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“NE` DIO NE` STATO...NE` SERVI NE` PADRONI “NE` DIO NE
“NE’ DIO NE’ STATO...NE’ SERVI NE’ PADRONI ...LIBERI DAI DOGMI, ERETICI DA SEMPRE!” I Canti Anarchici e Anticlericali A cura di CONTROcanto Pisano www.controcantopisano.it …Né dio Né stato… Pietro Gori: LO STATO I governanti fanno credere, e il pregiudizio è antico, che il governo sia strumento di civiltà e di progresso per un popolo. Ma il mondo ha camminato sempre fin qui non con l’aiuto dei governi, ma loro malgrado, e trovando in essi l’ostacolo continuo diretto ed indiretto al suo fatale andare. Quante volte i più gloriosi rinnovatori nella scienza, nell’arte, nella politica non si trovarono sbarrato il cammino, oltre cha dai pregiudizi e dall’ignoranza delle masse, anche e soprattutto dai bavagli e dalle persecuzioni governative? Quando il potere legislativo ed il governo accettano e soddisfano sotto forma di legge o di decreto qualche nuova domanda sorta dalla coscienza pubblica, ciò è sempre in seguito a reclami innumerevoli, ad agitazioni straordinarie, e sacrifici non indifferenti del popolo. I parti curiosi e bizzarri del genio legislativo riescono a gabellare per diritto il privilegio, per ordine il brigantaggio collettivo,per eroismo il fratricidio della guerra… Ora noi che tutti questi mali vogliamo combattere per abbattere tutto ciò che ostacola il trionfo della giustizia, noi siamo chiamati fautori del disordine. Ma se le parole conservano il loro significato, non gli anarchici possono essere chiamati amici del disordine. In questo periodo storico di sfacimento e di transizione, fra una società che muore e una che nasce, gli odierni rivoluzionari sono veri elementi d’ordine. Essi hanno negli occhi fosforescenti la visione delle idealità sublimi che fanno palpitare il cuore dell’umanità, che l’avviano sull’infinito ascendente cammino della storia… questi militi dell’avvenire sognano le primavere fulgenti della famiglia umana, soddisfatta nella uguaglianza, e ingentilita dalla solidarietà e dalla pace dei cuori. (da Il vostro ordine e il nostro disordine, conferenza tenuta il 15 marzo 1896 a San Francisco) Storicamente il momento di massima contrapposizione fra il popolo italiano e la gerarchia della Chiesa Cattolica è stato il Risorgimento, quando lo Stato Pontificio - spesso paradossalmente sostenuto da potenze straniere come la Francia per motivi di politica estera – si oppose fino all’ultimo alla formazione di uno Stato italiano unitario. Il Risorgimento fece un uso massiccio di innovativi mezzi di propaganda politica. Fra essi la canzone popolare, insieme a tutta la variegata tradizione orale e musicale del nostro Paese, ebbe un ruolo di assoluta preminenza. Bisogna comunque ricordare che il Risorgimento coinvolse solo la parte, assai minoritaria in realtà, di popolo che viveva nelle città dove si erano appena avviati quei processi di industrializzazione e di trasferimento di popolazione dalle campagne ai centri urbani che giungeranno a completo compimento solo ben 100 anni dopo. E che allora essere popolari e rivoluzionari significava essere per la Repubblica d’Italia come lo erano Garibaldi e Mazzini, il primo intellettuale a porsi il problema della fondazione di una musica popolare patriottica. Le canzoni popolari di questo periodo sono quasi tutte intrise di un patriottismo violento e beffardo che richiamano il grido garibaldino “O Roma O morte” (che poi riecheggerà nell’anarchico “O libertà O morte”, e sarà anche ripreso in seguito dalla propaganda fascista). Pio IX è il grande bersaglio della polemica violenta, tanto odiato che l’imprecazione contro la sua persona è rimasta nel gergo popolare fin quasi ai giorni nostri. Dal 1849 al 1870 Roma capitale è il grande sogno dei patrioti italiani: le loro parole, le parole delle canzoni, non sono ancora anticlericali, non sono contro la “fede”, ma contro il “papa-re”. Sono queste tutte canzoni di cronaca, con il gusto dello sberleffo e del racconto delle battaglie o delle gesta repressive del Papa. Ma appena la breccia di Porta Pia diventa storia ecco affacciarsi, nei caratteristici Contrasti Popolari, i primi segni di maturità politica: il priore freme alla vista del tricolore e minaccia inquisizioni e inferno mentre il suo oppositore si richiama al Cristo e alla sua povertà. Questi Contrasti, numerosi in tutta la musica popolare e quindi anche in quella anarchica e anticlericale, sono segno dell’approdo popolare alla polemica politica e anticlericale e sono documenti tra i più importanti della cultura delle classi subalterne. Le prime due canzoni che proponiamo ci ricordano il primo, rumoroso scontro fra l’Italia e lo Stato Pontificio, con Pio IX chiamato a farne particolarmente le spese, in A Roma A Roma. Interessante notare come nella seconda canzone Se il Papa è andato via la polemica anti papalina si trasformi subito in una polemica antiautoritaria contro ogni tipo di dittatore e in una rivendicazione di sovranità popolare intrisa di richiami alla fratellanza universale di origine illuministica che poi si innesterà nella cultura anarchica e internazionalista. E a Roma a Roma …ci sta un pap(p)a … È una canzone anticlericale garibaldina dai toni molto forti e accesi, scritta e musicata da anonimo. Il canto è composito, formato da strofe di diversa origine, non databile con precisione ma probabilmente risalente al periodo 1867-69. Nell'alto novarese divenne quasi l'inno ufficiale delle celebrazioni del XX settembre da parte di repubblicani, socialisti e liberali fino ai primi anni del Novecento. Ma anche successivamente mantenne una certa popolarità, testimoniata dal fatto che entrò a far parte del repertorio resistenziale delle formazioni garibaldine della zona. Per comprendere la forte carica antipapale del testo, dobbiamo sempre ricordarci che quella era l’epoca in cui i patrioti italiani andavano a morire per Roma capitale e che durante il pontificato di Pio IX vennero eseguite numerose condanne a morte di 'rivoluzionari' che si opponevano al potere temporale della Chiesa. Pio IX, che fu responsabile anche di gravi atti tesi a giustificare le persecuzioni contro gli ebrei come ad es. la canonizzazione dell’inquisitore spagnolo Pietro d’Arbués, veniva usualmente apostrofato con epiteti dissacranti come ‘pappa’, abbreviativo di ‘pappone’, cioè di uno che mangia molto quasi sempre alle spalle degli altri come chi sfrutta le prostitute (pappone in romanesco significa appunto protettore/sfruttatore di prostitute). Rimane nella storia la definizione che di lui diede Garibaldi in un suo focoso discorso alla Camera dei Deputati: “Quel metro cubo di letame”. E a Roma a Roma ci sta un papa che di soprannome si chiama Pio Nono Lo butteremo giù dal trono dei papi in Roma non ne vogliamo più (2 vv.) Prima in San Pietro e poi in San Paolo e le lor teste vogliamo far saltar E in piazza d'armi la ghigliottina e le lor teste vogliamo far saltar (2 vv.) E a Roma a Roma suonavan le campane piangevan le puttane gh'è mort al puttanè Lo butteremo in una pignatta o brutta vacca buon brodo ci darà (2 vv.) Chi siete voi? Noi siamo piemontesi Voi siete vili barbari e assassini No! Sì! Siam valorosi garibaldini che anche Roma vogliamo liberar (2 vv.) Se il Papa è andato via Si ipotizza che l'autore del canto, intonato a porta San Pancrazio dai repubblicani che difendevano Roma nel 1849, sia Goffredo Mameli, lo stesso autore dell'inno libertario "Fratelli d'Italia". Quanto meno si può considerare certo che il canto rappresenta un arrangiamento di una composizione poetica - quasi esattamente con le stesse parole che il Mameli, poco prima della morte nella difesa della Repubblica Romana, aveva inserito in un progetto di pubblicazione delle proprie opere letterarie. La Repubblica Romana fu un'esperienza molto significativa nella storia dell'unificazione italiana e nella definizione dei caratteri costituzionali e dei diritti civili della Repubblica d’Italia che sorse dopo la Resistenza: l’illuministico anelito alla sovranità popolare, alla fratellanza e solidarietà in contrapposizione alla tirannide di papi e re è impresso in queste strofe. Se il Papa è andato via buon viaggio e così sia buon viaggio e così sia Non morirem d'affanno perché fuggì un tiranno perché fuggì un tiranno perché si ruppe il canapo che ci legava al pie' perché si ruppe il canapo che ci legava al pie' Viva l'Italia e il popolo e il Papa che va via e il Papa che va via Addio, Sacra Corona Finí la Monarchia Finí la Monarchia Or ch'é sovrano il Popolo Mai piú ritorni un re. Or ch'é sovrano il Popolo Mai piú ritorni un re. O popoli fratelli Oppressi da mill’anni Oppressi da mill’anni Buttate giù i cancelli Scacciate i re tiranni Scacciate i re tiranni Mai più sui troni siedano Imperatori o re Mai più sui troni siedano Imperatori o re …Né servi Né padroni… Pietro Gori: LIBERTÀ ED EGUAGLIANZA La soluzione anarchica del problema della libertà presuppone una soluzione socialista del problema della proprietà. Ecco perché gli anarchici sono socialisti. La prima ribellione contro le iniquità sociali è quella impulsiva del cuore o del bisogno; poi viene la logica austera e fredda, che risalendo alle cause profonde degli avvenimenti umani, critica, demolisce e combatte serenamente – senza odio e senza paura. Non è dogma prestabilito, questa fede nell’avvenire dell’umanità; non è un teorema arido di formule algebriche. È poesia e scienza ad un tempo. È certezza matematica, che ha la sua genesi nel cuore e la sua vitalità nel cervello. Ma nel socialismo, che è la base economica della futura società, devono essere praticamente conciliati i due grandi principi della uguaglianza e della libertà. Donde l’ardito e sì mal compreso concetto dell’anarchia: libertà delle libertà. L’anarchia non è, come il socialismo autoritario, l’umanità che soffoca l’uomo. Non è, come il disordine borghese, l’uomo che calpesta l’umanità. Ma riassume l’ideale d’uno spontaneo accordo delle volontà e delle sovranità individuali nel godimento del benessere, creato dal lavoro di tutti. Senza sfruttamento: ecco l’idealità economica; senza coazione: ecco l’idealità politica del socialismo vero. Lungi, dunque, dall’essere contraddittori, i due termini – socialismo ed anarchia – s’integrano e si completano a vicenda. Immaginate una società in cui tutti i cittadini, liberamente federati in gruppi, associazioni, corporazioni di professione, arte o mestiere, sieno comproprietari di tutto: terre, miniere, opifici, case, macchine,strumenti di lavoro, mezzi di scambio e di produzione; immaginate che tutti codesti uomini, associati da una evidente armonia d’interessi, amministrino socialmente, senza governanti, la cosa pubblica, godendo in comune dei vantaggi, ed in comune lavorando ad aumentare il benessere collettivo, ed avrete l’anarchia ideale. È utopia? (da Pietro Gori - La questione sociale e gli anarchici) La fine dell’800 e il primo decennio del ‘900 vedono gli ideali anarchici e socialisti diffondersi e prendere piede. Assieme alla grande miseria e ai clamorosi scandali dei governi liberali, la Chiesa Cattolica, con la sua presenza capillare nel territorio italiano, sembra costituire uno dei baluardi che si ergono a frenare la gloriosa marcia di liberazione del proletariato. Anche in questo periodo sono peraltro numerosi gli scandali legati alle curie e ai prelati nei quali viene coinvolta molto spesso la … popolazione infantile. La Francia espelle i sacerdoti e le monache e anche in Italia si invoca un provvedimento simile. Che non verrà mai. La polemica anticlericale vede all’avanguardia anche il giovane Filippo Turati e non c’è canto anarchico e socialista che non proclami di far “guerra ai palagi alle chiese” e auspichi che “presto i dì verranno/ che papa re e signori/ coi birri lor cadranno/ per man dei malfattori”. Nasce L’Asino ma tutta l’Italia vede sorgere testate a forte carica anticlericale. Su L’Asino, aiutato dai violenti disegni di Galantara, Podrecca inchioda preti, suore, frati. E lo fa anche con le canzoni, alcune delle quali diventeranno popolarissime. E con esse gli epigrammi di Stecchetti, del Giusti e di Renato Fucini. Anche il mondo contadino vede nascere contrasti con il clero perché quest’ultimo è proprietario di molte terre. Insomma in questo periodo si tocca il punto più alto della lotta anticlericale. ALESSIO Pal che si vadi a Roma eh, Neri ? NERI Pare. Arméno 'n der giolnale c'era scritto. Io. pel me, mi ci filmo: o che vo' fare? D' artronde tutti diano: S'ha 'r diritto! Ma che 'r Papa si lasci sputestare Di tutta la su' robba e stare zitto, Sbaglierò, ma mi pal che 'un possi stare ; Prima di cede', lui fa peso ritto... ALESSIO Ma cosa voi rizza' ? se va 'r Ciardini, 'Li mangia li zuavi 'n du' bocconi ; Rabbiosi 'ome lui ce n'è poini. E po'.... bell'omo... sverto ... co' su' sproni.... Se fa tanto d'entra' drent' a' 'onfini, 'Ni spelpera, Dio prete, anch' e' piccioni. (Renato Fucini Sonetti, XXIII Pare! Firenze, 1870) AGATA. Sora Gigia... GIGIA. Vor me, sor' Agatina ? AGATA. Sì... ne sa nulla lei cosa c'è stato ?... Nun sente quant' urlacci stamattina ? Pal che vadia 'n subbisso 'r vicinato. GIGIA. Bimba, o che vor che sappa ? ero 'n cucina... AGATA. Gualdi, gualdi, s'affacci, ecco 'r curato. GIGIA. Madonna !'ome scappa di burina... AGATA. Domandamol' a lui..., Don Foltunatoo?... CURATO. Figliole ? AGATA. O che sarà questo fottio? CURATO. Nulla, donnine mie, nulla di male. GIGIA. Reverendo, si felmi... CURATO. Ho furia, addio. DIMOSTRANTI.(Viva 'r Re!... Viva Roma 'apitale!) GIGIA. Chiuda, chiuda. Ha sentito ? Uh Gesù mio ! Dicelto hann' ammazzato 'r temporale. (Renato Fucini Sonetti, XXIV, La mattina der 20 Settembre 1870 in via l'Arancio. Firenze, 1870) Bruceremo le chiese Non abbiamo informazioni sull’origine di questa canzone né sul suo autore. La melodia è un collage di motivetti preesistenti e conosciuti dal popolo. Il testo ha un evidente tono sarcastico – come si deduce dallo strumento utilizzato per ‘impiccare il Papa-Re’ – volto a mitigare la crudezza truculenta dei concetti espressi nelle strofe. È interessante notare come il tema anticlericale, di rivolta contro l’ordine imposto dalla Chiesa e dal Papa-Re, si leghi al tema della ribellione contro ogni ordine sociale nel nome della libertà: il motto garibaldino “O Roma o morte” si lega all’anarchico “O libertà o morte”. Altrettanto interessante è anche il testo della ultime strofe, dove la figura di Gesù Cristo viene anacronisticamente arruolata nei ranghi del socialismo solidaristico e popolare, in contrapposizione alle figure clericali, nel tentativo di separare le responsabilità del profeta del cristianesimo da quelle della gerarchia ecclesiastica. Bruceremo le chiese e gli altari bruceremo i palazzi e le regge con le budella dell'ultimo prete impiccheremo il papa re Rivoluzione sia, guerra alla società piuttosto che vivere così meglio morire per la libertà. E il Vaticano brucerà e il Vaticano brucera e il Vaticano brucerà con dentro il papa! E se il governo si opporrà e se il governo si opporrà e se il governo si opporrà rivoluzione! Rivoluzione sia guerra alla società - la società piuttosto che vivere così meglio morire per la libertà Sono stato sul Monte Amiata dove è morto Gesù Cristo anca lu l'era un socialisto e morì per la libertà Prete prete tu mi farai morire prete prete tu mi farai morir mi farai morir Bevi bevi compagno [La canzone che ammazza li preti] Non abbiamo informazioni sull’origine di questa canzone anarchica né sul suo autore. Il testo ha un evidente tono ironico e anche qui la musica è un misto di melodie e ritmi musicali diversi a sottolineare, se ce ne fosse bisogno, il “divertissement”. "Bevi, bevi compagno sennò t'ammazzerò" "Nun m'ammazza compagno che adesso beverò" Mentre il compagno beve la canteremo, la canteremo. Mentre il compagno beve la cantaremo larillerà La la la la La canzone che ammazza li preti La la la la 'mazza monache, preti e fra'! Se nasce l'anarchia un bel pranzo s'ha da fa tutto vitella e manzo se duimo da magnà E fritarelle di monache preti e frati spezzati l'ossa de 'sti maiali ai cani s'ha da dà E le chiese son botteghe Li preti son mercanti Vendono madonne e santi e a noi ce credono vecchi poveri e ignoranti vecchi poveri e ignoranti La la la la La canzone che ammazza li preti La la la la 'mazza monache, preti e fra'! Nuovi stornelli socialisti Conosciuto anche con il titolo “E quando muoio io”, questo canto è stato ricavato da un disco stampato negli Stati Uniti all’incirca nel 1908. Esecutore del brano era il baritono Giuseppe Milano, con accompagnamento d’orchestra. Le strofette sono anonime e di probabile origine anarchica. In questa canzone compaiono le prime rivendicazioni di un funerale civile e laico, che trova riferimenti nelle figure popolari dei grandi italiani che combatterono il potere temporale della Chiesa Cattolica e nell’amore libero. E quando muoio io non voglio preti, non voglio avemarie nè paternostri, non voglio avemarie nè paternostri ma la bandiera rossa dei socialisti. E la rigi- la rigi- la rigiri, la rigira la sempre arditi, evviva i socialisti, abbasso i gesuiti! Hanno arrestato tutti i socialisti, l'arresto fu ordinato dai ministri, l'arresto fu ordinato dai ministri e questi sono i veri camorristi. E la rigi- la rigi- la rigiri, la rigira e mai la sbaglia, evviva i socialisti, abbasso la sbirraglia! La Francia ha già scacciato i preti e i frati, le monache, i conventi ed i prelati, le monache, i conventi ed i prelati, perchè eran tutte spie e in ciò (perciò) pagati. E la rigi- la rigi- la rigiri, la rigira e la ferindora, abbasso tutti i preti e chi ci crede ancora! Ma se Giordano Bruno fosse campato, non esisterebbe più neanche il papato, non esisterebbe più neanche il papato e il socialismo avrebbe già trionfato. E la rigi- la rigi- la rigiri, la rigiri e la fa trentuno, la rigiri la sul ventuno, evviva i socialisti, evviva Giordano Bruno! E quando muoio io non voglio preti, ma quattro bimbe belle alla mia barella, ma quattro bimbe belle alla mia barella, ci voglio il socialista e (con) la sua bella. E la rigi- la rigi- la rigiri, la ruota e la rotella, evviva Giordano Bruno, Garibaldi e Campanella! Pietro Gori: IL LAVORO “Il lavoro è dunque il primo elemento della vita sociale, e attorno alla gloriosa bandiera del lavoro l’umanità affratellata si stenderà amorosamente la mano, allorquando sotto lo scroscio formidabile della grande rivoluzione, sarà caduta la proprietà individuale, e sarà subentrata a questa la proprietà comune. Colla proprietà individuale cadranno tutti i privilegi di casta. Avendo tutti gli uomini gli stessi diritti e gli stessi doveri nelle relazioni reciproche, nessun lavoro sarà più disprezzato di un altro, giacché tutti i lavori, anche quelli considerati ora come i più abbietti, sono nobili, perché sono utili all’uomo, e tutti più o meno necessari alla convivenza sociale. Il lavoro sarà diviso fra gli uomini a seconda delle attitudini e della capacità e dell’ingegno di ciascuno; nobile e rispettato del pari il lavoro intellettuale, non meno faticoso di quello manuale, del medico, dell’ingegnere, del meccanico, come il lavoro materiale dell’operaio e dell’artigiano. Ognuno darà l’opera sua nella corporazione d’arte e di mestieri, a cui appartiene, a seconda delle proprie forze; e le produzioni dei diversi generi di lavoro, i raccolti della campagna, i prodotti dell’industria e dell’arte saranno custoditi nelle varie località in depositi comuni, da cui ciascuno prenderà quanto gli abbisogna per se e per la famiglia. La formula del lavoro e del consumo si riassume nella massima: Da ciascuno secondo le proprie forze, a ciascuno secondo i propri bisogni. Il lavoro essendo allora divenuto un dovere per tutti, ed essendo moltissimi più i lavoratori, la produzione di tutti i generi avrà un grandissimo aumento; tanto da essere più che sufficiente ai bisogni di tutti, e la divisione del lavoro tra un numero di persone assai maggiore di quelle che attualmente devono produrre per tutti, risparmierà a ciaschedun lavoratore parecchie ore di fatica. Tutto quello che verrà accumulato nei magazzini e nei depositi della comunità, prodotti della terra, tessuti, manifatture, commestibili ed ogni oggetto infine necessario alla vita, essendo il frutto del lavoro di tutti, dovrà appartenere a tutti indistintamente.” Uno, evviva Giordano Bruno Canzone composta nel primo dopoguerra, probabilmente al tempo del fronte popolare, poiché vi riecheggiano temi della propaganda dell’epoca. Uno, evviva Giordano Bruno che diceva la verità, trionfa socialismo, socialismo trionferà! Due, le mie braccia co' le tue, tutte so' per lavora', trionfa socialismo, socialismo trionferà! Tre, so' formato come te, più nessuno deve ozia', trionfa socialismo, socialismo trionferà! Uno, nun lo po' sape' nessuno manco Andreotti cor curato po' sape' per chi ha votato, e se mai si pentirà... Mira la rondondella, mira la rondondà! Mira la rondondella, mira la rondondà! Quattro, chi lavora è un gran matto se si lascierà sfrutta', trionfa socialismo, socialismo trionferà! Cinque, traditore è chiunque si er crumiro lo farà, trionfa socialismo, socialismo trionferà! Sei, i tuoi figli come i miei tutti devono studia', trionfa socialismo, socialismo trionferà! Due, 'sto governo c'ha la lue c'ha la lue de li piani de Marshall e de Fanfani quello Erp pure ce sta' Mira la rondondella, mira la rondondà! Mira la rondondella, mira la rondondà! Sette, chi 'n c'ha 'r core 'n ce se mette quando er botto se farà trionfa socialismo, socialismo trionferà! Otto, er crumiro fa er fagotto perché er posto nun ce sta, trionfa socialismo, socialismo trionferà! Nove, cominciamole a fa' le prove pe' campare in libertà, trionfa socialismo, socialismo trionferà! Tre, noi volessimo sape' se Andreotti s'è deciso a mandacce in paradiso, ché all'inferno ce stiamo già! Mira la rondondella, mira la rondondà! Mira la rondondella, mira la rondondà! Dieci, tutti quanti semo amici, chi è che vo' la libertà, trionfa socialismo, socialismo trionferà! Undici, no volemo più li giudici, giusto er popolo sarà, trionfa socialismo, socialismo trionferà! Dodici, chi sta in camera e chi in cucina, e chi sta a letto a riposa', trionfa socialismo, socialismo trionferà! Tre, noi volessimo risape' se Andreotti s'è deciso a mandacce in paradiso, ché all'inferno ce stiamo già! Mira la rondondella, mira la rondondà! Mira la rondondella, mira la rondondà! …liberi dai dogmi… Pietro Gori: LA RELIGIONE …ma poiché dicono che vogliamo distruggere la religione, ragioniamo un po’ e vediamo se la nostra idea è irrazionale oppure confortata dalla logica, dall’esperienza, dalla scienza e dalle ragioni di vita. Innanzi tutto sarà bene chiedere di quale religione si parli. Ce ne sono tante a questo mondo. Forse di quella che promette il paradiso cristiano e minaccia, bambinescamente, le fiamme dell’inferno (come ai bimbi buoni o cattivi si promette lo zuccherino o lo scapaccione) e che fa consistere tutto lo stimolo alle opere buone nella speranza usuraia o nella paura infantile di godere o di soffrire… nell’altra vita! O invece si vuol parlare della religione di Maometto che promette ai suoi fedeli la gioia pagana delle hourri giovani e belle? O non piuttosto di quella di Confucio o di Budda? Di quale fra tutte queste s’intende parlare, dappoiché i preti di ognuna sostengono che la religione vera è la loro? Naturalmente, a seconda di dove noi fossimo, ognuna, per bocca dei suoi preti, ci muoverebbe aspra l’accusa di miscredenza. Ma poiché siamo nati e viviamo in paesi dove predomina la regione cristiana e cattolica in specie, per ribattere tale accusa, gli argomenti migliori sono gli stessi sacerdoti che ce li forniscono; sono essi che hanno dato i più tremendi colpi di distruzione alla propria fede. Dal momento che il discendente di Pietro pescatore dimenticò l’umiltà originaria del Cristianesimo – religione dei poveri e per i poveri- dal momento che i prìncipi della Chiesa invece di un ruvido manto, si coprirono di bisso e di gemme come tutti gli altri potenti della terra; dal momento che le indulgenze, i passaporti per il paradiso, le amnistie del purgatorio poterono comprarsi come una merce o come un favore da impiegati e ministri corrotti; quando la Chiesa si frantumò, fine naturale di tutte le chiese, in bottega di anime e di coscienze. Il dogma cattolico divenne nemico della scienza e della libertà, bigottismo e fanatismo cieco da un lato e asservimento al potere dall’altro. Noi la trasciniamo questa fede come una palla al piede la quale ci impedisce di camminare verso la mèta nostra della liberazione integrale. Sarebbe ora che noi la staccassimo, una buona volta, e ce la togliessimo dai piedi. (da Scienza e religione, conferenza tenuta il 14 luglio 1896 a Paterson, negli USA) Dopo la parentesi del ventennio fascista, al termine della Seconda Guerra Mondiale, tra la Chiesa di Pio XII e le forze popolari e democratiche scoppia un grande contrasto. Il Papa scomunica le sinistre, si lega a doppio filo con gli Stati Uniti, trova in De Gasperi e Andreotti due fedeli rappresentanti, mentre le forze democratiche e popolari registrano, il 18 Aprile 1948, una grave sconfitta elettorale. Al terrorismo fisico di Pio IX, Papa Pacelli sostituisce il terrorismo psicologico, crea i comitati civici, inventa le “chiese del silenzio”, irrompe pesantemente nella vita politica italiana. Le sinistre rispondono punto su punto. Il vecchio anticlericalismo risorge sulle colonne del Don Basilio, ma anche i giornali di partito registrano puntualmente le malefatte di oscuri preti violentatori e di congregazioni religiose dedite alle speculazioni più clamorose. Il 1950 è l’Anno Santo, l’anno delle Madonne pellegrine, delle statue sacre che piangono, dei conventi trasformati in alberghi. Muore Pio XII e sale al soglio Papa Roncalli che sembra dar voce ai fermenti del mondo religioso e cercare un “dialogo” con i marxisti. Da questo momento la polemica religiosa andrà gradatamente perdendo di vigore e scomparirà lentamente nelle forme grafiche e musicali di una volta con il diffondersi del consumismo e l’affermarsi della televisione. Sant’Antonio allu desertu Negli anni ’60 giunge a pieno compimento il processo evolutivo del capitalismo italiano che, con il cosiddetto Miracolo economico, diventa una potenza industriale: l’Italia da Paese prevalentemente agricolo si trasforma in un Paese industriale secondo in Europa solo alla Germania. La cultura tradizionalmente clericale del Paese viene investita da questa grande trasformazione che è anche culturale e di costume, come dimostrano le conquiste ottenute negli anni ’70 sul piano del diritto civile (eguaglianza uomo-donna, diritto di famiglia, divorzio, aborto, etc.). I temi anticlericali presenti nelle canzoni scelgono spesso la strada dell’ironia, a testimonianza di un clima culturale in cui le tradizioni religiose sono considerate il retaggio di un passato che non incute più timore, ma fa solo sorridere chi ha una sensibilità moderna, non bigotta. Ne è testimonianza questa canzone “Sant’Antonio allu diserte” di autore anonimo che viene reinterpretato nei primi anni ’60 da I Gufi (Roberto Brivio, Gianni Magni, Lino Patruno, Nanni Svampa). Per questa canzone il quartetto viene denunciato per vilipendio della religione, ma I Gufi sono assolti con formula piena: il reato non sussiste! Anche le sentenze della magistratura iniziano a entrare in sintonia con le esigenze una società più moderna. Buona sera cari amiche tutte quante li cristiane questa sera v'aggia a dice de la festa de dimane ca dimane è Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie. Li parenti ‘e Sant'Antonio una moglie gli vogliono dare ma lui nun ne vuol sapere, nel diserte si fa mandare pe n'avè la siccatura de sta’ a fà ‘na criatura Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie. Sant'Antonio allu diserte s'appicciava 'na sicaretta Satanasse pe' dispiette glie freghette l'allumetta Sant'Antonio nun se la prende cu’ nu prospere se l'accende Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie. Sant'Antonio allu diserte se faceva la permanente Satanasse pe' dispiette glie freghette la corrente Sant'Antonio non s'impiccia, culle dita se l'arriccia Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie. Sant'Antonio allu diserte se cuciva li pantalune Satanasse pe' dispiette glie freghette li buttune Sant'Antonio se ne frega cu lu spago se li lega. Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu demonie. Sant'Antonio allu diserte cucinava gli spaghette Satanasse stu fetente glie freghette le furchette Sant'Antonio nun se lagna culle mani se li magna Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie. Sant'Antonio allu diserte se lavava l'insalata Satanasse pe' dispiette glie tirette na sassata Sant'Antonio lo prese pel collo e lo mise col culo a mollo Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie. Sant'Antonio allu diserte se diceva l’ oraziune Satanasse pe' dispiette gli fa il verso de lu trumbune Sant'Antonio col curtellone gli corre appresso e lo fa cappone Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie. Vi saluto cari amiche lu signore ve benedice e fa cresce lu patrimonio cu le grazie ‘e Sant'Antonio ca dimane è Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie Il crocifisso dell’ARCI di San Miniato Dopo le battaglie civili degli anni ’70 con le vittorie nel referendum sul divorzio e sull’aborto, i temi anticlericali nelle canzoni popolari tendono a scomparire anche perché la Chiesa Cattolica si ritira progressivamente nel fortilizio del rapporto diretto con la politica di fronte dell’incedere impetuoso della secolarizzazione dei costumi della società italiana che diventa consumistica ed edonistica come gran parte del mondo occidentale. La Casta dei Casti e la Casta dei Politici italiani si cingono in un mortale abbraccio fra poteri forti, abbandonando le masse popolari e le classi subalterne all’egemonia culturale dell’arretrato capitalismo italiano. I temi anticlericali diventano così patrimonio di alcune agguerrite minoranze a cui vengono negati diritti civili e che sono discriminate, come i cittadini omosessuali e atei/agnostici, mentre le masse popolari sono culturalmente preda dei miti demenziali del berlusconismo. Il Crocifisso dell’ARCI di San Miniato è una canzone che rappresenta un tipico esempio di una battaglia condotta da una minoranza agguerrita e culturalmente attrezzata, che conduce una battaglia laica nella Toscana, una volta rossa e libertaria, ormai anestetizzata dal berlusconismo imperante e dal trasformismo dei dirigenti di alcuni partiti della sinistra, primo fra tutti il PD. Ecco come, con molta ironia, gli autori e i primi esecutori del pezzo ricordano la genesi della canzone. Il crocifisso dell’ARCI di San Miniato, scritto e musicato dal socio UAAR di Firenze Marco Mangani, nasce come idea musicale rivoluzionaria fra le 23 e le 24 del 14 Luglio 2012 (data storica colma di significati), durante l’usuale convegno commemorativo che si tiene sulle colline del Chianti, in località Poneta nei pressi del Ferrone. Qui, in un edificio che nell’antichità ospitava mucche e cavalli, e che ha conservato intatto nel tempo il suo fascino carbonaro e sovversivo, pur sostituendo i tipici sentori di stalla cogli aromi freschi di quel Sangiovese che vi scorre a ettolitri, ogni anno, proprio nello stesso giorno della presa della Bastiglia, convergono, in gran segreto ed eludendo con grande perizia cospirativa l’attento controllo degli sbirri della DIGOS!, gli ultimi, indomiti laicisti toscani, per dar un po’ di voce e un po’ di fiato – rigorosamente avvinazzato! – al loro folle delirium tremens: riuscire a liberare l’Italia dalla servitù Vaticana, educando al contempo il popolo al pensiero critico e libero! I tragici eventi evocati da questa canzone, vibrante di passione civile rivoluzionaria e anticlericale in ogni sua nota, sono quelli verificatesi lo scorso anno nel Circolo ARCI – Casa Culturale di San Miniato Basso. Qui, la bella LAICA immacolata(!) ed intonsa parete BIANCO GHIACCIO del Circolo, che aveva ricoperto la precedente scritta rosino pallido stinto “YES, WE CAN”, che a sua volta aveva sostituito la gloriosa falce e martello su bandiera rossa e tricolore, che aveva a sua volta sostituito etc. etc. fino al ritratto di Marx ed Engels, era stata macchiata dalla presenza del Crocifisso, il macabro simbolo della religione cattolica. Destando così le giuste ire degli ultimi laicisti di San Miniato rimasti, fra cui campeggia la figura epica del Rino Bertini. Ire, quelle dei laicisti, naturalmente inascoltate dalla dirigenza del Circolo ARCI, ben ammanicata con il Vescovo di San Miniato e i suoi tirapiedi cosiddetti politici. Voi, invece, ascoltate attentamente questa canzone perché in essa, se non l’avete ancora capito, prevale il sarcasmo, che è la via migliore per abbattere il dogma ottuso. Ovunque esso si annidi. Anche fra la maggioranza relativa del popolo che frequenta il Circolo dell’ARCI di San Miniato Basso senza capire nulla di democrazia e dei diritti (che sono soprattutto quelli delle minoranze)! Lo vidi una mattina Appeso su quel muro Sentii drizzarsi il crine Mi feci in volto scuro Andai dal Presidente: “Che storia è questa qua?” Rispose sorridente: “Una grande novità!” Evviva il crocifisso dell’ARCI di San Miniato! Evviva chi ce l’ha messo, che sempre sia lodato! Cantiamo tutti in coro, con mistico fervor: “Evviva il crocifisso, simbolo dell’amor!” Mio caro Presidente, ma ‘un s’era anche laicisti? S’andava a testa bassa Contro Madonne e Cristi… “Contr’ordine, compagni, ‘un si bestemmia più: faremo le riforme nel nome di Gesù!” Evviva il crocifisso dell’ARCI di San Miniato! È il primo grande passo per governar lo Stato! Compagno: sull’attenti! Porta la mano al cuor! Avremo il Crocifisso sul patrio tricolor! Compagni miei, compagne S’ha da vede’ anche questa, ma presto verrà il giorno che rialzerem la testa. Giuriam che da quel giorno, sarà quando sarà, l’Italia tutta intera si scrocifiggerà! (2vv.) …eretici da sempre'' Pietro Gori: GLI ANARCHICI Chi sono i socialisti anarchici? Se lo domandate ad un poliziotto, costui vi risponderà: “Gli anarchici sono dei malfattori”. Se lo domandate ai padroni che pur vivono alle spalle di voi lavoratori, senza lavorare, costoro risponderanno che gli anarchici sono degli scansa fatiche, della gente che non ha voglia di lavorare! Se lo domandate infine agli uomini seri e pratici vi diranno, con uno sforzo di benevolenza, che gli anarchici sono matti da legare. E i governi, monarchici o anche repubblicani, danno ragione a codesta gente e mandano i socialisti anarchici a popolare le prigioni e ad insanguinare i patiboli. Che importa? Chiunque è interessato a difendere privilegi non può essere giudice imparziale di uomini che hanno per grido di guerra l’abolizione di ogni privilegio e di ogni forma di sfruttamento. I socialisti anarchici vogliono l’uguaglianza, ma quella vera, non quella bugiardamente proclamata dalle leggi e brutalmente smentita dalla realtà dei fatti sociali. La uguaglianza sociale non sarà possibile se non allorquando tutti gli uomini saranno in possesso delle terre, delle macchine e di tutte le altre fonti della ricchezza, e fino a che codesta ricchezza, che è il prodotto del lavoro di tutti, non sarà posta in comune a tutti. Questo è il comunismo. Secondo il principio tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, in contrapposto alla egoistica morale borghese del ciascuno per sé. Dalla associazione dei beni e delle forze di tutti deriverà l’associazione dei cuori e si svilupperà spontaneamente un alto e diffuso senso di solidarietà e di fratellanza. Scomparso con la proprietà individuale ogni istinto di basso interesse personale, anche l’accoppiamento di un uomo e di una donna non sarà più un affare mercantile. L’unione libera sulle solide basi dell’amore: ecco l’unico logico vincolo sessuale, ecco la famiglia dell’avvenire, senza la menzogna convenzionale del giuramento civile in faccia al sindaco, o di quello religioso in faccia al prete… E il prete? Oh, il prete scomparirà con l’ignoranza e l’abbrutimento dei più; e col prete scompariranno tutte le menzogne religiose fugate dal raggio vivificatore della scienza. Noi lo combattiamo additandolo come l’eterno alleato degli oppressori e sfruttatori dei lavoratori e cercando di sfatare al lume della ragione l’impostura del soprannaturale. Rivendichiamo per tutti il nutrimento allo stomaco, e poi nutrimento al cervello e al cuore, nutrimento di scienza e d’affetti. Ma sopra tutto, innanzi tutto, libertà! L’un governo equivale all’altro; tutti i governi sono contri di noi – e noi contro tutti i governi, contro tutte le oppressioni, contro tutte le tirannidi. Noi soli rivendichiamo agli uomini la uguaglianza vera nel comunismo, con la soppressione d’ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, con l’abolizione della proprietà individuale; noi soli vogliamo l’emancipazione completa della personalità umana dal giogo opprimente d’ogni autorità politica, civile, militare e religiosa. Noi soli vagheggiamo per il genere umano la libertà integrale, la libertà delle libertà: l’Anarchia. (da Socialismo legalitario e socialismo anarchico, conferenza tenuta a Milano il 4 aprile 1892) La Canzone Anarchica La canzone anarchica occupa una parte importante dell'area del canto popolare,quella parte che da sempre ha raccolto i temi politico sociali. Fin dalle sue origini infatti ha accompagnato la nascita e l'evoluzione della questione sociale, nelle sue diverse sfaccettature,in termini immediatamente trasmissibili e condivisibili e inserendo nel canto anche quei contenuti e quella sensibilità che non potevano trovare espressione nel canto politico tradizionale e popolare. Il canto è stato ed è alla radice della trasmissione orale, l'asse portante della vita sociale di tutte le comunità. I canti riguarderanno le condizioni contadine, operaie, saranno la voce dei derelitti, degli umiliati, dimostreranno una voglia di ricerca di cambiamento verso orizzonti egualitari e la speranza di una vita migliore. I figli del popolo la gente comune, i lavoratori, il quarto stato, non sono mai stati visti dai cantautori anarchici come masse da indottrinare, ma come facenti parte di un processo evolutivo dove essi stessi ne fossero partecipi. Gran parte degli autori delle canzoni anarchiche sono anonimi, è importante trasmettere l'ideale e non l'individuo. Storicamente potremmo far risalire il primo canto anarchico intorno al 1871, gli anni della Comune di Parigi; le idee di Proudhon e Bakunin hanno già dato nuovi stimoli per la ricerca di uguaglianza sociale, Eugene Pottier scrisse 'Germinal': Su! Su! dannati della terra Su! derelitti e senza pan..... Nè dio, nè re, nè capo alcun; da noi pensiam,lavoratori a conquistare il ben comun! La Comune finì tragicamente, ma parte delle idee continueranno a trasmettersi con questo testo che, modificato in alcune parti diverrà l'Internazionale, inno ufficiale del movimento socialista internazionale. Anche dal punto di vista letterario quegli anni sono infarciti di ideali anarchici: ''Spuntavano degli uomini, un esercito nero, vendicatore,che germogliava lentamente tra le zolle, crescendo per il raccolto del secolo futuro, e la cui germinazione avrebbe fatto presto scoppiare la terra.'' (Emile Zola – Germinal - 1885) Gli anni del fine 800 e primi 900, avranno una ricca produzione di canzoni e stornelli anarchici: sono gli anni in cui maggiormente il movimento anarchico andrà espandendosi per l'Europa, i circoli fioriranno anche oltre oceano portati da quei dannati della terra che per disperazione dovranno emigrare. Avremo in particolare la figura di Pietro Gori che riempirà quegli anni di poesie musicate che tuttora sono cantate. In quegli anni si formerà anche una parte di Anarchici che preferirà l'azione anche violenta rispetto all'attesa di una lenta trasformazione sociale. Ci saranno attentati e omicidi, e i canti, oltre che al lavoro e alla rivolta, saranno dedicati a questi nuovi eroi attentatori che finiranno alla ghigliottina o in carcere. Avremo: i canti a Passannante (Giovanni Passannante, lucano, nato 1849. Nel 1878 attentò al re d'Italia Umberto I° procurandogli una piccola ferita. Dopo aver girato le peggior prigioni, morirà nel carcere psichiatrico di Montelupo Fiorentino nel 1910. Il suo corpo verrà decapitato e il suo cervello rimarrà esposto nel museo criminologico di Roma sino al 2007); i canti a Caserio (Sante Caserio, nato nella provincia di Milano 1873: Nel 1894 uccise il presidente francese Sadi Carnot: verrà per questo ghigliottinato a Lione nel 1894); i canti a Bresci (Gaetano Brasci, nato a Prato nel 1869. Nel 1900 uccise il re d' Italia Umberto I°. Fu condannato a morte, ma verrà trovato impiccato nella sua cella a Ventotene nel 1901). Prima guerra mondiale: le idee anarchiche di pace sono cantate dai non interventisti: ..non più ferro per l'armi omicide non più scienza per uso nefando tutto questo mettiamolo al bando e riavremo la gioia e il ben! (L.Molinari - Inno alla pace) Ma il disprezzo per chi comanda sarà sempre presente: O vigliacchi che voi ve ne state con le mogli sui letto di lana schernitori di noi carne umana questa guerra ci insegna a punir. (Anonimo - O Gorizia tu sei maledetta) Subito dopo la guerra inizieranno le prime azioni violente fasciste che avranno come contrasto le formazioni armate degli Arditi del popolo (anarchici e arditi di guerra). Nasceranno canzoni come 'Figli dell'officina' e numerose altre. La guerra proletaria Guerra senza frontiere Innalzeremo al vento Bandiere rosse e nere (Raffaelli, Del Freo - Figli dell'officina) Gli Arditi del Popolo, appoggiati ufficialmente e sostenuti concretamente dal solo movimento libertario, che ne alimentava la base militante, pagheranno in prima persona lo scotto dell'isolamento con la sconfitta sul campo e la inevitabile repressione, per poi risorgere nei giorni del riscatto con la lotta di Resistenza e la rivincita finale della Liberazione. Dal periodo fascista ai giorni nostri, gli anarchici, saranno sempre utilizzati dal potere centrale del momento per tamponare atti anche cruenti e scomodi con un nome che ormai nella fantasia popolare è sinonimo di bombe e sangue: Attentato Anarchico!! E con questo motivo si arresteranno,uccideranno,tortureranno molti dei discendenti dei ”cavalieri erranti.. con la speranza in cor”. Ma... la storia continuerà ad essere tramandata sopratutto con le canzoni, che a distanza di anni discolperanno i loro martiri. "Poche storie, indiziato Pinelli Il tuo amico Valpreda ha parlato Lui è l'autore di questo attentato E il suo socio sappiamo sei tu" "Impossibile" - grida Pinelli "Un compagno non può averlo fatto Tra i padroni bisogna cercare Chi le bombe ha fatto scoppiar. (Ballata per Pinelli - autori vari,1969) O per ricordarli: Rinchiuso come un cane, Franco sta male e muore. Ma arriva alla prigione solo un procuratore domanda a Franco: '' Perché eri lì?" “ Per un’idea: la libertà " (Ballata per Franco Serantini - Canzoniere Pisano,1972) Ma sempre contro ogni forma potere: E difatti alla fine il padrone è una specie di ladro Solo che quando ruba il padrone non è mica reato E anche quando che viene arrestato il suo alibi regge Perchè lui è la Legge. Così entro di nascosto come un ladro nella casa del ladro E quel ladro mi dice che lui non è un ladro soltanto Ma neanch'io sono un ladro gli dico e così mi avvicino. Io sono un assassino. E così sotto il cielo turchino c'è un padrone di meno. Emanuele Filiberto di Savoia ha recentemente dichiarato che "L'Italia è un paese pronto per una monarchia costituzionale". In considerazione di questa dichiarazione del principe, dedico questa canzone a Gaetano Bresci, tessitore, anarchico e uccisore di re. (La casa del ladro - Ascanio Celestini 2007) Non si può chiudere un lavoro sulla canzone Anarchica senza rivolgere un pensiero affettuoso all'ultimo grande poeta anarchico italiano,che da oltre 40 anni fa cantare la sue canzoni a tutti, compresi preti e fascisti: Fabrizio De Andrè. Lo ricorderemo con una canzone che non è sua ma di Armando Trovajoli, ”I carbonari”, scritta per la colonna sonora del film di Luigi Magni “Nell’anno del Signore”. Il film è basato su un fatto realmente accaduto, cioè l'esecuzione capitale di due carbonari nella Roma papalina del 1825: Leonida Montanari, romano, e Angelo Targhini, modenese. I due hanno accoltellato un loro adepto, di famiglia nobile, che minacciava di svelare i segreti della Carboneria. Dopo un processo sommario, sono ghigliottinati in Piazza del Popolo (dove ancora oggi si trova una targa commemorativa dei due libertari) il 23 novembre dello stesso anno. Questa canzone venne improvvisata dal vivo da Faber durante la tournè del 1997 e poi inserita nell'album “Ed avevamo gli occhi troppo belli” del 2001, edito da A-Rivista Anarchica. Si tratta solo di una strofa, ma ricca di significato: La bella che è addormentata, lalala,lalala,lalala Ha un nome che fa paura: Libertà, Libertà,Libertà Dimmi bel giovane "18 marzo-28 maggio 1871. Dopo pesanti sconfitte nella guerra contro la Prussia e sotto la pressione operaria il governo repubblicano fugge da Parigi: il popolo parigino si da un nuovo governo rivoluzionario: la Comune.'' Francesco Giuseppe Bertelli è nato a Vecchiano il 1° febbraio del 1836. Volontario nella Terza Guerra d’Indipendenza (1866) e tenente garibaldino a Mentana (1867), segue Garibaldi in Francia nella guerra Franco-Prussiana. Dopo gli eventi della Comune di Parigi torna a Vecchiano dove promuove la costituzione dell’Unione Democratica Sociale. Sempre sorvegliato dalla polizia viene ripetutamente arrestato per la sua propaganda definita “sovversiva”. Nel 1875 viene incarcerato perché sorpreso a distribuire copie di una sua poesia contro la pena di morte. L’esperienza francese e gli echi della tragedia dei comunardi lo toccano profondamente e, a testimonianza di ciò, scrive una celebre poesia dal titolo “Esame d’ammissione del volontario alla Comune di Parigi”, stampata nel 1873 dalla tipografia Citi, della quale resta, nella memoria locale vecchianese, una libera riduzione dal titolo “Dimmi bel giovane”. Scrive numerose altre poesie che però sono in parte andate perdute. Erroneamente quindi, alcuni fanno risalire questo canto a Pietro Gori. Dimmi bel giovane, onesto e biondo: dimmi la patria tua qual'è Adoro il popolo la mia patria è il mondo il pensier libero è la mia fe' La casa è di chi l'abita è un vile chi lo ignora, il tempo è dei filosofi il tempo è dei filosofi Addio mia bella casetta addio, madre amatissima e genitor Io pugno intrepido per la Comune come Leonida saprò morir La casa è di chi l'abita… Inno dei Malfattori Conosciuto semplicemente anche come l' "Inno di Panizza", è senz'altro uno dei più conosciuti canti anarchici in lingua italiana. Attilio Panizza, operaio marmista milanese, evase con Errico Malatesta da Pantelleria. Nel 1902, a Londra, fu tra i firmatari di una "circolare-annuncio" rivolta agli anarchici di lingua italiana per la pubblicazione di un giornale socialista-anarchico che prenderà il titolo "La Rivoluzione Sociale" Il Canto dei Malfattori appare per la prima volta su "L'Amico del Popolo" del 19 maggio 1892, periodico socialista-anarchico fondato a Milano da Pietro Gori e più volte sequestrato dalla polizia. Questo bellissimo canto scritto da Panizza fu, allo stesso tempo, un manifesto politico dell'Anarchismo che tende a rivoltare l'accusa di "malfattori" che lo Stato vuole appiccicare addosso agli internazionalisti: il tentativo di marchiare come "malfattori" gli anarchici si svilupperà soprattutto dopo l'attentato di Passannante al re Umberto I (Napoli, 17 Novembre 1878). Il Canto dei Malfattori riprende il termine spregiativo e, facendolo proprio, grida in faccia ai potenti che "malfattori" sono tutti coloro che lottano per la giustizia sociale e contro chi sfrutta il lavoro appropriandosi dei frutti dei lavoratori; "malfattori" sono coloro che combattono l'impostura religiosa e quelli che propugnano la libera unione e non domanda riti ne lacci coniugali; "malfattori" sono coloro che propugnano l'internazionalismo e combattono tutte le guerre, rifiutano le leggi in quanto strumenti di frode utilizzate dai potenti contro i lavoratori. Lo stesso canto, ma con titolo diverso, Inno dei lavoratori, appare l'anno seguente (1893) sul giornale di Imola, "Il Ribelle" in una versione sostanzialmente simile a quella pubblicata su "L'Amico del Popolo" di Milano. Degna di nota anche un'altra versione sequestrata dalle autorità (sequestro databile tra il 1892 e il 1894, reperibile presso l'archivio della Prefettura di Milano) con titolo Inno dei malfattori, testo di 12 strofe (invece di 18) e col ritornello che si ripete ogni due strofe. Ai gridi ed ai lamenti di noi plebe tradita la lega dei potenti si scosse impaurita E prenci e magistrati gridaron coi Signori che siam degli arrabbiati e rudi malfattori Deh t’affretta a sorgere oh Sol dell’avvenir vivere vogliam liberi non vogliam più servir Natura, comun madre, a niun nega i suoi frutti, e caste ingorde e ladre ruban quel ch’è di tutti Che in comun si viva si godi e si lavori tal’è l’aspettativa che abbiam noi malfattori Deh t’affretta a sorgere… Chi sparge l’impostura avvolto in nera veste chi nega la natura sfuggiam come la peste Sprezziam gli dei del cielo e i falsi lor cultori del ver squarciamo il velo perciò siam malfattori Deh t’affretta a sorgere… Amor ritiene uniti gli affetti naturali e non domanda riti né lacci coniugali Noi dai profan mercati distor vogliam gli amori, e sindaci e curati ci chiaman malfattori. Deh t’affretta a sorgere… Divise han con frodi Città, popoli e terre da qui gl’ingiusti odi che generan le guerre. Noi che seguendo il vero gridiam a tutti i cori che patria è il mondo intero ci chiaman malfattori Deh t’affretta a sorgere… Leggi dannose e grame di frode alti stromenti, secondan sol le brame dei ricchi prepotenti Dan pene a chi lavora, onore a sfruttatori conferman poscia ancora che siam dei malfattori. Deh t’affretta a sorgere… La chiesa e lo stato L’ingorda borghesia contendono al creato di libertà la via Ma presto i dì verranno che papa, re e signori coi birri lor cadranno per man dei malfattori. Allor vedremo sorgere il Sol dell’avvenir in pace potrem vivere e in libertà gioir. Inno della rivolta Scritto nel 1893 da Luigi Molinari, avvocato libertario, come poesia dal titolo “Dies Irae”, fu musicato in seguito da anonimo. Luigi Molinari scrisse quest'inno in occasione dei disordini fomentati da socialisti ed anarchici in Lunigiana e in solidarietà ai braccianti ed agli operai siciliani, che in quelle stesse settimane subivano l'attacco dei soldati mandati dal governo Crispi a reprimere i Fasci dei Lavoratori. Questo movimento che si era via via rafforzato con l'acuirsi della crisi finanziaria del Regno, per i provvedimenti relativi all'aumento del carico fiscale, del prezzo del sale e del dazio sul grano, varati dall'allora ministro dell'economia Sonnino per pareggiare il bilancio. Molinari fu arrestato per sedizione ed il testo del suo inno costituì prova nel processo a suo carico. Condannato a 23 anni di reclusione, fu amnistiato l'anno seguente. Nel fosco fin del secolo morente, sull'orizzonte cupo e desolato, già spunta l'alba minacciosamente del dì fatato. Urlan l'odio, la fame ed il dolore da mille e mille facce ischeletrite ed urla col suo schianto redentore la dinamite. Siam pronti e dal selciato d'ogni via, spettri macabri del momento estremo, sul labbro il nome santo d'Anarchia, Insorgeremo. Per le vittime tutte invendicate, là nel fragor dell'epico rimbombo, compenseremo sulle barricate piombo con piombo. E noi cadrem in un fulgor di gloria, schiudendo all'avvenir novella via: dal sangue spunterà la nuova istoria de l'Anarchia. Figli dell'officina È un inno divenuto tradizionale del movimento anarchico. La musica è tratta da un'aria probabilmente cantata in artiglieria. Il testo originale fu scritto da Giuseppe Raffaelli e Giuseppe Del Freo, anarchici carraresi, nel 1921, mentre si preparavano ad affrontare le squadracce fasciste con gli "Arditi Del Popolo". Giuseppe Raffaelli, nato il 30 gennaio 1892 a La Soggetta di Cerreto (Montignoso), ha lavorato nelle cave di Carrara come riquadratore e nel 1921 è stato uno degli organizzatori degli Arditi del Popolo di Massa Carrara. Raffaelli, si rifugiò a Viareggio nel giugno 1921, dopo aver abbandonato Massa per sfuggire alle aggressioni fasciste, che si facevano sempre più più frequenti. A Viareggio venne ospitato dal professor Giuseppe Del Freo, suo amico d'infanzia, insieme crearono questo canto con l'intenzione di dare un inno agli Arditi del popolo (la musica deriva invece da un canto popolare). Gli Arditi del popolo resistettero nella zona sino al 1923. Con l’avvento del fascismo Raffaelli fu costretto ad emigrare in Francia facendo svariati mestieri (manovale, scalpellino, elettricista, contadino...) e partecipò alla rivoluzione spagnola del 1936, nella brigata Libero Battistelli, nei pressi di Barcellona dove venne ferito. Rientrato a Nizza, viene arrestato durante il governo Petain e internato nel campo di Fernet Dans l’Ariegé dove rimane fino al 1943. Consegnato al governo italiano, è condannato a cinque anni e inviato al confino di Ventotene per essere poi liberato dopo il 25 luglio. Durante la resistenza lo stesso canto, ma con variazioni nelle strofe, fu ripreso dai partigiani "rossi" del nord Italia e sarà usato come inno partigiano. Diventerà poi uno tra i canti più diffusi del movimento dei lavoratori. Figli dell’officina O figli della terra Già l’ora s’avvicina Della più giusta guerra La guerra proletaria Guerra senza frontiere Innalzeremo al vento Bandiere rosse e nere Avanti, siam ribelli Fieri vendicator D'un mondo di fratelli Di pace e di lavor Dai monti e dalle valli Giù giù scendiamo in fretta Con queste man dai calli Noi la farem vendetta Del popolo gli arditi Noi siamo i fior più puri Fiori non appassiti Dal lezzo dei tuguri Avanti, siam ribelli… Noi salutiam la morte Bella vendicatrice Noi schiuderem le porte A un'era più felice Ai morti ci stringiamo E senza impallidire Per l’anarchia pugnamo O vincere o morire Avanti, siam ribelli… Su fratelli pugnamo da forti Un anonimo canto di sicura formazione toscana (il testo è decisamente in fiorentino rustico) ispirato alla morte di Sante Caserio. Fu raccolto per la prima volta da Caterina Bueno a Diviliano, frazione del comune di Fiesole, dalla voce di un contadino a nome Pietro Zeppi; nel 1964 Roberto Leydi lo registrò a Milano. Il riferimento al gesto di Caserio è un classico nei canti di lotta agraria e questo ha sapore di un ''canto di coraggio'', avente avente funzione di avvertimento indiretto rivolto ai capisquadra durante il lavoro nei campi. Su fratelli pugnamo da forti contro i vili tiranni borghesi ma come fece Caserio e compagni che la morte l'andiede a incontrà. Non vogliamo più servi e padroni l'eguaglianza sociale vogliamo ma quelle terre che noi lavoriamo a noi tutti le spese ci fa. La mia testa stiacciatela pure disse Caserio agli inquisisi suoi ma l'anarchia è più forte de' tuoi presto presto schiacciarvi dovrà. La ballata di Franco Serantini Franco Serantini nasce il 16 luglio 1951 a Cagliari. Nel 1968 è destinato al riformatorio di Pisa "Pietro Thouar" in regime di semilibertà (deve mangiare e dormire in istituto). Con lo studio e la conoscenza di nuovi amici incomincia a guardare il mondo con occhi diversi e ad avvicinarsi all'ambiente politico della sinistra frequentando le sedi delle Federazioni giovanili comunista e socialista, passando da Lotta continua fino ad approdare, nell'autunno del 1971, al gruppo anarchico "Giuseppe Pinelli", in via S. Martino. Insieme a tanti altri compagni è impegnato in tutte le iniziative sociali di quegli anni, come l'esperienza del "Mercato rosso" nel quartiere popolare del Cep, in molte azioni antifasciste e, infine e nell'accesa discussione che la candidatura di protesta di Pietro Valpreda ha innescato nel movimento anarchico. Il 5 maggio 1972 partecipa al presidio antifascista indetto da Lotta continua a Pisa contro il comizio dell'on. Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Il presidio viene duramente attaccato dalla polizia; durante una delle innumerevoli cariche Franco viene circondato da un gruppo di celerini, sul lungarno Gambacorti, e pestato a sangue. Successivamente viene trasferito prima in una caserma di polizia e poi al carcere Don Bosco, dove, il giorno dopo, viene sottoposto ad un interrogatorio, durante il quale manifesta uno stato di malessere generale che il Giudice e le guardie carcerarie e il medico del carcere non giudicano serio. Il 7 maggio, dopo due giorni di agonia, Serantini viene trovato in coma nella sua cella e trasportato al pronto soccorso del carcere, dove muore alle 9,45. Questa ballata è scritta da Piero Nissim nei giorni successivi al decesso di Serantini. Il quinto verso della seconda strofa 'cascasse il mondo sulla città' riprende il titolo di un manifesto affisso a Pisa nei giorni immediatamente precedenti il 5 maggio, il cui testo è: “Cascasse il mondo su un fico, il boia Niccolai non parlerà”. Niccolai, all'epoca dei fatti di Pisa, è un uomo di spicco del partito neofascista MSI, mentre Zanca e Mallardo, nomi che appaiono nel canto, sono due esponenti della squadra politica delle questura di Pisa. Era il sette di maggio, giorno delle elezioni, e i primi risultati giungon dalle prigioni: c'era un compagno crepato là, era vent'anni la sua età. Solo due giorni prima parlava Niccolai, Franco era coi compagni, decisi più che mai: «Cascasse il mondo sulla città, quell'assassino non parlerà». L'avevano arrestato lungarno Gambacorti, gli sbirri dello Stato lo ammazzano dai colpi: «Rossa marmaglia, devi capir se scendi in piazza si può morir!» E dopo, nelle mani di Zanca e di Mallardo, continuano quei cani, continuano a pestarlo: «Te l'ho promesse sei mesi fa», gli dice Zanca senza pietà. Rinchiuso come un cane, Franco sta male e muore, ma arriva alla prigione solo un procuratore; domanda a Franco: «Perché eri là?» «Per un'idea: la libertà». Poi tutt'a un tratto han fretta: da morto fai paura; scatta l'operazione «rapida-sepoltura»: «é solo un orfano, fallo sparir, nessuno a chiederlo potrà venir». Ma invece è andata male, porci, vi siete illusi, perché al suo funerale tremila pugni chiusi eran l'impegno, la volontà che questa lotta continuerà. (2 vv.) Il galeone "Il galeone" è una poesia che Belgrado Pedrini, anarchico carrarese, scrisse in galera, a Fossombrone, nel 1967. Il titolo originale della poesia era “Schiavi”. Fu poi messa in musica da Paola Nicolazzi sulla base di una canzone popolare intitolata, curiosamente, “Se tu ti fai monaca”; la Nicolazzi, nel trasformarla in canzone (e in uno dei più noti canti anarchici italiani di ogni tempo), ne omise però la quarta e l'ultima strofa, che così recitano: Nessun nocchiero ardito, sfida dei venti l’ira? Pur sulla nave muda, l’etere ognun sospira! (...) Falci del messidoro, spighe ondeggianti al vento! Voi siate i nostri labari, nell’epico cimento! Fu poi pubblicata, senz'alcuna indicazione di titolo, nel giornale Presenza anarchica, a cura dei gruppi anarchici riuniti di Massa e Carrara, supplemento quindicinale a Umanità Nova, il 5 ottobre 1974. Fin qui la storia di questa canzone scritta in galera. La quale, specialmente per il suo linguaggio, potrebbe far sorridere il lettore e l'ascoltatore di oggi. E' il linguaggio aulico di molti canti anarchici classici. Ma il sorriso scompare immediatamente quando si pensa al fatto che "Il galeone" è in realtà il simbolo stesso, anche nella parola stessa, della galera, anzi, della "galera infame". Quella dove il suo autore era rinchiuso. Belgrado Pedrini aveva iniziato la Resistenza ben prima dell'8 settembre; era, la sua, una vita di resistenza da sempre. Durante il fascismo conduce la sua lotta clandestina, poi già nel 1942 partecipa ad azioni di lotta. Si unisce poi alla formazione partigiana anarchica "Elio" con cui lotta fino alla...."Liberazione". Ma la "liberazione" del partigiano Belgrado Pedrini si chiama galera. Nel 1942, per poter continuare la lotta, lui e i suoi compagni sottraggono ad alcuni industriali fascistoni milanesi e carraresi un bel po' delle loro ricchezze; nel 1949 il tribunale di Livorno giudica tali atti come "reati comuni" e condanna Belgrado Pedrini a trent'anni di carcere. Questa la ricompensa. E sono galere su galere. Nel 1974, il presidente Leone gli concede la grazia; ma, appena uscito, viene rinchiuso in una casa di lavoro presso Pisa, perché deve scontare ancora tre anni per tentata evasione. Liberato finalmente dopo un'intensa campagna per la sua scarcerazione, torna a Carrara dove partecipa all'attività degli anarchici locali. Muore nel 1979 all'età di sessantasei anni. Ma per Belgrado Pedrini non c'è mai stata nessuna "liberazione" da una vita intera passata in galera. Quella del fascismo e quella dello "stato democratico". Siamo la ciurma anemica d'una galera infame su cui ratta la morte miete per lenta fame. Mai orizzonti limpidi schiude la nostra aurora e sulla tolda squallida urla la scolta ognora. I nostri dì si involano fra fetide carene siam magri smunti schiavi stretti in ferro catene. Sorge sul mar la luna ruotan le stelle in cielo ma sulle nostre luci steso è un funereo velo. Torme di schiavi adusti chini a gemer sul remo spezziam queste catene o chini a remar morremo! Cos'è gementi schiavi questo remar remare? Meglio morir tra i flutti sul biancheggiar del mare. Remiam finché la nave si schianti sui frangenti alte le rossonere fra il sibilar dei venti! E sia pietosa coltrice l'onda spumosa e ria ma sorga un dì sui martiri il sol dell'anarchia. Su schiavi all'armi all'armi! L'onda gorgoglia e sale tuoni baleni e fulmini sul galeon fatale. Su schiavi all'armi all'armi! Pugnam col braccio forte! Giuriam giuriam giustizia! O libertà o morte! Giuriam giuriam giustizia! O libertà o morte! La ballata del Pinelli Giuseppe Pinelli nacque a Milano, a Porta Ticinese, nel 1928. Nel 1944-45 partecipa alla Resistenza come staffetta in un gruppo di anarchici che opera a Milano. Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. Nel 1963 si unisce ai giovani anarchici della "Gioventù Libertaria" iniziando la sua militanza attiva; partecipa alla fondazione del Circolo "Sacco e Vanzetti" (nel 1965), del Circolo "Ponte della Ghisolfa" (nel 1968) e del Circolo di via Scaldasole. Nel 1969 si occupa del collegamento con i comitati operai di base e, con l'intensificarsi della repressione antianarchica, della Crocenera, centro di solidarietà anarchica con i perseguitati politici e le loro famiglie. Il 12 dicembre 1969 alle ore 16:37, una bomba scoppiò nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, uccidendo diciassette persone (quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto. Immediatamente il giorno stesso Pinelli viene fermato dall'Ufficio Politico della Questura di Milano e, dopo essere stato sottoposto a estenuanti interrogatori, la sera del 16 dicembre "cade" da una finestra del quarto piano della Questura. I poliziotti citati nelle canzoni su Pinelli sono i seguenti fulgidi personaggi: Luigi Calabresi, allora commissario politico della questura; Antonino Allegra, capo dell'ufficio politico della questura; Antonio Pagnozzi, commissario dell'ufficio politico della questura; Marcello Guida, questore di Milano, già appartenente all'apparato poliziesco del regime fascista; Sabino Lo Grano, tenente del carabinieri, presente all'interrogatorio di Pinelli. "La ballata del Pinelli", senz'ombra di dubbio, è la più famosa canzone attorno alle vicende legate alla strage di Piazza Fontana. Peraltro, la storia della sua composizione è assai complessa; cercheremo qui di tracciarla per sommi capi. Il punto di partenza della "Ballata del Pinelli" sembrano essere state le strofe improvvisate da Giancorrado Barozzi, Dado Mora, Flavio Lazzarini e Ugo Zavanella nella sede del circolo anarchico "Gaetano Bresci" di Mantova, la sera del 21 dicembre 1969, dopo i funerali di Giuseppe Pinelli, sulla musica de Il feroce monarchico Bava (ovvero la canzone popolare ispirata dai moti di Milano del 1898, repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris, cui il Re Umberto I concesse un'onorificenza. Onorificenza che il re scontò il 29 luglio 1900 beccandosi, al parco di Monza, una pallottola da Gaetano Bresci). Le strofe originarie formano comunque l'impianto sul quale si svilupperanno tutte le numerose varianti della ballata. Particolarmente importante, anche dal punto di vista storico, è la variante all'ultima strofa (opera, sembra, di Ugo Zavanella e indicata tra parentesi quadre nel testo che segue), nella quale compare, per la prima volta in assoluto, l'espressione "strage di stato". Tale espressione, poi generalizzatasi a tutti i livelli negli anni successivi, è quindi nata con la "Ballata del Pinelli". Quella sera a Milano era caldo ma che caldo che caldo faceva brigadiere apra un po' la finestra ad un tratto Pinelli cascò. Signor questore io gliel'ho già detto lo ripeto che sono innocente anarchia non vuol dire bombe ma giustizia amor libertà. Poche storie confessa Pinelli il tuo amico Valpreda ha parlato è l'autore del vile attentato e il suo socio sappiamo sei tu. Impossibile grida Pinelli un compagno non può averlo fatto e l'autore di questo misfatto tra i padroni bisogna cercar. Stiamo attenti indiziato Pinelli questa stanza è già piena di fumo se tu insisti apriam la finestra quattro piani son duri da far. Quella sera a Milano era caldo ma che caldo, che caldo faceva brigadiere apra un po' la finestra ad un tratto Pinelli cascò. L'hanno ucciso perché era un compagno non importa se era innocente "Era anarchico e questo ci basta" disse Guida il feroce questor. C'è un bara e tremila compagni stringevamo le nere bandiere in quel giorno l'abbiamo giurato non finisce di certo così. Calabresi e tu Guida assassini che un compagno ci avete ammazzato l'anarchia non avete fermato ed il popolo alfin vincerà. Quella sera a Milano era caldo ma che caldo, che caldo faceva brigadiere apra un po' la finestra ad un tratto Pinelli cascò. [E tu Guida e tu Calabresi Se un compagno ci avete ammazzato Per coprire una strage di stato Questa lotta più dura sarà.] Siam del popolo gli Arditi Leoncarlo Settimelli scrisse questa canzone per uno degli spettacoli del Canzonere Internazionale (1921: Arditi del popolo) ispirandosi ad alcuni frammenti di un canto degli Arditi del Popolo. E la dedica non poteva non essere al padre Donato Settimelli che degli Arditi del Popolo di Lastra a Signa fu membro e responsabile. Questa una sua testimonianza: “Ci si illudeva forse, era un’illusione, ma insomma questo entusiasmo io credo sia stato necessario, e sarebbe stato necessario in tutta la gioventù dell’epoca... insomma a molta gioventù dell’epoca, per impedire al fascismo di venire. Perché se nelle Signe cadde tardi il comunismo, insomma, l’azione operaia, lì, eccetera, fu proprio per questo entusiasmo che c’era. [...] Era venuta da allora la divisione a Livorno. [...] questo era il partito e quindi... questo entusiasmo, capisci?[...] E quindi anche lì io fui incaricato di trasformare le “squadre d’azione” in “Arditi del Popolo”. [...] La “piccola Russia”, infatti i fascisti venivano a scorrazzare a Signa, a Lastra, fino al Ponte, più in là non venivan mai, al Porto non venivan mai.” Il canto rappresenta un elogio a questo importante movimento che per primo ha tentato di contrapporsi militarmente allo squadrismo fascista. I versi riportati in corsivo e tra parentesi sono alcuni frammenti di un canto degli Arditi del Popolo che Settimelli ha poi ampliato. Siam del popolo gli arditi contadini ed operai non c'è sbirro non c'è fascio che ci possa piegar mai. E con le camicie nere un sol fascio noi faremo sulla piazza del paese un bel fuoco accenderemo. Mussolini traditore parla di rivoluzione però ammazza i proletari col pugnale del padrone. Siam del popolo gli arditi… E con le camicie nere un sol fascio noi faremo sulla piazza del paese un bel fuoco accenderemo. Ci dissero ma cosa potremo fare con gente dalla mente tanto confusa. E che non avrà letto probabilmente neppure il terzo libro del Capitale. Neppure il terzo libro del Capitale. Siam del popolo gli arditi… E con le camicie nere un sol fascio noi faremo sulla piazza del paese un bel fuoco accenderemo. Portammo il silenzio nelle galere perché chi stava fuori si preparasse. E in mezzo alla tempesta ricostruisse un fronte proletario contro il fascismo. Un fronte proletario contro il fascismo. Siam del popolo gli arditi… E con le camicie nere un sol fascio noi faremo sulla piazza del paese un bel fuoco accenderemo. Ci siamo ritrovati sulle montagne e questa volta nostra fu la vittoria. Ecco quello che mostra la nostra storia se noi siamo divisi vince il padrone. Se noi siamo divisi vince il padrone. [Rintuzziamo la violenza del fascismo mercenario tutti uniti sul calvario dell'umana redenzione. Questa eterna giovinezza si rinnova nella fede per un popolo che chiede uguaglianza e libertà. Mussolini traditore parla di rivoluzione però ammazza i proletari col pugnale del padrone.] La Locomotiva Alla fine di ogni concerto Francesco Guccini ripropone la sua ballata più popolare: "La locomotiva". Dopo oltre quarant'anni (la canzone è stata scritta da Guccini nel 1972), con tutto quello che è avvenuto nel frattempo, questa canzone dal sapore libertario, continua a smuovere qualcosa negli animi di giovani e meno giovani, in quella parte che vuole, malgrado tutto, continuare a avere fiducia nella possibilità di un mondo migliore. E quell'immagine, sia pure un po' sinistra, della locomotiva "come una cosa viva lanciata a bomba contro l'ingiustizia" mantiene il suo fascino col passare delle generazioni. Ma pochi sanno che questa canzone si richiama a un fatto realmente accaduto il secolo scorso: protagonista il fuochista anarchico Pietro Rigosi, che si impadronì di una locomotiva e la mandò a schiantarsi contro una vettura in sosta nella stazione di Bologna. Miracolosamente si salvò, ma non svelò mai il mistero di quella folle corsa. Non so che viso avesse, neppure come si chiamava Con che voce parlasse, con quale voce poi cantava Quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli Ma nella fantasia ho l'immagine sua Gli eroi sono tutti giovani e belli… Conosco invece l'epoca dei fatti, qual'era il suo mestiere I primi anni del secolo, macchinista, ferroviere I tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti Sembrava il treno anch'esso un mito di progresso Lanciato sopra i continenti… E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano Che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano Ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite Sembrava avesse dentro un potere tremendo La stessa forza della dinamite… Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali Parole che dicevano: "gli uomini sono tutti uguali" E contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via La bomba proletaria, ed illuminava l'aria La fiaccola dell'anarchia… Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione Un treno di lusso, lontana destinazione Vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori Pensava al magro giorno della sua gente attorno Pensava un treno pieno di signori… Non so che cosa accadde, perché prese la decisione Forse una rabbia antica, generazioni senza nome Che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore Dimenticò pietà, scordò la sua bontà La bomba sua la macchina a vapore… E sul binario stava la locomotiva La macchina pulsante sembrava fosse cosa viva Sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno Mordesse la rotaia con muscoli d'acciaio Con forza cieca di baleno… E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo Pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto Salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura E prima di pensare a quel che stava a fare Il mostro divorava la pianura… Correva l'altro treno ignaro, quasi senza fretta Nessuno immaginava di andare verso la vendetta Ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno Notizia di emergenza, agite con urgenza Un pazzo si è lanciato contro il treno…. Ma corre corre corre corre la locomotiva E sibila il vapore, sembra quasi cosa viva E sembra dire ai contadini curvi, quel fischio che si spande in aria Fratello non temere che corro al mio dovere Trionfi la giustizia proletaria… E corre corre corre corre sempre più forte E corre corre corre corre verso la morte E niente ormai può trattenere l'immensa forza distruttrice Aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto Della grande consolatrice… La storia ci racconta come finì la corsa La macchina deviata lungo una linea morta Con l'ultimo suo grido di animale la macchina eruttò lapilli e lava Esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo Lo raccolsero che ancora respirava… Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore Mentre fa correr via la macchina a vapore E che ci giunga un giorno ancora la notizia Di una locomotiva come una cosa viva Lanciata a bomba contro l'ingiustizia… Pietro Gori Se Errico Malatesta fu l’agitatore instancabile e l’organizzatore, se Luigi Fabbri fu l’intellettuale acuto e aperto alle sollecitazioni di una società in profondo mutamento, Pietro Gori fu, a cavallo fra ottocento e novecento, fra i grandi anarchici italiani, quello che più di ogni altro riuscì a comunicare all’immaginazione delle masse popolari la grandezza e la sovversiva originalità dell’umanesimo anarchico. La sua vita avventurosa e la tragica e prematura morte ne hanno a lungo accompagnato il ricordo, evidenziandone gli aspetti più romantici, quelli che ne hanno fatto “il cavaliere dell’ideale” o il “poeta dell’anarchia”, ma la sua attività sociale, ben lungi dall’essere improntata a una approssimativa divulgazione dell’idea anarchica, fu determinante per il crescere e il consolidamento fra le classi subalterne di una volontà di rivolta cosciente e di emancipazione solidale. La sintesi fra il solido pensatore, l’agitatore irrequieto e il comunicatore di straordinaria grandezza, contribuì alla nascita di un mito duraturo che appartenne, trasversalmente, non solo agli anarchici della “sua” Toscana, ma a tutti coloro che aspirarono e lottarono, col pensiero e con l’azione, per l’edificazione di una società in cui giustizia e libertà non fossero parole vuote destinate a pochi, ma i principi fondamentali della vita collettiva. Addio a Lugano La cui musica, di autore anonimo, è sicuramente di origine popolare, toscana, è la più famosa, insieme con Stornelli d'esilio, fra le canzoni di Pietro Gori. Egli la scrisse nel luglio del 1895 in Svizzera, dov'era dovuto riparare dopo l'omicidio del Presidente francese Sadi Carnot, ucciso da Sante Caserio. Era stato infatti fermato dalla polizia crispina, nel corso di una vasta operazione repressiva contro anarchici e socialisti, con l'accusa di essere il mandante "spirituale" del delitto, in quanto amico e difensore del Caserio. Costretto all'emigrazione, si trasferì a Lugano e, sfuggito a un misterioso attentato (gennaio 1895), venne espulso dalla Svizzera stessa insieme con altri dodici esuli. Fu allora che scrisse le parole del suo canto immortale. Un’altra testimonianza sull’origine del canto la troviamo nel libro Gli scariolanti di Ostia antica. Storia di una colonia socialista allorché Pietro Gori si reca ad Ostia presso la comunità dei braccianti ravennati per passare con loro alcuni giorni. Siamo nel 1902 dopo il suo rientro in Italia dall’America del Sud dove si reca nel 1898 per sfuggire ad una condanna in seguito ai tumulti contro il carovita che si sono succeduti in tutta Italia con epilogo a Milano dove la monarchia ordina a Bava Beccaris la violenta repressione costata oltre 80 morti. “...Era un poeta, e aveva un bel viso, un corpo snello, elegante. Si accarezzava il baffo appuntito, e sapeva ascoltare i coloni ravennati che raccontavano la loro storia. Provava un profondo rispetto per il coraggio che avevano speso in quella impresa, e glielo diceva con calore. Gli ricordavano gli uomini della Pampa, ripeté. Avevano anche cantato insieme, fino a sgolarsi, quella notte. Avevano cantato le sue canzoni, gli Stornelli dell’esilio, Sante Caserio, Amore ribelle... Di Addio Lugano Bella Gori aveva raccontato com’era nata. Dopo che Caserio aveva pugnalato a morte Carnot, lui era dovuto riparare in Svizzera. Qui l’avevano arrestato, insieme con altri 150 fuorusciti italiani, anarchici e socialisti. Tutti poi erano stati espulsi. Quando li conducevano alla frontiera, avevano le manette ai polsi e i loro passi affondavano nella neve...Con le lacrime agli occhi, si era girato indietro a guardare Lugano e pensava agli anarchici scacciati senza colpa che partono cantando con la speranza in cuor...” (Liliana Madeo Gli scariolanti di Ostia antica. Storia di una colonia socialista, Ed. Camunia, 1989. Le note riguardanti Pietro Gori sono alle pp. 181-183. Vengono narrate le vicende di una colonia di braccianti formata da socialisti, anarchici e repubblicani ravennati che si recano nell’Agro Romano per iniziare la bonifica. La storia ha inizio nel 1884 e continua tra alterne vicende fino alla fine degli anni cinquanta.) Addio a Lugano diviene popolarissimo con l’inizio del nuovo secolo e ancor oggi è uno dei canti politici più eseguito. Addio Lugano bella o dolce terra pia scacciati senza colpa gli anarchici van via e partono cantando con la speranza in cor. Ed è per voi sfruttati per voi lavoratori che siamo ammanettati al par dei malfattori eppur la nostra idea è solo idea d'amor. Anonimi compagni amici che restate le verità sociali da forti propagate è questa la vendetta che noi vi domandiam. Ma tu che ci discacci con una vil menzogna repubblica borghese un dì ne avrai vergogna noi oggi t'accusiamo in faccia all'avvenir. Banditi senza tregua andrem di terra in terra a predicar la pace ed a bandir la guerra la pace per gli oppressi la guerra agli oppressor. Elvezia il tuo governo schiavo d'altrui si rende d'un popolo gagliardo le tradizioni offende e insulta la leggenda del tuo Guglielmo Tell. Addio cari compagni amici luganesi addio bianche di neve montagne ticinesi i cavalieri erranti son trascinati al nord. E partono cantando con la speranza in cor. Amore ribelle Nota anche come “Canzonetta del libero amore”, Gori la scrisse nel 1895. Leda Rafanelli (1880-1971, scrittrice, artista ed esponente dei futuristi di sinistra, soprannominata la "Zingara anarchica") racconta come nacque il canto: “La sorella di Gori avrebbe voluto che lui si sposasse, ma avrebbe voluto anche una ricca, e gli fece conoscere una signorina americana, bella, ricchissima. Pietro Gori! Pensa, sarebbe come a me mi facessero conoscere cosa...non so, un canterino della televisione, per me son gente che ‘un vale un soldo, eh. Lui questa signorina la salutò e poi...quella s’era già innamorata, perché era bellissimo Pietro Gori, sai; era siciliano, bruno, alto, con gli occhi neri, dei capelli nerissimi, era bellissimo Pietro; senza che se ne accorgesse, eh. Quel giorno, io ero in casa sua ospite, in una stanza che dava nel giardino. Sento a un tratto, leggevo, e il parrucchiere, il barbiere, un pisano, che parlan tanto, si senton anche da lontano, eh. Sento dire a un tratto, io non ci guardavo: “Allora Pietro, li facciamo a zero?”. Io dissi: “Cosa parla?”. M’affaccio alla finestra, sidi, e vedo Pietro a sedere con la salvietta al collo e questo pisano con la macchinetta, gli aveva fatto, sai, mezza testa, insomma rapata. Io dissi: “Figurati la Bice!”, la sorella, pareva glielo facesse per dispetto. Io...e non ero più a tempo perché...gliel’aveva fatta a mezza testa. Io scesi giù, eh, ma era già tardi, eh. Lui era lì calmo calmo, che parlava, io gli dissi: ”Pietro, ma mi dici Bice cosa dirà?”. “Ma” – dice - “è caldo, era caldo”, sarà stato giugno, luglio. “Ci avevo caldo!”. Io stetti zitta; quando venne, uscì, siti, pareva una caricatura. Era bruno, denti bianchi bianchi, baffi neri, le sopracciglia e questa testa bianca rapata. Pareva un mostro. Io stetti in camera mia, dico: “Adesso vi arrangiate”; a un tratto sento...e si fece una crisi isterica la sorella. Una crisi...sentii degli urli. E poi Pietro scrisse quella canzone: all’amor tuo preferisco l’idea. Amori non n’ha avuti Pietro, almeno a quello che si sapeva noi. Noi non sappiamo che Pietro abbia avuto un amore… ecco, uno sì: L’anarchia.” (da Pietro Gori e l’americana. Una testimonianza di Leda Rafanelli) All'amor tuo fanciulla Altro amor io preferìa E' un ideal l'amante mia A cui detti braccio e cor. Il mio cuore aborre e sfida I potenti della terra Il mio braccio muove guerra Al codardo e all'oppressor. Perché amiamo l'uguaglianza Ci han chiamati malfattori Ma noi siam lavoratori Che padroni non vogliam. Dei ribelli sventoliamo Le bandiere insanguinate E innalziam le barricate Per la vera libertà. Se tu vuoi fanciulla cara Noi lassù combatteremo E nel dì che vinceremo Braccio e cor ti donerò. Se tu vuoi fanciulla cara Noi lassù combatteremo E nel dì che vinceremo Braccio e cor ti donerò. Stornelli d'esilio È un intramontabile canto di Pietro Gori, che ne potrebbe aver scritto sia all’epoca del primo esilio - quando fu espulso dalla Svizzera dove era riparato per evitare l’arresto, accusato di essere l’ispiratore dell’attentato di Sante Caserio al presidente francese Sadi Carnot – sia a quella del secondo esilio, quando Gori fu costretto a fuggire in Sud America a seguito della repressione scatenata a partire dai moti milanesi del 1898. Composta su una base musicale tratta dal canto popolare toscano “Figlia campagnola”, fu pubblicata per la prima volta nel 1898 sull'opuscoletto Canti anarchici rivoluzionari, edito dalla rivista degli anarchici italiani profughi in America, e divenne l'inno dell'internazionalismo libertario. Pur nel suo desiderio di ribellione e di libertà, il testo, di fine Ottocento, tradisce chiaramente i gusti letterari e le passioni ideali dell'epoca. Dal punto di vista del contenuto storico e politico, richiama da vicino la vicenda personale dell’autore e l'altra sua celebre composizione Addio a Lugano. Il ritornello "Nostra patria è il mondo intero" è ripreso dall'introduzione dell'opera buffa “Il Turco in Italia” (1814) di Gioacchino Rossini e Felice Romani. Il fatto che Gori abbia sperimentato in prima persona le amarezze dell'esilio e della persecuzione politica, unito alle sue magistrali doti creative, trasmette a questo brano, con grande vigore realistico, tutte le tematiche fondanti dell'anarchismo: il dolore per la miseria e l'ingiustizia, la tensione eroica verso l'emancipazione umana e verso un mondo migliore. O profughi d’Italia a la ventura si va senza rimpianti né paura. Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà ed un pensiero ed un pensiero Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà ed un pensiero ribelle in cor ci sta. Dei miseri le turbe sollevando fummo da ogni nazione messi al bando. Nostra patria è il mondo intero… Dovunque uno sfruttato si ribelli noi troveremo schiere di fratelli. Nostra patria è il mondo intero… Raminghi per le terre e per i mari per un’Idea lasciammo i nostri cari. Nostra patria è il mondo intero… Passiam di plebi varie tra i dolori de la nazione umana i precursori. Nostra patria è il mondo intero… Ma torneranno Italia i tuoi proscritti ad agitar la face dei diritti. Nostra patria è il mondo intero… In difesa di Sante Caserio Scritta nel 1900 da Pietro Gori a Portoferraio. Caserio pugnalò a morte il presidente della Repubblica francesce Marie Francois Sadi Carnot, il 24 giugno 1894, con un coltello dal manico rosso e nero (come la più classica bandiera anarchica), per poi iniziare a correre attorno al morto gridando “Viva l’Anarchia!” invece di scappare. “Sante Caserio nacque a Motta Visconti, gaio villaggio della Lombardia, da una buona famiglia di lavoratori. Il suo temperamento, entusiasta e meditabondo, era di quelli in cui le fedi più ardenti sbocciano e si sviluppano con forza misteriosa. Nella infanzia, le ingenue credenze religiose dei suoi compaesani, fra cui passò i primi anni della vita, gli ispirarono un mistico fervore. Negli occhi azzurri, profondi e sognatori di fanciullo, e nel sembiante mansueto che rivelava l’interna bontà del suo cuore anche mentre saliva il patibolo, poteva leggersi l’anelito, l’ansiosa aspirazione ad un mondo ideale, in cui gli uomini amandosi vivessero in pace.“ L’assassinio del presidente francese fu compiuto, secondo l’opinione di alcuni, per vendicare l’anarchico Auguste Vaillant, mandato a morte per una bomba fatta esplodere alla Camera dei Deputati, che non causò alcuna vittima, come pianificato dall’attentatore; fu il primo condannato alla pena capitale dall’inizio del 1800. Altre fonti, ad esempio l’interrogatorio riportato sulle pagine di Anarchopedia, vedono come movente del gesto la vendetta per l’uccisione di decine di lavoratori italianida parte dei loro colleghi francesi, durante una rivolta tinteggiata di xenofobia e razzismo, nell’agosto del 1893 alle saline di Aigues-Mortes; il governo francese fu, infatti, ritenuto colpevole di non aver ostacolato il massacro e di non aver, successivamente, condannato nessuno dei responsabili del terribile pogrom. Sante Caserio non negò mai il suo gesto né tentò mai di fuggire alla sua condanna. Da notare ciò che, sembra (dato che le fonti sono poche), abbia detto ai giudici durante il suo processo: “Dunque, se i governi impiegano contro di noi i fucili, le catene, le prigioni, dobbiamo noi anarchici, che difendiamo la nostra vita, restare rinchiusi in casa nostra? No. Al contrario noi rispondiamo ai governi con la dinamite, la bomba, lo stile, il pugnale. In una parola, dobbiamo fare il nostro possibile per distruggere la borghesia e i governi. Voi che siete i rappresentanti della società borghese, se volete la mia testa, prendetela”. Sul patibolo, di fronte alla morte, il giovane Caserio non perse la fiamma che gli bruciava in corpo ed invece di tremare di paura, si rivolse alla folla gridando “Forza, compagni! Viva l’anarchia!“ Era il 16 agosto 1894 giorno in cui l’anarchico Sante Geronimo Caserio, venne ghigliottinato, alla giovanissima età di 21 anni. Sulla figura di Caserio si è in seguito sviluppata una tradizione popolare di canti e di memoria collettiva che dura ai giorni nostri. Oltre la "La ballata di Sante Caserio" di Pietro Gori, numerose sono le canzoni a lui dedicate, in parte tramandate oralmente. Esempi sono “Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio [Il sedici di agosto]” di Pietro Cini (nota anche come "Aria di Caserio"), "Partito da Milano senza un soldo" di autore anonimo, "Il processo di Sante Caserio". Lavoratori a voi diretto è il canto di questa mia canzon che sa di pianto e che ricorda un baldo giovin forte che per amor di voi sfidò la morte. A te Caserio ardea nella pupilla delle vendette umane la scintilla ed alla plebe che lavora e geme donasti ogni tuo affetto ogni tua speme. Eri nello splendore della vita e non vedesti che lotta infinita la notte dei dolori e della fame che incombe sull'immenso uman carname. E ti levasti in atto di dolore d'ignoti strazi altier vendicatore e ti avventasti tu sì buono e mite a scuoter l'alme schiave ed avvilite. Tremarono i potenti all'atto fiero e nuove insidie tesero al pensiero ma il popolo a cui l'anima donasti non ti comprese, eppur tu non piegasti. E i tuoi vent'anni una feral mattina gettasti al vento dalla ghigliottina e al mondo vil la tua grand'alma pia alto gridando: Viva l'anarchia! Ma il dì s'appressa o bel ghigliottinato che il tuo nome verrà purificato quando sacre saran le vite umane e diritto d'ognun la scienza e il pane. Dormi, Caserio, entro la fredda terra donde ruggire udrai la final guerra la gran battaglia contro gli oppressori la pugna tra sfruttati e sfruttatori. Voi che la vita e l'avvenir fatale offriste su l'altar dell'ideale o falangi di morti sul lavoro vittime de l'altrui ozio e dell'oro, Martiri ignoti o schiera benedetta già spunta il giorno della gran vendetta della giustizia già si leva il sole il popolo tiranni più non vuole. Riferimenti bibliografici Roberto Leydi, La canzone popolare, Storia d’Italia, Vol. 5 – I Documenti, Ed. Einaudi, pp. 1184-2250. Leoncarlo Settimelli e Laura Falavolti, Canti satirici anticlericali, Ed. Savelli, 1975. Leoncarlo Settimelli e Laura Falavolti (a cura di), L’Ammazzapreti, LP 33giri, La nuova sinistra Ed. Savelli, 1975. S.Canuto-F.Schirone, Il canto Anarchico in Italia,nell'ottocento e nel novecento, Ed.Zeroincondotta 2009