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USO DEI BATTERI PER RIMEDIARE ALL`INQUINAMENTO DA
USO DEI BATTERI PER RIMEDIARE
ALL'INQUINAMENTO DA PETROLIO”
A cura di Valentina IEZZI
A. A. 2014/2015
Premessa
Ripulire il mare dal petrolio e da altri inquinanti: la novità è naturale ed
ecosostenibile ha un nome preciso: batteri.
Il 20 aprile 2010, mentre 9 litri di greggio al secondo fuoriuscivano
dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, alcuni
batteri marini hanno mangiato a sazietà, contribuendo al lavoro di pulizia. Da
recenti studi sono due le specie di batteri marini individuate come efficienti
anti-inquinanti:
i microrganismi della specie Alcanivorax borkumensis, che possiedono degli
enzimi particolari che permettono di spezzare e frammentare gli alcani
presenti nel petrolio;
i microrganismi della specie Oleispira antarctica, più adatti a vivere in
ambienti freddi (attorno ai 5°C), che presentano degli enzimi che funzionano
bene nonostante le basse temperature: grazie a questi, i batteri captano gli
idrocarburi e li inglobano.
Introduzione
C'è chi predilige il dolce, chi ama il salato, chi va pazzo per la birra e
chi ha un debole per il vino rosso: alcuni batteri marini, per nostra fortuna,
sono ghiotti dei sottoprodotti del petrolio. I batteri degradanti petrolio non
sono un'invenzione umana. In realtà, esistono da milioni di anni. L'unica cosa
che è nuova è la quantità di petrolio versata in mare dai disastri petroliferi.
Pertanto, la scienza ha cercato in nuovi modi di accelerare i processi di
degradazione naturale.
Il 24 Marzo 1989, la nave petroliera Exxon Valdez, di proprietà della
Exxon Mobil, si incagliò nella baia di Prince William, in Alaska. Oltre 41
milioni di litri di greggio fuoriuscirono dallo scafo dell'imbarcazione
provocando uno dei disastri ambientali più gravi della nostra storia.
Il 20 aprile del 2010, la Deepwater Horizon, la piattaforma affittata
dalla British Petroleum, esplose nel Golfo del Messico provocando il peggior
disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti, con un riversamento di
petrolio in mare per un totale stimato di 800 milioni di litri.
Questi sono solo un paio dei numerosissimi disastri causati da petrolio
che si possono citare.
Gli scarichi in mare di petrolio dalle navi costituiscono la causa più
documentata delle “maree nere”. Le altre possibili origini possono essere:
1
incidenti in operazioni di perforazione off-shore, oleodotti marini e fluviali,
raffinerie, rifiuti industriali e trasudamento naturale.
Contaminazione da petrolio dei mari e i suoi effetti
Il petrolio greggio è una miscela complessa di diversi idrocarburi
presenti in percentuale molto variabile; i componenti vengono distinti in base
al loro peso e raggruppati in tre grandi categorie: i componenti leggeri, medi e
pesanti.
Una volta sversato, il petrolio greggio viene esposto all’azione di una
serie di fattori meteo-climatici che innescano dei processi chimico-fisici di
degradazione (noti come weathering) che ne vanno a modificare
sensibilmente la composizione.
Infatti, se la composizione del petrolio nei suoi depositi naturali può
rimanere stabile per lungo tempo, la composizione cambia quando il petrolio
viene esposto all’azione dell’acqua, dell’ossigeno, della radiazione solare, dei
microrganismi e di altri fattori. Piccole gocce di petrolio, a seconda delle loro
dimensioni, possono o rimanere in sospensione nella colonna d’acqua o
galleggiare sulla superficie e coalescere con altre particelle per formare degli
strati spessi o dei film sottili di petrolio sulla superficie dell’acqua.
Sotto l’azione delle onde e delle correnti possono formarsi delle
emulsioni. La formazione di un’emulsione aumenta il volume di massa
inquinante, rallenta il processo dispersivo ed aumenta la persistenza.
A seguito di tutti questi processi, può accadere che il petrolio si addensi
o si unisca a particelle di sabbia o solidi sospesi formando aggregati con
densità relativa maggiore dell’acqua marina (1,025) che affondano
depositandosi sul fondo marino.
La radiazione solare a bassa lunghezza d’onda può indurre diverse
reazioni chimiche (ossidazione, decomposizione, polimerizzazione) sulla
superficie illuminata dello strato di petrolio emulsionato con l’acqua.
I prodotti originati da tali reazioni sono molteplici. In soluzione
acquosa, sia che si tratti di petrolio emulsionato in superficie sia di petrolio
depositato sul fondo, molti componenti del petrolio sono biodegradati dai
microrganismi che si nutrono di azoto o fosforo necessari per il loro sviluppo.
Il fenomeno è più accentuato nei mari caldi rispetto ai mari con
temperature più basse. Per stimolare il processo di biodegradazione, alcune
sostanze a base di azoto e fosforo vengono sversate sulle acque inquinate da
petrolio per favorire la crescita e la riproduzione di microrganismi.
Tuttavia, molti componenti del petrolio sono molto resistenti all’attacco
dei microrganismi e pertanto non vengono biodegradati. Generalmente i
processi di dispersione, evaporazione, formazione dell’emulsione e
dissoluzione avvengono immediatamente dopo lo sversamento mentre i
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processi di fotoreazione, sedimentazione e biodegradazione avvengono
successivamente e influenzano fortemente il destino ambientale del greggio
sversato.
Il plancton è la forma di vita più abbondante negli oceani ed è alla base
di numerose catene alimentari, fra cui quella dei cetacei. Alcuni studi hanno
dimostrato effetti tossici e sub-letali del petrolio sul plancton.
Molti sversamenti di petrolio hanno provocato la morte di un elevato
numero di uccelli marini che, trascorrendo lunghi periodi di tempo sulla
superficie del mare o sulle coste, sono molto sensibili agli effetti provocati dal
petrolio. Il contatto del petrolio col piumaggio degli uccelli marini causa
l’inscurimento e l’incollamento delle piume modificandone sia le capacità
isolanti che le capacità di volo. Gli uccelli rischiano così di morire per
ipotermia o per annegamento, perché non più capaci di riprendere il volo o
perché possono diventare facili prede di altri predatori.
Fra
i
mammiferi,
vertebrati
dotati
di
caratteristiche
proprie
che li distinguono da
tutte le altre specie
animali,
vanno
annoverati i mammiferi
marini quali le otarie, i
leoni marini, i delfini, le
foche, i trichechi, i
dugonghi,
ecc.
I
mammiferi marini sono
fig. 1 gabbiano coperto da petrolio
vulnerabili
agli
sversamenti di petrolio a causa della loro natura anfibia e della loro
dipendenza dall’aria. I pesci tendono ad allontanarsi dalle chiazze di petrolio,
tuttavia in baie riparate e poco profonde le uova, le larve e gli avannotti
rischiano un’elevata mortalità in quanto più sensibili al petrolio. D’altro
canto, le specie ittiche allevate all’interno di vasche in mare possono venire
uccise o comunque diventare invendibili perché contaminate.
Batteri: rimedio per l’inquinamento da petrolio nei mari
Fino ad oggi, i prodotti chimici sono stati spesso utilizzati per ripulire i
disastri del petrolio, per rompere l'emulsione olio/acqua, rendendo l'olio più
solubile e rimuovendolo, così, dalla superficie dell'acqua.
Secondo i dati della US Environmental Protection Agency (EPA), sono
stati utilizzati circa 7 milioni di litri di queste sostanze chimiche per
combattere l'inquinamento da petrolio nel Golfo del Messico. Alcuni dei più
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noti di questi erano disperdenti con il marchio Corexit (i disperdenti riducono
la tensione superficiale dell’interfaccia acqua/petrolio favorendo la
disgregazione delle particelle di petrolio in parti sempre più piccole
ostacolandone la successiva riagglomerazione. In tal modo viene favorita la
naturale degradazione per mezzo del moto ondoso del mare o di agenti
microbiologici). Queste sostanze sono state pesantemente criticate però a
causa dei loro effetti collaterali sull'uomo e sull'ambiente. Nel contesto del
progetto europeo BACSIN, scienziati provenienti da diversi paesi hanno
quindi indagato alternative.
Una équipe di ricercatori europei ha decodificato il genoma di un
batterio di estrema importanza in grado di degradare il petrolio, l'Alcanivorax
borkumensis.
L’A. borkumensis è un insolito γproteobatterio marino a forma di
bastoncello in grado di crescere su
uno spettro molto ristretto di
substrati, prevalentemente alcani.
I batteri del genere Alcanivorax
appartengono ad un gruppo di
batteri marini idrocarburoclastici a
crescita lenta (HCB, “clastic” dalla
parola Greca “klastes“, che significa
“rottura”) comprendente generi di
batteri
come
Cycloclasticus,
Marinobacter,
Neptunomonas,
Oleiphilus,
Oleispira
e
Fig 2. Alcanivorax borkumensis
Thalassolituus,
che
preferenzialmente usano idrocarburi alifatici e aromatici derivati da petrolio come
fonti di carbonio e di energia.
Sin dalla sua prima descrizione nel 1998, l’A. borkumensis, è stato
rilevato in molti habitat marini e costieri in tutto il mondo, tra cui il Mar
Mediterraneo, l'Oceano Pacifico, i Mari Giapponese e Cinese e il Mar
Glaciale Artico. Gli scienziati auspicano che questa loro nuova cognizione
della biochimica del microrganismo sfoci nello sviluppo di metodi nuovi,
efficaci e rispettosi dell'ambiente da utilizzare per ripulire dall’inquinamento
le acque contaminate dal petrolio.
Non è solito incontrarlo nelle acque pulite, ma nelle acque contaminate
da petrolio questo batterio costituisce una rilevante percentuale della
comunità microbica responsabile dei processi di degradazione del petrolio. I
ricercatori hanno sequenziato il genoma di questo interessante organismo e
hanno scoperto cosa lo rende così speciale. Sono già noti alcuni batteri marini
che attaccano il petrolio, tuttavia, da diversi studi è emerso che l'Alcanivorax
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è uno dei più importanti a livello mondiale. E dopo averne sequenziato il
genoma sappiamo anche perché: questi batteri producono un intero arsenale di
enzimi molto efficaci nel processo di degradazione del petrolio, quali l'alcano
idrossilasi, la rubredoxina e la rubredoxina reduttasi. La principale
caratteristica distintiva dell'A. borkumensis è la sua capacità di prosperare e
crescere quasi esclusivamente negli idrocarburi che si trovano nel petrolio
greggio.
Inoltre, la sua capacità di degradare una gamma estremamente ampia di
idrocarburi gli conferisce un vantaggio competitivo rispetto ad altri microbi
che aggrediscono il petrolio. L'A. borkumensis produce anche biosurfattanti
che contribuiscono ad emulsionare il petrolio e aumentano pertanto il tasso di
degradazione (facilitando l'emulsione di alcani, aumentano la biodisponibilità
e aumentano la velocità di degradazione di questi substrati organici
idrofobici).
L'ambiente marino è spesso povero di nutrienti e di fatto la loro
carenza, in particolare la mancanza di azoto e fosforo, non di rado limita la
degradazione di componenti del petrolio greggio altrimenti biodegradabili.
Il genoma dell'A. borkumensis fornisce tuttavia una serie di sistemi per
l'assorbimento di questi scarsi nutrienti, offrendo un ulteriore vantaggio
rispetto ad altri microbi in acque contaminate dal petrolio e con una presenza
modesta di nutrienti.
Il successo di un batterio in ambiente marino generalmente oligotrofico
dipende da un assorbimento efficace di elementi quali N, P, S e vari
oligoelementi quali Fe, Zn, Co, Mg, Mn e Mo. Infine, il genoma di questo
affascinante batterio garantisce che l'organismo in questione sia in grado di
far fronte alle pressioni del suo ambiente. Esso vive negli strati superiori
dell'oceano ed è dotato di alcuni geni che lo proteggono dagli effetti dannosi
delle radiazioni ultraviolette.
Ha altresì la capacità di attivare processi di decontaminazione di
composti quali l'arseniato, il mercurio, il rame e altri metalli pesanti.
Considerate nel complesso, queste caratteristiche hanno reso l'A.
borkumensis una specie di straordinario successo, reperibile nelle acque
marine e costiere di tutto il mondo, comprese quelle del Mediterraneo, del
Pacifico e del Mar Artico.
L'ubiquità dell'A. borkumensis rispecchia la sua capacità estremamente
marcata di adattarsi alle diverse condizioni che si trova ad affrontare in vari
ambienti, sia inquinati sia non contaminati. I ricercatori hanno ora in
programma di studiare il comportamento del batterio in una serie di situazioni
caratterizzate dalla presenza di idrocarburi al fine di migliorare la conoscenza
della degradazione marina di queste sostanze. Secondo gli studiosi, i risultati
del loro lavoro possono trovare applicazione soprattutto nell'ambito
dell'attenuazione dei danni causati dai versamenti di petrolio, ma tali
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acquisizioni potrebbero anche rivelarsi utili nella ricerca nel campo delle
malattie infettive.
I batteri che degradano il petrolio formano i cosiddetti biofilm
sull'interfaccia tra petrolio e acqua. Poiché i biofilm microbici sono il
principale ambiente dei microbi benefici e di quelli portatori di malattie nel
corpo umano, una comprensione più approfondita di questi processi
contribuirà senza dubbio a migliorare la salute umana e a monitorare le
infezioni microbiche. Alcuni appartengono alla famiglia dei Vibrio, che
annovera tra le sue fila anche le specie responsabili della trasmissione di
colera e altre infezioni. Il rischio più grave per l'uomo, secondo gli esperti,
potrebbe derivare dall'ingestione di pesci o molluschi che hanno contratto
un'infezione da Vibrio.
Le proprietà dei composti idrocarburici dipendono dalla temperatura
ambientale. Alcani a catena corta diventano meno volatili e più idrosolubili a
basse temperature, mentre i composti a catena lunga precipitano in condizioni
di freddo come cere, rendendoli, rispettivamente, biodisponibili e inaccessibili
ai microbi. Tale comportamento alle basse temperature riflette, ovviamente, la
costituzione di specifiche comunità microbiche marine basate sul petrolio, a
queste temperature che sono in qualche modo diverse da quelle osservate in
un clima temperato.
Il più importante habitat permanentemente freddo è l'oceano, poiché la
temperatura di oltre il 90% del volume dell'acqua di mare è inferiore a 5°C. I
generi che sono tipicamente ben rappresentati nel freddo, e nei siti
contaminati da petrolio sono Acinetobacter, Arthrobacter, Mycobacterium,
Pseudomonas, Rhodococcus e Sphingomonas, molti dei quali possono
crescere esclusivamente su composti idrocarburici e sono stati
precedentemente caratterizzati come batteri in grado di degradare il petrolio di
origine terrestre.
Sebbene il ruolo di questi microrganismi sia evidente nel processo della
degradazione del petrolio negli ambienti marini freddi, ci sono anche batteri
marini idrocarburo-clastici coinvolti in questo processo.
Oleispira antarctica è un batterio Gram negativo, vibroide a cellule a spirale,
lungo 2-5 μm, largo 0,4-0,8 μm, la sua motilità è dovuta ad un unico, lungo
flagello (>5 μm) inserito polarmente. E' chemio eterotrofo con una forte
preferenza per substrati di carbonio alifatici; aerobico.
E’ capace di crescere in condizioni anaerobiche mediante la riduzione del
nitrato. Possiede gli enzimi ossidasi e catalasi. Ammoniaca e nitrati possono
servire come fonti di azoto. La gamma di substrati che sostengono la crescita
è limitata agli idrocarburi alifatici, glicoli polietilenici (Tween) e acidi grassi
volatili.
Il suo metabolismo, che non è in grado di ottenere carbonio da una fonte
diversa da un idrocarburo, ha una elevata affinità per gli ioni metallici, che
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sono essenziali per la crescita e per mantenere l’attività delle proteine. La sua
origine marina lo rende strettamente dipendente dalla presenza di sodio,
mostrando una crescita ottimale in presenza di 3-5% (peso / volume) di NaCl.
Un’altra capacità fondamentale del batterio è la possibilità di produrre
elevate concentrazioni di antigelo naturale e modificare la sua membrana
cellulare per resistere a condizioni di elevata salinità e bassa temperatura. La
crescita è psicrofilica, con una crescita ottimale ad una temperatura di 2-4°C.
La crescita dei ceppi antartici a diverse temperature ha influenzato il livello di
acidi grassi insaturi (55 % a 2°C e fino al 68% a 4°C). Tali modifiche
temperatura-dipendenti in proporzioni di acidi grassi saturi/insaturi sono
indicative dell'adattamento omeostatico della membrana cellulare in termini
della sua viscosità.
Inoltre, il batterio produce una proteina la cui struttura a basse
temperature favorisce il corretto funzionamento di altre proteine necessarie
per la ripartizione degli idrocarburi. Infine, la struttura della proteina è
caricata pesantemente sulla superficie, che favorisce un’adeguata attività
catalitica a bassa temperatura. I maggiori acidi grassi presenti a livello
cellulare sono gli acidi grassi monoinsaturi.
Immagine 3. Oleispira antarctica.
Prospettive future
La logica applicazione dei batteri idrocarburo-clastici potrebbe dunque
essere la bioremediation, ovvero il biorisanamento attraverso quell’insieme di
tecnologie di depurazione del suolo e del mare che utilizzano microorganismi
naturali o ricombinanti per abbattere sostanze tossiche e pericolose attraverso
processi aerobici e anaerobici.
Essa può essere effettuata stimolando la crescita dei ceppi autoctoni
mediante l’aggiunta di nutrienti (vista la loro diffusa distribuzione), o
aggiungendo biomassa arricchita per incrementare la popolazione batterica
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che degrada gli idrocarburi.
Le prospettive future sono basate sulle biotecnologie, ad esempio
recentemente sono stati condotti studi sull’opportunità di modificare
geneticamente i BIC (batteri idrocarburo-clastici) al fine di rendere più
efficienti i processi di biodegradazione degli idrocarburi nell’ambiente
naturale.
Un altro importante aspetto da considerare è la complessità delle componenti
del petrolio, gran parte delle quali seleziona la crescita di uno specifico
microrganismo in grado di degradarle. È dunque auspicabile l’uso, sul campo,
di un consorzio di microrganismi ciascuno dei quali sia specializzato nella
degradazione di specifiche componenti. Le recenti metodiche high-throughput
sono basate sullo studio dell’intero genoma (metagenomica, microarray),
l’intero estratto proteico (proteomica) o l’insieme dei metaboliti
(metabolomica) di un organismo o di una comunità microbica naturale. Tali
metodiche tendono ad analizzare “l’insieme” al fine di individuare geni,
proteine, metaboliti o microrganismi che presentino particolari attività
correlate a uno stato fisiologico o a uno stress ambientale. L’applicazione di
tali metodiche, in particolare del microarray, a un ambiente contaminato
consentirebbe di individuare i microrganismi attivi con un metabolismo
selettivamente orientato alla degradazione degli idrocarburi.
Conclusioni
Finora la lotta contro l’inquinamento dagli sversamenti di petrolio è
stata condotta usando ingenti quantità di agenti chimici. Ma per quanto
efficaci, questi agenti causano anche danni sia all’ambiente sia alla salute.
Un'ampia varietà di microorganismi sono noti per degradare gli
idrocarburi del petrolio, ad esempio, ceppi di Pseudomonas e di altri batteri.
Ma recenti studi hanno dimostrato che sono due le specie di batteri marini
individuate come efficienti anti-inquinanti: Alcanivorax borkumensis e
Oleispira antarctica. L’utilizzo di batteri, anti-inquinanti naturali, sarebbe
quindi molto più pulito ed ecosostenibile.
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http://www.televideo.rai.it/televideo/pub/articolo.jsp?id=15701
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http://www.focus.it/cultura/07062010-1720-888-batteri-spazzini-ripulisconoil-golfo-del-messico
http://www.rinnovabili.it/ambiente/petrolio-batterio-inquinamentoidrocarburi-oleispira-589/
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