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DIALOGHI Quando Cappuccetto Rosso arrivò a casa della Nonna

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DIALOGHI Quando Cappuccetto Rosso arrivò a casa della Nonna
DIALOGHI
Quando Cappuccetto Rosso arrivò a casa della Nonna, notò in lei un curioso cambiamento.
Le pareva, osservandola, che i suoi occhi, le sue orecchie e la sua bocca fossero più grandi del
solito. Forse la attraversò un leggero sospetto quando la Nonna espresse l'intenzione di mangiarla,
ma fu un attimo: balzando fuori dal letto il Lupo Cattivo fu su di lei, e la divorò in un sol boccone.
La sostanza rimane la stessa, ma nel raccontare la fiaba questa scena viene presentata in
forma di dialogo: per quale motivo? Far parlare i personaggi di una storia, riportando le loro
parole, è una scelta adottata di frequente: non serve spiegare che Cappuccetto Rosso è una
ragazzina ingenua, basta che apra bocca.
Attraverso i dialoghi Hemingway fa raccontare ai personaggi la loro storia, Calvino ci fa
conoscere l'origine dei loro nomi, e Quiroga ci mette di fronte all'assurdo... I dialoghi antologizzati
di seguito sono un esempio delle potenzialità del discorso diretto in una storia, ma sono anche la
dimostrazione che “parlare in forma scritta” è un'arte complicata: Marala, la signora Morgan,
Tom e Carvalho hanno voci molto diverse tra loro. Sono la dimostrazione che lo scrittore, proprio
come il Lupo della fiaba, deve sapersi travestire bene, se vuole che un lettore gli creda...
Isaac Asimov, La professione (ASIMOV 1991, pp. 206-207).
Il dottor Antonelli sfogliò le pagine d'un fascicolo e ripose da una parte le pellicole.
– Qui c'è scritto che vuoi diventare Programmatore per Calcolatori.
– Sì, dottore.
– Sei sempre della stessa idea?
– Sì, dottore.
– È un lavoro della massima responsabilità. Ti senti all'altezza?
– Sì, dottore.
– Molti giovani pre-istruiti non hanno preferenze. Credo che abbiano paura di sentirsi ridicoli.
– Direi di sì, dottore.
– E tu no?
– Per essere sincero, no, dottore.
Il dottor Antonelli annuì, ma la sua espressione non si schiarì affatto.
– Perché vuoi diventare Programmatore?
– È un lavoro della massima responsabilità, come ha detto lei, dottore. È un lavoro importante e
interessante. Mi piace e penso che saprò svolgerlo.
Il dottor Antonelli ripose il fascicolo e fissò George con aria acida.
– Come fai a sapere che ti piace?– chiese. – Forse perché pensi che saresti destinato a un mondo di
Grado A?
“Sta tentando di innervosirmi” si disse George. “Debbo rimanere calmo e sicuro di me.”
E disse, a voce alta: – Credo che diventare Programmatore sia una ottima carriera, signore, ma
anche se dovessi rimanere sulla Terra, mi piacerebbe lo stesso. – E questo era abbastanza vero: non
sto affatto mentendo, si disse George.
Ingeborg Bachmann, Il saldatore (BACHMANN 1991, p. 90).
L'uomo si alzò di scatto e si diresse verso il flipper. «No, non ti lascio», disse l'uomo e tirò la leva.
«Non ti lascio, mio spirito.» La leva si abbassò scricchiolando e le biglie cominciarono a danzare.
«Capisce», urlò l'uomo verso il dottore, cercando di superare il rumore. «Deve esserci un
collegamento, altrimenti i libri mi sputano in faccia o io sputo sui libri! C'è un nesso o non c'è?»
«E chi lo sa?»
«Chi? Io naturalmente. Io lo so, altrimenti tutto questo non ha alcun senso. Se io non lo so, è
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assolutamente inutile che il treno parta e il pane esca ogni giorno fresco dal forno, che uno pulisca
le strade e un altro faccia i libri.»
«Avrà certamente un suo senso, anche se Lei non lo sa», mormorò il dottore con aria compiaciuta.
«Ma cosa dice.»
«Bere. Piantare grane. Questo è tutto quello che Lei sa fare.»
«La smetta un po'. La smetta.»
«È una vergogna da non dirsi.»
«L'Eterno dà altrettanto ai suoi diletti, mentre dormono.»
«Ma guarda! Se ne pentirà.»
«Non andrà più avanti a lungo, è già durato troppo.»
«Il tempo porta consiglio.»
«Qualcosa non mi quadra.»
«Non darò un centesimo per Lei.»
«Nottetempo e in pieno giorno.»
«Vada a quel paese.»
«Si vede che Lei avrà la scienza infusa.»
Massimo Bontempelli, I pellegrini (BONTEMPELLI 1953, pp. 42-43).
«Guarda!» e con la mano libera additava «vedi quella forma lunga e nera, quella, là, che si stacca da
un tronco e si china verso la terra?»
«La vedo, è un ramo basso, è grande da sé come un albero intero.»
«Non vedi, sciocco, che è liscio? non vedi che si muove, si torce a spire, ha una testa, fischia.»
E io vedevo il serpente attorcersi e lo sentivo fischiare e tremavo come un'acqua sotto il vento.
«È quello che ci ha fatti dannare. E vedi là, dall'altra parte, in alto, tutte quelle punte...»
«Rami più piccoli.»
«Corna! corna e forconi; e là pure, e anche più giù, ogni albero è pieno di diavoli pronti a cozzare e
a forconare.»
Michail Bulgakov, Le tenebre d'Egitto (BULGAKOV 1990, p. 105).
«Di che si tratta? Si tolga la pelliccia. Di dov'è?»
La pelliccia si posò come una montagna sulla sedia.
«La febbre mi fa tribolare» rispose il malato e mi guardò mestamente.
«La febbre? Aha! Lei è di Dul'cevo?»
«Sissignore. Mugnaio.»
«Be', e com'è che la fa tribolare? Mi dica!»
«Ogni giorno, quando sono le dodici, comincia a farmi male la testa, poi mi si alza la febbre... Mi fa
tremare per un paio d'ore e poi se ne va.»
“Diagnosi bell'e pronta!” Un tintinnio di vittoria risuonò nella mia testa.
«E nelle altre ore niente?»
«Le gambe fiacche...»
«Aha... Si spogli! Hm... già.»
Alla fine della visita ero incantato dal mio paziente.
Italo Calvino, Un pomeriggio, Adamo (CALVINO 1958, pp. 16-17).
Maria-nunziata schiuse i vetri e mise la testa fuori.
– Cosa c'è? – disse, e si mise a ridere.
– Di': vuoi vedere una bella cosa?
– Cos'è?
– Una bella cosa. Vieni a vedere. Presto.
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– Dimmi cosa.
– Te la regalo. Ti regalo una bella cosa.
– Ho i piatti da lavare. Poi viene la signora, e non mi trova.
– La vuoi o non la vuoi? Alé, vieni.
– Aspetta lì, – disse Maria-nunziata, e chiuse la finestra.
Quando uscì dalla porticina di servizio, il ragazzo-giardiniere era sempre lì che bagnava i nasturzi.
– Ciao, – disse Maria-nunziata.
Maria-nunziata sembrava più alta perché aveva le scarpe belle coi sugheri, che era un peccato
tenerle anche per i servizi, come piaceva a lei. Ma aveva una faccia bambina, piccola in mezzo al
riccio dei capelli neri, e anche le gambe ancora magre e bambine, mentre il corpo, negli sbuffi del
grembiule, era già pieno e adulto.
E rideva sempre: a ogni cosa detta dagli altri o da lei, rideva.
– Ciao, – disse il ragazzo-giardiniere. Aveva la pelle marrone, sulla faccia, sul collo, sul petto: forse
perché stava sempre così, mezzo nudo.
– Come ti chiami? – disse Maria-nunziata.
– Libereso, – disse il ragazzo-giardiniere.
Maria-nunziata rideva e ripeté: – Libereso... Libereso... che nome, Libereso.
– È un nome in esperanto, – disse lui. – Vuol dire libertà, in esperanto.
– Esperanto, – disse Maria-nunziata. – Sei esperanto, tu?
– L'esperanto è una lingua, – spiegò Libereso. – Mio padre parla esperanto.
– Io sono calabrese, – disse Maria-nunziata.
– Come ti chiami?
– Maria-nunziata, – e rideva.
– Perché ridi sempre?
– Ma perché ti chiami Esperanto?
– Non Esperanto: Libereso.
– Perché?
– E perché tu ti chiami Maria-nunziata?
– È il nome della Madonna. Io mi chiamo come la Madonna e mio fratello come san Giuseppe.
– Sangiuseppe?
Maria-nunziata scoppiava dal ridere: – Sangiuseppe! Giuseppe, non Sangiuseppe! Libereso!
– Mio fratello, – disse Libereso, – si chiama Germinal e mia sorella Omnia.
– Quella cosa, – disse Maria-nunziata, – fammi vedere quella cosa.
– Vieni, – disse Libereso. Posò l'innaffiatoio e la prese per mano.
Maria-nunziata s'impuntò: – Dimmi cos'è, prima.
Raymond Carver, Provi a mettersi nei miei panni (CARVER 2009a p. 135).
Morgan tornò in soggiorno e distribuì le bevande calde. Poi si affrettò a sedersi al suo posto.
– Raccontagli la storia della signora Attenborough, caro, – disse la signora Morgan.
– Quel cane a momenti mi stacca una gamba, – disse d'un tratto Myers, rimanendo subito lui stesso
stupito dalle parole che aveva appena detto. Mise giù la tazza.
– Oh, andiamo, non è stato poi così tragico, – disse Morgan. – Ho visto tutto.
– Sa come sono gli scrittori, – disse la signora Morgan a Paula. – Hanno tutti un po' il gusto
dell'esagerazione.
– Potenza della penna, eccetera eccetera, – intervenne Morgan.
– Esatto, – disse la signora Morgan. – Trasformi la penna in aratro, signor Myers.
Anton P. Čechov, La strega (ČECHOV 2007, pp. 92-93).
«La posta gira in tondo!» disse rauco, sbirciando con astio la moglie. «Senti? La posta gira in
tondo!... Io... io so! Forse che io non... non capisco?» brontolò. «Io so tutto, che tu possa
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schiattare!»
«Che cosa sai?» domandò piano la sagrestana, senza staccar gli occhi dalla finestra.
«Questo so, che son tutte opere tue, diavolessa! Opere tue, che tu possa schiattare! E questa bufera,
e la posta che gira in tondo... tutto questo l'hai fatto tu! Tu!»
«Ammattisci, sciocco...» osservò tranquillamente la sagrestana.
«È già un pezzo che noto questo in te! Come ti sposai, fin dal primo giorno mi accorsi che in te
c'era sangue di cagna!»
«Puh!» si meravigliò Raisa, stringendosi nelle spalle e segnandosi «Ma fa' il segno della croce,
scemo!»
«Strega, e strega sei,» continuò Savelij con voce sorda di pianto, soffiandosi il naso, frettoloso, nel
lembo della camicia.
Agatha Christie, Il furto di gioielli al Grand Metropolitan (CHRISTIE 1990, pp. 203-204).
L'ispettore era indaffarato a scrivere sul blocco di appunti. «Quando le ha viste l'ultima volta?»
chiese.
«Quando sono scesa a cenare c'erano.»
«Ne è sicura?»
«Sicurissima. Ero incerta se metterle o no. Ma alla fine ho deciso per gli smeraldi e le ho riposte di
nuovo nel portagioielli.»
«Chi ha chiuso a chiave il portagioielli?»
«Io. Tengo la chiave su una catenina attorno al collo» e la sollevò per mostrarmela mentre parlava.
L'ispettore la esaminò e scrollò le spalle.
«Il ladro doveva avere un duplicato della chiave, non è difficile, la serratura è semplice. Che cosa ha
fatto dopo aver chiuso a chiave il portagioielli?»
«L'ho rimesso nel cassetto in basso dove lo metto sempre.»
«Non ha chiuso a chiave il cassetto?»
«No, non lo faccio mai; la cameriera rimane nella stanza fino a che salgo io e quindi non ce n'è
bisogno.»
Il viso dell'ispettore divenne più grigio.
«Vuole dire che i gioielli c'erano quando è scesa a cenare e che da quel momento la cameriera non
ha mai lasciato la stanza?»
Bruno Cicognani, La Zaira (CICOGNANI 1917a, pp. 17-18).
L'altro arrabbiato:
– E dunque?
– Doman te n'avvedrai, diceva il chierico gobbo che accompagnava il prete per le case a dar l'acqua
benedetta e nel secchiolino, per vendicarsi della gente che lo canzonava, olio ci avea messo invece
d'acqua santa.
– Uff! Secondo te uno dovrebbe esser sempre attento col moccolino a ogni soffio del cervello; ma
come fai a non diventare di pietra?
– Temperamento!
La conversazione ripigliava quando a Lisandro eran risarcite le piaghe dell'avventura e che allora
era Lisandro che andava a cercare il Laurenti:
– Sai? Son guarito.
–Ringrazia Iddio e speriamo che tu non l'abbia a ribeccare.
Gabriele D'Annunzio, La contessa d'Amalfi (D'ANNUNZIO 1965, p. 117).
Poiché Rosa taceva, in cima alle scale, torcendo fra le mani un lembo del grembiule e un poco
dondolandosi, egli chiese:
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– Ma come? ma come?...
E salì alcuni gradini, ripetendo con una lieve balbuzie:
– Ma come? ma come?
– Don Giovà, che v'ho da dire? È partita.
– Ma come?
– Don Giovà, io non saccio, mo.
Grazia Deledda, Il nemico (DELEDDA 1996, pp. 366-367).
Una donna scendeva quasi di corsa la strada. Nel vedere e riconoscere Marala si fermò d'un botto e
si fece il segno della croce.
– Non sono poi il diavolo – disse lei con la sua voce d'uomo.
– Marala! Voi, voi! Io scendevo per cercarvi. E il Signore mi vi manda incontro! Come non farsi il
segno della croce? Marala, Marala, amore santo, ho bisogno di voi.
– Peccato che non sia un maschio: sarebbe il momento di prendervi, tanto sembrate innamorata.
La donna le se inginocchiò davanti, le mise la testa quasi fra le ginocchia. Ansava, e davvero pareva
basisse d'amore.
– Marala, mio figlio, che è garzone nel caffè dei villeggianti, ha commesso una cattiva azione: ha
rubato cento lire al padrone, e il padrone mi ha mandato a chiamare perché le rivuole entro oggi;
altrimenti caccia il ragazzo in prigione. Ho pensato a voi, Marala. So che date denari a interessi...
Marala guardò su e giù per la strada, poi disse ad alta voce:
– Un corno, interessi! Aiuto qualche buon cristiano, quando capita l'occasione di fare del bene.
– Sì, lo sappiamo: siete una santa donna. Datemi le cento lire.
E poiché Marala la guardava quasi deridendola, l'altra riprese, sottovoce:
– Ve le renderò sabato, quando ritorna mio marito dalla foresta. Vi renderò cento venti lire.
– Non le ho – disse burbera la vecchia. – Venite più tardi a casa e vedremo.
La donna si volse verso il cestino della roba, con le mani giunte.
– Non è il cestino col Bambin Gesù – disse allora Marala, ridendo come una ragazza. – Ho già
capito.
– Sì, Marala; datemi la vostra roba: la vendo io e poi vi rendo il cestino. Cento lire ci si ricavano di
certo.
Marala aveva calcolato sulle ottanta lire: dignitosamente disse:
– Oh se ne ricaveranno anche cento venti. Solo i polli valgono dodici scudi.
Sollevò con religione il fazzoletto che copriva la roba, e toccò con un dito i polli.
– Vedi, sono grassi, bianchi e teneri come bambini appena nati.
Nikolaj Gogol', Il ritratto (GOGOL' 2006, p. 102).
«Sei pittore?» chiese senza cerimonie lo strozzino a mio padre.
«Pittore», rispose mio padre perplesso, in attesa del seguito.
«Bene. Fammi il ritratto. Io forse morrò presto, non ho figli; ma non voglio morire del tutto, voglio
vivere ancora. Sai fare un ritratto che sia proprio come vivo?»
Mio padre pensò: «Che c'è di meglio? Lui stesso si propone per diavolo nel mio quadro.» Promise.
Nikolaj Gogol', Taràs Bùl'ba (GOGOL' 1957, pp. 366-367).
Un tumulto di affetti conturbò il cuore del giovane cosacco.
– Ma come mai sei qui? come hai fatto a trovar la via?
– Son venuta per un passaggio sotterraneo.
– C'è dunque un passaggio sotterraneo?
– C'è.
– Dove?
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– Non mi tradirai?
– Te lo giuro sulla croce!
– Scendendo giù nel campo delle biade, si traversa il ruscello nel punto dov'è più fitto il canneto.
– E si arriva in città?
– Si arriva al convento.
– Andiamo, andiamo subito?
– Ma prima, per amor di Cristo e della Vergine santa, un po' di pane!
– Sta bene, l'avrai... Non ti muovere di qua: mettiti a giacere sotto il carro... Nessuno ti vedrà; tutti
dormono... Vado e torno in un lampo.
Ernest Hemingway, Il giocatore, la monaca e la radio (HEMINGWAY 1961, pp. 443-444).
Qui il messicano si fermò un momento, poi riprese:
– Quando ho fatto un po' di denaro con le carte gioco in grande, e appena gioco in grande perdo. Mi
sono giocato anche tremila dollari ai dadi e ho perduto per un sei. Più di una volta.
– Perché continuate?
– Bene, se avessi una vita lunga la fortuna cambierebbe. Sono da quindici anni che ho sfortuna. Se
avessi fortuna un giorno, diventerei ricco –. Ghignò. – Giocare gioco bene. Davvero mi andrebbe di
esser ricco.
– Siete sfortunato a tutti i giochi?
– A tutti i giochi e in ogni cosa, e con le donne anche.
Sorrise, mettendo in mostra i denti guasti.
– Veramente?
– Veramente.
– Che fare, allora?
– Continuare, aspettare che la fortuna cambi.
– E con le donne?
– Nessun giocatore ha fortuna con le donne. Vive troppo concentrato. Lavora di notte, quando
dovrebbe essere con una donna. Chi lavora di notte non può tenersi una donna che sia una donna.
– Siete filosofo.
– No, hombre. Un giocatore di provincia. Una città di provincia, poi un'altra, un'altra, poi una
grande città, poi daccapo.
– Poi due pallottole nella pancia.
– Questo è accaduto solo una volta.
– Vi stanco a farvi parlare? – chiese Frazer.
– No, – egli ripose. – Forse io stanco voi.
– E la gamba?
– Non mi serve molto. Con la gamba o no per me è lo stesso. Potrò sempre circolare.
– Vi auguro buona fortuna, veramente con tutto il cuore.
– Io altrettanto a voi. E che il dolore passi.
– Non durerà in eterno. Già passa. Non ha nessuna importanza.
– Che passi presto.
– Anche per voi.
James Joyce, Contropartita (JOYCE 1963, pp. 105-106).
Un ragazzetto scese correndo le scale.
«Chi sei?» chiese l'uomo aguzzando gli occhi nel buio.
«Io, pa'.»
«Chi? Charlie?»
«No, pa'. Tom.»
«Dov'è la mamma?»
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«È andata in chiesa.»
«Ma brava... E ha pensato a lasciarmi la cena?»
«Sì, pa'... io...»
«Accendi il lume. Che maniera è di lasciare tutto al buio? Sono a letto gli altri?»
L'uomo si lasciò cadere su una sedia mentre il ragazzo accendeva la lampada. Si mise a fare il verso
al figliolo borbottando fra sé: «È andata in chiesa eh... In chiesa!». Quando il lume fu acceso,
picchiò il pugno sul tavolo urlando:
«Che c'è per cena?»
«Te... te la preparo subito, pa'.»
L'uomo saltò su furibondo e additò il fuoco.
«Su quel fuoco lì? L'hai lasciato spegnere... Perdio, ti insegnerò io a rifarlo un'altra volta!»
Avanzò d'un passo verso la porta e agguantò la mazza da passeggio che vi stava appoggiata.
«T'insegnerò io!» disse rimboccandosi la manica per aver libero il braccio.
Il ragazzetto gridò: «Oh, pa'!» e corse piagnucolando intorno al tavolo, ma l'uomo lo rincorse e
l'agguantò per la giacca. Il ragazzetto si guardò allora in giro spaurito ma non vedendo via di
scampo si buttò a terra in ginocchio.
«Lo lascerai spegnere un'altra volta?» diceva l'uomo menando colpi con forza. «Prendi, to',
animale!»
Tommaso Landolfi, Una donna (LANDOLFI 1992, p. 806).
«Signorina, da tanto tempo volevo dirle...»
«Dica» replicò l'altra colla sua voce di squilla, sebbene con scarsissimo interesse.
«Ma non è cosa facile da dire.» (Non posso mica dichiararle così di schianto che l'amo, crederebbe
a uno scherzo; no, ci vuol reticenza e trepidezza.)
«Eh, come mai?» chiese un po' stupita, ma già pronta a distrarsi.
«Mio Dio, non lo sa forse? ci son cose che uno non vorrebbe mai confessare, non perché se ne
vergogni, intendiamoci, al contrario; ma per tema di sciuparle...»
Nikolaj Leskov, L'aquila bianca (LESKOV 1948, p. 102).
Arrivo dal governatore: le lampade erano accese e v'erano già molti invitati, ma il governatore,
vedendomi, mi dice sottovoce:
«La parte migliore del programma è rovinata; non si possono fare i quadri».
«Ma cos'è successo?»
«Sss... parlo piano, per non guastare la festa. Ivan Petrovic è morto».
«Come! Ivan Petrovic! Morto?!»
«Sì, sì, è morto!»
«Ma se tre ore fa era da me, sano come un pesce!»
«Ebbene, dopo avervi lasciato, una volta a casa si è coricato su un divano ed è morto. E, sapete...
devo dirvi che sua madre... è così sconvolta che potrebbe prendersela con voi. La poverella è
convinta che siete voi il colpevole della morte di suo figlio».
«Ma in che modo? Forse che è stato avvelenato, in casa mia?»
«Lei non dice questo».
«Che cosa dice allora?»
«Che voi avete dato il malocchio a Ivan Petrovic!»
«Ma scusate, che sciocchezze!»
«Sì, sì,» rispose il governatore: «sono sciocchezze, si capisce, ma siamo in provincia, e qui alle
sciocchezze si crede più volentieri che alle cose intelligenti. Naturalmente, non val la pena di farci
caso».
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Arturo Loria, Il falco (LORIA 1961, pp.38-39).
«Dunque» riprese il padrone del falco, e fece atto di richiudere il cesto «me lo ammazza, sì o no?»
«Posso anche ammazzarlo; ma non ora. Non vede che son già vestito per uscire? Domattina, appena
aperto, ci penso io. Del resto è bene aspettare: così si ripulisce dentro.»
«Ma dimagrirà, diventerà brutto.»
L'impagliatore rise: «Ci son io a gonfiarglielo di paglia e bambagia. Lo possiamo lasciar lì; tanto, è
timido come un pulcino» e spinto fuor di bottega l'uomo dal cesto, calò la saracinesca, mise i
lucchetti e si avviò con quello, ch'era rimasto ad aspettarlo sul marciapiedi per contrattare del
prezzo.
Luigi Malerba, L'anello nella neve (MALERBA 1963, pp. 138-139).
“Dina.”
La moglie mise sul fuoco altri due secchi di neve e poi si voltò.
“Sei sicura di aver perso l'anello?”
Dina gli fece vedere la mano aprendo le dita.
“L'ho perso nell'orto,” disse, “mi è cascato nella neve.”
“Che cosa facevi nella neve?”
“Niente.”
“Siediti.”
Dina sedette sulla panca vicino al marito.
“Sei sicura che lo hai perso?”
“Non sono così sicura.”
“Può essere che lo hai buttato via?”
Dina non disse niente.
“Può essere tutto,” rispose dopo un po'.
“Potevi parlare.”
“Fa lo stesso ormai.”
“Che cosa vuol dire?”
“Che ormai fa lo stesso.”
“Dopo questo fatto sarà difficile che andiamo d'accordo.”
Dina chinò la testa.
“Era questo che volevi farmi capire?”
“Adesso mi sono riposata, posso andare a prendere l'altra neve nell'orto.”
“Tanto non serve a niente.”
“Questo lo sapevi già.”
William Somerset Maugham, La filosofia di George Moon (MAUGHAM 1986, p. 65).
Qualcuno si alzò, strappo il giornale di mano a chi lo leggeva e, incredulo, volle vedere coi propri
occhi. Altri si misero a guardare di sopra alle sue spalle. E coloro che si trovavano a sfogliare altre
copie del giornale corsero subito alla pagina in questione.
«Perbacco!» gridò uno.
«Questa sì che è scalogna» disse un secondo.
«Ma se stava così bene quando è partito!» osservò un terzo.
Un brivido percorse quella piccola folla di buontemponi. Ognuno si ricordò di essere anche lui un
mortale. Altri intanto arrivavano, tutti presi dal pensiero dell'aperitivo e dalla fretta di ritrovarsi con
gli amici, e si vedevano davanti delle facce costernate.
«Non sapete niente? Il povero Knobby Clarke è morto.»
«Davvero? Che cosa terribile!»
«Che maledetta sfortuna!»
«Disgraziato!»
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«Un così buon diavolo!»
«Un uomo come ce n'è pochi!»
«Ho avuto proprio un colpo quando l'ho letto nel giornale.»
«Sfido!»
Guy De Maupassant, I venticinque franchi della superiora (MAUPASSANT 1945, p. 221).
D'un'occhiata, un'occhiata da esperta, costei squadrò l'ubbriaco, crollato su una sedia e con la bocca
a cul di gallina: «Non ti vergogni?» fece «a quest'ora?»
«Vergognarmi di che, principessa?» tartagliò lui.
«Di farmi alzare da tavola.»
«I bravi non hanno ora» volle ridire lui.
«Neanche per le sbronze hai ora, vedo. Imbuto!»
Pavilly non se la lasciò dire: «Non sono un imbuto, prima di tutto; e neanche sbronzo, sono.»
«Ah, no?»
«No, che non sono ubbriaco.»
«Ah, non lo sei. Prova a tenerti su in piedi.»
E lo guardava col risentimento della donna che sa le sue compagne dietro a pranzare.
Punto nel vivo, lui si tirò su.
«Io ballerei una polca.»
E per provarle se in piedi ci stava o no, salì sulla sedia, e con una piroetta saltò sul letto, dove ecco
apparire bene in vista le fangose impronte delle scarpe.
Manuel Vázquez Montalbán, La ragazza che non sapeva dire no (MONTALBÁN 1987, p. 115).
“Non oso raccontartelo.”
Si era seduta nuda sul letto, con le tette che cercavano di rifugiarsi sotto la coperta, le spalle all'aria.
“Raccontarmi, cosa?”
“Non oso.”
Carvalho voltava la testa sul cuscino per vedere l'espressione di lei nascosta nella penombra della
stanza.
“Un'altra storia di notti e macchine?”
“Sì.”
“Raccontamela.”
“Perché?”
“Non raccontarmela.”
“Se mi dici che ti interessa te la racconto.”
“Mi interessa.”
“Perché?”
“Non mi interessa.”
“Mi stai prendendo in giro. Mi hai preso per una cretina, per una bambina viziata e rompipalle.”
Elsa Morante, Via dell'angelo (MORANTE 1994, pp. 69-70).
– Perché oggi piangevi? – le chiese dopo un poco.
– Perché, – ella spiegò, – Madre Cherubina mi aveva offeso.
– Vergogna, – egli osservò sdegnato, – una suora che offende la gente –. E scosse la testa. –
Bisognerà pure, – proseguì, – che io ti tolga le scarpe. Sono tutte impolverate –. E premuroso, si
curvò. Su ogni cosa che vedeva, s'incuriosiva e commentava: – Che scarponi, – diceva, – che calze
lunghe –. A un tratto, tutto rianimato e felice, prese a ridere. – Oh, che piedi piccoli, – gridò. – E che
paura hanno! Come sono bianchi. Sembrano coniglietti. Non nascondetevi. Tu, lasciamici giocare.
Ora, – dichiarò grave e deciso, – dobbiamo fare l'amore –. E devotamente rinchiuse i due piedi nel
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pugno.
Alice Munro, Sono atterrate le navi spaziali (MUNRO 2008a, p. 238).
– Ero ubriaco, – disse Wayne. – Non sei brutta.
Rhea disse: – Lo so.
– Ci sto malissimo.
– Non per quello, – disse Rhea.
– Ero ubriaco. Scherzavo.
Rhea disse: – Non vuoi sposarla. Lucille.
Lui si appoggiò alla ringhiera. Rhea pensò che stesse per vomitare. Ma lui si riprese, e tentò la solita
alzata di sopracciglia, il sorriso scoraggiante.
– Davvero? Non dici per scherzo? Allora che cosa mi consigli?
– Scrivile un biglietto, – disse Rhea, come se fosse stata una domanda seria. – Prendi la macchina e
vai a Calgary.
– Così su due piedi.
– Se vuoi vengo con te fino a Toronto. Mi puoi lasciare là; alloggerò all'YMCA finché non trovo un
lavoro.
Alice Munro, Buche-profonde (MUNRO 2011, pp. 112-113).
Non più di dieci minuti dopo, squillò il telefono. Era Savanna.
– Mamma. Hai la tv accesa? Hai visto?
– L'incendio, vuoi dire? Sì, ma l'ho spenta.
– No. Se hai visto... Io lo sto cercando, l'ho visto meno di dieci minuti fa. Mamma, è Kent. Adesso
non lo trovo più. Ma l'ho visto.
– È ferito? Accendo subito. Era ferito?
– No, è un soccorritore. Reggeva una barella con qualcuno supra, non so se un morto o un ferito.
Però era Kent. Era lui. Si vedeva perfino che zoppicava. Hai acceso?
– Sì.
– Bene, ora mi calmo. Deve essere tornato dentro l'edificio.
– Ma non permetteranno che...
– Potrebbe essere un medico, per quel che ne sappiamo. Oh merda, stanno rimandando in onda
l'intervista allo stesso vecchio di prima, quello con la famiglia che aveva un negozio lì da cent'anni.
Senti, attacchiamo e restiamo con gli occhi incollati allo schermo. Lo devono in quadrare di nuovo,
prima o poi.
E invece no. I filmati si fecero ripetitivi.
Savanna ridacchiò.
– Voglio andare in fondo a questa storia. Conosco un tizio che lavora al telegiornale. Posso
chiedergli di rivedere il servizio, dobbiamo trovarlo.
Flannery O'Connor, Il pelapatate (O'CONNOR 1990, pp. 77-78).
Sorrideva. Sembrava un cane da caccia, buono e festoso, ma affetto da una leggera rogna. “Quando
sei arrivato qui?” chiese a Haze.
“Due giorni fa,” borbottò Haze.
“Io sono qui da due mesi,” disse Enoch. “Lavoro per il comune. Tu dove lavori?”
“Da nessuna parte,” disse Haze.
“Peccato,” disse Enoch. “Io lavoro per il comune.” Saltò un passo per mettersi alla pari con Haze,
poi disse: “Ho diciotto anni, sono qui da appena due mesi e già lavoro per il comune.”
“Tanto piacere,” disse Haze. Si calcò il berretto sulla testa, dalla parte di Emery, e affrettò il passo.
“Non ho capito bene il tuo nome,” disse Enoch.
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Haze glielo ripeté.
“Pare proprio che tu stia seguendo quei due zoticoni,” osservò Enoch. “Ti piacciono tutte queste
storie di Gesù e compagnia bella?”
“No,” disse Haze.
“Nemmeno a me, no, non tanto,” convenne Enoch. “Sono stato in un posto che si chiama Rodemill
Boy's Bible Academy per quattro settimane. Mi ci ha mandato questa donna che mi ha portato via a
mio padre dandogli dei soldi in cambio, una della pubblica assistenza. Gesù, quattro settimane in
quel posto, e mi pareva di diventar matto, altro che santo!”
Anna Maria Ortese, Un paio di occhiali (ORTESE 1954, p. 5).
– Di' a mammà se oggi può salire un momento sopra, la signora Amodio le deve fare un'ambasciata.
Eugenia la riconobbe alla voce.
– Ora non ci sta. È andata a Via Roma a ritirarmi gli occhiali.
– Io pure me li dovrei mettere, ma il mio fidanzato non vuole.
Eugenia non afferrò il senso di quella proibizione. Rispose solo, ingenuamente:
– Costano assai assai, bisogna tenerli riguardati.
Entrarono insieme nel buco di don Vincenzo. C'era gente. Eugenia era respinta sempre indietro. –
Fatti avanti... sei proprio cecata, – osservò con un bonario sorriso la serva di Amodio.
– Ma zi' Nunzia ora le fa gli occhiali, – intervenne, strizzando l'occhio, con aria d'intesa scherzosa,
don Vincenzo che aveva sentito. Anche lui portava gli occhiali.
– Alla tua età, – disse porgendole le caramelle, – ci vedevo come un gatto, infilavo gli aghi di notte,
mia nonna mi voleva sempre appresso... Ma ora sono invecchiato.
Eugenia assentì vagamente.
– Le mie compagne, nessuna tengono le lenti, – disse. Poi rivolta alla Buonincontri, ma parlando
anche per don Vincenzo: – Io sola... Nove diottrie da una parte e dieci dall'altra... sono quasi cecata!
– sottolineò dolcemente.
– Vedi quanto sei fortunata... – disse don Vincenzo ridendo; e a Rosaria: – Quanto di sale?
– Povera creatura! – commentò la serva di Amodio mentre Eugenia usciva, tutta contenta. – È
l'umidità che l'ha rovinata. In quella casa ci chiove. Ora donna Rosa ha i dolori nelle ossa. Datemi
un chilo di sale grosso, e un pacchetto di quello fino...
– Sarete servita.
– Che mattinata, eh, oggi, don Vincenzo? Sembra già l'estate.
Emilia Pardo Bazàn, L'avvertimento (PARDO BAZÀN 2003, pp. 50-51).
Uno stupore, una curiosità attonita si stamparono sul volto un po' goffo, ma fresco e aggraziato della
contadina.
«Io, don Calixto? Proprio io...?»
«Tu, certo, tu... non so di cosa ti sorprendi... Di sicuro non devo andarci io... Se ti dicessi che ti
vogliono far guidare la carrozza, allora sì avresti di che meravigliarti...»
«Ma vuol dire che devo andare a Madrid, don Calixto?»
«Sì, a meno che tu non voglia allattare da qui il piccolo dei signori...»
«Non si burli di me... Non mi prenda in giro... E che cosa dirà mio marito quando saprà che lascio la
casa e i figli?»
«Che diavolo dovrebbe mai dire? Sarà più che contento. Vi cade in bocca un fico maturo. Otto scudi
di paga al mese, il vitto... e immagina che cibo! E vestiti... Vestiti come quelli di una regina!
Collane e orecchini di monete d'oro, fazzoletti ricamati, una mantellina di velluto... Sembrerai una
signora anche tu!»
«Otto scudi,» ripeté impressionata la contadina, mentre il lattante, vinto dalla sazietà, chiudeva gli
occhietti e si addormentava. «Dice che mi daranno otto scudi al mese?»
«Per non parlare delle mance! Mance ricche!»
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Luigi Pirandello, La giara (PIRANDELLO 1952, p. 268).
– Guardate! guardate!
– Chi sarà stato?
– Oh mamma mia! E chi lo sente ora don Lollò? La giara nuova, peccato! –
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando
fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne. Ma il secondo:
– Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua
tutti! –
Uscì davanti al palamento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:
– Don Lollò! Ah, don Lollòoo –
Aleksàndr Puškin, La pistolettata (PUŠKIN 1958, p. 95).
– Ecco un bel colpo, – dissi, rivolgendomi al conte.
– Sì, – egli rispose, – è un colpo molto notevole. E voi tirate bene? – proseguì.
– Passabilmente, – risposi io, lieto che la conversazione avesse toccato finalmente un tema a me
familiare; – con una carta a trenta passi non faccio cilecca; s'intende, con pistole ch'io conosca.
– Davvero? – disse la contessa con l'aria di una grande attenzione. – E tu, amico mio, colpiresti una
carta a trenta passi?
– Qualche volta proveremo, – rispose il conte. – A suo tempo non tiravo male, ma ecco son già
quattro anni che non ho preso in mano una pistola.
Horacio Quiroga, L'assenza (QUIROGA 1990, pp. 214-215).
Mentre parlavo con l'impiegato, riuscii a scorgere, attraverso lo sportello, un grosso calendario.
«Siete avanti voi, qui» gli dissi, indicandogli il calendario.
«Cosa dice?» domandò l'uomo.
«Il calendario.»
«Che cos'ha il calendario?»
«Niente... solo che è un po' avanti.»
«Avanti? Il 1927?»
«No, 1921.»
Perplesso, quasi dubitando di sé, l'uomo diede una rapida occhiata all'indietro.
«Come vede» mi disse, ritornando ai suoi numeri «1927.»
«No, 1921» tornai a dire.
«Come vuole, signore. Ma mi lasci in pace, per favore!» tagliò corto l'impiegato, guardandomi. «Se
non è contento del calendario, ecco qui il libro dei reclami.»
Allora guardai tre volte il calendario e l'uomo, e uscii lentamente, avviandomi verso la pensilina.
1927! 2 aprile 1927! E l'ultimo ricordo che avevo era di ieri, 24 febbraio 1921!
Reiner Maria Rilke, Riflessi (RILKE 1950, pp. 306-307).
Il Principe chiese:
«Lei ama sua madre?»
Silenzio.
«L'amo perché non è mia madre», rispose semplicemente la fanciulla; e in tale confessione era
qualche cosa di molto commovente.
«Sua madre è morta?»
Elena piegò il capo.
Silenzio.
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Improvvisamente il giovane chiese:
«Può perdonarmi, Elena?»
Elena annuì lentamente, pensierosa.
«Lei risponde di sì: ma sa quello che deve perdonarmi?»
«No; ma rispondo alla sua domanda. Posso perdonarle tutto.»
Il giovane si alzò bruscamente e fece un gesto violento e impaziente con la mano intorno al collo,
gettando il capo all'indietro:
«...Non sono principe... neppure nobile. Io sono... io... sono povero, molto povero», concluse con
voce rapida e dura, incapace di dire il proprio nome.
J.D. Salinger, Alla vigilia della guerra contro gli Esquimesi (SALINGER 2009, pp. 55-56).
– Perché dici che Joan è una snob? – chiese Ginnie.
– Perché? Perché lo è. Come Cristo vuoi che lo sappia, il perché.
– Sì, ma voglio dire, perché dici che lo è?
Lui si volse con aria stanca. – Senti. Le ho scritto otto porche lettere. Dico, otto. Non ha risposto
nemmeno a una, che è una.
Ginnie esitò. – Be', forse aveva da fare.
– Già, da fare. Daffare come una porca formica.
– Ma c'è proprio bisogno di dire tante parolacce? – chiese Ginnie.
– Un bisogno porco.
Ginnie rise. – È un pezzo che la conosci? – chiese.
– Quanto basta.
– Be', volevo dire, le hai mai telefonato eccetera? Insomma, no, le hai mai telefonato?
– Naa.
– Be', scusa, ma se non le hai mai tele...
– E come facevo, per Cristo!
– Non potevi? – disse Ginnie.
– Non ero a New York.
– Ah! Dov'eri?
– Io? Nell'Ohio.
– Oh, all'università?
– No. L'ho mollata.
– Ah, eri militare?
– No –. Con la mano che teneva la sigaretta il fratello di Selena si batté sul lato sinistro del torace. –
Il coso, – disse.
– Vuoi dire il cuore? – disse Ginnie. – Ha qualcosa che non va?
– Non so cos'ha che non va. Da piccolo ho avuto la febbre reumatica. Un male da farti...
– Scusa, ma non dovresti smettere di fumare? Voglio dire, non bisognerebbe non fumare eccetera? Il
dottore ha detto a mio...
– Sì. Ti dicono sempre un sacco di balle, – disse lui.
Ginnie interruppe brevemente il fuoco. Molto brevemente. – Cosa facevi nell'Ohio? – chiese
– Io? Lavoravo in una lurida fabbrica di aeroplani.
– Ah, sì? – disse Ginnie. – E ci stavi bene?
– «Ci stavi bene?» – la scimmiottò lui. – Non sarei mai andato via. Io adoro gli aeroplani. Sono così
carini.
Ardengo Soffici, Il giudizio finale (SOFFICI 1958, pp. 136-137).
Iddio lo fissò in volto, visibilmente compiaciuto della onesta calma che vi si leggeva.
– E tu? – gli disse partenamente – Raccontami un po' quel che hai fatto vivendo nel mondo.
Il giusto Paco, quantunque tuttavia un poco intimidito dalla maestà dell'Essere Supremo e dalla
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magnificenza di tutto l'apparato, abbozzò un sorriso, poi disse:
– Signore, ho fatto del mio meglio per obbedirvi: ho osservato scrupolosamente tutt'e dieci i vostri
comandamenti.
– Cioè?
– I comandamenti della vostra Chiesa. Non ho ammazzato nessuno, non ho rubato nulla, non ho
fatto opera di carne se non nel santo matrimonio, non ho commesso adulterio...
– Bene – disse il Signore –. Probabilmente perché non hai mai sentito l'impulso a farlo.
– Al contrario, – si affrettò a rispondere il leale Iturrino –. L'ho sentito fortissimo, ma ho resistito
vittoriosamente a ogni tentazione.
Iddio si oscurò in volto a queste parole.
– E perché? – chiese tornando a guardarlo in viso, ma ora con occhio severo.
– Ma... – fece allora l'onesto Paco alquanto interdetto –. Sapevo che per salvarsi bisognava far così;
resistere agli istinti...
– E chi l'ha detto?
– Agli istinti malvagi...
– E perché malvagi? Se codesti istinti, tutti gl'istinti vengon da me.
– Ma io credevo... – disse Paco, sempre più imbarazzato.
– Tu credevi, – esclamò il Signore irritato. – Che cosa credevi? Gli istinti te li avesse dati chi?
Mario Soldati, L'inganno e la certezza (SOLDATI 1991, p. 452).
Ero alla lavagna. Il Maestro Bórtoli mi aveva domandato:
«E tu, che cosa hai chiesto per regalo di Natale?»
«Una bicicletta.»
«E come hai fatto a chiederla?»
«Avevo scritto una lettera.»
«E poi, la lettera, a chi l'hai data?»
«A nessuno.»
«Ma no, l'avrai data, anche tu come tutti gli altri, al papà o alla mamma!»
«No, a nessuno.»
«E che cosa ne hai fatto, allora, della lettera?»
«Ieri sera, prima di addormentarmi, l'ho lasciata sul comodino da notte. Stamattina, quando mi sono
svegliato, la lettera non c'era più.»
«Va bene. Vuol dire che il papà o la mamma l'hanno presa.»
«Eh, no.»
«Perché no?»
«Ma perché... perché Gesù Bambino non ha bisogno di nessuno.»
Robert Louis Stevenson, Olalla (STEVENSON 1949, pp. 68-69).
«Non vedo mai tua sorella,» mormorai così a caso.
«Oh, no,» mi rispose «è una ragazza tanto brava!» E la sua attenzione subito fu distratta da un altro
pensiero. Dopo un'altra pausa riprovai:
«Tua sorella è certo molto religiosa?»
«Oh!» esclamò congiungendo le mani in atto di gran fervore «è una santa: è lei che mi sorregge!»
«Sei fortunato,» risposi; «i più tra noi sono propensi a cadere in basso e io per primo, temo.»
«Señor,» aggiunse Felipe con sincerità, «io non direi questo; voi state tentando il vostro angelo
custode; quando si incomincia a cadere non si può mai sapere dove si può andare a finire.»
«Felipe, non avrei mai immaginato che tu fossi un così buon predicatore, è forse merito di tua
sorella?»
Accennò di sì col capo e con una espressione di meraviglia negli occhi.
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Giovanni Verga, Il maestro dei ragazzi (VERGA 1941, pp. 62-63).
Il maestro, che aveva seguíto il vaneggiare della sorella verso il verde ed il sole, coll'allucinazione
perenne che era in lui, le chiese affettuosamente:
– Ora che viene l'autunno saresti contenta d'andare in campagna?
– E la scuola? – ribatté lei con un sorriso malinconico. – Se tu pigliassi una buona dote invece... con
dei poderi...
– Benedette donne! quando si ficcano un chiodo in testa!... – rispose lui con un sorrisetto malizioso.
E pareva esitare a decidersi. Ma dopo averci pensato su, finì col dire:
– non mi vendo, no!
E abbottonò il soprabito con dignità.
– Se ho da fare una scelta... Se mai... È inutile! – conchiuse finalmente. – Amo troppo la mia libertà.
Ella insisteva a dire che queste cose si fanno finché uno è giovane, che se no si finisce in mano della
serva o di qualche intrigante.
Poi, siccome il fratello non voleva arrendersi, la zitellona si lasciò scappare in un impeto di gelosia,
alludendo alle vicine:
– Vedi che già ti si ficcano in casa, e cominciano a fare dei disegni su di te?
E la poveretta morì col crepacuore di lasciare il fratello esposto alle insidie di quelle intriganti.
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