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“NE` DIO NE` STATO...NE` SERVI NE` PADRONI “NE` DIO NE
“NE’ DIO NE’ STATO...NE’ SERVI NE’ PADRONI
...LIBERI DAI DOGMI, ERETICI DA SEMPRE!”
I Canti Anarchici e Anticlericali
A cura di CONTROcanto Pisano
www.controcantopisano.it
…Né dio Né stato…
Pietro Gori: LO STATO
I governanti fanno credere, e il pregiudizio è antico, che il governo sia strumento di
civiltà e di progresso per un popolo. Ma il mondo ha camminato sempre fin qui non
con l’aiuto dei governi, ma loro malgrado, e trovando in essi l’ostacolo continuo diretto
ed indiretto al suo fatale andare. Quante volte i più gloriosi rinnovatori nella scienza,
nell’arte, nella politica non si trovarono sbarrato il cammino, oltre cha dai pregiudizi e
dall’ignoranza delle masse, anche e soprattutto dai bavagli e dalle persecuzioni
governative?
Quando il potere legislativo ed il governo accettano e soddisfano sotto forma di legge
o di decreto qualche nuova domanda sorta dalla coscienza pubblica, ciò è sempre in
seguito a reclami innumerevoli, ad agitazioni straordinarie, e sacrifici non indifferenti
del popolo. I parti curiosi e bizzarri del genio legislativo riescono a gabellare per diritto
il privilegio, per ordine il brigantaggio collettivo,per eroismo il fratricidio della guerra…
Ora noi che tutti questi mali vogliamo combattere per abbattere tutto ciò che ostacola
il trionfo della giustizia, noi siamo chiamati fautori del disordine.
Ma se le parole conservano il loro significato, non gli anarchici possono essere
chiamati amici del disordine. In questo periodo storico di sfacimento e di transizione,
fra una società che muore e una che nasce, gli odierni rivoluzionari sono veri elementi
d’ordine. Essi hanno negli occhi fosforescenti la visione delle idealità sublimi che fanno
palpitare il cuore dell’umanità, che l’avviano sull’infinito ascendente cammino della
storia… questi militi dell’avvenire sognano le primavere fulgenti della famiglia umana,
soddisfatta nella uguaglianza, e ingentilita dalla solidarietà e dalla pace dei cuori.
(da Il vostro ordine e il nostro disordine, conferenza tenuta il 15 marzo 1896 a San
Francisco)
Storicamente il momento di massima contrapposizione fra il popolo italiano e la
gerarchia della Chiesa Cattolica è stato il Risorgimento, quando lo Stato
Pontificio - spesso paradossalmente sostenuto da potenze straniere come la
Francia per motivi di politica estera – si oppose fino all’ultimo alla formazione
di uno Stato italiano unitario. Il Risorgimento fece un uso massiccio di
innovativi mezzi di propaganda politica. Fra essi la canzone popolare, insieme a
tutta la variegata tradizione orale e musicale del nostro Paese, ebbe un ruolo di
assoluta preminenza. Bisogna comunque ricordare che il Risorgimento
coinvolse solo la parte, assai minoritaria in realtà, di popolo che viveva nelle
città dove si erano appena avviati quei processi di industrializzazione e di
trasferimento di popolazione dalle campagne ai centri urbani che giungeranno
a completo compimento solo ben 100 anni dopo. E che allora essere popolari e
rivoluzionari significava essere per la Repubblica d’Italia come lo erano
Garibaldi e Mazzini, il primo intellettuale a porsi il problema della fondazione di
una musica popolare patriottica.
Le canzoni popolari di questo periodo sono quasi tutte intrise di un patriottismo
violento e beffardo che richiamano il grido garibaldino “O Roma O morte” (che
poi riecheggerà nell’anarchico “O libertà O morte”, e sarà anche ripreso in
seguito dalla propaganda fascista). Pio IX è il grande bersaglio della polemica
violenta, tanto odiato che l’imprecazione contro la sua persona è rimasta nel
gergo popolare fin quasi ai giorni nostri. Dal 1849 al 1870 Roma capitale è il
grande sogno dei patrioti italiani: le loro parole, le parole delle canzoni, non
sono ancora anticlericali, non sono contro la “fede”, ma contro il “papa-re”.
Sono queste tutte canzoni di cronaca, con il gusto dello sberleffo e del racconto
delle battaglie o delle gesta repressive del Papa. Ma appena la breccia di Porta
Pia diventa storia ecco affacciarsi, nei caratteristici Contrasti Popolari, i primi
segni di maturità politica: il priore freme alla vista del tricolore e minaccia
inquisizioni e inferno mentre il suo oppositore si richiama al Cristo e alla sua
povertà. Questi Contrasti, numerosi in tutta la musica popolare e quindi anche
in quella anarchica e anticlericale, sono segno dell’approdo popolare alla
polemica politica e anticlericale e sono documenti tra i più importanti della
cultura delle classi subalterne.
Le prime due canzoni che proponiamo ci ricordano il primo, rumoroso scontro
fra l’Italia e lo Stato Pontificio, con Pio IX chiamato a farne particolarmente le
spese, in A Roma A Roma. Interessante notare come nella seconda canzone Se
il Papa è andato via la polemica anti papalina si trasformi subito in una
polemica antiautoritaria contro ogni tipo di dittatore e in una rivendicazione di
sovranità popolare intrisa di richiami alla fratellanza universale di origine
illuministica che poi si innesterà nella cultura anarchica e internazionalista.
E a Roma a Roma …ci sta un pap(p)a …
È una canzone anticlericale garibaldina dai toni molto forti e accesi, scritta e musicata
da anonimo. Il canto è composito, formato da strofe di diversa origine, non databile
con precisione ma probabilmente risalente al periodo 1867-69. Nell'alto novarese
divenne quasi l'inno ufficiale delle celebrazioni del XX settembre da parte di
repubblicani, socialisti e liberali fino ai primi anni del Novecento. Ma anche
successivamente mantenne una certa popolarità, testimoniata dal fatto che entrò a far
parte del repertorio resistenziale delle formazioni garibaldine della zona.
Per comprendere la forte carica antipapale del testo, dobbiamo sempre ricordarci che
quella era l’epoca in cui i patrioti italiani andavano a morire per Roma capitale e che
durante il pontificato di Pio IX vennero eseguite numerose condanne a morte di
'rivoluzionari' che si opponevano al potere temporale della Chiesa. Pio IX, che fu
responsabile anche di gravi atti tesi a giustificare le persecuzioni contro gli ebrei come
ad es. la canonizzazione dell’inquisitore spagnolo Pietro d’Arbués, veniva usualmente
apostrofato con epiteti dissacranti come ‘pappa’, abbreviativo di ‘pappone’, cioè di uno
che mangia molto quasi sempre alle spalle degli altri come chi sfrutta le prostitute
(pappone in romanesco significa appunto protettore/sfruttatore di prostitute). Rimane
nella storia la definizione che di lui diede Garibaldi in un suo focoso discorso alla
Camera dei Deputati: “Quel metro cubo di letame”.
E a Roma a Roma
ci sta un papa
che di soprannome
si chiama Pio Nono
Lo butteremo giù dal trono
dei papi in Roma
non ne vogliamo più (2 vv.)
Prima in San Pietro
e poi in San Paolo
e le lor teste
vogliamo far saltar
E in piazza d'armi la ghigliottina
e le lor teste
vogliamo far saltar (2 vv.)
E a Roma a Roma
suonavan le campane
piangevan le puttane
gh'è mort al puttanè
Lo butteremo in una pignatta
o brutta vacca
buon brodo ci darà (2 vv.)
Chi siete voi?
Noi siamo piemontesi
Voi siete vili
barbari e assassini
No!
Sì!
Siam valorosi garibaldini
che anche Roma
vogliamo liberar (2 vv.)
Se il Papa è andato via
Si ipotizza che l'autore del canto, intonato a porta San Pancrazio dai repubblicani che
difendevano Roma nel 1849, sia Goffredo Mameli, lo stesso autore dell'inno libertario
"Fratelli d'Italia". Quanto meno si può considerare certo che il canto rappresenta un
arrangiamento di una composizione poetica - quasi esattamente con le stesse parole che il Mameli, poco prima della morte nella difesa della Repubblica Romana, aveva
inserito in un progetto di pubblicazione delle proprie opere letterarie.
La Repubblica Romana fu un'esperienza molto significativa nella storia dell'unificazione
italiana e nella definizione dei caratteri costituzionali e dei diritti civili della Repubblica
d’Italia che sorse dopo la Resistenza: l’illuministico anelito alla sovranità popolare, alla
fratellanza e solidarietà in contrapposizione alla tirannide di papi e re è impresso in
queste strofe.
Se il Papa è andato via
buon viaggio e così sia
buon viaggio e così sia
Non morirem d'affanno
perché fuggì un tiranno
perché fuggì un tiranno
perché si ruppe il canapo
che ci legava al pie'
perché si ruppe il canapo
che ci legava al pie'
Viva l'Italia e il popolo
e il Papa che va via
e il Papa che va via
Addio, Sacra Corona
Finí la Monarchia
Finí la Monarchia
Or ch'é sovrano il Popolo
Mai piú ritorni un re.
Or ch'é sovrano il Popolo
Mai piú ritorni un re.
O popoli fratelli
Oppressi da mill’anni
Oppressi da mill’anni
Buttate giù i cancelli
Scacciate i re tiranni
Scacciate i re tiranni
Mai più sui troni siedano
Imperatori o re
Mai più sui troni siedano
Imperatori o re
…Né servi Né padroni…
Pietro Gori: LIBERTÀ ED EGUAGLIANZA
La soluzione anarchica del problema della libertà presuppone una soluzione socialista
del problema della proprietà. Ecco perché gli anarchici sono socialisti.
La prima ribellione contro le iniquità sociali è quella impulsiva del cuore o del bisogno;
poi viene la logica austera e fredda, che risalendo alle cause profonde degli
avvenimenti umani, critica, demolisce e combatte serenamente – senza odio e senza
paura. Non è dogma prestabilito, questa fede nell’avvenire dell’umanità; non è un
teorema arido di formule algebriche. È poesia e scienza ad un tempo. È certezza
matematica, che ha la sua genesi nel cuore e la sua vitalità nel cervello.
Ma nel socialismo, che è la base economica della futura società, devono essere
praticamente conciliati i due grandi principi della uguaglianza e della libertà. Donde
l’ardito e sì mal compreso concetto dell’anarchia: libertà delle libertà.
L’anarchia non è, come il socialismo autoritario, l’umanità che soffoca l’uomo. Non è,
come il disordine borghese, l’uomo che calpesta l’umanità. Ma riassume l’ideale d’uno
spontaneo accordo delle volontà e delle sovranità individuali nel godimento del
benessere, creato dal lavoro di tutti. Senza sfruttamento: ecco l’idealità economica;
senza coazione: ecco l’idealità politica del socialismo vero.
Lungi, dunque, dall’essere contraddittori, i due termini – socialismo ed anarchia –
s’integrano e si completano a vicenda.
Immaginate una società in cui tutti i cittadini, liberamente federati in gruppi,
associazioni, corporazioni di professione, arte o mestiere, sieno comproprietari di
tutto: terre, miniere, opifici, case, macchine,strumenti di lavoro, mezzi di scambio e di
produzione; immaginate che tutti codesti uomini, associati da una evidente armonia
d’interessi, amministrino socialmente, senza governanti, la cosa pubblica, godendo in
comune dei vantaggi, ed in comune lavorando ad aumentare il benessere collettivo, ed avrete l’anarchia ideale. È utopia?
(da Pietro Gori - La questione sociale e gli anarchici)
La fine dell’800 e il primo decennio del ‘900 vedono gli ideali anarchici e
socialisti diffondersi e prendere piede. Assieme alla grande miseria e ai
clamorosi scandali dei governi liberali, la Chiesa Cattolica, con la sua presenza
capillare nel territorio italiano, sembra costituire uno dei baluardi che si ergono
a frenare la gloriosa marcia di liberazione del proletariato. Anche in questo
periodo sono peraltro numerosi gli scandali legati alle curie e ai prelati nei quali
viene coinvolta molto spesso la … popolazione infantile. La Francia espelle i
sacerdoti e le monache e anche in Italia si
invoca un provvedimento simile. Che non
verrà mai.
La
polemica
anticlericale
vede
all’avanguardia anche il giovane Filippo
Turati e non c’è canto anarchico e
socialista che non proclami di far “guerra
ai palagi alle chiese” e auspichi che
“presto i dì verranno/ che papa re e
signori/ coi birri lor cadranno/ per man
dei malfattori”.
Nasce L’Asino ma tutta l’Italia vede
sorgere testate a forte carica anticlericale.
Su L’Asino, aiutato dai violenti disegni di
Galantara, Podrecca inchioda preti, suore,
frati. E lo fa anche con le canzoni, alcune
delle quali diventeranno popolarissime. E con esse gli epigrammi di Stecchetti,
del Giusti e di Renato Fucini. Anche il mondo contadino vede nascere contrasti
con il clero perché quest’ultimo è proprietario di molte terre. Insomma in
questo periodo si tocca il punto più alto della lotta anticlericale.
ALESSIO
Pal che si vadi a Roma eh, Neri ?
NERI
Pare.
Arméno 'n der giolnale c'era scritto.
Io. pel me, mi ci filmo: o che vo' fare?
D' artronde tutti diano: S'ha 'r diritto!
Ma che 'r Papa si lasci sputestare
Di tutta la su' robba e stare zitto,
Sbaglierò, ma mi pal che 'un possi stare ;
Prima di cede', lui fa peso ritto...
ALESSIO
Ma cosa voi rizza' ? se va 'r Ciardini,
'Li mangia li zuavi 'n du' bocconi ;
Rabbiosi 'ome lui ce n'è poini.
E po'.... bell'omo... sverto ... co' su' sproni....
Se fa tanto d'entra' drent' a' 'onfini,
'Ni spelpera, Dio prete, anch' e' piccioni.
(Renato Fucini Sonetti, XXIII Pare! Firenze, 1870)
AGATA. Sora Gigia...
GIGIA. Vor me, sor' Agatina ?
AGATA. Sì... ne sa nulla lei cosa c'è stato ?...
Nun sente quant' urlacci stamattina ?
Pal che vadia 'n subbisso 'r vicinato.
GIGIA. Bimba, o che vor che sappa ? ero 'n cucina...
AGATA. Gualdi, gualdi, s'affacci, ecco 'r curato.
GIGIA. Madonna !'ome scappa di burina...
AGATA. Domandamol' a lui..., Don Foltunatoo?...
CURATO. Figliole ?
AGATA. O che sarà questo fottio?
CURATO. Nulla, donnine mie, nulla di male.
GIGIA. Reverendo, si felmi...
CURATO. Ho furia, addio.
DIMOSTRANTI.(Viva 'r Re!... Viva Roma 'apitale!)
GIGIA. Chiuda, chiuda. Ha sentito ? Uh Gesù mio !
Dicelto hann' ammazzato 'r temporale.
(Renato Fucini Sonetti, XXIV, La mattina der 20 Settembre 1870 in via l'Arancio. Firenze, 1870)
Bruceremo le chiese
Non abbiamo informazioni sull’origine di questa canzone né sul suo autore. La melodia
è un collage di motivetti preesistenti e conosciuti dal popolo. Il testo ha un evidente
tono sarcastico – come si deduce dallo strumento utilizzato per ‘impiccare il Papa-Re’
– volto a mitigare la crudezza truculenta dei concetti espressi nelle strofe. È
interessante notare come il tema anticlericale, di rivolta contro l’ordine imposto dalla
Chiesa e dal Papa-Re, si leghi al tema della ribellione contro ogni ordine sociale nel
nome della libertà: il motto garibaldino “O Roma o morte” si lega all’anarchico “O
libertà o morte”. Altrettanto interessante è anche il testo della ultime strofe, dove la
figura
di
Gesù
Cristo
viene
anacronisticamente arruolata nei
ranghi del socialismo solidaristico e
popolare, in contrapposizione alle
figure clericali, nel tentativo di
separare
le
responsabilità
del
profeta del cristianesimo da quelle
della gerarchia ecclesiastica.
Bruceremo le chiese e gli altari
bruceremo i palazzi e le regge
con le budella dell'ultimo prete
impiccheremo il papa re
Rivoluzione sia,
guerra alla società
piuttosto che vivere così
meglio morire per la libertà.
E il Vaticano brucerà
e il Vaticano brucera
e il Vaticano brucerà
con dentro il papa!
E se il governo si opporrà
e se il governo si opporrà
e se il governo si opporrà
rivoluzione!
Rivoluzione sia
guerra alla società - la società
piuttosto che vivere così
meglio morire per la libertà
Sono stato sul Monte Amiata
dove è morto Gesù Cristo
anca lu l'era un socialisto
e morì per la libertà
Prete prete tu mi farai morire
prete prete tu mi farai morir
mi farai morir
Bevi bevi compagno [La canzone che ammazza li preti]
Non abbiamo informazioni sull’origine di questa canzone anarchica né sul suo autore.
Il testo ha un evidente tono ironico e anche qui la musica è un misto di melodie e
ritmi musicali diversi a sottolineare, se ce ne fosse bisogno, il “divertissement”.
"Bevi, bevi compagno
sennò t'ammazzerò"
"Nun m'ammazza compagno
che adesso beverò"
Mentre il compagno beve
la canteremo, la canteremo.
Mentre il compagno beve
la cantaremo larillerà
La la la la
La canzone che ammazza li preti
La la la la
'mazza monache, preti e fra'!
Se nasce l'anarchia
un bel pranzo s'ha da fa
tutto vitella e manzo
se duimo da magnà
E fritarelle di monache
preti e frati spezzati
l'ossa de 'sti maiali
ai cani s'ha da dà
E le chiese son botteghe
Li preti son mercanti
Vendono madonne e santi
e a noi ce credono vecchi poveri e ignoranti
vecchi poveri e ignoranti
La la la la
La canzone che ammazza li preti
La la la la
'mazza monache, preti e fra'!
Nuovi stornelli socialisti
Conosciuto anche con il titolo “E quando muoio io”, questo canto è stato ricavato da
un disco stampato negli Stati Uniti all’incirca nel 1908. Esecutore del brano era il
baritono Giuseppe Milano, con accompagnamento d’orchestra. Le strofette sono
anonime e di probabile origine anarchica. In questa canzone compaiono le prime
rivendicazioni di un funerale civile e laico, che trova riferimenti nelle figure popolari
dei grandi italiani che combatterono il potere temporale della Chiesa Cattolica e
nell’amore libero.
E quando muoio io non voglio preti,
non voglio avemarie nè paternostri,
non voglio avemarie nè paternostri
ma la bandiera rossa dei socialisti.
E la rigi- la rigi- la rigiri,
la rigira la sempre arditi,
evviva i socialisti,
abbasso i gesuiti!
Hanno arrestato tutti i socialisti,
l'arresto fu ordinato dai ministri,
l'arresto fu ordinato dai ministri
e questi sono i veri camorristi.
E la rigi- la rigi- la rigiri,
la rigira e mai la sbaglia,
evviva i socialisti,
abbasso la sbirraglia!
La Francia ha già scacciato i preti e i frati,
le monache, i conventi ed i prelati,
le monache, i conventi ed i prelati,
perchè eran tutte spie e in ciò (perciò) pagati.
E la rigi- la rigi- la rigiri,
la rigira e la ferindora,
abbasso tutti i preti
e chi ci crede ancora!
Ma se Giordano Bruno fosse campato,
non esisterebbe più neanche il papato,
non esisterebbe più neanche il papato
e il socialismo avrebbe già trionfato.
E la rigi- la rigi- la rigiri,
la rigiri e la fa trentuno,
la rigiri la sul ventuno,
evviva i socialisti,
evviva Giordano Bruno!
E quando muoio io non voglio preti,
ma quattro bimbe belle alla mia barella,
ma quattro bimbe belle alla mia barella,
ci voglio il socialista e (con) la sua bella.
E la rigi- la rigi- la rigiri,
la ruota e la rotella,
evviva Giordano Bruno,
Garibaldi e Campanella!
Pietro Gori: IL LAVORO
“Il lavoro è dunque il primo elemento della vita sociale, e attorno alla gloriosa
bandiera del lavoro l’umanità affratellata si stenderà amorosamente la mano,
allorquando sotto lo scroscio formidabile della grande rivoluzione, sarà caduta la
proprietà individuale, e sarà subentrata a questa la proprietà comune.
Colla proprietà individuale cadranno tutti i privilegi di casta.
Avendo tutti gli uomini gli stessi diritti e gli stessi doveri nelle relazioni reciproche,
nessun lavoro sarà più disprezzato di un altro, giacché tutti i lavori, anche quelli
considerati ora come i più abbietti, sono nobili, perché sono utili all’uomo, e tutti più o
meno necessari alla convivenza sociale. Il lavoro sarà diviso fra gli uomini a seconda
delle attitudini e della capacità e dell’ingegno di ciascuno; nobile e rispettato del pari il
lavoro intellettuale, non meno faticoso di quello manuale, del medico, dell’ingegnere,
del meccanico, come il lavoro materiale dell’operaio e dell’artigiano. Ognuno darà
l’opera sua nella corporazione d’arte e di mestieri, a cui appartiene, a seconda delle
proprie forze; e le produzioni dei diversi generi di lavoro, i raccolti della campagna, i
prodotti dell’industria e dell’arte saranno custoditi nelle varie località in depositi
comuni, da cui ciascuno prenderà quanto gli abbisogna per se e per la famiglia.
La formula del lavoro e del consumo si riassume nella massima: Da ciascuno secondo
le proprie forze, a ciascuno secondo i propri bisogni.
Il lavoro essendo allora divenuto un dovere per tutti, ed essendo moltissimi più i
lavoratori, la produzione di tutti i generi avrà un grandissimo aumento; tanto da
essere più che sufficiente ai bisogni di tutti, e la divisione del lavoro tra un numero di
persone assai maggiore di quelle che attualmente devono produrre per tutti,
risparmierà a ciaschedun lavoratore parecchie ore di fatica.
Tutto quello che verrà accumulato nei magazzini e nei depositi della comunità,
prodotti della terra, tessuti, manifatture, commestibili ed ogni oggetto infine
necessario alla vita, essendo il frutto del lavoro di tutti, dovrà appartenere a tutti
indistintamente.”
Uno, evviva Giordano Bruno
Canzone composta nel primo dopoguerra, probabilmente al tempo del fronte popolare,
poiché vi riecheggiano temi della propaganda dell’epoca.
Uno, evviva Giordano Bruno
che diceva la verità,
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Due, le mie braccia co' le tue,
tutte so' per lavora',
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Tre, so' formato come te,
più nessuno deve ozia',
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Uno, nun lo po' sape' nessuno
manco Andreotti cor curato
po' sape' per chi ha votato,
e se mai si pentirà...
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Quattro, chi lavora è un gran matto
se si lascierà sfrutta',
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Cinque, traditore è chiunque
si er crumiro lo farà,
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Sei, i tuoi figli come i miei
tutti devono studia',
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Due, 'sto governo c'ha la lue
c'ha la lue de li piani
de Marshall e de Fanfani
quello Erp pure ce sta'
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Sette, chi 'n c'ha 'r core 'n ce se mette
quando er botto se farà
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Otto, er crumiro fa er fagotto
perché er posto nun ce sta,
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Nove, cominciamole a fa' le prove
pe' campare in libertà,
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Tre, noi volessimo sape'
se Andreotti s'è deciso
a mandacce in paradiso,
ché all'inferno ce stiamo già!
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Dieci, tutti quanti semo amici,
chi è che vo' la libertà,
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Undici, no volemo più li giudici,
giusto er popolo sarà,
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Dodici, chi sta in camera e chi in cucina,
e chi sta a letto a riposa',
trionfa socialismo,
socialismo trionferà!
Tre, noi volessimo risape'
se Andreotti s'è deciso
a mandacce in paradiso,
ché all'inferno ce stiamo già!
Mira la rondondella, mira la rondondà!
Mira la rondondella, mira la rondondà!
…liberi dai dogmi…
Pietro Gori: LA RELIGIONE
…ma poiché dicono che vogliamo distruggere la religione, ragioniamo un po’ e
vediamo se la nostra idea è irrazionale oppure confortata dalla logica, dall’esperienza,
dalla scienza e dalle ragioni di vita.
Innanzi tutto sarà bene chiedere di quale religione si parli. Ce ne sono tante a questo
mondo. Forse di quella che promette il paradiso cristiano e minaccia,
bambinescamente, le fiamme dell’inferno (come ai bimbi buoni o cattivi si promette lo
zuccherino o lo scapaccione) e che fa consistere tutto lo stimolo alle opere buone nella
speranza usuraia o nella paura infantile di godere o di soffrire… nell’altra vita! O
invece si vuol parlare della religione di Maometto che promette ai suoi fedeli la gioia
pagana delle hourri giovani e belle? O non piuttosto di quella di Confucio o di Budda?
Di quale fra tutte queste s’intende parlare, dappoiché i preti di ognuna sostengono che
la religione vera è la loro?
Naturalmente, a seconda di dove noi fossimo, ognuna, per bocca dei suoi preti, ci
muoverebbe aspra l’accusa di miscredenza. Ma poiché siamo nati e viviamo in paesi
dove predomina la regione cristiana e cattolica in specie, per ribattere tale accusa, gli
argomenti migliori sono gli stessi sacerdoti che ce li forniscono; sono essi che hanno
dato i più tremendi colpi di distruzione alla propria fede. Dal momento che il
discendente di Pietro pescatore dimenticò l’umiltà originaria del Cristianesimo –
religione dei poveri e per i poveri- dal momento che i prìncipi della Chiesa invece di un
ruvido manto, si coprirono di bisso e di gemme come tutti gli altri potenti della terra;
dal momento che le indulgenze, i passaporti per il paradiso, le amnistie del purgatorio
poterono comprarsi come una merce o come un favore da impiegati e ministri corrotti;
quando la Chiesa si frantumò, fine naturale di tutte le chiese, in bottega di anime e di
coscienze. Il dogma cattolico divenne nemico della scienza e della libertà, bigottismo e
fanatismo cieco da un lato e asservimento al potere dall’altro. Noi la trasciniamo
questa fede come una palla al piede la quale ci impedisce di camminare verso la mèta
nostra della liberazione integrale. Sarebbe ora che noi la staccassimo, una buona
volta, e ce la togliessimo dai piedi.
(da Scienza e religione, conferenza tenuta il 14 luglio 1896 a Paterson, negli USA)
Dopo la parentesi del ventennio fascista, al termine della Seconda Guerra
Mondiale, tra la Chiesa di Pio XII e le forze popolari e democratiche scoppia un
grande contrasto. Il Papa scomunica le sinistre, si lega a doppio filo con gli
Stati Uniti, trova in De Gasperi e Andreotti due fedeli rappresentanti, mentre le
forze democratiche e popolari registrano, il 18 Aprile 1948, una grave sconfitta
elettorale. Al terrorismo fisico di Pio IX, Papa Pacelli sostituisce il terrorismo
psicologico, crea i comitati civici, inventa le “chiese del silenzio”, irrompe
pesantemente nella vita politica italiana.
Le sinistre rispondono punto su punto. Il vecchio anticlericalismo risorge sulle
colonne del Don Basilio, ma anche i giornali di partito registrano puntualmente
le malefatte di oscuri preti violentatori e di congregazioni religiose dedite alle
speculazioni più clamorose. Il 1950 è l’Anno Santo, l’anno delle Madonne
pellegrine, delle statue sacre che piangono, dei conventi trasformati in
alberghi. Muore Pio XII e sale al soglio Papa Roncalli che sembra dar voce ai
fermenti del mondo religioso e cercare un “dialogo” con i marxisti. Da questo
momento la polemica religiosa andrà gradatamente perdendo di vigore e
scomparirà lentamente nelle forme grafiche e musicali di una volta con il
diffondersi del consumismo e l’affermarsi della televisione.
Sant’Antonio allu desertu
Negli anni ’60 giunge a pieno compimento il processo evolutivo del capitalismo italiano
che, con il cosiddetto Miracolo economico, diventa una potenza industriale: l’Italia da
Paese prevalentemente agricolo si trasforma in un Paese industriale secondo in
Europa solo alla Germania. La cultura tradizionalmente clericale del Paese viene
investita da questa grande trasformazione che è anche culturale e di costume, come
dimostrano le conquiste ottenute negli anni ’70 sul piano del diritto civile (eguaglianza
uomo-donna, diritto di famiglia, divorzio, aborto, etc.).
I temi anticlericali presenti nelle canzoni scelgono spesso la strada dell’ironia, a
testimonianza di un clima culturale in cui le tradizioni religiose sono considerate il
retaggio di un passato che non incute più timore, ma fa solo sorridere chi ha una
sensibilità moderna, non bigotta.
Ne è testimonianza questa canzone “Sant’Antonio allu diserte” di autore anonimo che
viene reinterpretato nei primi anni ’60 da I Gufi (Roberto Brivio, Gianni Magni, Lino
Patruno, Nanni Svampa). Per questa canzone il quartetto viene denunciato per
vilipendio della religione, ma I Gufi sono assolti con formula piena: il reato non
sussiste! Anche le sentenze della magistratura iniziano a entrare in sintonia con le
esigenze una società più moderna.
Buona sera cari amiche tutte quante li cristiane
questa sera v'aggia a dice de la festa de dimane
ca dimane è Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Li parenti ‘e Sant'Antonio una moglie gli vogliono dare
ma lui nun ne vuol sapere, nel diserte si fa mandare
pe n'avè la siccatura de sta’ a fà ‘na criatura
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte s'appicciava 'na sicaretta
Satanasse pe' dispiette glie freghette l'allumetta
Sant'Antonio nun se la prende cu’ nu prospere se l'accende
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte se faceva la permanente
Satanasse pe' dispiette glie freghette la corrente
Sant'Antonio non s'impiccia, culle dita se l'arriccia
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte se cuciva li pantalune
Satanasse pe' dispiette glie freghette li buttune
Sant'Antonio se ne frega cu lu spago se li lega.
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu demonie.
Sant'Antonio allu diserte cucinava gli spaghette
Satanasse stu fetente glie freghette le furchette
Sant'Antonio nun se lagna culle mani se li magna
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte se lavava l'insalata
Satanasse pe' dispiette glie tirette na sassata
Sant'Antonio lo prese pel collo e lo mise col culo a mollo
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte se diceva l’ oraziune
Satanasse pe' dispiette gli fa il verso de lu trumbune
Sant'Antonio col curtellone gli corre appresso e lo fa cappone
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Vi saluto cari amiche lu signore ve benedice
e fa cresce lu patrimonio cu le grazie ‘e Sant'Antonio
ca dimane è Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie
Il crocifisso dell’ARCI di San Miniato
Dopo le battaglie civili degli anni ’70 con le
vittorie nel referendum sul divorzio e
sull’aborto, i temi anticlericali nelle
canzoni popolari tendono a scomparire
anche perché la Chiesa Cattolica si ritira
progressivamente
nel
fortilizio
del
rapporto diretto con la politica di fronte
dell’incedere
impetuoso
della
secolarizzazione dei costumi della società
italiana che diventa consumistica ed
edonistica come gran parte del mondo
occidentale. La Casta dei Casti e la Casta
dei Politici italiani si cingono in un mortale
abbraccio fra poteri forti, abbandonando le
masse popolari e le classi subalterne
all’egemonia
culturale
dell’arretrato
capitalismo italiano.
I
temi
anticlericali
diventano
così
patrimonio di alcune agguerrite minoranze
a cui vengono negati diritti civili e che sono discriminate, come i cittadini omosessuali
e atei/agnostici, mentre le masse popolari sono culturalmente preda dei miti
demenziali del berlusconismo.
Il Crocifisso dell’ARCI di San Miniato è una canzone che rappresenta un tipico esempio
di una battaglia condotta da una minoranza agguerrita e culturalmente attrezzata, che
conduce una battaglia laica nella Toscana, una volta rossa e libertaria, ormai
anestetizzata dal berlusconismo imperante e dal trasformismo dei dirigenti di alcuni
partiti della sinistra, primo fra tutti il PD. Ecco come, con molta ironia, gli autori e i
primi esecutori del pezzo ricordano la genesi della canzone.
Il crocifisso dell’ARCI di San Miniato, scritto e musicato dal socio UAAR di Firenze
Marco Mangani, nasce come idea musicale rivoluzionaria fra le 23 e le 24 del 14 Luglio
2012 (data storica colma di significati), durante l’usuale convegno commemorativo
che si tiene sulle colline del Chianti, in località Poneta nei pressi del Ferrone.
Qui, in un edificio che nell’antichità ospitava mucche e cavalli, e che ha conservato
intatto nel tempo il suo fascino carbonaro e sovversivo, pur sostituendo i tipici sentori
di stalla cogli aromi freschi di quel Sangiovese che vi scorre a ettolitri, ogni anno,
proprio nello stesso giorno della presa della Bastiglia, convergono, in gran segreto ed
eludendo con grande perizia cospirativa l’attento controllo degli sbirri della DIGOS!, gli
ultimi, indomiti laicisti toscani, per dar un po’ di voce e un po’ di fiato – rigorosamente
avvinazzato! – al loro folle delirium tremens: riuscire a liberare l’Italia dalla servitù
Vaticana, educando al contempo il popolo al pensiero critico e libero!
I tragici eventi evocati da questa canzone, vibrante di passione civile rivoluzionaria e
anticlericale in ogni sua nota, sono quelli verificatesi lo scorso anno nel Circolo ARCI –
Casa Culturale di San Miniato Basso. Qui, la bella LAICA immacolata(!) ed intonsa
parete BIANCO GHIACCIO del Circolo, che aveva ricoperto la precedente scritta
rosino pallido stinto “YES, WE CAN”, che a sua volta aveva sostituito la gloriosa falce e
martello su bandiera rossa e tricolore, che aveva a sua volta sostituito etc. etc. fino al
ritratto di Marx ed Engels, era stata macchiata dalla presenza del Crocifisso, il
macabro simbolo della religione cattolica. Destando così le giuste ire degli ultimi
laicisti di San Miniato rimasti, fra cui campeggia la figura epica del Rino Bertini.
Ire, quelle dei laicisti, naturalmente inascoltate dalla dirigenza del Circolo ARCI, ben
ammanicata con il Vescovo di San Miniato e i suoi tirapiedi cosiddetti politici.
Voi, invece, ascoltate attentamente questa canzone perché in essa, se non l’avete
ancora capito, prevale il sarcasmo, che è la via migliore per abbattere il dogma
ottuso. Ovunque esso si annidi. Anche fra la maggioranza relativa del popolo che
frequenta il Circolo dell’ARCI di San Miniato Basso senza capire nulla di democrazia e
dei diritti (che sono soprattutto quelli delle minoranze)!
Lo vidi una mattina
Appeso su quel muro
Sentii drizzarsi il crine
Mi feci in volto scuro
Andai dal Presidente:
“Che storia è questa qua?”
Rispose sorridente:
“Una grande novità!”
Evviva il crocifisso dell’ARCI di San Miniato!
Evviva chi ce l’ha messo, che sempre sia lodato!
Cantiamo tutti in coro, con mistico fervor:
“Evviva il crocifisso, simbolo dell’amor!”
Mio caro Presidente,
ma ‘un s’era anche laicisti?
S’andava a testa bassa
Contro Madonne e Cristi…
“Contr’ordine, compagni,
‘un si bestemmia più:
faremo le riforme
nel nome di Gesù!”
Evviva il crocifisso dell’ARCI di San Miniato!
È il primo grande passo per governar lo Stato!
Compagno: sull’attenti! Porta la mano al cuor!
Avremo il Crocifisso sul patrio tricolor!
Compagni miei, compagne
S’ha da vede’ anche questa,
ma presto verrà il giorno
che rialzerem la testa.
Giuriam che da quel giorno,
sarà quando sarà,
l’Italia tutta intera
si scrocifiggerà! (2vv.)
…eretici da sempre''
Pietro Gori: GLI ANARCHICI
Chi
sono
i
socialisti
anarchici?
Se lo domandate ad un
poliziotto,
costui
vi
risponderà: “Gli anarchici
sono dei malfattori”. Se lo
domandate ai padroni che
pur vivono alle spalle di voi
lavoratori, senza lavorare,
costoro risponderanno che
gli anarchici sono degli
scansa
fatiche,
della
gente che non ha voglia
di lavorare! Se lo domandate infine agli uomini seri e pratici vi diranno, con uno
sforzo di benevolenza, che gli anarchici sono matti da legare.
E i governi, monarchici o anche repubblicani, danno ragione a codesta gente e
mandano i socialisti anarchici a popolare le prigioni e ad insanguinare i patiboli. Che
importa?
Chiunque è interessato a difendere privilegi non può essere giudice imparziale di
uomini che hanno per grido di guerra l’abolizione di ogni privilegio e di ogni forma di
sfruttamento.
I socialisti anarchici vogliono l’uguaglianza, ma quella vera, non quella bugiardamente
proclamata dalle leggi e brutalmente smentita dalla realtà dei fatti sociali. La
uguaglianza sociale non sarà possibile se non allorquando tutti gli uomini saranno in
possesso delle terre, delle macchine e di tutte le altre fonti della ricchezza, e fino a
che codesta ricchezza, che è il prodotto del lavoro di tutti, non sarà posta in comune a
tutti.
Questo è il comunismo. Secondo il principio tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, in
contrapposto alla egoistica morale borghese del ciascuno per sé. Dalla associazione
dei beni e delle forze di tutti deriverà l’associazione dei cuori e si svilupperà
spontaneamente un alto e diffuso senso di solidarietà e di fratellanza.
Scomparso con la proprietà individuale ogni istinto di basso interesse personale,
anche l’accoppiamento di un uomo e di una donna non sarà più un affare mercantile.
L’unione libera sulle solide basi dell’amore: ecco l’unico logico vincolo sessuale, ecco la
famiglia dell’avvenire, senza la menzogna convenzionale del giuramento civile in faccia
al sindaco, o di quello religioso in faccia al prete…
E il prete? Oh, il prete scomparirà con l’ignoranza e l’abbrutimento dei più; e col prete
scompariranno tutte le menzogne religiose fugate dal raggio vivificatore della scienza.
Noi lo combattiamo additandolo come l’eterno alleato degli oppressori e sfruttatori dei
lavoratori e cercando di sfatare al lume della ragione l’impostura del soprannaturale.
Rivendichiamo per tutti il nutrimento allo stomaco, e poi nutrimento al cervello e al
cuore, nutrimento di scienza e d’affetti.
Ma sopra tutto, innanzi tutto, libertà!
L’un governo equivale all’altro; tutti i governi sono contri di noi – e noi contro tutti i
governi, contro tutte le oppressioni, contro tutte le tirannidi. Noi soli rivendichiamo
agli uomini la uguaglianza vera nel comunismo, con la soppressione d’ogni
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, con l’abolizione della proprietà individuale; noi soli
vogliamo l’emancipazione completa della personalità umana dal giogo opprimente
d’ogni autorità politica, civile, militare e religiosa. Noi soli vagheggiamo per il genere
umano la libertà integrale, la libertà delle libertà: l’Anarchia.
(da Socialismo legalitario e socialismo anarchico, conferenza tenuta a Milano il 4 aprile 1892)
La Canzone Anarchica
La canzone anarchica occupa una parte importante dell'area del canto
popolare,quella parte che da sempre ha raccolto i temi politico sociali.
Fin dalle sue origini infatti ha accompagnato la nascita e l'evoluzione della
questione sociale, nelle sue diverse sfaccettature,in termini immediatamente
trasmissibili e condivisibili e inserendo nel canto anche quei contenuti e quella
sensibilità che non potevano trovare espressione nel canto politico tradizionale
e popolare.
Il canto è stato ed è alla radice della trasmissione orale, l'asse portante della
vita sociale di tutte le comunità.
I canti riguarderanno le condizioni contadine, operaie, saranno la voce dei
derelitti, degli umiliati, dimostreranno una voglia di ricerca di cambiamento
verso orizzonti egualitari e la speranza di una vita migliore.
I figli del popolo la gente comune, i lavoratori, il quarto stato, non sono mai
stati visti dai cantautori anarchici come masse da indottrinare, ma come
facenti parte di un processo evolutivo dove essi stessi ne fossero partecipi.
Gran parte degli autori delle canzoni anarchiche sono anonimi, è importante
trasmettere l'ideale e non l'individuo.
Storicamente potremmo far risalire il primo canto anarchico intorno al 1871, gli
anni della Comune di Parigi; le idee di Proudhon e Bakunin hanno già dato
nuovi stimoli per la ricerca di uguaglianza sociale, Eugene Pottier scrisse
'Germinal':
Su! Su! dannati della terra
Su! derelitti e senza pan.....
Nè dio, nè re, nè capo alcun;
da noi pensiam,lavoratori
a conquistare il ben comun!
La Comune finì tragicamente, ma parte delle idee continueranno a trasmettersi
con questo testo che, modificato in alcune parti diverrà l'Internazionale, inno
ufficiale del movimento socialista internazionale.
Anche dal punto di vista letterario quegli anni sono infarciti di ideali anarchici:
''Spuntavano degli uomini, un esercito nero, vendicatore,che germogliava lentamente tra le
zolle, crescendo per il raccolto del secolo futuro, e la cui germinazione avrebbe fatto presto
scoppiare la terra.''
(Emile Zola – Germinal - 1885)
Gli anni del fine 800 e primi 900, avranno una ricca produzione di canzoni e
stornelli anarchici: sono gli anni in cui maggiormente il movimento anarchico
andrà espandendosi per l'Europa, i circoli fioriranno anche oltre oceano portati
da quei dannati della terra che per disperazione dovranno emigrare.
Avremo in particolare la figura di Pietro Gori che riempirà quegli anni di poesie
musicate che tuttora sono cantate.
In quegli anni si formerà anche una parte di Anarchici che preferirà l'azione
anche violenta rispetto all'attesa di una lenta trasformazione sociale.
Ci saranno attentati e omicidi, e i canti, oltre che al lavoro e alla rivolta,
saranno dedicati a questi nuovi eroi attentatori che finiranno alla ghigliottina o
in carcere.
Avremo: i canti a Passannante (Giovanni Passannante, lucano, nato 1849.
Nel 1878 attentò al re d'Italia Umberto I° procurandogli una piccola ferita.
Dopo aver girato le peggior prigioni, morirà nel carcere psichiatrico di
Montelupo Fiorentino nel 1910. Il suo corpo verrà decapitato e il suo cervello
rimarrà esposto nel museo criminologico di Roma sino al 2007); i canti a
Caserio (Sante Caserio, nato nella provincia di Milano 1873: Nel 1894 uccise il
presidente francese Sadi Carnot: verrà per questo ghigliottinato a Lione nel
1894); i canti a Bresci (Gaetano Brasci, nato a Prato nel 1869. Nel 1900
uccise il re d' Italia Umberto I°. Fu condannato a morte, ma verrà trovato
impiccato nella sua cella a Ventotene nel 1901).
Prima guerra mondiale: le idee anarchiche di pace sono cantate dai non
interventisti:
..non più ferro per l'armi omicide
non più scienza per uso nefando
tutto questo mettiamolo al bando
e riavremo la gioia e il ben!
(L.Molinari - Inno alla pace)
Ma il disprezzo per chi comanda sarà sempre presente:
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir.
(Anonimo - O Gorizia tu sei maledetta)
Subito dopo la guerra inizieranno le prime azioni violente fasciste che avranno
come contrasto le formazioni armate degli Arditi del popolo (anarchici e arditi
di guerra). Nasceranno canzoni come 'Figli dell'officina' e numerose altre.
La guerra proletaria
Guerra senza frontiere
Innalzeremo al vento
Bandiere rosse e nere
(Raffaelli, Del Freo - Figli dell'officina)
Gli Arditi del Popolo, appoggiati ufficialmente e sostenuti concretamente dal
solo movimento libertario, che ne alimentava la base militante, pagheranno in
prima persona lo scotto dell'isolamento con la sconfitta sul campo e la
inevitabile repressione, per poi risorgere nei giorni del riscatto con la lotta di
Resistenza e la rivincita finale della Liberazione.
Dal periodo fascista ai giorni nostri, gli anarchici, saranno sempre utilizzati dal
potere
centrale del momento per tamponare atti anche cruenti e scomodi con un
nome che ormai nella fantasia popolare è sinonimo di bombe e sangue:
Attentato Anarchico!!
E con questo motivo si arresteranno,uccideranno,tortureranno molti dei
discendenti dei ”cavalieri erranti.. con la speranza in cor”.
Ma... la storia continuerà ad essere tramandata sopratutto con le canzoni, che
a distanza di anni discolperanno i loro martiri.
"Poche storie, indiziato Pinelli
Il tuo amico Valpreda ha parlato
Lui è l'autore di questo attentato
E il suo socio sappiamo sei tu"
"Impossibile" - grida Pinelli "Un compagno non può averlo fatto
Tra i padroni bisogna cercare
Chi le bombe ha fatto scoppiar.
(Ballata per Pinelli - autori vari,1969)
O per ricordarli:
Rinchiuso come un cane, Franco sta male e muore.
Ma arriva alla prigione solo un procuratore
domanda a Franco: '' Perché eri lì?"
“ Per un’idea: la libertà "
(Ballata per Franco Serantini - Canzoniere Pisano,1972)
Ma sempre contro ogni forma potere:
E difatti alla fine il padrone è una specie di ladro
Solo che quando ruba il padrone non è mica reato
E anche quando che viene arrestato il suo alibi regge
Perchè lui è la Legge.
Così entro di nascosto come un ladro nella casa del ladro
E quel ladro mi dice che lui non è un ladro soltanto
Ma neanch'io sono un ladro gli dico e così mi avvicino.
Io sono un assassino.
E così sotto il cielo turchino c'è un padrone di meno.
Emanuele Filiberto di Savoia ha recentemente dichiarato che "L'Italia è un paese pronto per
una monarchia costituzionale". In considerazione di questa dichiarazione del principe, dedico
questa canzone a Gaetano Bresci, tessitore, anarchico e uccisore di re.
(La casa del ladro - Ascanio Celestini 2007)
Non si può chiudere un lavoro sulla canzone Anarchica senza rivolgere un
pensiero affettuoso all'ultimo grande poeta anarchico italiano,che da oltre 40
anni fa cantare la sue canzoni a tutti, compresi preti e fascisti: Fabrizio De
Andrè.
Lo ricorderemo con una canzone che non è sua ma di Armando Trovajoli, ”I
carbonari”, scritta per la colonna sonora del film di Luigi Magni “Nell’anno del
Signore”. Il film è basato su un fatto realmente accaduto, cioè l'esecuzione
capitale di due carbonari nella Roma papalina del 1825: Leonida Montanari,
romano, e Angelo Targhini, modenese. I due hanno accoltellato un loro adepto,
di famiglia nobile, che minacciava di svelare i segreti della Carboneria. Dopo un
processo sommario, sono ghigliottinati in Piazza del Popolo (dove ancora oggi
si trova una targa commemorativa dei due libertari) il 23 novembre dello
stesso anno. Questa canzone venne improvvisata dal vivo da Faber durante la
tournè del 1997 e poi inserita nell'album “Ed avevamo gli occhi troppo belli” del
2001, edito da A-Rivista Anarchica.
Si tratta solo di una strofa, ma ricca di significato:
La bella che è addormentata,
lalala,lalala,lalala
Ha un nome che fa paura:
Libertà, Libertà,Libertà
Dimmi bel giovane
"18 marzo-28 maggio 1871. Dopo pesanti sconfitte nella guerra contro la Prussia e
sotto la pressione operaria il governo repubblicano fugge da Parigi: il popolo parigino
si da un nuovo governo rivoluzionario: la Comune.''
Francesco Giuseppe Bertelli è nato a Vecchiano il 1° febbraio del 1836. Volontario
nella Terza Guerra d’Indipendenza (1866) e tenente garibaldino a Mentana (1867),
segue Garibaldi in Francia nella guerra Franco-Prussiana.
Dopo gli eventi della Comune di Parigi torna a Vecchiano dove promuove la
costituzione dell’Unione Democratica Sociale.
Sempre sorvegliato dalla polizia viene ripetutamente arrestato per la sua propaganda
definita “sovversiva”. Nel 1875 viene incarcerato perché sorpreso a distribuire copie di
una sua poesia contro la pena di morte.
L’esperienza francese e gli echi della tragedia dei comunardi lo toccano
profondamente e, a testimonianza di ciò, scrive una celebre poesia dal titolo “Esame
d’ammissione del volontario alla Comune di Parigi”, stampata nel 1873 dalla tipografia
Citi, della quale resta, nella memoria locale vecchianese, una libera riduzione dal titolo
“Dimmi bel giovane”.
Scrive numerose altre poesie che però sono in parte andate perdute.
Erroneamente quindi, alcuni fanno risalire questo canto a Pietro Gori.
Dimmi bel giovane,
onesto e biondo:
dimmi la patria
tua qual'è
Adoro il popolo
la mia patria è il mondo
il pensier libero
è la mia fe'
La casa è di chi l'abita
è un vile chi lo ignora,
il tempo è dei filosofi
il tempo è dei filosofi
Addio mia bella
casetta addio,
madre amatissima
e genitor
Io pugno intrepido
per la Comune
come Leonida
saprò morir
La casa è di chi l'abita…
Inno dei Malfattori
Conosciuto semplicemente anche come l' "Inno di Panizza", è senz'altro uno dei più
conosciuti canti anarchici in lingua italiana.
Attilio Panizza, operaio marmista milanese, evase con Errico Malatesta da Pantelleria.
Nel 1902, a Londra, fu tra i firmatari di una "circolare-annuncio" rivolta agli anarchici
di lingua italiana per la pubblicazione di un giornale socialista-anarchico che prenderà
il titolo "La Rivoluzione Sociale"
Il Canto dei Malfattori appare per la prima volta su "L'Amico del Popolo" del 19 maggio
1892, periodico socialista-anarchico fondato a Milano da Pietro Gori e più volte
sequestrato dalla polizia. Questo bellissimo canto scritto da Panizza fu, allo stesso
tempo, un manifesto politico dell'Anarchismo che tende a rivoltare l'accusa di
"malfattori" che lo Stato vuole appiccicare addosso agli internazionalisti: il tentativo di
marchiare come "malfattori" gli anarchici si svilupperà soprattutto dopo l'attentato di
Passannante al re Umberto I (Napoli, 17 Novembre 1878). Il Canto dei Malfattori
riprende il termine spregiativo e, facendolo proprio, grida in faccia ai potenti che
"malfattori" sono tutti coloro che lottano per la giustizia sociale e contro chi sfrutta il
lavoro appropriandosi dei frutti dei lavoratori; "malfattori" sono coloro che combattono
l'impostura religiosa e quelli che propugnano la libera unione e non domanda riti ne
lacci coniugali; "malfattori" sono coloro che propugnano l'internazionalismo e
combattono tutte le guerre, rifiutano le leggi in quanto strumenti di frode utilizzate dai
potenti contro i lavoratori.
Lo stesso canto, ma con titolo diverso, Inno dei lavoratori, appare l'anno seguente
(1893) sul giornale di Imola, "Il Ribelle" in una versione sostanzialmente simile a
quella pubblicata su "L'Amico del Popolo" di Milano.
Degna di nota anche un'altra versione sequestrata dalle autorità (sequestro databile
tra il 1892 e il 1894, reperibile presso l'archivio della Prefettura di Milano) con titolo
Inno dei malfattori, testo di 12 strofe (invece di 18) e col ritornello che si ripete ogni
due strofe.
Ai gridi ed ai lamenti
di noi plebe tradita
la lega dei potenti
si scosse impaurita
E prenci e magistrati
gridaron coi Signori
che siam degli arrabbiati
e rudi malfattori
Deh t’affretta a sorgere
oh Sol dell’avvenir
vivere vogliam liberi
non vogliam più servir
Natura, comun madre,
a niun nega i suoi frutti,
e caste ingorde e ladre
ruban quel ch’è di tutti
Che in comun si viva
si godi e si lavori
tal’è l’aspettativa
che abbiam noi malfattori
Deh t’affretta a sorgere…
Chi sparge l’impostura
avvolto in nera veste
chi nega la natura
sfuggiam come la peste
Sprezziam gli dei del cielo
e i falsi lor cultori
del ver squarciamo il velo
perciò siam malfattori
Deh t’affretta a sorgere…
Amor ritiene uniti
gli affetti naturali
e non domanda riti
né lacci coniugali
Noi dai profan mercati
distor vogliam gli amori,
e sindaci e curati
ci chiaman malfattori.
Deh t’affretta a sorgere…
Divise han con frodi
Città, popoli e terre
da qui gl’ingiusti odi
che generan le guerre.
Noi che seguendo il vero
gridiam a tutti i cori
che patria è il mondo intero
ci chiaman malfattori
Deh t’affretta a sorgere…
Leggi dannose e grame
di frode alti stromenti,
secondan sol le brame
dei ricchi prepotenti
Dan pene a chi lavora,
onore a sfruttatori
conferman poscia ancora
che siam dei malfattori.
Deh t’affretta a sorgere…
La chiesa e lo stato
L’ingorda borghesia
contendono al creato
di libertà la via
Ma presto i dì verranno
che papa, re e signori
coi birri lor cadranno
per man dei malfattori.
Allor vedremo sorgere
il Sol dell’avvenir
in pace potrem vivere
e in libertà gioir.
Inno della rivolta
Scritto nel 1893 da Luigi Molinari, avvocato libertario, come poesia dal titolo “Dies
Irae”, fu musicato in seguito da anonimo.
Luigi Molinari scrisse quest'inno in occasione dei disordini fomentati da socialisti ed
anarchici in Lunigiana e in solidarietà ai braccianti ed agli operai siciliani, che in quelle
stesse settimane subivano l'attacco dei soldati mandati dal governo Crispi a reprimere
i Fasci dei Lavoratori.
Questo movimento che si era via via rafforzato con l'acuirsi della crisi finanziaria del
Regno, per i provvedimenti relativi all'aumento del carico fiscale, del prezzo del sale e
del dazio sul grano, varati dall'allora ministro dell'economia Sonnino per pareggiare il
bilancio.
Molinari fu arrestato per sedizione ed il testo del suo inno costituì prova nel processo a
suo carico.
Condannato a 23 anni di reclusione, fu amnistiato l'anno seguente.
Nel fosco fin del secolo morente,
sull'orizzonte cupo e desolato,
già spunta l'alba minacciosamente
del dì fatato.
Urlan l'odio, la fame ed il dolore
da mille e mille facce ischeletrite
ed urla col suo schianto redentore
la dinamite.
Siam pronti e dal selciato d'ogni via,
spettri macabri del momento estremo,
sul labbro il nome santo d'Anarchia,
Insorgeremo.
Per le vittime tutte invendicate,
là nel fragor dell'epico rimbombo,
compenseremo sulle barricate
piombo con piombo.
E noi cadrem in un fulgor di gloria,
schiudendo all'avvenir novella via:
dal sangue spunterà la nuova istoria
de l'Anarchia.
Figli dell'officina
È un inno divenuto tradizionale del movimento anarchico. La musica è tratta da
un'aria probabilmente cantata in artiglieria.
Il testo originale fu scritto da Giuseppe Raffaelli e Giuseppe Del Freo, anarchici
carraresi, nel 1921, mentre si preparavano ad affrontare le squadracce fasciste con gli
"Arditi Del Popolo".
Giuseppe Raffaelli, nato il 30 gennaio 1892 a La Soggetta di Cerreto (Montignoso), ha
lavorato nelle cave di Carrara come riquadratore e nel 1921 è stato uno degli
organizzatori degli Arditi del Popolo di Massa Carrara. Raffaelli, si rifugiò a Viareggio
nel giugno 1921, dopo aver abbandonato Massa per sfuggire alle aggressioni fasciste,
che si facevano sempre più più frequenti.
A Viareggio venne ospitato dal professor Giuseppe Del Freo, suo amico d'infanzia,
insieme crearono questo canto con l'intenzione di dare un inno agli Arditi del popolo
(la musica deriva invece da un canto popolare). Gli Arditi del popolo resistettero nella
zona sino al 1923.
Con l’avvento del fascismo Raffaelli fu costretto ad emigrare in Francia facendo
svariati mestieri (manovale, scalpellino, elettricista, contadino...) e partecipò alla
rivoluzione spagnola del 1936, nella brigata Libero Battistelli, nei pressi di Barcellona
dove venne ferito. Rientrato a Nizza, viene arrestato durante il governo Petain e
internato nel campo di Fernet Dans l’Ariegé dove rimane fino al 1943. Consegnato al
governo italiano, è condannato a cinque anni e inviato al confino di Ventotene per
essere poi liberato dopo il 25 luglio.
Durante la resistenza lo stesso canto, ma con variazioni nelle strofe, fu ripreso dai
partigiani "rossi" del nord Italia e sarà usato come inno partigiano.
Diventerà poi uno tra i canti più diffusi del movimento dei lavoratori.
Figli dell’officina
O figli della terra
Già l’ora s’avvicina
Della più giusta guerra
La guerra proletaria
Guerra senza frontiere
Innalzeremo al vento
Bandiere rosse e nere
Avanti, siam ribelli
Fieri vendicator
D'un mondo di fratelli
Di pace e di lavor
Dai monti e dalle valli
Giù giù scendiamo in fretta
Con queste man dai calli
Noi la farem vendetta
Del popolo gli arditi
Noi siamo i fior più puri
Fiori non appassiti
Dal lezzo dei tuguri
Avanti, siam ribelli…
Noi salutiam la morte
Bella vendicatrice
Noi schiuderem le porte
A un'era più felice
Ai morti ci stringiamo
E senza impallidire
Per l’anarchia pugnamo
O vincere o morire
Avanti, siam ribelli…
Su fratelli pugnamo da forti
Un anonimo canto di sicura formazione toscana (il testo è decisamente in fiorentino
rustico) ispirato alla morte di Sante Caserio.
Fu raccolto per la prima volta da Caterina Bueno a Diviliano, frazione del comune di
Fiesole, dalla voce di un contadino a nome Pietro Zeppi; nel 1964 Roberto Leydi lo
registrò a Milano.
Il riferimento al gesto di Caserio è un classico nei canti di lotta agraria e questo ha
sapore di un ''canto di coraggio'', avente avente funzione di avvertimento indiretto
rivolto ai capisquadra durante il lavoro nei campi.
Su fratelli pugnamo da forti
contro i vili tiranni borghesi
ma come fece Caserio e compagni
che la morte l'andiede a incontrà.
Non vogliamo più servi e padroni
l'eguaglianza sociale vogliamo
ma quelle terre che noi lavoriamo
a noi tutti le spese ci fa.
La mia testa stiacciatela pure
disse Caserio agli inquisisi suoi
ma l'anarchia è più forte de' tuoi
presto presto schiacciarvi dovrà.
La ballata di Franco Serantini
Franco Serantini nasce il 16 luglio 1951 a Cagliari.
Nel 1968 è destinato al riformatorio di Pisa "Pietro Thouar" in regime di semilibertà
(deve mangiare e dormire in istituto). Con lo studio e la conoscenza di nuovi amici
incomincia a guardare il mondo con occhi diversi e ad avvicinarsi all'ambiente politico
della sinistra frequentando le sedi delle Federazioni giovanili comunista e socialista,
passando da Lotta continua fino ad approdare, nell'autunno del 1971, al gruppo
anarchico "Giuseppe Pinelli", in via S. Martino.
Insieme a tanti altri compagni è impegnato in tutte le iniziative sociali di quegli anni,
come l'esperienza del "Mercato rosso" nel quartiere popolare del Cep, in molte azioni
antifasciste e, infine e nell'accesa discussione che la candidatura di protesta di Pietro
Valpreda ha innescato nel movimento anarchico. Il 5 maggio 1972 partecipa al
presidio antifascista indetto da Lotta continua a Pisa contro il comizio dell'on.
Giuseppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Il presidio viene duramente
attaccato dalla polizia; durante una delle innumerevoli cariche Franco viene circondato
da un gruppo di celerini, sul lungarno Gambacorti, e pestato a sangue.
Successivamente viene trasferito prima in una caserma di polizia e poi al carcere Don
Bosco, dove, il giorno dopo, viene sottoposto ad un interrogatorio, durante il quale
manifesta uno stato di malessere generale che il Giudice e le guardie carcerarie e il
medico del carcere non giudicano serio.
Il 7 maggio, dopo due giorni di agonia, Serantini viene trovato in coma nella sua cella
e trasportato al pronto soccorso del carcere, dove muore alle 9,45.
Questa ballata è scritta da Piero Nissim nei giorni successivi al decesso di Serantini.
Il quinto verso della seconda strofa 'cascasse il mondo sulla città' riprende il titolo di
un manifesto affisso a Pisa nei giorni immediatamente precedenti il 5 maggio, il cui
testo è: “Cascasse il mondo su un fico, il boia Niccolai non parlerà”.
Niccolai, all'epoca dei fatti di Pisa, è un uomo di spicco del partito neofascista MSI,
mentre Zanca e Mallardo, nomi che appaiono nel canto, sono due esponenti della
squadra politica delle questura di Pisa.
Era il sette di maggio, giorno delle elezioni,
e i primi risultati giungon dalle prigioni:
c'era un compagno crepato là,
era vent'anni la sua età.
Solo due giorni prima parlava Niccolai,
Franco era coi compagni, decisi più che mai:
«Cascasse il mondo sulla città,
quell'assassino non parlerà».
L'avevano arrestato lungarno Gambacorti,
gli sbirri dello Stato lo ammazzano dai colpi:
«Rossa marmaglia, devi capir
se scendi in piazza si può morir!»
E dopo, nelle mani di Zanca e di Mallardo,
continuano quei cani, continuano a pestarlo:
«Te l'ho promesse sei mesi fa»,
gli dice Zanca senza pietà.
Rinchiuso come un cane, Franco sta male e
muore,
ma arriva alla prigione solo un procuratore;
domanda a Franco: «Perché eri là?»
«Per un'idea: la libertà».
Poi tutt'a un tratto han fretta: da morto fai paura;
scatta l'operazione «rapida-sepoltura»:
«é solo un orfano, fallo sparir,
nessuno a chiederlo potrà venir».
Ma invece è andata male, porci, vi siete illusi,
perché al suo funerale tremila pugni chiusi
eran l'impegno, la volontà
che questa lotta continuerà. (2 vv.)
Il galeone
"Il galeone" è una poesia che Belgrado Pedrini, anarchico carrarese, scrisse in galera,
a Fossombrone, nel 1967.
Il titolo originale della poesia era “Schiavi”.
Fu poi messa in musica da Paola Nicolazzi sulla base di una canzone popolare
intitolata, curiosamente, “Se tu ti fai monaca”; la Nicolazzi, nel trasformarla in
canzone (e in uno dei più noti canti anarchici italiani di ogni tempo), ne omise però la
quarta e l'ultima strofa, che così recitano:
Nessun nocchiero ardito,
sfida dei venti l’ira?
Pur sulla nave muda,
l’etere ognun sospira!
(...)
Falci del messidoro,
spighe ondeggianti al vento!
Voi siate i nostri labari,
nell’epico cimento!
Fu poi pubblicata, senz'alcuna indicazione di titolo, nel giornale Presenza anarchica, a
cura dei gruppi anarchici riuniti di Massa e Carrara, supplemento quindicinale a
Umanità Nova, il 5 ottobre 1974.
Fin qui la storia di questa canzone scritta in galera. La quale, specialmente per il suo
linguaggio, potrebbe far sorridere il lettore e l'ascoltatore di oggi. E' il linguaggio
aulico di molti canti anarchici classici. Ma il sorriso scompare immediatamente quando
si pensa al fatto che "Il galeone" è in realtà il simbolo stesso, anche nella parola
stessa, della galera, anzi, della "galera infame". Quella dove il suo autore era
rinchiuso.
Belgrado Pedrini aveva iniziato la Resistenza ben prima dell'8 settembre; era, la sua,
una vita di resistenza da sempre. Durante il fascismo conduce la sua lotta clandestina,
poi già nel 1942 partecipa ad azioni di lotta. Si unisce poi alla formazione partigiana
anarchica "Elio" con cui lotta fino alla...."Liberazione".
Ma la "liberazione" del partigiano Belgrado Pedrini si chiama galera.
Nel 1942, per poter continuare la lotta, lui e i suoi compagni sottraggono ad alcuni
industriali fascistoni milanesi e carraresi un bel po' delle loro ricchezze; nel 1949 il
tribunale di Livorno giudica tali atti come "reati comuni" e condanna Belgrado Pedrini a
trent'anni di carcere.
Questa la ricompensa.
E sono galere su galere. Nel 1974, il presidente Leone gli concede la grazia; ma,
appena uscito, viene rinchiuso in una casa di lavoro presso Pisa, perché deve scontare
ancora tre anni per tentata evasione. Liberato finalmente dopo un'intensa campagna
per la sua scarcerazione, torna a Carrara dove partecipa all'attività degli anarchici
locali. Muore nel 1979 all'età di sessantasei anni. Ma per Belgrado Pedrini non c'è mai
stata nessuna "liberazione" da una vita intera passata in galera. Quella del fascismo e
quella dello "stato democratico".
Siamo la ciurma anemica
d'una galera infame
su cui ratta la morte
miete per lenta fame.
Mai orizzonti limpidi
schiude la nostra aurora
e sulla tolda squallida
urla la scolta ognora.
I nostri dì si involano
fra fetide carene
siam magri smunti schiavi
stretti in ferro catene.
Sorge sul mar la luna
ruotan le stelle in cielo
ma sulle nostre luci
steso è un funereo velo.
Torme di schiavi adusti
chini a gemer sul remo
spezziam queste catene
o chini a remar morremo!
Cos'è gementi schiavi
questo remar remare?
Meglio morir tra i flutti
sul biancheggiar del mare.
Remiam finché la nave
si schianti sui frangenti
alte le rossonere
fra il sibilar dei venti!
E sia pietosa coltrice
l'onda spumosa e ria
ma sorga un dì sui martiri
il sol dell'anarchia.
Su schiavi all'armi all'armi!
L'onda gorgoglia e sale
tuoni baleni e fulmini
sul galeon fatale.
Su schiavi all'armi all'armi!
Pugnam col braccio forte!
Giuriam giuriam giustizia!
O libertà o morte!
Giuriam giuriam giustizia!
O libertà o morte!
La ballata del Pinelli
Giuseppe Pinelli nacque a Milano, a Porta Ticinese, nel 1928.
Nel 1944-45 partecipa alla Resistenza come staffetta in un gruppo di anarchici che
opera a Milano. Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. Nel 1963 si unisce ai
giovani anarchici della "Gioventù Libertaria" iniziando la sua militanza attiva; partecipa
alla fondazione del Circolo "Sacco e Vanzetti" (nel 1965), del Circolo "Ponte della
Ghisolfa" (nel 1968) e del Circolo di via Scaldasole. Nel 1969 si occupa del
collegamento con i comitati operai di base e, con l'intensificarsi della repressione
antianarchica, della Crocenera, centro di solidarietà anarchica con i perseguitati politici
e le loro famiglie.
Il 12 dicembre 1969 alle ore 16:37, una bomba scoppiò nella sede della Banca
Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, uccidendo diciassette persone
(quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto.
Immediatamente il giorno stesso Pinelli viene fermato dall'Ufficio Politico della
Questura di Milano e, dopo essere stato sottoposto a estenuanti interrogatori, la sera
del 16 dicembre "cade" da una finestra del quarto piano della Questura. I poliziotti
citati nelle canzoni su Pinelli sono i seguenti fulgidi personaggi: Luigi Calabresi, allora
commissario politico della questura; Antonino Allegra, capo dell'ufficio politico della
questura; Antonio Pagnozzi, commissario dell'ufficio politico della questura; Marcello
Guida, questore di Milano, già appartenente all'apparato poliziesco del regime
fascista; Sabino Lo Grano, tenente del carabinieri, presente all'interrogatorio di Pinelli.
"La ballata del Pinelli", senz'ombra di dubbio, è la più famosa canzone attorno alle
vicende legate alla strage di Piazza Fontana. Peraltro, la storia della sua composizione
è assai complessa; cercheremo qui di tracciarla per sommi capi.
Il punto di partenza della "Ballata del Pinelli" sembrano essere state le strofe
improvvisate da Giancorrado Barozzi, Dado Mora, Flavio Lazzarini e Ugo Zavanella
nella sede del circolo anarchico "Gaetano Bresci" di Mantova, la sera del 21 dicembre
1969, dopo i funerali di Giuseppe Pinelli, sulla musica de Il feroce monarchico Bava
(ovvero la canzone popolare ispirata dai moti di Milano del 1898, repressi nel sangue
dal generale Bava Beccaris, cui il Re Umberto I concesse un'onorificenza. Onorificenza
che il re scontò il 29 luglio 1900 beccandosi, al parco di Monza, una pallottola da
Gaetano Bresci). Le strofe originarie formano comunque l'impianto sul quale si
svilupperanno tutte le numerose varianti della ballata.
Particolarmente importante, anche dal punto di vista storico, è la variante all'ultima
strofa (opera, sembra, di Ugo Zavanella e indicata tra parentesi quadre nel testo che
segue), nella quale compare, per la prima volta in assoluto, l'espressione "strage di
stato". Tale espressione, poi generalizzatasi a tutti i livelli negli anni successivi, è
quindi nata con la "Ballata del Pinelli".
Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo che caldo faceva
brigadiere apra un po' la finestra
ad un tratto Pinelli cascò.
Signor questore io gliel'ho già detto
lo ripeto che sono innocente
anarchia non vuol dire bombe
ma giustizia amor libertà.
Poche storie confessa Pinelli
il tuo amico Valpreda ha parlato
è l'autore del vile attentato
e il suo socio sappiamo sei tu.
Impossibile grida Pinelli
un compagno non può averlo fatto
e l'autore di questo misfatto
tra i padroni bisogna cercar.
Stiamo attenti indiziato Pinelli
questa stanza è già piena di fumo
se tu insisti apriam la finestra
quattro piani son duri da far.
Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva
brigadiere apra un po' la finestra
ad un tratto Pinelli cascò.
L'hanno ucciso perché era un compagno
non importa se era innocente
"Era anarchico e questo ci basta"
disse Guida il feroce questor.
C'è un bara e tremila compagni
stringevamo le nere bandiere
in quel giorno l'abbiamo giurato
non finisce di certo così.
Calabresi e tu Guida assassini
che un compagno ci avete ammazzato
l'anarchia non avete fermato
ed il popolo alfin vincerà.
Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva
brigadiere apra un po' la finestra
ad un tratto Pinelli cascò.
[E tu Guida e tu Calabresi
Se un compagno ci avete ammazzato
Per coprire una strage di stato
Questa lotta più dura sarà.]
Siam del popolo gli Arditi
Leoncarlo Settimelli scrisse questa canzone per uno degli spettacoli del Canzonere
Internazionale (1921: Arditi del popolo) ispirandosi ad alcuni frammenti di un canto
degli Arditi del Popolo.
E la dedica non poteva non essere al padre Donato Settimelli che degli Arditi del
Popolo di Lastra a Signa fu membro e responsabile. Questa una sua testimonianza: “Ci
si illudeva forse, era un’illusione, ma insomma questo entusiasmo io credo sia stato
necessario, e sarebbe stato necessario in tutta la gioventù dell’epoca... insomma a
molta gioventù dell’epoca, per impedire al fascismo di venire. Perché se nelle Signe
cadde tardi il comunismo, insomma, l’azione operaia, lì, eccetera, fu proprio per
questo entusiasmo che c’era. [...] Era venuta da allora la divisione a Livorno. [...]
questo era il partito e quindi... questo entusiasmo, capisci?[...] E quindi anche lì io fui
incaricato di trasformare le “squadre d’azione” in “Arditi del Popolo”. [...] La “piccola
Russia”, infatti i fascisti venivano a scorrazzare a Signa, a Lastra, fino al Ponte, più in
là non venivan mai, al Porto non venivan mai.”
Il canto rappresenta un elogio a questo importante movimento che per primo ha
tentato di contrapporsi militarmente allo squadrismo fascista.
I versi riportati in corsivo e tra parentesi sono alcuni frammenti di un canto degli Arditi
del Popolo che Settimelli ha poi ampliato.
Siam del popolo gli arditi
contadini ed operai
non c'è sbirro non c'è fascio
che ci possa piegar mai.
E con le camicie nere
un sol fascio noi faremo
sulla piazza del paese
un bel fuoco accenderemo.
Mussolini traditore
parla di rivoluzione
però ammazza i proletari
col pugnale del padrone.
Siam del popolo gli arditi…
E con le camicie nere
un sol fascio noi faremo
sulla piazza del paese
un bel fuoco accenderemo.
Ci dissero ma
cosa potremo fare
con gente dalla
mente tanto confusa.
E che non avrà
letto probabilmente
neppure il terzo
libro del Capitale.
Neppure il terzo
libro del Capitale.
Siam del popolo gli arditi…
E con le camicie nere
un sol fascio noi faremo
sulla piazza del paese
un bel fuoco accenderemo.
Portammo il
silenzio nelle galere
perché chi stava
fuori si preparasse.
E in mezzo alla
tempesta ricostruisse
un fronte proletario
contro il fascismo.
Un fronte proletario
contro il fascismo.
Siam del popolo gli arditi…
E con le camicie nere
un sol fascio noi faremo
sulla piazza del paese
un bel fuoco accenderemo.
Ci siamo ritrovati
sulle montagne
e questa volta
nostra fu la vittoria.
Ecco quello che
mostra la nostra storia
se noi siamo divisi
vince il padrone.
Se noi siamo divisi
vince il padrone.
[Rintuzziamo la violenza
del fascismo mercenario
tutti uniti sul calvario
dell'umana redenzione.
Questa eterna giovinezza
si rinnova nella fede
per un popolo che chiede
uguaglianza e libertà.
Mussolini traditore
parla di rivoluzione
però ammazza i proletari
col pugnale del padrone.]
La Locomotiva
Alla fine di ogni concerto Francesco Guccini ripropone la sua ballata più popolare: "La
locomotiva".
Dopo oltre quarant'anni (la canzone è stata scritta da Guccini nel 1972), con tutto
quello che è avvenuto nel frattempo, questa canzone dal sapore libertario, continua a
smuovere qualcosa negli animi di giovani e meno giovani, in quella parte che vuole,
malgrado tutto, continuare a avere fiducia nella possibilità di un mondo migliore.
E quell'immagine, sia pure un po' sinistra, della locomotiva "come una cosa viva
lanciata a bomba contro l'ingiustizia" mantiene il suo fascino col passare delle
generazioni.
Ma pochi sanno che questa canzone si richiama a un fatto realmente accaduto il
secolo scorso: protagonista il fuochista anarchico Pietro Rigosi, che si impadronì di
una locomotiva e la mandò a schiantarsi contro una vettura in sosta nella stazione di
Bologna. Miracolosamente si salvò, ma non svelò mai il mistero di quella folle corsa.
Non so che viso avesse, neppure come si chiamava
Con che voce parlasse, con quale voce poi cantava
Quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli
Ma nella fantasia ho l'immagine sua
Gli eroi sono tutti giovani e belli…
Conosco invece l'epoca dei fatti, qual'era il suo mestiere
I primi anni del secolo, macchinista, ferroviere
I tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti
Sembrava il treno anch'esso un mito di progresso
Lanciato sopra i continenti…
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano
Che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano
Ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite
Sembrava avesse dentro un potere tremendo
La stessa forza della dinamite…
Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali
Parole che dicevano: "gli uomini sono tutti uguali"
E contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via
La bomba proletaria, ed illuminava l'aria
La fiaccola dell'anarchia…
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione
Un treno di lusso, lontana destinazione
Vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori
Pensava al magro giorno della sua gente attorno
Pensava un treno pieno di signori…
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione
Forse una rabbia antica, generazioni senza nome
Che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore
Dimenticò pietà, scordò la sua bontà
La bomba sua la macchina a vapore…
E sul binario stava la locomotiva
La macchina pulsante sembrava fosse cosa viva
Sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
Mordesse la rotaia con muscoli d'acciaio
Con forza cieca di baleno…
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo
Pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto
Salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura
E prima di pensare a quel che stava a fare
Il mostro divorava la pianura…
Correva l'altro treno ignaro, quasi senza fretta
Nessuno immaginava di andare verso la vendetta
Ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno
Notizia di emergenza, agite con urgenza
Un pazzo si è lanciato contro il treno….
Ma corre corre corre corre la locomotiva
E sibila il vapore, sembra quasi cosa viva
E sembra dire ai contadini curvi, quel fischio che si spande in aria
Fratello non temere che corro al mio dovere
Trionfi la giustizia proletaria…
E corre corre corre corre sempre più forte
E corre corre corre corre verso la morte
E niente ormai può trattenere l'immensa forza distruttrice
Aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto
Della grande consolatrice…
La storia ci racconta come finì la corsa
La macchina deviata lungo una linea morta
Con l'ultimo suo grido di animale la macchina eruttò lapilli e lava
Esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo
Lo raccolsero che ancora respirava…
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore
Mentre fa correr via la macchina a vapore
E che ci giunga un giorno ancora la notizia
Di una locomotiva come una cosa viva
Lanciata a bomba contro l'ingiustizia…
Pietro Gori
Se Errico Malatesta fu l’agitatore instancabile e
l’organizzatore, se Luigi Fabbri fu l’intellettuale
acuto e aperto alle sollecitazioni di una società in
profondo mutamento, Pietro Gori fu, a cavallo fra
ottocento e novecento, fra i grandi anarchici
italiani, quello che più di ogni altro riuscì a
comunicare
all’immaginazione
delle
masse
popolari la grandezza e la sovversiva originalità
dell’umanesimo anarchico.
La sua vita avventurosa e la tragica e prematura morte ne hanno a lungo
accompagnato il ricordo, evidenziandone gli aspetti più romantici, quelli che ne
hanno fatto “il cavaliere dell’ideale” o il “poeta dell’anarchia”, ma la sua attività
sociale, ben lungi dall’essere improntata a una approssimativa divulgazione
dell’idea anarchica, fu determinante per il crescere e il consolidamento fra le
classi subalterne di una volontà di rivolta cosciente e di emancipazione
solidale. La sintesi fra il solido pensatore, l’agitatore irrequieto e il
comunicatore di straordinaria grandezza, contribuì alla nascita di un mito
duraturo che appartenne, trasversalmente, non solo agli anarchici della “sua”
Toscana, ma a tutti coloro che aspirarono e lottarono, col pensiero e con
l’azione, per l’edificazione di una società in cui giustizia e libertà non fossero
parole vuote destinate a pochi, ma i principi fondamentali della vita collettiva.
Addio a Lugano
La cui musica, di autore anonimo, è sicuramente di origine popolare, toscana, è la più
famosa, insieme con Stornelli d'esilio, fra le canzoni di Pietro Gori. Egli la scrisse nel
luglio del 1895 in Svizzera, dov'era dovuto riparare dopo l'omicidio del Presidente
francese Sadi Carnot, ucciso da Sante Caserio. Era stato infatti fermato dalla polizia
crispina, nel corso di una vasta operazione repressiva contro anarchici e socialisti, con
l'accusa di essere il mandante "spirituale" del delitto, in quanto amico e difensore del
Caserio. Costretto all'emigrazione, si trasferì a Lugano e, sfuggito a un misterioso
attentato (gennaio 1895), venne espulso dalla Svizzera stessa insieme con altri dodici
esuli. Fu allora che scrisse le parole del suo canto immortale.
Un’altra testimonianza sull’origine del canto la troviamo nel libro Gli scariolanti di
Ostia antica. Storia di una colonia socialista allorché Pietro Gori si reca ad Ostia presso
la comunità dei braccianti ravennati per passare con loro alcuni giorni. Siamo nel 1902
dopo il suo rientro in Italia dall’America del Sud dove si reca nel 1898 per sfuggire ad
una condanna in seguito ai tumulti contro il carovita che si sono succeduti in tutta
Italia con epilogo a Milano dove la monarchia ordina a Bava Beccaris la violenta
repressione costata oltre 80 morti.
“...Era un poeta, e aveva un bel viso, un corpo snello, elegante. Si accarezzava il baffo
appuntito, e sapeva ascoltare i coloni ravennati che raccontavano la loro storia. Provava un
profondo rispetto per il coraggio che avevano speso in quella impresa, e glielo diceva con
calore. Gli ricordavano gli uomini della Pampa, ripeté. Avevano anche cantato insieme, fino a
sgolarsi, quella notte. Avevano cantato le sue canzoni, gli Stornelli dell’esilio, Sante Caserio,
Amore ribelle... Di Addio Lugano Bella Gori aveva raccontato com’era nata. Dopo che Caserio
aveva pugnalato a morte Carnot, lui era dovuto riparare in Svizzera. Qui l’avevano arrestato,
insieme con altri 150 fuorusciti italiani, anarchici e socialisti. Tutti poi erano stati espulsi.
Quando li conducevano alla frontiera, avevano le manette ai polsi e i loro passi affondavano
nella neve...Con le lacrime agli occhi, si era girato indietro a guardare Lugano e pensava agli
anarchici scacciati senza colpa che partono cantando con la speranza in cuor...”
(Liliana Madeo Gli scariolanti di Ostia antica. Storia di una colonia socialista, Ed. Camunia, 1989.
Le note riguardanti Pietro Gori sono alle pp. 181-183. Vengono narrate le vicende di una colonia di
braccianti formata da socialisti, anarchici e repubblicani ravennati che si recano nell’Agro Romano per
iniziare la bonifica. La storia ha inizio nel 1884 e continua tra alterne vicende fino alla fine degli anni
cinquanta.)
Addio a Lugano diviene popolarissimo con l’inizio del nuovo secolo e ancor oggi è uno
dei canti politici più eseguito.
Addio Lugano bella
o dolce terra pia
scacciati senza colpa
gli anarchici van via
e partono cantando
con la speranza in cor.
Ed è per voi sfruttati
per voi lavoratori
che siamo ammanettati
al par dei malfattori
eppur la nostra idea
è solo idea d'amor.
Anonimi compagni
amici che restate
le verità sociali
da forti propagate
è questa la vendetta
che noi vi domandiam.
Ma tu che ci discacci
con una vil menzogna
repubblica borghese
un dì ne avrai vergogna
noi oggi t'accusiamo
in faccia all'avvenir.
Banditi senza tregua
andrem di terra in terra
a predicar la pace
ed a bandir la guerra
la pace per gli oppressi
la guerra agli oppressor.
Elvezia il tuo governo
schiavo d'altrui si rende
d'un popolo gagliardo
le tradizioni offende
e insulta la leggenda
del tuo Guglielmo Tell.
Addio cari compagni
amici luganesi
addio bianche di neve
montagne ticinesi
i cavalieri erranti
son trascinati al nord.
E partono cantando
con la speranza in cor.
Amore ribelle
Nota anche come “Canzonetta del libero amore”, Gori la scrisse nel 1895.
Leda Rafanelli (1880-1971, scrittrice, artista ed esponente dei futuristi di sinistra,
soprannominata la "Zingara anarchica") racconta come nacque il canto:
“La sorella di Gori avrebbe voluto che lui si sposasse, ma avrebbe voluto anche una ricca, e gli
fece conoscere una signorina americana, bella, ricchissima. Pietro Gori! Pensa, sarebbe come a
me mi facessero conoscere cosa...non so, un canterino della televisione, per me son gente che
‘un vale un soldo, eh. Lui questa signorina la salutò e poi...quella s’era già innamorata, perché
era bellissimo Pietro Gori, sai; era siciliano, bruno, alto, con gli occhi neri, dei capelli nerissimi,
era bellissimo Pietro; senza che se ne accorgesse, eh. Quel giorno, io ero in casa sua ospite, in
una stanza che dava nel giardino. Sento a un tratto, leggevo, e il parrucchiere, il barbiere, un
pisano, che parlan tanto, si senton anche da lontano, eh. Sento dire a un tratto, io non ci
guardavo: “Allora Pietro, li facciamo a zero?”. Io dissi: “Cosa parla?”. M’affaccio alla finestra,
sidi, e vedo Pietro a sedere con la salvietta al collo e questo pisano con la macchinetta, gli
aveva fatto, sai, mezza testa, insomma rapata. Io dissi: “Figurati la Bice!”, la sorella, pareva
glielo facesse per dispetto. Io...e non ero più a tempo perché...gliel’aveva fatta a mezza testa.
Io scesi giù, eh, ma era già tardi, eh. Lui era lì calmo calmo, che parlava, io gli dissi: ”Pietro,
ma mi dici Bice cosa dirà?”. “Ma” – dice - “è caldo, era caldo”, sarà stato giugno, luglio. “Ci
avevo caldo!”. Io stetti zitta; quando venne, uscì, siti, pareva una caricatura. Era bruno, denti
bianchi bianchi, baffi neri, le sopracciglia e questa testa bianca rapata. Pareva un mostro. Io
stetti in camera mia, dico: “Adesso vi arrangiate”; a un tratto sento...e si fece una crisi isterica
la sorella. Una crisi...sentii degli urli. E poi Pietro scrisse quella canzone: all’amor tuo preferisco
l’idea. Amori non n’ha avuti Pietro, almeno a quello che si sapeva noi. Noi non sappiamo che
Pietro abbia avuto un amore… ecco, uno sì: L’anarchia.”
(da Pietro Gori e l’americana. Una testimonianza di Leda Rafanelli)
All'amor tuo fanciulla
Altro amor io preferìa
E' un ideal l'amante mia
A cui detti braccio e cor.
Il mio cuore aborre e sfida
I potenti della terra
Il mio braccio muove guerra
Al codardo e all'oppressor.
Perché amiamo l'uguaglianza
Ci han chiamati malfattori
Ma noi siam lavoratori
Che padroni non vogliam.
Dei ribelli sventoliamo
Le bandiere insanguinate
E innalziam le barricate
Per la vera libertà.
Se tu vuoi fanciulla cara
Noi lassù combatteremo
E nel dì che vinceremo
Braccio e cor ti donerò.
Se tu vuoi fanciulla cara
Noi lassù combatteremo
E nel dì che vinceremo
Braccio e cor ti donerò.
Stornelli d'esilio
È un intramontabile canto di Pietro Gori, che ne potrebbe aver scritto sia all’epoca del
primo esilio - quando fu espulso dalla Svizzera dove era riparato per evitare l’arresto,
accusato di essere l’ispiratore dell’attentato di Sante Caserio al presidente francese
Sadi Carnot – sia a quella del secondo esilio, quando Gori fu costretto a fuggire in Sud
America a seguito della repressione scatenata a partire dai moti milanesi del 1898.
Composta su una base musicale tratta dal canto popolare toscano “Figlia
campagnola”, fu pubblicata per la prima volta nel 1898 sull'opuscoletto Canti anarchici
rivoluzionari, edito dalla rivista degli anarchici italiani profughi in America, e divenne
l'inno dell'internazionalismo libertario.
Pur nel suo desiderio di ribellione e di libertà, il testo, di fine Ottocento, tradisce
chiaramente i gusti letterari e le passioni ideali dell'epoca. Dal punto di vista del
contenuto storico e politico, richiama da vicino la vicenda personale dell’autore e
l'altra sua celebre composizione Addio a Lugano. Il ritornello "Nostra patria è il mondo
intero" è ripreso dall'introduzione dell'opera buffa “Il Turco in Italia” (1814) di
Gioacchino Rossini e Felice Romani.
Il fatto che Gori abbia sperimentato in prima persona le amarezze dell'esilio e della
persecuzione politica, unito alle sue magistrali doti creative, trasmette a questo brano,
con grande vigore realistico, tutte le tematiche fondanti dell'anarchismo: il dolore per
la miseria e l'ingiustizia, la tensione eroica verso l'emancipazione umana e verso un
mondo migliore.
O profughi d’Italia
a la ventura
si va senza rimpianti
né paura.
Nostra patria è il mondo intero
e nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ed un pensiero
Nostra patria è il mondo intero
e nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta.
Dei miseri le turbe
sollevando
fummo da ogni nazione
messi al bando.
Nostra patria è il mondo intero…
Dovunque uno sfruttato
si ribelli
noi troveremo schiere
di fratelli.
Nostra patria è il mondo intero…
Raminghi per le terre
e per i mari
per un’Idea lasciammo
i nostri cari.
Nostra patria è il mondo intero…
Passiam di plebi varie
tra i dolori
de la nazione umana
i precursori.
Nostra patria è il mondo intero…
Ma torneranno Italia
i tuoi proscritti
ad agitar la face
dei diritti.
Nostra patria è il mondo intero…
In difesa di Sante Caserio
Scritta nel 1900 da Pietro Gori a Portoferraio.
Caserio pugnalò a morte il presidente della Repubblica francesce Marie Francois Sadi
Carnot, il 24 giugno 1894, con un coltello dal manico rosso e nero (come la più
classica bandiera anarchica), per poi iniziare a correre attorno al morto gridando “Viva
l’Anarchia!” invece di scappare.
“Sante Caserio nacque a Motta Visconti, gaio villaggio della Lombardia, da una buona famiglia
di lavoratori. Il suo temperamento, entusiasta e meditabondo, era di quelli in cui le fedi più
ardenti sbocciano e si sviluppano con forza misteriosa. Nella infanzia, le ingenue credenze
religiose dei suoi compaesani, fra cui passò i primi anni della vita, gli ispirarono un mistico
fervore. Negli occhi azzurri, profondi e sognatori di fanciullo, e nel sembiante mansueto che
rivelava l’interna bontà del suo cuore anche mentre saliva il patibolo, poteva leggersi l’anelito,
l’ansiosa aspirazione ad un mondo ideale, in cui gli uomini amandosi vivessero in pace.“
L’assassinio del presidente francese fu compiuto, secondo l’opinione di alcuni, per
vendicare l’anarchico Auguste Vaillant, mandato a morte per una bomba fatta
esplodere alla Camera dei Deputati, che non causò alcuna vittima, come pianificato
dall’attentatore; fu il primo condannato alla pena capitale dall’inizio del 1800.
Altre fonti, ad esempio l’interrogatorio riportato sulle pagine di Anarchopedia, vedono
come movente del gesto la vendetta per l’uccisione di decine di lavoratori italianida
parte dei loro colleghi francesi, durante una rivolta tinteggiata di xenofobia e
razzismo, nell’agosto del 1893 alle saline di Aigues-Mortes; il governo francese fu,
infatti, ritenuto colpevole di non aver ostacolato il massacro e di non aver,
successivamente, condannato nessuno dei responsabili del terribile pogrom.
Sante Caserio non negò mai il suo gesto né tentò mai di fuggire alla sua condanna. Da
notare ciò che, sembra (dato che le fonti sono poche), abbia detto ai giudici durante il
suo processo:
“Dunque, se i governi impiegano contro di
noi i fucili, le catene, le prigioni, dobbiamo
noi anarchici, che difendiamo la nostra
vita, restare rinchiusi in casa nostra? No.
Al contrario noi rispondiamo ai governi
con la dinamite, la bomba, lo stile, il
pugnale. In una parola, dobbiamo fare il
nostro possibile per distruggere la
borghesia e i governi. Voi che siete i
rappresentanti della società borghese,
se volete la mia testa, prendetela”.
Sul patibolo, di fronte alla morte, il giovane Caserio non perse la fiamma che gli
bruciava in corpo ed invece di tremare di paura, si rivolse alla folla gridando “Forza,
compagni! Viva l’anarchia!“
Era il 16 agosto 1894 giorno in cui l’anarchico Sante Geronimo Caserio, venne
ghigliottinato, alla giovanissima età di 21 anni.
Sulla figura di Caserio si è in seguito sviluppata una tradizione popolare di canti e di
memoria collettiva che dura ai giorni nostri. Oltre la "La ballata di Sante Caserio" di
Pietro Gori, numerose sono le canzoni a lui dedicate, in parte tramandate oralmente.
Esempi sono “Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio [Il sedici di agosto]” di
Pietro Cini (nota anche come "Aria di Caserio"), "Partito da Milano senza un soldo" di
autore anonimo, "Il processo di Sante Caserio".
Lavoratori a voi diretto è il canto
di questa mia canzon che sa di pianto
e che ricorda un baldo giovin forte
che per amor di voi sfidò la morte.
A te Caserio ardea nella pupilla
delle vendette umane la scintilla
ed alla plebe che lavora e geme
donasti ogni tuo affetto ogni tua speme.
Eri nello splendore della vita
e non vedesti che lotta infinita
la notte dei dolori e della fame
che incombe sull'immenso uman carname.
E ti levasti in atto di dolore
d'ignoti strazi altier vendicatore
e ti avventasti tu sì buono e mite
a scuoter l'alme schiave ed avvilite.
Tremarono i potenti all'atto fiero
e nuove insidie tesero al pensiero
ma il popolo a cui l'anima donasti
non ti comprese, eppur tu non piegasti.
E i tuoi vent'anni una feral mattina
gettasti al vento dalla ghigliottina
e al mondo vil la tua grand'alma pia
alto gridando: Viva l'anarchia!
Ma il dì s'appressa o bel ghigliottinato
che il tuo nome verrà purificato
quando sacre saran le vite umane
e diritto d'ognun la scienza e il pane.
Dormi, Caserio, entro la fredda terra
donde ruggire udrai la final guerra
la gran battaglia contro gli oppressori
la pugna tra sfruttati e sfruttatori.
Voi che la vita e l'avvenir fatale
offriste su l'altar dell'ideale
o falangi di morti sul lavoro
vittime de l'altrui ozio e dell'oro,
Martiri ignoti o schiera benedetta
già spunta il giorno della gran vendetta
della giustizia già si leva il sole
il popolo tiranni più non vuole.
Riferimenti bibliografici
Roberto Leydi, La canzone popolare, Storia d’Italia, Vol. 5 – I Documenti, Ed. Einaudi, pp.
1184-2250.
Leoncarlo Settimelli e Laura Falavolti, Canti satirici anticlericali, Ed. Savelli, 1975.
Leoncarlo Settimelli e Laura Falavolti (a cura di), L’Ammazzapreti, LP 33giri, La nuova sinistra Ed. Savelli, 1975.
S.Canuto-F.Schirone, Il canto Anarchico in Italia,nell'ottocento e nel novecento,
Ed.Zeroincondotta 2009
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