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Perché i poeti - Fondazione Gerardino Romano

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Perché i poeti - Fondazione Gerardino Romano
1. Perché i poeti?
Perché i poeti? È la domanda che si poneva il 29 dicembre del 1926 Martin Heidegger davanti ad una cerchia
ristretta di persone riunitesi nel ventesimo anniversario della morte di Rainer Maria Rilke, poeta straordinario, oggi
rimosso dalla cultura italiana, autore delle Elegie duinesi e
dei Sonetti ad Orfeo.
A sua volta il solo apparentemente oscuro pensatore della Foresta nera citava l’elegia Pane e vino di Friedrich
Hölderlin: «E perché i poeti nel tempo della povertà?» O,
potremmo tradurre, del “bisogno”. Il grande poeta folle e il
pensatore ci pongono davanti la catastrofe del tempo che
ancora viviamo, tempo della povertà:
«La notte del mondo distende le sue tenebre […]. La
mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che
raccolga, in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le
cose […]. A causa di questa mancanza viene meno al mondo ogni fondamento che fondi […]. L’epoca a cui manca il
fondamento pende nell’abisso. Posto che, in genere, a
quest’epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà
aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo,
cioè se si capovolge a partire dall’abisso. Nell’epoca della
notte del mondo l’abisso deve esser riconosciuto e subíto
fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi
siano coloro che arrivano all’abisso».
Perché i poeti – Fondazione Gerardino Romano, Telese, 24 novembre 2010
2. I poeti in cammino verso l’abisso
Ebbene per Heidegger il compito di arrivare all’abisso
per consentirne, eventualmente, un suo capovolgimento è il
compito dei poeti nel tempo della povertà. I poeti sono coloro che possono rintracciare la direzione della Svolta.
Iniziando un lavoro di contaminazione che chiunque di
voi potrà ovviamente contestarmi dal punto di vista ermeneutico o filologico, prendo ad emblema sommo di tali poeti del tempo della povertà, per così dire, un interlocutore
che Heidegger disperatamente cercò, intuendone la profondità abissale, e che a lui, per motivi biografici che entrano
nella nostra riflessione, si sottrasse. Sto parlando di Paul
Celan, poeta ebreo-rumeno ma di madrelingua tedesco, il
cui padre morì di tifo e la madre venne fucilata dai nazisti
nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina.
Celan era naturalmente diffidente nei confronti di un pensatore che aveva aderito negli anni Trenta al nazismo, crimen
imperdonabile, se è vero che solo la morte per acqua nella
Senna potrà pacificarlo con tutti i morti del suo popolo.
Eppure Celan sembra “rispondere” all’appello contenuto
nelle riflessioni di Heidegger seguite ad Essere e Tempo.
Sembra essere il poeta che, elevando ad esperienza universale dell’attraversamento “orfico” della morte cui siamo
chiamati la Shoah, ha raggiunto quell’abisso che caratterizza il tempo della povertà, degli Dei fuggiti: «Sia lode a te,
Nessuno / per amor tuo vogliamo / fiorire. / Incontro / a te»,
salmodiava a questo Dio/Nulla. In Argumentum e silentio è
descritto il nostro tempo, il tempo della povertà. L’abisso
che il poeta raggiunge per primo, ma anche – questo è il
punto spesso frainteso da esegeti del poeta rumeno – la “di2
Perché i poeti – Fondazione Gerardino Romano, Telese, 24 novembre 2010
rezione della svolta”. Celan è un “frontaliere” o, se volete,
colui che raggiunge il fondo dell’abisso, della notte, del silenzio, per avviare, come il Dante nel budello infernale, una
risalita nella direzione opposta però.
3. L’insurrezione contro la morte
Noi siamo nell’estrema desolazione, quella cantata nel
1922 da T.S. Eliot in The Waste Land, altro picco della poesia cui alludo. «Riuscirò a porre ordine infine nelle mie
terre?», si chiede sconsolato il re-pescatore che chiude il
poemetto. Riusciremo a porre ordine nella nostra terra? Solo se avremo il coraggio di mettere in discussione l’intera
impalcatura su cui si regge la nostra civiltà, solo se riusciremo ad attraversare la morte e ad uscirne (orficamente?)
rinnovati. D’altronde la “vita nuova” è aspirazione perenne
dei poeti… La poesia diventa, dunque, luongo insurrezione
e resurrezionale: l’insurrezione è quella contro la morte. «E
la morte non avrà più dominio» canta il bardo gallese
Dylan Thomas in una poesia memorabile… Ma il poeta
che più ha reclamato questo scontro agonico/agonale con la
Morte è un poeta francese, dimenticato o mai passato nella
cultura italiana, René Char, pur tradotto negli anni Sessanta da giganti come Sereni e Caproni, che a differenza di Celan commerciò con Heidegger, lui il mitico Capitano Alexandre del “Maquis” francese, della Resistenza, perché intuì la carica rivoluzionaria del suo pensiero.
Vi pongo di fronte alla radicalità della sua poesia insorgente:
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Perché i poeti – Fondazione Gerardino Romano, Telese, 24 novembre 2010
«I poemi sono pezzi d’esistenza incorrotti che lanciamo
sul viso ripugnante della morte, ma tanto in alto che, rimbalzando su di essa, possano cadere nel mondo designatario dell’unità».
«Poesia, singolare ascensione degli uomini, che il sole
dei morti non può offuscare in un infinito perfetto e derisorio».
«Fare poesia è prendere possesso d’un aldilà nuziale
che si trova ben dentro questa vita, ad essa strettamente
congiunto, e tuttavia nella estrema vicinanza delle urne
mortali».
«La vitalità del poeta non è una vitalità dell’aldilà ma
un punto brillantato attuale di presenze trascendenti e di
peregrinanti tempeste».
«Avendo la poesia lo scopo di renderci sovrani personalizzandoci, noi attingiamo, grazie al poema, la pienezza di
quanto era appena abbozzato o deformato dalle millanterie
dell’individuo».
«Il poeta, traducendo l’intenzione in atto ispirato, convertendo un ciclo di travagli in carico di resurrezione, costringe l’oasi del freddo a trapassare per ogni poro i vetri
dello scoramento e crea il prisma, idra dello sforzo, del
meraviglioso, del rigore e del diluvio, con le tue labbra per
saggezza e il mio sangue come predella».
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Perché i poeti – Fondazione Gerardino Romano, Telese, 24 novembre 2010
«La poesia sarà un “canto della partenza”. Poesia e azione, vasi ostinatamente comunicanti. La poesia punta la
freccia che implica l’arco azione…»
La poesia è sfida alla morte. La poesia è ricerca d’un al
di là nuziale (in cui cioè l’ego si coniuga, quindi abbatte la
sua dimensione egoica, egocentrata, egoista, oltre le “millanterie dell’individuo”) che però non è la trascendenza allusa dalle religioni, il “mondo vero” di cui parla Nietzsche,
ma si trova ben dentro questa vita, nella perfetta “fedeltà alla terra”. La poesia è canto della partenza. Da dove? Da
quel luogo oscuro, da quell’abisso che Celan aveva esplorato, dalla luogo più desolato che noi oggi, inconsapevolmente, abitiamo. Ma non un canto d’addio, di rinunzia. Perché
essa, la poesia, nutrirà l’azione, l’azione di trasformazione
del mondo. Azione comune, vissuta nella condivisione tra
uomini e donne in carne ed ossa.
Vedete, non è casuale che Char usi l’immagine
dell’arco. In lui rinasce, potremmo dire secondo l’auspicio
di Heidegger, quel pensiero-poetante che già gli albori della
Grecia avevano conosciuto. Arco e lira… Eraclito
l’oscuro, carissimo a Char, che ne riprende altre cose: la
scrittura evocativa che fonde quelle che noi convenzionalmente chiamiamo poesia e prosa ma anche l’idea epifanica
della verità. Noi occidentale per attraversare la morte dobbiamo liberarci dal giogo platonico-cristiano, che la scienza
moderna eredita (che tradisce il messaggio gesuano) del
possesso stabile. Noi non siamo padroni e nulla che sia stabilmente è. Dobbiamo accettare l’evento, l’accadere che ci
viene dato e che noi possiamo solo accogliere: «Una chiave
sarà la mia dimora» dice Char. E ancora: «Se abitiamo un
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Perché i poeti – Fondazione Gerardino Romano, Telese, 24 novembre 2010
lampo, è il cuore dell’eterno». Noi, per dirla con Marco
Guzzi, mio maestro (ai cui libri, L’uomo nascente e La profezia dei poeti devo molte suggestioni di questa serata), apparteniamo soltanto a un lampo che scaturisce ogni volta a
monte di noi stessi, nel nostro Principio». Non ci sono possessi stabili: di verità, di certezze, come Platone sognava, i
filosofi cristiani predicavano, i sacerdoti della tecnoscienza
ripetono ogni giorno.
4. Il dominio tecnico della terra
E dove ha condotto questa “certezza”? Torniamo ad
Heidegger. Nella conferenza da cui abbiamo preso le mosse
scrive:
«La Natura è posta innanzi all’uomo dal rappresentare
(cioè dal porre-innanzi) dell’uomo. L’uomo pone il mondo
innanzi a sé come l’“oggettivo” nel suo insieme, e pone se
stesso dinanzi la mondo. L’uomo pone il mondo alla propria mercé e dispone della Natura per sé […] L’uomo dispone la Natura affinché essa soddisfi alle sue rappresentazioni oggettive. L’uomo pone a propria disposizione, producendole, nuove cose che gli occorrono. L’uomo traspone
le cose moleste. L’uomo si oppone alle cose quando ostacolano i suoi propositi. L’uomo espone le cose quando vuol
promuoverne il commercio e il consumo […] L’uomo si pone di fronte al mondo come di fronte a un oggetto […].
L’uomo moderno si rivela tale da imporsi – in qualsiasi relazione a qualsiasi cosa, e, quindi, anche a se stesso – come
il produttore incontrollato che ha organizzato la propria
rivolta a dominio universale […] La Terra e la sua atmo6
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sfera divengono materie prime. L’uomo stesso diviene materiale umano, impiegato secondo piani prestabiliti […]. La
scienza moderna e lo stato totalitario, in quanto conseguenze necessarie dell’essenza della tecnica, sono per ciò
stesso fenomeni concomitanti. Lo stesso dicasi delle forme e
dei mezzi escogitati per l’organizzazione dell’opinione
pubblica mondiale e delle convinzioni quotidiane degli uomini».
5. Lo sguardo poetico del Nascente
Se questa è la condizione desertificata non degli anni
Venti ma dell’epoca ancora nostra ci sa per quanto, la poesia cosa ha da obiettare? Qual è la sua, e cito volutamente il
Camus amico di Char, “rivolta”? In Non essendo che uomini Dylan Thomas dimostra quale sia la conquista della poesia. Il poeta conquista quello “sguardo sovrano” che, ossimoricamente, è – come nel re auspicato da Tao - sguardo
bambino, capace di stupore di fronte al mondo lasciato essere ciò che è.
Nel tempo della povertà il poeta raggiunge l’abisso, attraversa la morte, avendone in dono lo sguardo (o l’ascolto)
purificato, che lascia di nuovo essere alberi e animali ciò
che sono, senza “oggettivarli” (cioè guardarli e trattarli come oggetti per la sua volontà di potenza). Il poeta è
l’incarnazione di quella “grazia” per cui, nel mondo dominato dalla necessità e dalla forza, come insegna la Weil, entra il miracolo del dono e del perdono, dell’amore e della
bellezza.
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6. La “vera presenza” della poesia
Ma perché proprio la poesia ha questo ruolo assolutamente decisivo? Qual è la qua qualità specifica che rende
possibile tale miracolo? Per arrivare alla nostra conclusione
ci aiutano le parole dell’unico poeta vivente che citerò stasera, la cui opera, incredibilmente, è da pochi mesi disponibile in traduzione italiana. Si tratta di Yves Bonnefoy, raffinatissimo critico e amante della grande arte italiana. Ebbene, Bonnefoy ne La sfida occidentale della poesia afferma che il rischio continuo cui è esposto l’uomo - nel processo di concettualizzazione cui pure si deve la nascita della
civiltà – è che le “cose” svaniscano.
«Nel momento in cui un aspetto è stato attinto da una
cosa o da un essere, questi ultimi avevano una loro realtà
in seno al mondo esistenziale […] Ecco cos’era la cosa da
cui il concetto ha attinto un aspetto: una realtà che mai si
ripeterà. Chiamerò questo modo di essere la presenza […]
Il concetto […] non ha invece né inizio né fine, né spazio, e
non sa nulla del caso, non ne godrà né lo patirà. Quella rosa è vicina al vecchio muro, mentre il concetto di rosa è in
uno spazio mentale, costituito da relazioni ovviamente e totalmente pure quanto una formula algebrica. E da questa
scissione tra concetto e presenza consegue che il discorso
concettuale non potrà mai capire dall’interno quella realtà
esistenziale che pure è la nostra».
La poesia, dunque, è rimembranza (termine non casualmente leopardiano ripreso da Bonnefoy) nel discorso della
presenza stessa che quel discorso annulla. Ma come è pos8
Perché i poeti – Fondazione Gerardino Romano, Telese, 24 novembre 2010
sibile tale paradosso? Perché alla poesia è possibile, utilizzando gli stessi mattoni del discorso concettuale, cioè la parole, costruire un edificio radicalmente diverso? Perché nella poesia il suono, la dimensione sonora hanno una rilevanza decisiva. Normalmente l’aspetto sonoro, nell’uso quotidiano, ad esempio, si perde. Nella poesia no. Il suono garantisce la presenza (la “vera presenza”, lasciatemi citare il
mio amato Steiner) della cosa.
«Basta sentire il suono, e la memoria della presenza ritorna alla mente, che si rivolge allora verso la suddetta cosa con uno sguardo nuovo[…]. Il suono della parola preserva nel linguaggio quella stessa realtà che il linguaggio
dissolve […] È sufficiente che [la poesia] utilizzi le parole
a partire dai suoni, e i concetti verranno messi in pericolo,
la loro autorevolezza sarà indebolita […]. Contatto è ritrovato con la presenza. Ecco perché […] la presenza piena di
un oggetto o di una persona, è la sfida […] della poesia in
una società che se ne dimentica, che si vota a rappresentazioni».
Nella società dello spettacolo, nella società dei simulacri, la poesia della vera presenza è un atto insorgente, una
rivolta permanente:
«Il poeta, conservatore degli infiniti volti di ciò che vive» (René Char).
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