bisogno di incoraggiamento per imparare a relazionarsi con la propria 366 I distirbi dell’alimentazione figlia in un modo che le permetta di progredire. Un approccio comportamentale fermo al momento dei pasti e supervisionare e sostenere la propria figlia sono aspetti essenziali di questa fase. Mano a mano che il tempo passa, i genitori diventano più sicuri. Frequentare un gruppo per discutere le difficoltà di questa fase con altri genitori può essere rassicurante e utile. Controllare l’ingestione di cibo può essere utile e, con la collaborazione dei genitori e della ragazza, si può anche costruire un programma per i pasti e fornire così una struttura da seguire. Può anche essere utile l’input di un dietista. Il lavoro con la famiglia potrebbe anche prevedere incontri per tutti i membri insieme o, invece, per alcune famiglie, si possono prima incontrare i genitori da soli e poi si conduce un lavoro parallelo supportivo con la ragazza. La ricerca suggerisce che quando l’espressione delle emozioni è molto elevata all’interno della famiglia, si ottengono risultati migliori se i genitori e l’adolescente lavorano separatamente (Eisler et al., 2000). Qualunque stile si scelga, è essenziale prima coinvolgere e motivare la ragazza. Questa fase è simile alla prima fase della CBT per gli adulti; la differenza sostanziale sta nel ruolo predominante della famiglia. La pianificazione della supervisione dei pasti e di un programma di alimentazione strutturato (e crescente) vengono portati avanti in collaborazione con i genitori. Fase 2 Per alcune adolescenti, i pensieri iniziano a cambiare nella fase 1 con il lavoro sulla famiglia, e così non è necessario un lavoro cognitivo specifico. In questo caso, il lavoro con la famiglia continua spostando sempre di più le responsabilità sulla ragazza e fissando il focus su aspetti differenti dal disturbo alimentare. Tuttavia, in altre adolescenti, soprattutto più grandi o con un disturbo di lunga data, i pensieri negativi restano e si deve condurre un lavoro più specificamente cognitivo. Anche se al momento non ci sono prove empiriche, l’esperienza clinica suggerisce che alcune adolescenti traggono beneficio da un approccio cognitivo comportamentale individuale. La temporizzazione è cruciale in questa fase. La ragazza deve essere pronta e motivata a intraprendere una CBT individuale. Di solito, la perdita di peso sarà del 15% o meno, anche se alcune adolescenti sono pronte per un lavoro cognitivo a pesi più bassi di questo, mentre altre non lo sono nemmeno con un peso più elevato. Per valutare l’idoneità al lavoro cognitivo, si utilizzano i seguenti criteri: • • • • • L’adolescente è motivata al cambiamento? Ricerca una partecipazione attiva? Ha la capacità di assumere un approccio “meta” ai propri problemi? Ha la capacità di distinguere i pensieri dalle sensazioni? Una spiegazione cognitivo comportamentale può avere senso? All’inizio del trattamento, si può co-costruire una formulazione relativa sui fattori cognitivi di mantenimento (basata sulla Figura 21.2). Nella fase 1, saranno stati affrontati i fattori di mantenimento relativi all’inedia. 367 Anne Stewart Data la motivazione spesso altalenante delle adolescenti, il lavoro motivazionale dovrebbe continuare per tutta la durata del trattamento. È utile all’inizio confrontarsi sui pro e sui contro, a breve e lungo termine, del riacquistare peso. Altre domande utili sono: • • • Quali valori sono importanti per te? Come il conseguimento di questi valori è collegato alla magrezza? Il disturbo alimentare ti dà dei risultati positivi? Scrivere delle lettere all’anoressia considerandola un’amica o una nemica (Serpell et al., 1999) può accrescere la motivazione. Mano a mano che il trattamento progredisce, può essere altamente motivante mettere la ragazza in collegamento con altri aspetti della propria vita. Gli obiettivi di trattamento vengono identificati all’inizio. Di solito, l’adolescente suggerirà obiettivi ambivalenti in relazione al cibo, al peso e alla forma fisica, e anche a problematiche più ampie, tipo la alla bassa autostima e la sicurezza di sé. Dopo aver chiarito gli obiettivi si scelgono quelli da cui iniziare. È di solito preferibile partire da quelli più immediati - per es. Mi piacerebbe sentirmi OK , Mi piacerebbe terminare i pasti più velocemente, Mi piacerebbe essere più contenta del mio peso. In questa fase, il focus principale è sull’aumento del peso e sulla normalizzazione dell’alimentazione. Pesare i pazienti regolarmente è anche un’opportunità per identificare i pensieri negativi. Continua a essere importante un programma di alimentazione strutturato, anche se, con il passare del tempo, la ragazza può acquisire maggiore responsabilità e diventare più flessibile. È utile continuare a monitorare l’apporto di cibo, anche se si dovrebbe inserire l’auto-monitoraggio sistematico dei pensieri e dei sentimenti. Con alcune adolescenti, può risultare positivo coinvolgere i genitori nelle discussioni sull’alimentazione; i genitori sono considerati una risorsa nel sostenere il programma di nutrizione. Può essere utile inserire alcune strategie comportamentali per aiutare la ragazza ad affrontare i momenti dei pasti, come, per esempio, stare in compagnia, ascoltare musica, avere la supervisione costante dei genitori, ecc. Si possono discutere i fattori che innescano la restrizione di cibo. Con il passare del tempo, la ragazza viene incoraggiata a sviluppare pattern di alimentazione più normali. Si introducono sistematicamente i cibi solitamente evitati, spesso con l’aiuto dei genitori, e si variano anche le situazioni in cui viene consumato il cibo. Attraverso l’auto-monitoraggio la ragazza impara a identificare i pensieri “anoressici” che contribuiscono al mantenimento del pattern di alimentazione disfunzionale. Alcuni esempi sono: • • • • Non sarò in grado di smettere di mangiare una volta che inizio. Le persone penseranno che sono golosa se mi vedono mangiare. Mi sentirò meglio quando perderò altro peso. Se mangio ancora un altro biscotto, mi si metterà sullo stomaco. È importante capire la natura dei pensieri automatici – e in particolare, che si tratta di interpretazioni e non di fatti reali. Può anche essere utile identificare i 368 I distirbi dell’alimentazione pattern di pensieri disadattivi. La Tabella 21.2 contiene alcuni esempi di pensieri disfunzionali. Tabella 21.2 Pattern disfunzionali Saltare alle conclusioni Se sono magra gli altri mi considereranno speciale Ingigantimento Tutti possono vedere quanto sono brutta Ipergeneralizzazione Se mi piace ciò che mangio devo essere una golosa Pensiero “bianco o nero” Se non controllo tutto, allora non controllo niente Personalizzazione Le persone mi deridono quando mangio Pensiero magico Se mangio un altro biscotto, si trasformerà immediatamente in grasso Il passo successivo è quello d aiutare l’adolescente a sviluppare pensieri più adattivi. Dopo aver identificato un pensiero “anoressico”, la ragazza viene incoraggiata a esaminare le prove pro e contro la validità e l’utilità del pensiero. Dopo aver fatto questo, la si incoraggia ad arrivare a una conclusione ragionevole; a sviluppare un pensiero alternativo e a effettuare i cambiamenti comportamentali coerenti con la conclusione raggiunta. Utilizzare il role-play per mettere in discussione i pensieri, può essere molto utile con le adolescenti – per es. la ragazza potrebbe interpretare un’amica e il terapeuta il genitore. La Tabella 21.3 mostra un foglio di auto-monitoraggio con l’aggiunta di pensieri alternativi più realistici. Tabella 21.3 Auto-monitoraggio Situazione Emozione Pensieri Automatici Negativi Alternative Sentimenti Osservare una foto Tristezza Sono orribile Perché devo ingrassare? Nessuno vuole essere mio amico Anche la mia amica è brutta Ci sono persone più brutte di me e hanno degli amici Le persone mi considerano per la mia personalità Più felice 369 Anne Stewart Nel corso della terapia, diventa evidente che il comportamento o gli eventi come la perdita di peso o l’eliminazione di pasti possono all’inizio indurre pensieri positivi, come: • • • È un risultato essere riuscita a saltare un pasto. Oggi sono felice di aver perso 300 g. È piacevole controllare la mia alimentazione. Questi pensieri possono essere messi in discussione nello stesso modo di quelli automatici negativi. Potrebbe essere necessario a questo punto ricordare alla ragazza l’equilibrio decisionale fra i pro e i contro e gli obiettivi della terapia. Anche se all’inizio potrebbe essere orgogliosa di essere riuscita a perdere peso, capirà che questo non la aiuterà a raggiungere gli obiettivi formulati all’inizio del trattamento. Molti pensieri automatici negativi nell’anoressia nervosa sono collegati alla preoccupazione per la forma fisica e il peso. Il lavoro sistematico su questi pensieri è essenziale. Le adolescenti con anoressia nervosa hanno emozioni molto forti in relazione al proprio corpo e si convincono di essere veramente brutte come credono. L’insoddisfazione relativa alla propria immagine corporea potrebbe rimanere quando ci si focalizza esclusivamente sugli aspetti negativi del corpo e ci si disinteressa delle caratteristiche positive. Il perfezionismo può contribuire all’insoddisfazione. Attribuire la “percezione di grassezza” ad altri sentimenti, fra cui l’umore depresso, permette alla ragazza di gestire questi altri sentimenti. Gli esperimenti comportamentali possono essere un modo eccezionale per mettere in discussione i pensieri negativi. Per esempio, guardarsi spesso allo specchio o pesarsi spesso sono comportamenti che fanno aumentare la preoccupazione relativa al peso e alla forma fisica. Ridurre questi comportamenti può aiutare la ragazza a capire questo collegamento. Può essere utile tenere traccia degli esperimenti comportamentali, con previsioni e risultati, (vedere la tabella 21.4 per il foglio di monitoraggio). Tabella 21.4 Esperimenti comportamentali Data Situazione Previsione Esperimento Risultato Cosa ho imparato Con il procedere della terapia, la ragazza potrebbe divenire più consapevole di quali pensieri non sono collegati al peso, alla forma fisica o alle preoccupazioni alimentari, ma ad altre ansie sul sé o sugli altri. Esempi di pensieri negativi sono: • • • La mia amica non mi ha chiamato, per cui non le piaccio. Ho un punteggio pari all’80% nell’esame di matematica, per cui sono un fallimento. I miei genitori non mi sopportano più. In alcune adolescenti, con il miglioramento del disturbo, potrebbe migliorare l’autostima e quindi potrebbero diventare più sicure e farsi coinvolgere in altri aspetti della 370 I distirbi dell’alimentazione vita. Tuttavia, in altre, soprattutto quelle con assunti cognitivi fondamentali negative antecedenti al disturbo dell’alimentazione, le convinzioni negative sul sé persistono, nonostante l’aumento di peso e la normalizzazione dell’alimentazione; il focus deve allora spostarsi su questi assunti fondamentali. Di solito in questa fase della terapia, si analizzano i seguenti aspetti collegati agli obiettivi originari identificati all’inizio della terapia o a nuove problematiche emerse nella terapia. • • • • • • Perfezionismo Convinzione disfunzionale: devo fare tutto alla perfezione altrimenti gli altri non mi accetteranno Mancanza di sicurezza/assertività Convinzione disfunzionale: nessuno mi ascolterà, i miei punti di vista sono inutili. Se dico qualcosa di sbagliato, le persone mi derideranno. Bassa autostima, scarso senso di identità Assunto cognitivo fondamentale: sono inutile Problemi con le relazioni (familiari e con i coetanei) Assunto cognitivo fondamentale: non piaccio a nessuno. Convinzione disfunzionale: se mi riprendo, nessuno si prenderà cura di me. Devo stare male perché le persone si accorgano di me. Difficoltà di espressione o di gestione dei sentimenti Convinzione disfunzionale: se ammetto le mie emozioni, non ho il controllo della situazione Difficoltà con la sessualità/con la crescita Convinzione disfunzionale: crescere è una cosa troppo difficile da fronteggiare Essere adulti significa essere infelici In questa fase può essere utile co-costruire una formulazione, che include le esperienze precoci e lo sviluppo degli assunti cognitivi fondamentali e delle convinzioni. Ci sono una serie di modi in cui affrontare questi assunti o convinzioni fondamentali. Potrebbe essere utile rappresentare le convinzioni lungo un continuum, per es., sono inutile… valgo molto. Si lavora sull’identificazione del significato di ciascuno dei due estremi del continuum – per es. chiedersi cosa significa davvero essere una persona che vale. Si chiede alla ragazza di posizionarsi lungo il continuum, ma anche di posizionarsi dove la sua migliore amica o i suoi genitori la metterebbero. In questo modo, diventa presto evidente che il posto lungo il continuum può variare e può dipendere dall’umore e dal contesto. Potrebbe essere utile pensare ad altre persone che si conoscono e posizionarle lungo il continuum. Su quali basi la ragazza posiziona queste persone lungo il continuum? Diventa evidente anche che la ragazza potrebbe applicare standard differenti a sé e agli altri. A questo punto, è utile, discutere il modello del pregiudizio (Padesky, 1991). Questo modello suggerisce che le persone con bassa autostima hanno dei pregiudizi nei propri confronti, ingigantendo i propri aspetti negativi e minimizzando quelli positivi. Si può fare un lavoro per sviluppare una visione di sé più realistica. I grafici a torta possono essere un mezzo utile per affrontare gli assunti fondamentali sul sé e il problema dell’identità. La Figura 21.3 mostra prima il grafico di una 371 Anne Stewart ragazza con anoressia nervosa in cui risulta evidente l’importanza di questo disturbo nella propria vita. Si può fare un lavoro per identificare gli aspetti che si desidererebbe aggiungere (come nel secondo grafico a torta), incoraggiandola a sviluppare idee specifiche su come agire. Figura 21.3 Lavoro sull’identità Chi sono? Chi sono? Danza Anoressia Nervosa Me Musica Famiglia Arte Amici Tennis Scuola Un aspetto chiave di questa parte della terapia è costruire un senso positivo di sé. L’adolescente potrebbe essersi focalizzata sul proprio disturbo dell’alimentazione per molto tempo, negando altri aspetti del sé. Lo scopo è sviluppare la convinzione di valere. Si può chiedere alla ragazza di registrare i dati a sostegno delle convinzioni positive sul sé. All’inizio, è evidente che la ragazza minimizza, distorce o non fa caso ai dati positivi. Non appena ne diventa consapevole, può diventare più realistica sui propri successi. Può essere d’aiuto utilizzare esperimenti comportamentali per verificare gli assunti cognitivi disfunzionali. Alcuni esempi di assunti da verificare sono: • • Se sarò assertiva mi prenderanno in giro. Se mi lascio andare non avrò più il controllo dele mie emozioni Insegnare competenze di assertività può essere una parte importante di questo processo. Una volta che queste sono state apprese, allora l’esperimento comportamentale può aiutare a verificare la validità degli assunti cognitivi fondamentali e a rafforzare convinzioni più positive. Il lavoro con i genitori e la famiglia dovrebbe continuare nel corso della terapia cognitiva, anche se la frequenza potrebbe diminuire. La famiglia deve imparare a diminuire il sostegno/la supervisione intensiva dell’inizio del trattamento e devono permettere alla ragazza di assumersi le proprie responsabilità. Questo può rendere ansiosi i genitori, dal momento che si sono abituati a un’interazione più dipendente. In questo stadio possono emergere altre problematiche relative alle relazioni familiari e la ragazza potrebbe imparare a esprimere i propri sentimenti con maggiore assertività. 372 I distirbi dell’alimentazione Prevenzione delle ricadute A questo punto, la ragazza avrà raggiunto i propri obiettivi relativi al peso e sarà integrata nelle attività normali delle adolescenti (scuola, socializzazione, ecc.).Il disturbo alimentare adesso sarà meno predominante. Il lavoro con la famiglia potrebbe avere a che fare con tematiche relative alla separazione e all’indipendenza dal momento che la ragazza è alle prese con il processo di crescita. In questa fase è utile considerare i segnali di avvertimento di una probabile ricaduta e utilizzare queste ricadute come occasioni di apprendimento e di progresso. Prima di lasciare la terapia, è utile rivedere con la ragazza quello che ha imparato nel corso del trattamento e come può utilizzare questi apprendimenti per il proprio futuro. Questo lavoro può assumere la forma di un piano d’azione, che la ragazza può tenere in una cartellina per ricordarsi del lavoro fatto durante la terapia (Tabella 21.5). La bulimia nervosa La CBT per la bulimia nervosa nelle adolescenti segue lo stesso pattern di quella descritta da Fairburn e Wilson (1993), anche se con un maggiore coinvolgimento della famiglia. Fino a che punto la famiglia deve essere coinvolta dipende dai bisogni evolutivi dell’adolescente e dalla relazione che la ragazza ha con i genitori. I genitori potrebbero spesso essere considerati una risorsa utile per l’adolescente. Tabella 21.5 Piano d’azione • • • • • • Come si è sviluppato il mio problema alimentare? Cosa ha contribuito a mantenerlo? Cosa ho fatto per cambiare? Come è cambiato il mio modo di vedere? Come posso costruire il futuro sui cambiamenti che ho fatto? Cosa devo fare se il mio problema alimentare si ripresenta? Fase 1 La prima fase del trattamento è focalizzata su due scopi principali. Il primo è quello di co-costruire con la ragazza una formulazione cognitivo comportamentale basata sul modello di Fairburn (Fairburn et al., 1986b, 1999b) e incorporare altri fattori rilevanti nella vita della ragazza – in particolare, la famiglia, i coetanei, la scuola ecc. – come precedentemente descritto nel modello di mantenimento (è importante prendersi del tempo per discutere questo modello approfonditamente). Il secondo scopo è quello di introdurre le strategie comportamentali mirate a far diminuire il vomito volontario e il binge eating. Si chiede alla ragazza di monitorare la propria alimentazione (vedere la tabella 21.6 per un esempio di foglio di auto-monitoraggio). 373 Anne Stewart Tabella 21.6 Esempio di foglio di auto-monitoraggio Data Ora Cibo mangiato Situazione B V L Contesto B, binge eating; V, vomito; L, lassativi Lo scopo dell’auto-monitoraggio è di aiutare l’adolescente a comprendere più chiaramente le proprie abitudini alimentari e le situazioni in cui sorgono i problemi. L’informazione è una parte importante di questa fase di trattamento. Queste informazioni riguardano il range di peso salutare, le conseguenze fisiche del binge eating, del vomito e dell’abuso di lassativi, l’inefficacia del vomito come mezzo di controllo del peso e gli effetti avversi della dieta. Il focus è sull’aiutare la ragazza a normalizzare il proprio pattern alimentare. La si incoraggia a mangiare pasti regolari tre volte al giorno, pianificando degli snack negli intervalli. Gradualmente, la giornata della ragazza diventa strutturata da un pattern alimentare regolare. L’auto-monitoraggio aiuta l’adolescente a identificare i momenti problematici in cui si verifica, con maggiore probabilità, il binge eating e la si incoraggia a programmare delle attività proprio per quei momenti, per rendere il binge eating meno probabile. Si introducono altre misure come la limitazione della fornitura di cibo. Infine, si introducono attività che possano distogliere l’attenzione dal vomitare dopo i pasti. Potrebbe essere utile, durante questa fase, coinvolgere i genitori e altri membri della famiglia, anche se, spesso la ragazza desidera gestire i problemi da sé. Quando si vuole coinvolgere la famiglia, è meglio chiedere prima alla ragazza che tipo di aiuto le potrebbero dare. A volte, l’adolescente desidera un aiuto attivo per smettere di abbuffarsi e di vomitare – per es. un sostegno e un controllo ravvicinato dopo i pasti, o anche prevenire l’accesso al cibo fra i pasti. Con il procedere della terapia, il coinvolgimento dei genitori diminuisce mano a mano che la ragazza sviluppa strategie per smettere di abbuffarsi e vomitare. In questa fase i genitori potrebbero avere bisogno di un incoraggiamento per lasciar andare la ragazza, restituendole il controllo di sé. È più semplice per i membri della famiglia essere di sostegno e utili se ricevono informazioni sulla natura del disturbo. Fase 2 Nella seconda fase, l’enfasi resta sempre sull’alimentazione regolare, ma il focus è più ampio e affronta gli aspetti relativi alla dieta, la preoccupazione del peso e della forma fisica e pensieri distorti più generali. In seguito, si possono affrontare altri problemi quali la bassa autostima, le difficoltà con la famiglia e i coetanei, l’ansia e il perfezionismo. Un importante obiettivo iniziale è accrescere la comprensione della relazione fra il binge eating e la dieta e spezzarla eliminando la dieta. Cosa caratteristica, le ragazze seguono un insieme rigido di regole dietetiche e quando inevitabilmente non ne rispet374 I distirbi dell’alimentazione tano una perdono completamente il controllo e si abbuffano. In seguito devono ristabilire nuovamente un pattern rigido di alimentazione e digiuno, che rende il binge eating più probabile. Nel tempo, la ragazza viene incoraggiata ad aggiungere gradualmente cibi proibiti al programma di alimentazione e a mangiare in una varietà di situazioni. L’auto-monitoraggio identificherà le situazioni in cui si verifica il binge eating, e si incoraggia l’adolescente ad assumere un orientamento al problem-solving per minimizzare il rischio del binge eating. Il focus principale di questa fase di trattamento è quello di affrontare le preoccupazioni relative alla forma fisica e al peso, che sono una carat