ARLECCHINO di Dario Fo Dialoghi originali Testo e traduzione a
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ARLECCHINO di Dario Fo Dialoghi originali Testo e traduzione a
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 1 ARLECCHINO di Dario Fo Dialoghi originali Testo e traduzione a cura di Franca Rame Questa commedia è stata scritta per la Biennale di Venezia per essere messa in scena nel quattrocentesimo anniversario della nascita di Arlecchino. La prima rappresentazione di questo spettacolo si è tenuta al Palazzo del Cinema di Venezia il 18 ottobre 1985. [Tav. 1, «Venezia»] Commedia dell’arte all’improvviso La commedia dell’arte (SVISTA) Personaggi Arlecchino Marcólfa Isabella (Andreini) Razzùllo Scaràcco Ganàssa Sparavénto Burattino Toni Balordo Capocomico Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 2 [Tav. 2, «Le maschere»] Prologo Dario Fo entra in scena: veste un costume che riecheggia quello di Arlecchino e si rivolge direttamente al pubblico. [Tav. 3, «L’Arlecchino»] DARIO: Il costume che indosso è quello del primo Arlecchino, e noterete subito che non ho la maschera. [Tav. 4, «xxx»] Ci sono stati dei critici che, la prima volta che sono apparso così, si sono messi quasi a urlare scandalizzati: «Non ha la maschera!» Evidentemente non erano al corrente del fatto che il primo Arlecchino non era assolutamente mascherato, ma portava un maquillage più o meno simile a questo che vedete ora sulla mia faccia. [Tav. 5, «La prima “maschera” di Arlecchino»] Il primo Arlecchino fu un grande comico italiano di Mantova, si chiamava Tristano Martinelli, e si trovava in Francia con la compagnia dei Geloso. All’inizio Arlecchino era uno «Zanni in seconda», come veniva chiamato, cioè di rincalzo, ma esprimeva un’irruenza a dir poco sconvolgente e, soprattutto, di dimensioni completamente nuove. Irrompeva sul palcoscenico buttando all’aria l’assetto della commedia. Non rivestiva un ruolo fisso, il suo era piuttosto un antiruolo. Inscenava situazioni e gesti di una scurrilità e pesantezza brutali: abbassava le brache di colpo e si metteva a defecare… Questo è il termine «raffinato», non quello usato da Arlecchino. [Tav. 6, «Arlecchino scurrile»] Naturalmente era tutto finto, non è che eseguisse oscenità reali. Faceva anche pipì sul pubblico, quasi sempre spruzzando acqua colorata. In mancanza di materiale artificiale si accontentava di ingredienti naturali. Insomma, provocava nel modo più sguaiato, urlando battute scurrili che alludevano indifferentemente al sesso, alla fame, alla guerra, alla morte, all’inferno… [Tav. 7, «Arlecchino sguaiato»] Distruggeva ogni buon modo di pensare, ogni morale. Ecco la giusta espressione: Arlecchino era fondamentalmente un amorale. Quelle sue provocazioni suscitarono indignazione e allo stesso tempo gli procurarono un successo straordinario; con le sue Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 3 entrate oscene aveva rotto le tradizionali convenzioni dello spettacolo. Ma da dove nasceva quel suo sconvolgimento scenico? Certo dai «mariazzi» della Padania del XV secolo, spettacoli messi in scena dai contadini durante il banchetto nuziale [Tav. 8, «Il mariazzo»], ma anche dalla tradizione francese che aveva ispirato Rabelais e soprattutto i fabliaux dell’alto medioevo. Se vi è capitato di assistere a qualche nostra rappresentazione del Fabulazzo osceno, vi sarà rimasto in mente il gioco scopertamente scurrile e nello stesso tempo poetico della «Parpaja tòpola». Arlecchino aveva elaborato tutti quei temi e ne aveva mostrato il risultato dirompente addirittura davanti alla corte di Francia, presenti il re e la regina. [Tav. 9, «Re e regina»] Le loro maestà godevano immensamente nell’assistere alle reazioni sconvolte dei cortigiani e incitavano in ogni occasione Arlecchino – Tristano Martinelli – a caricare sempre più di follie le sue esibizioni. Soprattutto la regina stravedeva per questo nuovo genere che suscitava indignazione e orrore nei nobili carichi di sussiego, e dimostrava un’enorme simpatia per il comico, al punto da tenere a battesimo il suo primo figlio. [Tav. 10, «Regina di Francia e Arlecchino con figlio»] A questo punto è d’obbligo affrontare un luogo comune, una banalità che continua a dominare nei licei e nelle università, cioè quello secondo cui i comici dell’arte fossero una masnada di zingari cenciosi che si spostavano per l’Europa a bordo di carrette cigolanti, con le loro donne e una turba di bimbi, guitti di grande genialità, ma inesistenti sul piano della cultura e della coscienza civile. [Tav. 11, «Il presunto carro dei comici»]. Si tratta di un errore madornale. La compagnia in cui si esibiva Tristano Martinelli era composta per un’alta percentuale da quelli che oggi chiameremmo intellettuali. Il capocomico dimostrava una grande preparazione umanistica e scientifica. Lo stesso Martinelli poteva vantare studi di legge e una notevole conoscenza dei classici. Giuseppe Domenico Biancolelli, il comico della commedia all’italiana che sempre in Francia rivestì i panni di Arlecchino dopo Tristano Martinelli, era, oltre che un uomo di cultura, un acrobata inimitabile. [Tav. 12, «Vola nell’aria come se ci fosse nato»] Di lui Molière diceva: «Vola nell’aria come se ci fosse nato!» Inventava o elaborava da sé i canovacci traducendoli in commedie compiute grazie a una regia scientifica e fantastica Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 4 insieme. Con lui la maschera di Arlecchino cessa di essere stereotipo fisso del servo inaffidabile e truculento per adattarsi a decine di tipi disparati e diversi: Arlecchino giudice corrotto o irreprensibile, Arlecchino inquisitore, Arlecchino tartufo, Arlecchino Don Giovanni o servo di Don Giovanni, Arlecchino sbirro, Arlecchino furfante e marinaio e, per finire, Arlecchino femmina. [Tav. 13, «xxx»] Hellequin, Harlekin, Arlekin, Arlequin, Arlecchino sono i nomi che segnano l’evoluzione di questa maschera nata in Francia, a Parigi, verso la fine del Seicento: erano gli appellativi di un diavolo, di un manigoldo pazzo, di uno Zanni bergamasco… ATTO PRIMO - DANIELA: Nel primo atto va inserita la scenografia? - NN CAPISCO DOMANDA IN QUANTO C’è LA DESCRIZIONE DELLA SCENOGRAFIA [Tav. 14, «Scena all’italiana»] Scena all’antica italiana. Su ambo i lati del palcoscenico spuntano le sagome di due case. Un largo praticabile attraversa tutto il fronte scenico lasciando libero il proscenio che misura quattro metri circa. Il praticabile ha una profondità di tre metri abbondanti. Si accede a esso per mezzo di scale poste sui lati. Sale lentamente la luce. Entra in scena Arlecchino suonando un gran trombone le cui spire gli avvolgono il petto, seguito da otto maschere (gli Zanni) che eseguono capriole, volteggi a ruota e combattimenti con bastoni, schiaffi e pedate sui ritmi della canzone «L’eroe». [Tav. 15, «Arlecchino e gli otto Zanni»] L’eroe, l’eroe, l’eroe, l’eroe della vitto-o-ria sia adesso il nostro re della vittoria il nostro eroe l’eroe, l’eroe della vittoria sia adesso il nostro re sia adesso il nostro re. Ono-o-onor e gloria all’Arlecchin si deve l’eroe delle nostre vitto-o-rie sia adesso il nostro re, il nostro eroe delle vittorie sia adesso il nostro re sia adesso il nostro re. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 5 Al termine della canzone Arlecchino esce di scena, contemporaneamente entra Marcòlfa con un secchio, spazzolone e strofinaccio. Si pone carponi e inizia a pulire il pavimento. Canta mentre gli attori continuano a esibirsi in capovolte e acrobazie clownesche. [Tav. 16, «Marcólfa col secchio sulla testa»] [Tav. 17, «Marcólfa al lavoro»] MARCÓLFA El mé amor m’ha ditto: «mí te amo» e mí gh’ho respondü: «ma vatte a impìcca!» Lü el m’ha ditto: «alóra mí te sgagno!» e m’ha sgagnà lì proprio in sü la ciàpa! El mé amore a l’è de Porta Négra el gh’ha ’na bala triste e l’altra alégra… El mé amore a l’è de Porta Lagna el gh’ha ’na ciàpa slégna e l’altra stagna! Larallalarallalarallà! Larallalarallalarallà! (Finita la canzone guarda in platea e solo allora si accorge che il pubblico è in sala e, spaventata, grida:) Oh madre! Ma sémo mati? Ma chi l’è che gh’ha dervì el sipario! Gh’è tüta la zénte insentàda che la varda… (Indicando gli Zanni) E questi che per scaldàrse le zónte dei giàmbi e dei bràsi i fa’ lazi e strambolarìe! (Li sospinge fuori scena) Föra, föra… (Ad alta voce verso la quinta) Tiré el sipario, saré, che no’ l’è ancora tempo de ’cominciare… La sióra no’ la sta ancora impreparàda col truco… tiré el sipario! Dalla quinta di sinistra spuntano due mani gesticolanti e una voce grida frasi incomprensibili in «grammelotte». PRIMA VOCE-MANI (Come a dire) No’ l se pol minga. MARCÓLFA Come, no’ se pòle sarà el sipario? Da un’altra quinta si ripete il gioco «mani-grammelotte». SECONDA VOCE MANI (Come a dire che si è bloccata la rondella!) Gh’è egnù ol rodó. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 6 MARCÓLFA S’è incantà la rondèla? Ma mí no’ pòdo star a lavare ol palco co’ la zénte che me varda… Ciamé qualchedün che lo ’giusta… ciamé l’Arlechìno… [Tav. 18, «Le voci chiamano Arlecchino»] FUORI SCENA, A PIÙ VOCI Arlechìno, Arlechìno, Arlechìno! Entra in scena Arlecchino. [Tav. 19, «Arlecchino entra in scena»] ARLECCHINO Ma ti se’ che gh’ho l’impressiùn che qualchedün mé ciàma? Sento le voci! MARCÓLFA Arlechìn, a gh’è sucedüt ’na disgràsia! S’è róto el sipario e tüta la zénte l’è lì insentàda che la mé varda! E mí no’ pòdo lavàr par tèra parchè mé vergogno! ARLECCHINO (Rivolgendosi al pubblico) Scusé, scusé! A gh’è stada una disgràsia… S’è stcepàt tüto el sipario e adèso per piasér dovarìsse voltàr la făcia da l’altra parte!… Parchè altrimenti lée (Indicando Marcólfa) no’ la pòl lavorare. Alóra, per piasér, volté la fàcia!… Sarìa come se ghe fosse a casa vostra una disgràsia, che s’è stcepà la fenèstra e magari mí arìvi lì… mé ’pògio su la fenèstra e disi: «Sióra, vada tranquìla… de intimo… la se dispòja pure che a mí mé piàse!» Voiàlter mé disé: «Guardón vilàno!» Alóra, per piasèr, volté la fàcia da l’altra parte! Gràsie. MARCÓLFA (Guardando il pubblico) No’ i obedìse! ARLECCHINO Voltéve! Volté la fàcia da l’altra parte! MARCÓLFA (C.s.) Ubidíre! Vilàn! ARLECCHINO I continua a vardare! Quèlo, adiritüra col binòcolo! Vardón! (Minaccioso) Vardé che mí devénto catìvo! MARCÓLFA Pejiór par vui! Adèso l’Arlechìno ol dovénta catìvo! ARLECCHINO Basta! Devénto catìvo! (Come avesse davanti una grande lavagna, fa il gesto con le mani di cancellare il pubblico). MARCÓLFA Cosa te fèt Arlechìno? ARLECCHINO I cançèlo tüti! MARCÓLFA No, lassa stare… ARLECCHINO (Pausa, guardando in platea) No’ i sparìsse!… Come l’è difìçile scanzelàre la zénte! MARCÓLFA Arlechìno, bisogna ’giustàr ol sipario. Te gh’ha Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 7 ’na scala lónga? ARLECCHINO No, ma gh’ho un carèto. MARCÓLFA E cosa te fèt cont el carèto? ARLECCHINO L’è un carèto che avémo rubàdo in dol tiàtro chi de fàcia. El gh’ha de le ròde con dei raggi… mí a ghe strapo via tüti i raggi, ghe ne fo’ dei pioli… (Strappa i raggi delle ruote) i meto tüti in fila e monto sü paso-paso, fino in zîma! MARCÓLFA Ma dio, Arlechìno! Te se’ un finòmeno! Te se’ veramente capàze de montàr su i pioli e d’arivàr fino in alto, sénsa i stangón laterali? Che bravissimo che te sèt, Arlechìno! ARLECCHINO No’ son bravissimo… a son baléngo! Marcólfa, gràsie! Te m’è salvà la vita! Che mí come un cojón a montavi su’ ’sti pioli e quand’ero in çima: «No’ gh’ho i stangón!» (Mima una caduta) BRAAAMM… mé stcepàvo tüto! Gràsie, mé ricorderò de èsto to’ salvaménto! (Riprende a raccontare) Bón, alóra vago al tiàtro in dove gh’avémo rubà el carètto, lì gh’hanno ’na scala lónga… a cato la scala, ghe strapo via tüti i pioli e ghe li lasso lì, ciapo i dòi stangón, ghe infilo i mè ragi al posto dei pioli. Così no’ mé pòden dire che gh’ho rubà ’na scala: gh’ho rubà dòi stangón! (Ride ammiccando al pubblico) Che testa che gh’ho, che zervèlo! MARCÓLFA Ma de fato, caro zervelón, l’è che adèso quei del tiàtro no’ gh’han pu’ ’na scala, ma sojaménte dei piròli butà per tèra! ARLECCHINO Che importa? Tanto loro la scala la non pol pì adopràre… MARCÓLFA Parchè? ARLECCHINO Parchè ol sipario l’è brüsà! MARCÓLFA Gh’è brüsa ol sipario? Quando? ARLECCHINO Adèso! Gh’ho dàit l’órden al Ganàssa de brüsàrlo! (Urlando verso la quinta) Ganàssa, t’è brüsà ol sipario? GANÀSSA (Da fuori quinta) Sì capo, ol brüsa! ARLECCHINO Bravo! Qualsiasi cosa te ghe dise, lü obedíse! MARCÓLFA Una corda lónga ti ghe l’ha? ARLECCHINO No, ma gh’ho l’asino! MARCÓLFA Cosa te fèt con l’asino? ARLECCHINO L’asino che gh’era tacà al carèto! Quando gh’avémo portà via el carèto, l’asino s’è metüo a piàgnere… Sét come i piàgne sempre i àseni quando te ghe pòrtet via el carèto: (Imita il raglio dell’asino) IIHII IIHIIHIII! Alóra gh’émo portà Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 8 via anca l’àseno. Solo che a l’àseno gh’era tacà una corda che l’era legàda al tiàtro. Noi gh’émo tirà la corda, ma ol tiàtro no’ vorséva vegnìre… L’è un tìatro stabile… Alóra émo catà un picón e gh’émo strapàto via l’anèlo dal müro del tiàtro dove l’era tacàda la corda. Adéso ghe tachémo l’anèlo, la corda e anca l’àseno al nostro sipario… così che l’àseno ghe fa de contrapéso e quando ariva in fondo: IIIHII, IHII!, capìmo che el sipario l’è serà! (Esce). MARCÓLFA Bravo Arlechìn! At sèt propri un genio! (Rivolgendosi al pubblico) Sióri speciadóri, dòi minüt, el Ganàssa e l’Arlechìno giüsteno el sipario… Mí no’ lavo in tèra parchè mé vergogno… E po’ anderànno a scominciàre con el prologo i sióri artisti. (Raccoglie gli attrezzi da lavoro e si avvia a uscire di scena, ma viene bloccata dalle due mani gesticolanti che già conosciamo, che spuntano dalla quinta accompagnate dal solito vociare concitato in grammelotte). PRIMA VOCE-MANI (Grammelotte come a dire che il primo attore non è arrivato). MARCÓLFA Cos’è? El primo actòr no’ l’è ’rivà? Oh, bòja! Altre due mani spuntano da un’altra quinta. SECONDA VOCE-MANI (Grammelotte come a dire che il primo attore non verrà). MARCÓLFA Come no’l végne? Cosa gh’è capitàt? TERZA VOCE-MANI (Si ripete nuovamente il gioco manigrammelotte, come a dire «E’ in galera!»). MARCÓLFA In galera? Dio, che disgràssia! (Al pubblico) Ol primo actór l’è in galera… Alóra niente… me despiàse ma no’ se fa né prologo, né spectàcolo… Andì a ca’ vostra. Buonasìra! Entra Arlecchino che, rivolgendosi a Marcólfa, concitatamente in grammelotte e finisce dicendole: parla ARLECCHINO El prologo te lo fe’ ti! (Esce). MARCÓLFA Cosa? Mí dovarìa fare el prologo?… Mí? Ma si’ mati!? No’ son capàze de sprologàre! (Da una quinta si ripete il gioco mani-grammelotte: è il capocomico). ARLECCHINO (In grammelotte come a dire: «Devi assolutamente fare tu il prologo!»). MARCÓLFA No’ son capàze… Scapo! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 9 Entra in scena il capocomico. [Tav. 20, «Ingresso del capocomico»] CAPOCOMICO Marcólfa, non fare storie che tu sai pure di che si tratta nella commedia imperocché in infinite occasioni tu l’hai veduta. Dài, dacci di prologo. MARCÓLFA Me scusa, siór capocomico, ma mí la comédia no’ l’ho mai vedùa in enfinìte occasioni, parchè mí son sempre de drio durante la comédia ad aiutàrghe la sióra Isabella a calàrse i vestimènti e a tiràrghe su le tètte con i peciòtti per fárghele sodàte! CAPOCOMICO Ma cosa vai a tenere simili discorsi in fronte allo pubblico astante! MARCÓLFA A mí, dèlo pubblico astante, non mé intèressa negòtta. Me deve scüsà, ma mì son mica un’attrize, mì… Cosa me interèsa a mí dèlo pubblico astante… Mì no’ pòdo vedér la comédia parchè gh’ho da tirare sü le tètte a l’Isabella! El me tégna chi… (Consegna al capocomico secchio e spazzolone) che gh’el dimóstro… (Mima quello che va dicendo) Ciàpo una tètta de l’Isabella e la fo’ sü, la fo’ sü, la fo’ sü, (Mima di arrotolare il seno della donna come fosse una striscia di stoffa) e ghe mètto una pèssa con la còla per blocàrghela. Po’ ciàpo l’altra tètta… la fo’ sü, la fo’ sü: TAC!, àlter peciòt… E meno male che l’Isabella gh’ha dóe tètte soiaménte, altrimenti, dovarìa cominciàr la matìna presto a farghe sü e tètte… Po’ ciàpo una corda fina e ghe légo i birighìgnoli… CAPOCOMICO Cosa i sarebbe ’sti birighìgnoli? MARCÓLFA I piró dei capèssoli! In italiano: birighìgnoli. Ciàpo la cordèta, no’ tròpo fina, parchè se l’è tròpo fina quando ghe fo’ el nòdo se staca el birighìgnolo… e l’è una roba orénda! Po’ la cordètta la paso de drio… la paso su le spalle, la paso de sóto, e po’ ghe do una tiràda… e a gh’è una montàda de tètte mai vista al mondo! (Indica la base della gola) Ghe ’rìven chi… Dòi gozzi! L’è belissima! La se sciüga le lacrime parchè l’è un’operasión dolorosa! Poe, con rispèto parlando, la volto de drio e fo’ lo mîsmo lavoro con le ciàppe. Con le ciàppe però l’è un lavoro de concetto… le ciàppe i son pesànte… A ciàpi ’na corda grossa un dito… (Mima di legare una natica) faso sü ’na ciàpa… l’altra ciàpa… tiri sü… ghe fazo ’na bèla gobètta… CAPOCOMICO (Interrompendola) Basta, basta, Marcólfa, che Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 10 non si va a discorrere di certi argomenti in fronte allo pubblico audente! MARCÓLFA Parchè? No’ l’è mica ’na roba schifosa lavorar de tètte e de ciàppe! (Guarda in platea) Ho sentì tante dòne che faséa ridàde parchè son contente che mí son chi par loro! (Alzando la voce) Dòne, se qualchedüna gh’avèsse de bisógn de la levata de tètte e de l’alsabandéra de le ciàppe, son chi! Anca i òmeni… se gh’avìt qualche còssa de tirar sü… mí sónt a disposisióne. Dòi baiòcchi soltanto! CAPOCOMICO (Riconsegna alla donna secchio ecc.) Basta! Ci vuoi dare di prologo, per favore? MARCÓLFA No, mí no’ pòdo… no’ son capàce siór… CAPOCOMICO Tu sei bravissima! Tieni una fantasia straordinaria e nello mismo tieni pure le physique du rôle! MARCÓLFA (Spaventata) Cos’è che gh’ho mí, sióre? CAPOCOMICO Le physique du rôle! Forza Marcólfa! Vai col prologo! (Esce di scena). MARCÓLFA (Al pubblico, preoccupata) Se l’ha dit che gh’ho?… I figh in su l côl? L’è mato? No’ l’é neànche la stagión dei figh! A l’è la personalità pusé importante de la compagnia, ma l’è mato! Gh’avét sentìt come ol parla? «Imperocché! Immantinente! Al pubblico astante!» Farò el prologo parchè lü el mé comanda de farlo… e se mí no’ fo’ quèl che dise, mé càscia via. Mèti giò i mé arnesi del mesté… (Si avvicina alla porta di destra e passa in quinta secchio strofinaccio e spazzolone) Sunt emosionàda… che mí no’ gh’ho mai parlà con tanta zénte che no’ cognóscio… (Sta per iniziare il prologo, ma, scorgendo in platea due spettatori ritardatari, una ragazza e un giovane, li apostrofa dicendo:) Oh… buonasìra! Sémo un poco in ritardo eh! Buonasììììra! S’éri qui in pensiero… preocüpàda… me disévo: «’Riverànno ’sti nostri cari amìsi?» Sun cunténta che sèt ’rivà! (Al pubblico) Avét vist come son vegnu avanti in mèso a la sala?… Ma disi… mezz’ora de ritardo! Un végn avanti… cerca de mimetisàrsi un poco, no? Ol camìna e fa finta de vèsser una poltrona… così: (Mima una camminata da seduta). Loro no! Testa alta, petto in föra, pancia in dénter! (Rivolgendosi ai due) Cosa simo? I padroni del tiàtro? (Indica il giovane) Va, che bèl fiulèt. Bèlo! Anca lée a l’è una bèla tosèta… (Si rivolge ai due) Ghe ’vèt dàit la mancia a la maschera che v’ha ’compagnàto al pòsto? Quanto te gh’è dàit?… Che avarìsia… spilòrcio! Bèlo, ma avaro! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 11 Entra il capocomico. CAPOCOMICO Ma che vai a importunare lo sopravvenuto pubblico con queste domande scostumate? MARCÓLFA Importunà? Ma cosa el dise, siór capocomico… li ho metüdi a loro agio con el publico! CAPOCOMICO Dacci di prologo! Piuttosto, hai tu visto li me’ occhiali in qualche loco? MARCÓLFA Sì, li gh’ho vedüi ne la lògia de la sióra Isabella… ieri… [Tav. 21, «Marcólfa con gli occhiali»] CAPOCOMICO Ma che m’importa di ieri? Enfino a un istante fa li tenevo in su appicciati allo naso per sbirciare lo canovàzzo! MARCÓLFA Li avrà lasciati in sü allo canovàzzo! CAPOCOMICO Ah, brava! (Cambia tono: seccato) Ma non ti sortire con ’ste ciancerìe! Lo canovàzzo lo tiéngo costì nelle mie mani! MARCÓLFA Sit vui che dovét savére dove li avìt lassàti… Se gh’entri mí? Son mica l’addetta ai so’ ogiài mí! Mí lavo in tèra, tiro su le tètte e le ciàppe, e basta! Son responsabile solamente de la carna, mí! CAPOCOMICO Allora tu ci rifai con le ciancerie! Imperocché anche se io lo savèssi in dove stanno ’sti miei occhiali, nulla me verrebbe in vantaggio, imperocché senza occhiali non vedo punto! (Guarda in platea) Nello medesimo proposito, vi è di molto pubblico? MARCÓLFA Pieno! Son ’rivàti anca quèi due che s’éremo in pensiero! El faga una roba, siór capocomico, vaga a comperàrse un àlter para de ogiài, cossí con quèi novi pòl trovare quèi vègi che l’ha perdü! CAPOCOMICO E a te arrisémbra che li occhiali te li gettano addietro come si costuma con li confetti? Mettici poi d’aggiunta che io li vo’ a smarrire almanco dieci volte allo giorno… se per ogni occasione dovessi comprarne uno paro sano, starei fresco! MARCÓLFA Oh, esageràt! Mica ghe n’ha bisogno una cassa de ogiài! CAPOCOMICO Ma che ti cianci la cassa… ma di due para è certo! Uno per vederci d’appresso e l’altro per vederci da lontano… MARCÓLFA No, guardi che no’ serve che sian dòi para… V’el dimostro: imaginémo che gh’avìt perdü i ogiài par vedérghe da Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 12 luntàn e che portìt sül naso quei par vedérghe da visìn… Se càpita che i ogiài par vedérghe de lontàn i sont lontàn… vui coi ogiài par vedérghe de visìn, no’ ghe arivét mica a védar quèli par vedérghe de lontàn che son lontàn. A meno che vui non purtét sémper tacàt sül naso i ogiài par vedérghe de lontan, cossì, anco se avìt perdü i ogiài par vedérghe de visìn e ve càpita la desgràssia che i ogiài par vedérghe de visìn son talmente visìn che con i ogiài par vedérghe de lontàn no’ riusìt a vederli parchè son tròpo visìn… alóra lü doverìssa andà indrìo, sempre pü indrìo dal punto ’ndóve ha lassàt i ogiài par vedérghe de visìn, fino al momént che coi ogiài par vedérghe de lontàn, reussìt a véder i ogiài par vedérghe de visìn. CAPOCOMICO Basta, che mí fai andare in giostra lo cervello e nello mismo la vista! (Esasperato, esce di scena). MARCÓLFA L’ho mandàt föra del rìgolo… Son propri contenta! No’ lo pòdo véder. Beh… farò ’sto prologo… Che emosiüne!… Donca, a l’è ’na comédia bèla, ma bèla… da ridere e da piàgnere… de scambi, de travestimenti, de sesso, de sporcelénterie. Cosa ne fann!… E de püres… pullici… pulci. Gh’è un òmo che tüti ciàmeno «El Magnifico» par tòrlo in giro parchè de magnifico quèlo gh’ha proprio niént. L’è un vècio, passìto, brütt, sénsa dané… un ex nobile spiantàt! Ròba da non créderghe, el gh’ha ’na mié ammò bèla, zióvane, nobile, che tüti ciàmen «Contèssa Isabella». Ma a dir la verità, no’ se vede tanto che ’sta contèssa Isabella l’è bèla, parchè la va sempre in ziro strepenàda, vestìda de négher, la piàgne da la matìna a la sira, la va sémper in gésa a pregà e la camìna ’mè un camèl. La prega, la piàgne e la camèla da la matìna a la sira. (Mima la camminata da cammello). La se sconsüma d’amore parchè el so’ marito Magnifico sbolgirón no’ ghe fa pü i preamboli d’amore in d’el lèto. Per la verità, no’ ghe fa nemanco i deàmboli d’amore in d’el lèto… nemanco i triangoli! No’ ghe fa negòta in d’el lèto, né la varda, né la tóca! Un ziórno l’Isabella contèssa camelóna la végn a descovrìre che el so’ marito Magnifico s’è inamorà de una cortizàna, la famosa pütàna Eleonora, detta Strizzamàstci! ’Na parüca rossa fiamegiànte sü la testa… góte (Cerca la parola) imp… imporpuràde… rosse… due tètte e due ciàppe d’oro!… che ghe i fo’ mí con la corda… e la camìna che la par un galeón che va per mare, con le ciàppe che sbatüscia de chì e de là! (Imita la camminata) L’Isabella… l’è desperàta! «Mi masso, mi masso!» Po’ de colpo la cambia idea e la fa: «Ma mí Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 13 son mata? Parchè mé devi massà mí? Vo’ a ca’ de la ’Leonora e la massi a lée!» [Tav. 22, «Mí la massi a lée!»] E camelàndo, camelàndo, la va a casa dela Eleonora pütàna. Ol destìn vòle che apéna la entra in della casa, se imbatìse propi in della Eleonora che la si era apéna levàta dal lèto! No’ crede ai so’ òci: ’na fàcia slavàda, quàter cavèi desgrassià sü la testa… tètte e ciàppe… nulla! L’era andàda a dormire e la s’era deslassà i curdùn. La frana notturna! L’Isabella la fa: «Scüsa, lée la sarèsse la famosa ’Leonora pütàna?» «Sì, sont mí! Molto piazéééére!» «Molto piazére un casso, cara pütàna ’Leonora! Molto piazére li mè’ cojóni!» (Rivolgendosi al pubblico imbarazzata) No’ la dis pròpi ’ste parole chì, l’atrìze… l’ho dìte mí per render mejór ol concetto… (Pausa. È perplessa) Eh… l’è mica facile racontàre i comédi eh! (Riprende sul tono di racconto) «Molto piazére li mè cojóni!» L’Eleonora la dise furente: «A chi, molto piazére li mè cojóni?» Insomma, un po’ de cojóni de chi e de là: dialettica femminile! Po’ l’Isabella la fa… (Si interrompe per rivolgersi al pubblico) L’è una scena! A mí mé piàse! La guardi sémper… (Riprende a recitare) «Ma come? El mè marìdo mé tradìse con quèla vècia lì, tüta sderenàda… che mí son ancora in del fior dei anni! Ah, ah!» La comincia a rìder 'me ’na mata… (Pausa) L’Eleonora no’ ride niente… la gh’ha un giramento de balle! La dise: «Come? Son qui, in casa méa… la matìna presto… mi si insultísce!» (Al pubblico) Come l’è brava! Però besógna dire che l’Eleonora l’è una pütàna… ma l’è una ragàssa bravissima! Generosa… de còre… la dà via proprio tüto! L’è una ragàssa che razióna giusto… e la dise: «Ma sì, l’è véra, mí son vègia, ti a sèt pü bèla de mí…» e la ride anca lée. Le due dòne fan amicìsia, e fan coménto de come son cojón i òmeni. Quèla scena l’è molto gradita da tüte le dòne che stan in platéa. Bàton i man e dìsen: «L’è vera! L’è vera!» Ier sira a gh’era ’na sciùra che l’ha dit: «L’è vera, gh’ho portà chi el mè marito come testimone!» (Pausa, si compiace. Riprende) La ’Leonora la decìd de far un gran schèrso al Magnifico cujùn marito de l’Isabella: «Te travestirò de pütàna ’Leonora, così te farét l’amore con el to’ marìo, sénsa che lü se ne incòrga, e, per compenso, te darà anca dòi fiorini d’oro de la tòa dote!» «Ah!» la fa l’Isabella «son contenta, così torna a casa quàiche cosa!» Insomma c’è felicità! In quèl mumènt lì la ’Leonora la bat i man e entri in scena mí Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 14 che son la servèta… no’ parlo ma opero: el mè solito alsabandéra de le carni. Entri e disi una batüda sola, ma fo’ la méa figura… A disi: «Desbiòttate, signora contèssa!» La disi benissimo… mé fan sémper i complimenti! Una sira che a gh’era giò el mè murùs, per far plü bèla figüra, mé son slungàta la parte. Ho dit: «Desbiòttate, signora contèssa… per piazére!» EUH! Le due atrìzi m’han fato una scenàtta! Mé gh’han dit: «Nun ce se slunga la parte, eh!» I dòne atrìzi in mate! Beh, alóra lée la se mete tüta sbiòta e mí fo’ l’alsabandéra mio solito. Po’ ghe metémo la paruca rossa de la ’Leonora, l’abito de pütàna e po’ la ’Leonora la fa: «Adéso basta, mia cara contèssa, de caminà come un camelón, eh! Se camìna con lo scodinzolaménto de le ciàppe! (Cammina ancheggiando vistosamente) E uno e due… alenàrsi!» E lì l’Isabella la fa ’na caminàda! La se sloga tüta el bacìno… Cume se mòven i man devànti al nas del màstcio? Come farfalle sensuali… (Esegue) Ma no’ ’nscì! (Si schiaffeggia le mani) Cossì te ghe fé aria! Mèteghe un po’ de languore: e uno e due! Come se fa la ridàda de oca giuliva? (Esegue) «Ahahah… ahahah!» Loro la fan pròpi benissimo… a mí mé vegn male. L’Eleonora la fa: «L’è importantissimo imparà a rider de scema. Guai a farsi descovrìre intelligente dal màstcio! Ghe vien el complesso de inferiorità e ol dovénta impotente!» Come se piàgne con el singhiósso: (Esegue) euheuheuh! Fa niente se gh’in no’ i làcrimi… importante l’è el singhiósso! (Esegue) Euheuheuh! Come se fanno le smorbièsse de spitínfia co’ l’òcio de ingenuèssa: (Esegue) «Ahhh… oh nohhh… ohhh… (Agita le dita a ventaglio all’altezza degli occhi imitando lo sbatter delle ciglia) nohhh… quèsto no’ mé piàse… ohhh… nohhh… Ohhh, che mal de panza! Oh, che dolor del capo… Me vien de vomigàre (Esegue): BUHOPP!» El conato de vomito al momento giusto l’è una roba d’un eroticìsmo, deo! (Esegue) BUHUOHP! Bello, grosso! Mí su no’ parchè, ma i òmeni divéntan mati par el conato de vomito… (Al pubblico) Imparare, donne, imparare! Stasera alenàrsi, a casa ehhh: BUHUOHP! Vedaré còssa ve càpita, vedaré! (Riprende la lezione) Sospiri: hhh… hhh… Gemiti: ah… ah… Sospiri e gemiti (Esegue): hhh… ahh… hhh… ahh… Slanguiménto languido prolungàt: Eoàhhaua! Sospiri, gemiti, slanguimènto languido-prolungato: Hhh, ahh, eoahh… (Chiude con un gran Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 15 conato di vomito) BUHUOHP! E, a quèl punto lì, el tò marito el capìs pu’ nagòtta: te salta adòso, el te vór basàre, el te vór… (Pausa con intenzione) al gh’ha el fiadóne: (Esegue) oohha… ooohha… ti, el fiadìno: iiihhi… iiihhi… iiihhi… E quand che sèt al màsimo del riscaldamento del sesso: in bianco! Mandarlo in bianco! Stop! «Gh’ho fame!… Gh’ho sete!… Gh’ho sòno! Andémo a lèto?» «Sì, a lèto!» «No, caro. Mí da sola in d’el me’ lèto! Tí, a ca’ tua che questa l'è casa méa!» E lü el va via che gh’ha i cojómberi che ghe fuma! Scena terza: l’Isabella l’è deslanguìda in sul canapè, entra el marito, no’ se encòrge de nulla. Lée l’è bravissima, l’ha imparà la lesiün, la fa andàr i ciàp ’me ’na mata, la sospira… la geme, la ride, la piàgne… e la vomita! Lü ol perde la testa… ghe salta adòso… Lée la duvarìa dir: «Gh’ho fame… gh’ho sete…» insomma, mandarlo in bianco, ma no’ ghe la fa parchè l’è inamoràda. Fan l’amore… E chì gh’è ’na scena che… si salvi chi può! Buio totale! Se vede nulla, ma… se sente! Cigolìi tremendi. ’Na roba! Po’ gemiti… ma dio, quante de quèle urla… mai sentìt ne la mia vida! «Aoahh, mòri! Aoàhhh, sun drè a murì! Aoahhh, sun morta!» «Aoahhh! Sun mort anca mí!» Dui morti! Lü l’ha capito benissimo che lée no’ la è ’Leonora pütana, ma che l’è la sua mujér, ma sta citto parchè avérghe lì la mujèr così vogliosa, così diversa, così insolita, lo fa impassìre! Lée l’ha capito che lü l’ha descovèrdo che lée no’ l’è lée, ma che l’è lée… ma la sta citto parchè aver lì ol marìo così incalorà… che l’è la prima volta da che lo cognósse… (In falsetto) la fa impassìre! Fan l’amore ’n’altra volta, ’n’altra volta ancora, ’n’altra volta… L’è proprio el terzo atto, l’è notte… l’è notte fonda, e l’amore ol dura pròpi tüta la notte! Dódese ore sèche de amplessi, de orgasmamenteríe… pròpi ’na roba de… Sòdoma e Gamòrra… ma dio che notte! (Sconcertata per la risata del pubblico) Gh’è minga de rìder… Ho dit una roba sbaglià? Sòdoma… o signor scuséme… me curégi sùbet… Sòdoma e Gomòrra! Fan l’amore, rifàn ancora l’amore, e po’ vanno avanti… insomma, a farla corta, fan l’amore cént e novantaquàter volte… De amplessi! Vun pusé ’passionà de l’àlter! Cént e novant… No, calma… ho sbaglià… No’… cént e novantaquàter l’è propri ’na esagerasión. Perdonéme… L’è l’entusiasmo de fa’ el prologo! [Tav. 23, «Isabella e il marito fanno l’amore»] Cént e novantaquàter? Sun mata! No, besógna Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 16 dirlo parchè magari quaichedün dei mastci chi presenti ghe crede… po’ va a casa frustràtto… No, no’… l’è impossibile. De già mé par de ’scoltàr le mujér: «E alóra? Te se’ rivà solamente a cinquantuno… E alóra? Ne manca cént e quarantatrì! E alóra?» ’Sti povri òmeni, tüti morti! No, l’è stato un eróre! (Riprende) Fan l’amore… quàter volte! (Al pubblico) Si può, no? Ohi, gióveni, rispondere, eh… Oh! Tüti ’mutolìti! Quàter volte se pòl! Giornata de festa… domani, riposo… per un mes. (Riprende il racconto) L’Isabella l’è felice, cuntènta, beata, parchè finalmente lée, l’Isabella, dòna perbene, contèssa, che la pregava da la matìna a la sira, che l’andava sémper in gésa… per la prima volta l’è sodisfàta, cuntènta, una dòna realisàda! E parchè? Parchè finalmente l’ha imparà a fa’ la pütàna! [Tav 24, «L’ha imparà a fa’ la pütana»] Coraggio, donne! Coraggio! Parte una marcia strombazzante: dalla quinta di destra reggendo su una spalla un lungo e grosso palo entra Ganàssa. [Tav. 25, «Il Ganàssa entra con un palo»] GANÀSSA (Rivolgendosi a Marcólfa) Sióra, sémo ’rivà chi-lò par ol lavoro… MARCÓLFA Oh, bravi! (Rivolta al pubblico) Un momento, perdonéme. (A Ganàssa) E la scala? Dov’è la scala per ol sipario? GANÀSSA No’ so mí de la scala… mí gh’ho brusà solo el sipario. Ol me’ capo ol mé gh’ha dito: «Careghémo ’sto albero e se va a tiàtro!» Mí no’ savévo che par andar a tiàtro besognàva portàrse un àrbaro… Dev’esser un’abitudine de i speciadóri de le çità grande de sentàrse tüti col so’ àrbaro in spala… così, invece d’entrare col biglietto, ol gh’ha l’àrbaro! «Biglietto!» «No (Mima di segare un pezzo del palo) gh’ho l’alboramènto!» MARCÓLFA (lo guarda perplessa) Alboraménto! Ma chi te crédet de far rìdar, stupidòtt? Che intensiùn gh’avét, de piantà ’sto alboraménto in d’el palco? Ghe tachémo due grandi vele e andémo tüti par mare a pescare che no’ gh’è nemànco un pèss? GANÀSSA No’ sarìa una brüta idea! Ma se la vòl savér de prezìso, l’è mejór domandarlo al méo capo. MARCÓLFA E dove l’è el vostro capo? GANÀSSA (Fa un cenno alle sue spalle) De l’altra banda de l’àrbaro in ponta al pilón. Lée la mé tegna ’sto pilón (Passa il Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 17 palo alla donna caricandoglielo sulla spalla e la sospinge verso l’uscita di sinistra) cossì la se descarlìga… po’ ’rìva ol méo capo… che mí ghe lo dimàndo. MARCÓLFA Ma che te mé fè?… Mí a gh’ho de ziogàr ol prologo. (Cerca di opporsi, ma poi fatalmente sparisce spintonata in quinta). GANÀSSA Staga tranquìla, sióra, che la fago tornàr en un menùto. (Il palo scorre e porta in scena Arlecchino che lo sorregge) Salüt, capo! Andémo per mare? ARLECCHINO Cossa? Per mare? GANÀSSA Sì, me l’ha dito la sióra che gh’era qua. L’ha dito: «Piantémo ’sto palo in d’el palco, po’ ghe tachémo tüte le vele… ghe metémo el timón da popa… la prora de soravìa, e quando che ’riva el vento… via: andémo tüti per mare, col stangón e ol sipario!» Ghe femo le vele col sipario? (Compiaciuti, ridono entrambi). ARLECCHINO E còssa i fa’ i speciadóri? GANÀSSA A la vòga! A la vòga! (Ridono ancora). ARLECCHINO Remare! Remare! GANÀSSA E quando che sémo in mèso al mare (Mima gli spettatori che vanno a picco) GLU GLU GLU… tüto el tiàtro afondà! ARLECCHINO E i speciadóri i ’négà? GANÀSSA Sì! ARLECCHINO I ’néga tüti? (Guarda in platea, intristito) Me dispiàse!… Ma no’ se poderìa andare a farlo in un àlter tiàtro? Che quèsti mé son un po’ sempàteghi! GANÀSSA Capo, tanto domàn ghe ne végn de nòvi! (Ridono sgangheratamente). ARLECCHINO (Rivolgendosi al pubblico e alludendo all’annegamento collettivo) Devo dir quaicòsa a la vostra mama? (Di nuovo perplesso, a Ganàssa) Te se’ següro che la sióra l’ha ditto de ’negàrli tüti? Vòjo parlàrghe con ’sta sióra. Dove a l’è la sióra? GANÀSSA L’è da l’altra parte de l’àrbaro che lo tégne. ARLECCHINO E come fago a parlare a ’sta sióra, se l’è da l’altra parte de l’àrbaro? GANÀSSA Oh, quèsto l’è fàzil. Ti adéso te scóre de nòvo all’indrìo (Sottolinea, mimando con grandi gesti, quello che sta dicendo), lée l’arìva… mí cato el palón… lée la resta qua, mí Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 18 ritorno de là e ti te la incontri chì-lòga. ARLECCHINO (Ride contento) Fame véder se gh’ho capìt. Dónca, mí a gh’ho el palón e vago… vago… vago… lée l’arìva chi… po’ ti te ciàpe el palón e te vè via, e lée la resta qua. (Pausa. Pensieroso, fa scorrere il palo fuori scena) E noi… dove sémo andài a finire? GANÀSSA (Disperato parlando dalla quinta) Oh, capo! Ghe se sémo perdüi! ARLECCHINO Ma dove ti gh’è el çervèlo? ? (Ganàssa viene spinto fuori dal pilone che scorre. Imediatamnete Arlecchino lo chiama a gran voce)Chiamando ad alta voce) Ganàssa! Ganàssa! GANÀSSA (Rientrando e cercandosi) Ganàssa! Ganàssa! Capo, a me son ritrovato! (Si tasta felice). ARLECCHINO E l’Arlechino dov’è? Arlechinooo! (Guarda di qua e di là, disperato a sua volta). GANÀSSA (urlando) Arlechinooo! ARLECCHINO (Palpandosi tutto, fin giù sui glutei) Ah, me son ritrovato! Me son recognossüo da le ciàppe! (Pausa e cambio di tono. Quasi ispirato) L’è propri vera quèl che dise el Vanzélo: «Solo chi se perde se retròva!» (Se ne esce illuminato, in estasi, trascinando il palo fuori scena). Musica. Dalla quinta di sinistra entra Marcólfa sorreggendo l’altra estremità del palo. GANÀSSA Ben tornàda, sióra! Gh’ho parlà col mio capo. Non andémo per mare. El m’ha dito che vol parlàrghe lü de persona. La staga chí-lòga che adéso lü ariva. (Musica. Commenta, rivolto al pubblico) Gh’ho un çervèl, mí! (Esce a sinistra). MARCÓLFA (Riprende il racconto) Scena quarta… Entra un nuovo personaggio che ha rimpiazzato Arlecchino al termine del palo. Calza una maschera chiara con baffi vistosi. Parla con accento bolognese: è Sparavénto. SPARAVÉNTO Buondì signàura! MARCÓLFA Buondì! (Tra sé) Dio, che bèl òmo! (Si avvicina a Sparavénto decisa a sedurlo imitando la camminata di Eleonora. In una sequenza senza pause: ride, piange, sospira, geme, e accenna un conato di vomito) BURP! Perdonéme… ma vien de Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 19 vomigàre! Ma vui no’ sèt Arlechíno? SPARAVÉNTO (Con soddisfazione) No, sont Sparavénto. MARCÓLFA Oh, che bel nome! Sensualista! Scüsé, Sparavénto, cosa fè con ’sto àrbaro in spala? SPARAVÉNTO Ah, nol so mica me! MARCÓLFA Andè intorna con un àrbaro in spala e no’ savìt a còssa serve? (Inizia a ridere da ochetta ed emette conati di vomito guardando Sparavénto con molta sensualità). SPARAVÉNTO A l’è stàit un fachìn che m’ha dit: «El vór tegnìl in spala un momént?» Se véd che el gh’era vegnìt un bisógn selvàtich de liberàrse! MARCÓLFA (Fra sé) Ah, ecco dove l’è andàt quèl bòja de l’Arlechino! (Al pubblico) Végno sübeto. (A Sparavénto) Alóra, siór Sparavénto, sèt bón de riparàr rondèle e sipari? SPARAVÉNTO El gh’ha ciàpà in pién, signàura, l’è una vita che giùsto rondèèèle e ripééér di gran sipàri! MARCÓLFA Che felicità! E alóra, coraggio! (Gli fa il verso) Riparééé sipari e rondèèèle. SPARAVÉNTO A se pòl brisa. MARCÓLFA Parchè? SPARAVÉNTO Ghe vurerìa una schéééla! MARCÓLFA (C.s.) E andìt a cercarla, ’sta schéééla! SPARAVÉNTO Vado mantinénte! Oh, quèst qui… (Indica il palo) el tégne lée, el tégne mí, o el pògi par tèra? MARCÓLFA Par tèra! Son ’n’ atrìze, mí! SPARAVÉNTO (Posa il palo a terra) Vado e torno. (Al pubblico, uscendo a sinistra) Che conquista, raghèzz! MARCÓLFA (Al pubblico) Sére dré a contàrve de l’Isabella… Entra Arlecchino sulla solita marcetta con una borsa a tracolla contenente alcune grosse corde. Solleva il palo posato a terra, lo fa scorrere nella quinta di destra. Appeso all’altro capo del palo riappare Ganàssa. ARLECCHINO Ehi, ’ndove a l’è quèl che gh’ho dàit el palón de tegnìre? (Commenta rivolto al pubblico) Te ghe dèt el palón a un che gh’ha la fàcia onesta e lü t’el pianta par tèra come se fósse un orfano. (A Ganàssa) Dove l’è andà l’orfano? GANÀSSA No’ so mí… ti, pitòsto, ’ndóve t’eri casciàt? ARLECCHINO (Aggressivo) Mí no’ mé son casciàt! Mí sont andàit a tór el mestér per fare el lavoro. (Indica il sacco). Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 20 Ganàssa esce di scena portandosi appresso il palo. MARCÓLFA (Ad Arlecchino) Busiàrdo! Ti te se’ andàit a fare i tòi bisògni! ARLECCHINO (Offeso) I mèi bisógn, cara sióra, son stàiti quèi de andare a tórme ’sta corda e anca ’sti pirói! Po’, ti non te gh’ha el dirìto de andàrghe a racontàre al publico quali son i me’ bisógn, parchè i me’ bisógn son i me’ bisógn de mí! (Si porta in proscenio) Parchè mí non vago a domandàrghe a loro quali son i lor bisógn. (Rivolgendosi a una signora del pubblico) Sióra, son forse vegnüdo a dirle: «Come la va co’ i bisògn? L’è andàta bén tranquìla… liscia?» (Ad altri spettatori) E voialtri, avìt avüt lo sfòrso… soferénsa? Avìt pruvàt con la tisana? (Indignato a Marcólfa) Ma se végn a tiàtro par parlare de’ bisógni, dico? No, no’ se fan ’sti descórsi a tiàtro! (Cambia tono) Son descórsi che se fa’ a tavola! MARCÓLFA E alóra, ’ndove l’è la scala? ARLECCHINO (Indica il palo) Questo chi a l’è la scala! MARCÓLFA ’Sto palón chì, a l’è ’na scala? ARLECCHINO A l’è un palón se ti lo vàrdet coi ôgi de incompetént, ma un che l’è apéna del mestè, ol capìsse sübeto che se trata de ’na scala en embrión! Che una volta in pìe, ghe se mète deréntro i piòli e ghe se monta. MARCÓLFA Ghe vòle almànco una ziornáda per improntàrla! ARLECCHINO No, no’ serve. L’è già improntàda. (Solleva il palo e lo passa in quinta.) Musica. Il palo scorre. Entrano in scena tre maschere: Burattino, Toni e Balordo. Camminano a passi brevi, uno incollato all’altro con il capo appoggiato al palo. Fingono di dormire. MARCÓLFA E questi chi son? ARLECCHINO Son tre critici de tre giornàl importanti che stàvan ne l’altro tiàtro a vardàr lo spetàcolo, e se son ’ndormentàdi sübeto. Anche quando brüsàva el sipario, loro ’i dormìveno. Li émo portati via co’ lo stangón del sipario. Ma adéso, lasémoli dormire, cossì domani ghe fan una bèla critica. Andémo! (Spinge le tre maschere fuori scena che si muovono nello stesso atteggiamento di poco fa. Rientra il palo; ora i Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 21 sorreggitori del palo sono diventati cinque: Ganàssa, Razzùllo, Scaràcco, Burattino, Balordo. Arlecchino estrae dalla borsa le corde e, aiutato dai suoi compagni, le affranca alla cima del palo quindi il palo viene rizzato come fosse l’asta di una bandiera. Si pongono di fronte al pubblico su un’unica fila sull’attenti: guardano in platea estatici. Arlecchino intona un inno patriottico in un linguaggio carico di enfasi, ma fortemente sconnesso). [Tav. 26, «Rizzato come se fosse l’asta di una bandiera»] ARLECCHINO «Oh che sale garréndo sprontàle lo sgualdràppo che svéntola… anche il cor ci stràmbola, in patrio fulgor… Siam pronti alla pugna e a crepar con ardor!» MARCÓLFA (Stufa di essere continuamente interrotta) Adéso, Arlechìn, te fè el tò lavoràr in perfèto silénsio… che mí gh’ho da sprologàr. (Al pubblico riprendendo il racconto) Alóra, scena quarta: l’Isabella la se desvégia… (Arlecchino accenna nuovamente al canto patriottico delle bandiera). Arlecchino, te par el moménto de vegnìr chì a cantare una cansóne de lo sventolaménto de la bandéra? Mí son drè a sprologàr la scena quarta… ARLECCHINO Oh bèla… ma avémo el diritto… fémo l’alsabandéra… prima del lavór, l’è de obbligo! MARCÓLFA Ma che te dise… l’alsabandéra sénsa la bandéra? ARLECCHINO No’ podémo tacàrghe la bandéra! MARCÓLFA Parchè? ARLECCHINO Parchè non se son ancora desidúi in dove l’è nasüda la bandéra… se a Reggio Emilia, Verona, Mantova, Parma, Piacénsa… (Via via sale con la voce imitando gli annunci dei capotreni all’arrivo nelle stazioni) Guastalla, Mondovì… Ferrara se scende! (Al pubblico) Oh, che bela bandéra! Sì, sì, bela… bianca, rosa e verde… come ’na femèna desnuda che sventola in del zièl! BURATTINO Mí me piaséva de pu’ quando l’han sventolàda per la prima volta a Régio Emilia… GANÀSSA Parchè, coma l’era a Régio Emilia ’sta bandéra? ARLECCHINO Una riga rossa e una riga bianca, una riga rossa e ’na riga bianca, e un gran quadratón bleu cielo con tanti stelìne! Così, l’era la nostra bandéra! BURATTINO No, l’è impossibile! Quèla l’è la bandéra de’ american! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 22 [Tav. 27, «Quèla l’è la bandéra de’ american!»] ARLECCHINO Sì, ma ghe l’han robàda a noaltri italiàn! GANÀSSA Ma chi ghe ròbeno tuto a noaltri italiàn! ARLECCHINO L’è par questo che po’ noialtri sèmo stàiti obligat a inventarghe ’sta bandera bianco, ròssa e verde… CORO Beh, manco male! RAZZÙLLO L’è ’na una bela bandera anca questa. ARLECCHINO Gh’e l’han robada anca quèla. CORO E chi? ARLECCHINO In tanti… El Mexico, gli ungaresi, i satrapòn1…anco l’Irlanda… CORO (Esclamando tutti meraviglia) OH, UUH, AHH! ARLECCHINO Mí gh’ho una voja mata de’ catarme de novo la nostra bandera original e de portarghèla via ai ’mericàn: rigòn e stèline. (Improvvisa una canzone patriottica sull’antica bandiera). Quante stèle nel zièl che gh’è ogni luze, l’è ’na región a partir de Nàpuli spléndida, po’ la Sisìlia sprofumàda, po’ la Sardìnia tüta grigna, po’… MARCÓLFA (Furente) Alóra? Basta, eh!… Basta! (Le maschere si zittiscono ma iniziano ad armeggiare intorno al palo) Oh! Sémo ’rivà a la scena quarta… che l’è molto bèla parchè gh’é l’Isabella che la se desvégia… (Rivolta al pubblico distratto dall’armeggiare delle maschere) Guardarmi a me, oh! Guardé che végno giò e ve fo’ el racónto orègia a orègia, eh! Stèit chi fino a l’ano venturo! Ciàro? (Riprende il racconto) Isabella la se desvégia… (tenta di raccontare, ma Arlecchino la interrompe continuamente per dare istruzioni ai suoi compagni che stanno agganciando quattro funi alla sommità del palo). ARLECCHINO E alóra besógna che vun ghe vaga nel publico là… (Indica la platea sulla destra) e l’àlter ’nd’el pùblico là… (Indica un altro punto della platea, distribuisce un capo delle funi ai suoi compagni a ogni maschera). SCARÀCCO Ma no’ se pòl lavoràre en mèso al publico! ARLECCHINO (Nei panni del capo dei lavori) Oh bòja! Par tegnìr in piè un palón besógna che una corda de tegnüda tangente del triangolo, la sia là de baricàda… Te gh’ha in mente la piramide?… Fa conto che la piramide sia un pilón: besógna che ghe sia quatro corde de angolo a tegnìrla. SCARÀCCO La piramide ’n sül publico no’ la se pòl fare! 1 Suono onomatopeico inventato. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 23 ARLECCHINO Cito! No’ star a far discusióne, bòja! Besógna che ve immazinàt che sémo nel millesincoséntovütantasinco… no’ gh’era ancora l’organisasión dei lavoradóri, i sindacati! D’acórdo? Ti te vé là, in sètima fila, ’ndóve gh’è ch’él siór col i ôgiài… MARCÓLFA (Cerca, alzando la voce di riprendere il racconto) Alóra la Isabella… Agganciate le corde alla cime del palo, il palo medesimo viene sollevato dagli Zanni, mentre Ganàssa e Burattino scendono con la cima delle corde in platea. ARLECCHINO (A Ganàssa e Burattino) Domandée per piasére, vilàni! (Al pubblico, facendo il gesto di alzarsi) Alzàrsi… alzàrsi… gràsie… un po’ de comprensión, bòja, par chi lavora! Sémo pròpi in Italia, eh: quatro ciùla che travàja e quèi altri sentàdi, spaparansàdi a godérse lo spectàcolo! Ministeriali! (Indicando GANASSA che ha legato il capo della fune al collo di uno spettatore) Bòja, quèlo còssa ol fa?… Cosa te fai a quèl siór lì?… GANASSA (Toglie la fune dal collo dello spettatore, conciliante) Va bén, ghe la dò ne le mani, che m’aìda a tirare. ARLECCHINO Ne le man? Ma bòja, ma se uno no’ l’e abituàt a la corda, ghe se sbréga tüta la pèle, no? Daghe almeno del talco, del magnesio ne le man… eh! (GANASSA estrae di tasca un fazzoletto e lo scuote verso lo spettatore avvolgendolo in una gran nube di talco) L’è un po’ tròpo abondante cossì, eh? (Scruta con attenzione) Bòja, adèso che se spampàna la nebia… guarda là chi gh’è! Ol cognósso quèl lì co’ la giàca a vento rossa, l’è un inteletuàle… GANASSA, tìreghe sübeto via la corda de le man, che quèlo al momento de la tensióne ol mola tüto… crisi de’ indentità…flessión culturale…ol büta le corde e scapa. Via, làsalo stare! E va’ dentro fra i speciadóri tí, obedìse, sübet, par piasè, entra… MARCÓLFA (nel tentativo di catturare l’attenzione del pubblico, con voce acutissima) E alóra, la nostra cara Isabella se desvégia e la dis al marito: «Caro marito, da oggi farò la pütàna…» (Continua a parlare ma la sua voce è sopraffatta da quella di Arlecchino che urla a sua volta. Dalla platea risalgono in palcoscenico gli attori. Issano il palo, trattenendolo dritto con quattro corde) Ma basta! Ma te mé distürbet! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 24 ARLECCHINO Ma bòja, ma no’ la se alsa cossì la vôce! Besógna entratenérlo el publico, no terorisarlo! MARCÓLFA (Riprende a voce normale) Alóra la dise, la Isabella, la dise la Isabella, la dise… ARLECCHINO Cus’è che la dise? MARCÓLFA Ma fa’ el to’ lavor!… (Riprende il racconto) L’Isabella… (Ancora la sua voce è sopraffatta dalle urla di Arlecchino, le cui mani sono finite sotto i piedi di Ganàssa che sta montando sul palo) L’Isabella…. (Ad Arlecchino, furente) Insomma, basta!… ARLECCHINO (Lancia un urlo) Ahhh! I man m’ha schiscià! MARCÓLFA (Riprende) «Mí farò la pütana», la dise al sol marì, «mí farò la pütana! Farò la pütana!» ARLECCHINO (Guardandola attonito) Ma va? ’Ndóve? In che via? MARCÓLFA (Indignata) Ma sont minga mí… ARLECCHINO Cume, no’ te sèt ti… MARCÓLFA L’è l’Isabella… ARLECCHINO Che prèzi? MARCÓLFA (Lo interrompe furiosa) Ma va via! ARLECCHINO Par comitive? MARCÓLFA (Riprende, ignorandolo) «Farò la pütana! Oh, come farò la pütana! Mí farò la pütana…» ARLECCHINO A gh’ho pagüra che quaichedün a gh’àbia el sospèto che l’Isabella farà la pütàna. Gh’ho sentìt circolare la voce. (Rivolto a Ganàssa in cima al palo) Adéso ’ndu l’è che l’è burlàda ’sta vite? (Ganàssa indica il pavimento. Arlecchino va cercando la vite di qua e di là e finisce la sua ricerca nella scollatura di Marcólfa. Mentre Marcólfa parla, Arlecchino sottovoce continua a ripetere: «La vite, la vite dove si è cazzàda?»). MARCÓLFA (Prosegue nel suo racconto infastidita dalle «spalpignate» di Arlecchino) «Farò la pütana, anderò sü la caròssa con la mé amìsa ’Leonora, e tüte e dòie farèm ’na mügia de danée, sarém felìsi e cunténte». (Arlecchino ha infilato le mani sotto la gonna di Marcólfa che manda un urlo) Cusa te fèt Arlechìno? Tira via i man! ARLECCHINO C’è una vite. La vite nella vita. (Uscendo dal personaggio Franca-Marcólfa particolare che Dario-Arlecchino è suo marito) allude al Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 25 MARCÓLFA Arlecchino, non ti approfittare della parentela! ARLECCHINO Oh, mama! (Arlecchino, le cui braccia sono letteralmente sparite fra le sottane di Marcólfa, ammicca divertito al pubblico). MARCÓLFA Se gh’è de rìdar? ARLECCHINO El l’avrìa mai pensàt! Anca ti te gh’ha le corde intorno a le ciàpe, eh? Ah, ah, Marcólfa! (All’istante, come impazziti, gli aiutanti di Arlecchino fanno ondeggiare il palo dal quale è appena sceso Ganàssa. Il palo precipita verso il pubblico e, come una sciabola, passa a ventaglio sulle teste degli spettatori) Ohi, ferma, ferma! Le corde… le corde… le corde!… MARCÓLFA Ma atensión a le teste… No’ tajàrghe le teste!… ARLECCHINO Ma desgrasià (Indicando il pubblico)! T’hai dàit dü sberlüsàde a quèla sióra lì che… che gh’è restàt el segno de Zorro sü la fàcia. Quèl siór lì, po’, s’è vedüo ’rivàr el palón drito cossì, che ol ha vusàt: «Porco can, cus’è ’rivà: Ulisse col Polifemo?» Ma sèt un desgrasià, no’ te se pòl far lavorar, Scaràco, encosiénte. (Raccontando al pubblico) Bòja, iér sira… vardé… gh’è sucedùt ’na desgràsia: sèramo a ’sto punto de lo spetacolo, gh’era qua el palón, propri qua dove sit vialtri… dòi, tre, quatro… (Indica quattro poltrone dove ora stanno altri spettatori che reggono le funi) Lo rifasémo… dài, tira che… (Gli spettatori lanciano grida, spaventati) No, l’è par farve véder… parchè vun no’ lo crede quant l’è desgrasià quèl (Indica Scaràcco ). A un certo mumént l’è andato giò el palón cossì: SGNACH! Mí gh’ho sentì un colpo tremendo, no’ gh’ho üt el coràjo de vardàre: quatro morti gravi… So’ ’rivàti sübeto tri o quatri infermieri che j’eràn lì ne l’atrio per caso, son ’rivà dénter a ’na velocità tremenda. (Mima di sollevare i corpi e di vivisezionarli rapidissimo) «Al trapianto! Al trapianto! Donatore!» Gh’han portà via tüto quanto. L’è una manìa che gh’han adòso, questa qui del trapianto. Ol savèt che lì föra… föra ’ndove che gh’è el quadrivìa con un’altra via de travèrso… son sìnque vie… che gh’è un incidente ogni mes’ora… gh’è grupi de infermieri apogià chì-lòga, ch’ol spia cossì… (Mima di appiattirsi contro il muro) che quando che sente un cigolio dei freni: GNIIIU! Föra tüti! Ho scovèrto che quèi, lor… i infermieri a ghe versa de’ bidoni de olio de machina sü la strada, che gh’è un Tir che fa una sguràda: Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 26 GNIIIUA! L’è ’rivàto in Duomo! Ma bòja, già en genôgio a pregare. Mí personalmente vado intorno sémper con un cartèlo con scrito: «Ho già donato». No’ gh’è un ospedale, una clinica, che ormai no’ faga i trapianti… e gh’han bisógn de organi nòvi. A l’è ’na ròba tremenda. Gh’ho visto un siór, un bèl òmo, simpatico, con la cagnèta, che ol pasegiàva tranchìla… che gh’è el giàso intorno… la cagnèta l’ha tiràt: GNIAA! No’ l’era ancora ’rivàt col cül par tèra ’sto òmo… sont ’rivàt in sìnque: «Trapianto!» Via! L’han caregàt via sü l’auto ambulansa co’ la cagnèta legàda… A la müjé gh’han portà a ca’ la pelle, solo la pelle… destandüa sü l’ometto… solo la pelle! «Signora, suo marito è stato generoso, ha donato tutto! (Fa il gesto di lanciare la stampella) Con quello che resta se vuole… può farsi una borsetta…» Son de’ desgrasià, de’ mati… A gh’è in giro una squadra a cercare l’Andreotti che compie i novantùn ani domàn… e l’è così vispo! (Mima di camminare curvo a gran velocità) Avìt notato che no’ se parla pü del Andreotti? No’ se trova pü, ol sta nascondùo… ghe vòjon cavàre föra tüto: cervèlo, milza, fegato dü reni, un didón del pìe… tüto… la pipa perfino!… Par farghe el trapianto al Cossiga, tüto ol trapiànteno. Che Cossiga l’è un po’ giò, cossì… (Mima un personaggio dall’equilibrio piuttosto precario) ghe fan una «andreottegàda»… bisognerà che je fàgano ’na stortàda sü la stcèna… quando l’è un po’ giò de morale… TACH! ’na ròba vìscola, come un arco! T’e gh’e spiàzzi ’na frèzza in del mèso, te tiri la corda e ZAACK: ol và tüto in mila tochi! ’Na «cossegàda»! (Le maschere intorno ridono sgangheratamente). Marcólfa riprende a parlare mentre il palo viene issato e tenuto ritto dai clown: Arlecchino ci sale sopra, guarda davanti a sé e all’improvviso si mette a urlare. ARLECCHINO Lu pisce, lu pisce, lu piscespàda! (Tutte le maschere mimano di remare a gran ritmo scandendo in coro): CORO Pisci, pisci, pisci tutto l’anno, la mattanza è ’nu gran danno… remàti, remàti… [Tav. 29, «De boto me so’ vedüo en Sesilia sü una barca alla cazza del piscespàda»] MARCÓLFA Basta! ARLECCHINO Basta! (Al pubblico): Scusème, l’è staito un muménto de slanzo ’motìvo… de bòto me so’ vedüo en Sesìlia Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 27 sü una barca alla cazza del piscespàda, pèssi dappertütto… Ho vedüo: merlussi, tonni… gh’era intra mezzo anche un pésse tremendo, pìcolo ma d’un rapàzze, con una boca… (Mima un pesce che arriva velocemente) i mangiava tütti: Silvio facòcero se ciama! AHM AHM! E canta: «E’ l’amor che me consuma!» Basta, che chi me vegnèriano föra alusiòn tereménde. MARCÓLFA Allora te me lassi sprologàre? ARLECCHINO Scusa, sióra, sarà per un’altra volta. MARCÓLFA Basta, mí no parlo più dell’Isabella, m’è andàda föra de zervèlo. ARLECCHINO Ti gh’ha resón, no’ se pòl fa de ’ste alusión al presente storico de adèso, se no se finìsse che se tira in balo Alfano col so’ Lodo, po’ gh’è el Lodo Mondadori, e po’ la corusión dei ziùdizi, el lodo del lodo coi ziùdizi che se fa’ compràr da quèl avocàt Prevèti del Berluscón che lü, l’avocàt, lo mète en galera, ma Silvio ol slìssega föra come un pésse da la rete e fa scorèzze a tüti, l’inventa el prozèsso lóngo e quèlo breve e quèlo così e così, quèlo rapido, che no’ se vede manco: «In piedi, entra la corte», ZIUU, la corte l’è già föra… «Cosa fèt qui cojón che el procèss l’han canzelàt?» MARCÓLFA (Furente) Alóra? Basta! Se retórna en epoca originale! Millecinquecentottantacinque… ARLECCHINO (Sottovoce al pubblico con malcelato pudore) Po’ salta föra l’avocàt Ghedini e Pecorella, Straccatàne, Puzzarèllo, Caccamòrti… (Si blocca e indica in fondo alla pletea) Oddio, chi è quèl con la crapa tüta pelàda che pare un balón? L’è lü, Bondi, la bala Bondi… (A gran voce) Sono intorno a zercàrte… (Alzando la voce) scapa che te fan un trapianto… Bondi, sàlvate! MARCÓLFA Ma l’è minga bèl che te parli in ’sto modo de quèl! L’è un minìstero, un po’ de respècto!… Vun che l’è cusì cultivàt e scrive de le poesie così gentili che pare un bambìn de l’asilo…tènnere! ARLECCHINO E mí apùnto ne parlo… son del so’ comitato… «poeti sleteràti»! MARCÓLFA Ho dit che no’ se fa ironia… de Bondi no’ se parla! ARLECCHINO D’acordo, no’ gh’è parlo ma gh’e canto: «Ohi, Bondi, Bondi, Bondi… ah, ah! Siamo in giro sempre tondi e tonti… come lü!» (Mima di pastrocchiarsi Bondi, palpandoselo tutto, quindi, perentorio) A Bondi ghe fan de’ trapianti… per via Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 28 che l’è nasciüo co’ le bretèle! De bambino… un nase co’ la camìsa… lü co’ le bretèle. Ma pìcole… du bretelìne pìcole… La sòa mama l’erá cuntenta quand ol ninàva: «Nanna ohhh, tun tun tun… (Canta mimando di pizzicare le bretelle del piccolo Bondi come fossero le corde d’una chitarra) Nanna ohhh, tun tun tun… Nanna ohoh… tüti i bambini dòrmen ma ol Bondi no’!» Po’ l’è cresüt e no’ ghe han cambià le bretèle. Ol gh'ha ancora le bretèle de fiulìn. (Cammina come costretto da tiranti che gli abbassano vistosamente le spalle). MARCÓLFA Cosa gh’è serve ’ste bertèle? A tenérghe sü le ciàppe? ARLECCHINO No, a tenérghe giò, blocà, la testa! MARCÓLFA Come a dì la crapa? E perché? Cossa la gh’ha? ARLECCHINO L’è vöda, con un zervelìn pìcol… Tüto incurvà come un punto de domanda! L’è cossì vöda che se te ghe parli dentro sorte föra l’eco… UAO AUOO AUOO! MARCÓLFA E cosa gh’entra con la bratèla? ARLECCHINO Parchè se no’ gh’ha le bratèle che la tégne blocàda, la crapa la vola via come un palunzìn. (Canta) Vola vola la crapa de’ Bondi, va zercàndo nòvi mondi, mondi nòvi come lü ’sto poeta de’ velü! Tutte le maschere guardano in cielo stupite. MARCÓLFA (Tentando di interromperlo) Alóra? Millecinquecentotantacinque… Se retórna a l’epoca? (Arlecchino sta farfugliando in sordina) Còssa te dìset? ARLECCHINO Ma varda tì cossa che sta desendendo dal zielo… (Dall’alto scende il pupazzo di De Mita) Un campiòn della politica pasàda… chi è? Me par Ciriaco! MARCÓLFA Chi? ARLECCHINO Ciriaco De Mita… (Glorioso) ciamà la pera Williams per via de la crapa a ponta che tègne! Te gh’è fàit caso? Gh’ha ’na testa a pera… MARCÓLFA Come dì ’na pera-pesca? ARLECCHINO No, l’è una pera e basta… l’è lü, De Mita, se vede benissimo… in botìgia… sóto spirito… lo spirito eterno della DC! «Quèl che natura crea, la DC conserva!» Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 29 MARCÓLFA Ma non l’era morto? ARLECCHINO Morto lü o la DC? MARCÓLFA Tüte dói! ARLECCHINO La DC e De Mita morti? Ma no’ mòre mai quei! Al maximo mòre e se mòre i resùsita… sempre! L’è el partito surgelato… eterno quèlo! MARCÓLFA Come el giàzzo nel Polo! ARLECCHINO Beh, speriémo nel riscaldo de la tèra! MARCÓLFA Ma il Ciriaco non l’era in galera? Me ricordo ben che l’è stàit condanà per ruberie! ARLECCHINO No, l’è stàit condanà, ma in galera ol l’è mai stà! E se l’han sbatù dentro, l’è sübeto sortito… le so’ galere i gh’han la porta che zîra come quèle de i grand hotel… ZON ZON (Gira su se stesso)… dentro e föra! MARCÓLFA E alóra? Basta! (Cerca di parlare, interrotta continuamente da Arlecchino, di colpo si blocca e rivolgendosi a Scaràcco che si è accomodato beato su di una poltrona, urla) Tornare su… Nel frattempo il lungo palo viene fissato a terra (centro palcoscenico). Ganàssa stende sulle corde (APPESE AL PALO???) mutande, calzini, fazzoletti, fasce di vari colori da asciugare. Le corde con la biancheria finiscono in platea. ARLECCHINO Te despiàse vegnìr sü? Ma ti varda, cosa ti gh’ha combinà? Ma varda!… Tüto el bucato gh’ha fàit! MARCÓLFA Ganàssa! ARLECCHINO Avanti tüti e via… rengrasiàre la zénte che v’ha aiütà! MARCÓLFA Gràsie mille… coràgio… gràsie mille… ARLECCHINO Craxi mille… MARCÓLFA (Correggendolo) No’ eh! No’ tirémo in ballo Craxi! Per carità, non tornémo ancora indrio nel tempo! (Venendo verso il pubblico) Alóra, mé son desmentegàta de dir una roba importantissima, che la vicenda che v’ho cuntà de la contessa pütàna de la cuntèssa, la se svolge a Napoli! Che mí son securìssima che nisciün de voialtri se recorda chi l’è che governava Napoli in quèl tempo lì… ARLECCHINO (Venendo a sua volta in proscenio si rivolge minaccioso al pubblico) Dài, avanti… che el primo che alsa la man ghe la tàjo via de nèto, cossì impara a ziogàre al quiz! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 30 MARCÓLFA (Cercando di superare la voce di Arlecchino) Alóra, chi l’è che governava Napoli… coràgio!… ARLECCHINO (Sempre al pubblico) Guai a chi indovina! Adéso però besógna indovinare… chi gh’era a Napoli in quèl tempo?… MARCÓLFA Chi l’è che governava Napoli… CREDO VADA TAGLIATO… NN RIESCO Più a seguire ARLECCHINO No, no’… cosa ghe centra el Silvio? Silvio no’l gh’era ancora, andémo… Andreotti?… Sì, quèlo ol gh’era. Ol l’è da le guerre puniche che el ghe! (Mima la camminata di Andreotti). MARCÓLFA (Rivolta alla platea) Guardi lei, siór… guardi che l’ho vedüo, sa… che me fa ’na fàcia come de soportasióne… ARLECCHINO Ma no, l’é stàit cossì: un tic. MARCÓLFA No, che tic? L’è un vilàno… l’ha fàit ’na smorfia come dire: lée la lava in tèra e pòe la végn chi adéso a fa’ la maestrina… Avante, che abi el curàg de dirme ciàro e nèto «fàcia de…»; ansi, mí adès végni giò… (Decisa si dirige alla scaletta che porta in platea). ARLECCHINO Ma ’ndove ti va’? MARCÓLFA Vago giò e ghe dò uno sgiàffo! ARLECCHINO Brava, cossì no’ ghe resta pì gnénte par el trapianto! MARCÓLFA Eh, adès! ARLECCHINO (Punta il dito verso la platea) Ehi! Ti gh’ho vedüo! No, no’ far la spia… Spia, spia, non sei figlio di Maria, non sei figlio di Gesù, vai all’inferno anche tu. MARCÓLFA Andémo avante… Lasémo perdere… Chi l’è che governava Napoli in quèl tempo… che tanto per noialtri… de süra, de sòta, de föra, chì… per noialtri, insóma, tüti noialtri, o Carlo, o Alberto, o Ferdinando, lo ciapémo sémper in quèl bando! (Termina piegando il braccio sinistro battendo con la mano nell’incavo del braccio medesimo. Questo gesto, chiamato «gesto dell’ombrell»’, si usa per mandare al diavolo una persona). ARLECCHINO Bèla! Fine!… ma triviale! Voglio dire… triviale, ma fine! No, no, varda che po’ l’è anca quèl gesto sòto lì… per ritardati eventuali… MARCÓLFA L’è la metafora ciàra… ARLECCHINO Scüsa, pòde agiùnger ’na allocusióne a la Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 31 metafora, ’na ’locusióne méa personàl, de oservasión… MARCÓLFA Parchè… se te disi de no, eh… te ferma quaichedün? Silenziosamente sul discorso di Arlecchino entrano in scena tutte le maschere portando il lungo palo che reggono sulle spalle. (il palo e le maschere non sono già in scena???) ARLECCHINO No, no me ferma nisciün. No… vòjo far oservàr una roba tremenda… me domando sémper mí, e chi sa quanti de voialtri gh’avéan fato caso, ne la storia d’Italia de tüti i tempi, quando i sucéd guère, se fa’ i bordèli, se scana… anca lontàn de qui… pian piano i végne a scanàrse adòso a noialtri. I ghe ciàpa dentro, sempre! Varda, ne la storia… a gh’è par esempio i franzós, mèj, i spagnòi, che se cata contra i franzós… (Recita in grammelotte spagnolo una sfilza di improperi che terminano con) «Cavròn, ti e to’ mare» (Recita in grammelotte francese, alludendo a una risposta altrettanto colorita a base di insulti e minacce) E anca voialtri todèschi! (Vistoso sproloquio in grammelotte germanico) E anca i inglés! (Esegue un grammelotte inglese pacato ma carico di disprezzo) Alóra l’è la guèra! L’è la guèra, bòja! Noialtri inglés andémo a scanàre tüti i franzósi e desendémo a fa’ la guèra fino en Spagna. E noialtri spagnoli andémo contro i todèschi e li sbolzerémo de fero e fuégo, e noialtri todèschi andémo in Anglotèra e andémo a sbrüsàr, sviolàr e fa’ strame! (Allarga le braccia perentorio) Fermi! No’ stè a far casòto par niente… a spantegàrve dapartüto! Trovémose en Italia che gh’è el sole e che ghe se scana che l’è una meravégia! MARCÓLFA (Furente) Se non te tase… ciàpo ’sto pilón… (Indica il palo) te lo frico in d’el cül… ’me fano i türchi, con i pioli de mància! Ciàro? ARLECCHINO Calma fiòi… no’ feve tôr dal panico… (Si muovono al rallenty sollevando le gambe imitando un passo molto felpato) via normale… cü en dentro sénsa dar ne l’òcio… un, dòi, tri… (Indignato) E m’avéan dito che l’era uno spetàcolo consigliato per ragàssi… (Escono). MARCÓLFA (Verso il pubblico) Donca, alóra… ARLECCHINO (Da fuori scena) IHEIAIIAIA! MARCÓLFA Ma se gh’è? ARLECCHINO (Entra circospetto a passo di danza) Un turco! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 32 (Se ne esce sempre con lo stesso passo sulla solita marcetta). [Tav. 29, «Fine del primo atto: escono tutti con il palo] FINE PRIMO ATTO Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 33 SECONDO ATTO I due becchini, Arlecchino e Razzùllo, famosa maschera napoletana, stanno dentro una fossa armati di pale e mimano di scavare. Cantano. [Tav. 30, «Arlecchino e Razzùllo cantano davanti alla fossa»] E qui se fano i conti sénsa li rèsti pasà la barca per fiume no’ se retórna lassa li smanciarìe, lassa i smorbièssi che chi a gh’è scrivü: «Basta, sì morti!» Chisà cosa che spècia in l’àlter mundo ognün conta di sogni e strambarìe. O gh’è i indiàn che i dise che po’ se svégia deréntro un animal con gran contento tüti contenti de vèss dei anemàl. A gh’è i saracìn che i gh’ha ol Corano che i mostra ol paradìs come un bordèlo ’piegnìt de dòne bèle e tüte sbiòte ridendo tüto el dì se fan l’amore se fan l’amore sbióte sénsa pecà! RAZZÙLLO Per chi è che stammo a scavà? ARLECCHINO Per l’aministrerìa del cimitiéro, l’è lor che ghe paga! RAZZÙLLO Sì, va beh, ma chi è ch’amm a seppellì? ARLECCHINO Ah, el morto, te dise? L’è un che s’è copà da par lü, un asasìn de se medesimo. RAZZÙLLO Ah, soicìda? ARLECCHINO Sì, soicìda, el s’è negá in de l’acqua. RAZZÙLLO Ah, chillo che dicono che s’è ’negàto… ARLECCHINO Sì, ol s’è’ negá, con una fòrsa di volontà incredibile! L’è andàit a casa, l’ha catà un mastèlo impiegnìt d’acqua, el s’è metüo in genógio, ol s’è pogià una man su la testa e l’ha dit: «Anégo». E giù… sot’acqua! Dopo un po’ la testa, che la ragiona, la dise: «Uhè, ma son propri un cojón, morir in quèsta manéra!» Ma la man caparbia: «Sóto: quèl che è detto è detto. Crepa!» Ohi, ol gh’era le bollicine che ghe stciopàva dapartüto. Ghe vegnìvan föra dal naso, da le orège, anca dal cül! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 34 PRUUUOOOAAHM!… Soffioni de Boario! RAZZÙLLO (Ride divertito) Ah, ah, ah, e tu ce credi che chilo s’è ’negàto ’a sulo? Secondo a te, uno se mette co’ ’a capa sott’all’acqua e senza che nisciùno l’aiuta: GLU, GLU, GLU… se bevve tutta l’acqua? Ma sinti a me, ’isto è ’nu delitto… qualcheduno l’avrà accìso! ARLECCHINO No, no, può darse che quaichedün gh’àbia pogià una man un po’ pesànta sü la crapa par aidàrlo un poco a sta’ sóto, ma varda che a gh’è de la zénte caparbia che quando ha desidü de masàrse, nisciün la ferma! Mí gh’ho cognosü un che s’é ’negàto nel vino! RAZZÙLLO Co’ u vino? ARLECCHINO Sì, in un tinàsso de vino. RAZZÙLLO Che bella morte! Ma comme ha fatto? ARLECCHINO Sta bòn che te conti… (Esce dalla fossa e, dando colpi con la pala qua e là come stesse sistemando la terra, racconta) El se ciamàva Bolgirón, a l’era un che cognosévi bèn. A l’era inamorato del vino! Fato sta però che quèst’òmo ol gh’aveva ’na maladìa tremenda, un’artrosi psichica che no’ riusìva a valsàr ol biciér fino a la bocca: (Mima la fatica di articolare il braccio) TRIC, TRAC, el se blocàva, per il senso de la colpa e del pecato del ciucatée, tanto che sü quàter biciér riusìva a bérne a malapena dòi! Bòn, ma per sua fortüna ghe mòre un zio che ghe lassa un’eredità da no’ dire, ’na valanga de denari. Alóra a l’è andàit al mercato e l’ha comprà due tinàssi grandi come ’na casa, ün impienìdo de vino e l’altro vòdo. RAZZÙLLO Che se ne faceva de chillo vuòdo? ARLECCHINO Spècia che te conto. L’ha ciapà ’sto tinàsso impiegnìdo de vino, l’ha fàit un’impalcadüra e l’ha piasàda in alto in d’el cortile, poi gh’ha metüo ’na canna e un rübinettón che andava deréntro a l’altro tinàsso, l’ha ciapà ’sto tinàsso vòdo e ol gh’ha metüo deréntro tùtala mobilìa: el lèto a tre piàsse, ol comodìn, l’armàdi, el s’è stravacà sóra ol lèto (Mima l’azione sdraiandosi, sul praticabile). Po’ ol ha dervì el rübinetón e… giò… una cascàda de vin! E lü bèlo tranquìlo, destendüo sül lèto, ol speciàva che el vino cresèsse de livelo fino a la bóca, ol dervìva i lavri e a quèl punto diséva la famosa frase del Vangelo: «Lasciate che i vini vengano a me!» Ol bevevo beato sénsa neanche besògno de valsàr el brasso e ol cantava felice: «BLUGLBLUGLBLUG!», ol pareva un mandolìn: «BLUGLBLUGLBLUGHHHBBBGUM!» Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 35 RAZZÙLLO Ma comme? O vino no’ saièva de livello e l’annegava? ARLECCHINO No, parchè el fürbastro, lü, l’aveva metü ’na vescìga con un galegiànte colegàta a una leva, de manéra che quand el vino l’era a un livèl che montava tropo: CLOOK, sübeto scatàva la leva e seràva de bòto ol rübinetòn. Lü speciàva e ol beveva pian, pian, ma apéna el livèlo desendéva tròpo, scatava de nòvo la leva e gió!… ’na cascàda de vino! E lü l’era sèmper contento cont ol livèlo giusto, ubriaco ma scientifico!… (Si leva in piedi) Soltanto che un ziorno ’st’òmo no’ va a inamoràrse de una dòna? RAZZÙLLO Che no’ ci piaceva o vino? ARLECCHINO No, l’era una brava dòna, che ghe piazéva el vin. Tant’è vera che loro, tüti e dòi, i stava slongàdi tüto el ziórno sü ’sto lèto… fasévan l’amor deréntro al vino!… «Oh, meo caro… BLUGBLUG… te vòjo bén… BLUGBLUG… va sòto ti che mí anégo!» Sémper co’ la vescìga de livèl pronta, imbriàghi tüto el ziórno de amor e de vin! (Pausa breve) Soltanto che, varda, certe volte le dòne son catìve. ’Sta dòna no’ va a inamoràrse de un altro òmo? RAZZÙLLO Normale! ARLECCHINO Un òmo che ghe piaséva el late! (Razzùllo ha un moto di disgusto) Sì… che ol stéva tüto el ziórno stravacà deréntro un basletòn grande, impiegnì de late, immergiüo fino a la bóca, e ol cantava cansóni de embriàgo de vin nel late! RAZZÙLLO Traditore! Ma come se fa a pijàrse per uno che tètta ’o latte? ARLECCHINO Te gh’ha rasón. Pensa che quèsti dòi, lée e lü, fasévano l’amore deréntro el late! «PIRIPATAGNAC… amore mio… SPLISHSPLASH… vado in apnea.» (Mima l’abbracciarsi e il rotolarsi nell’amplesso) E se sciuncìvan tüto el ziórno nel late, che la sira era tüto formàgio! RAZZÙLLO Deggeneràti! ARLECCHINO Degeneràti! Ma col castigo di Dio: «Chi fa l’amore nel late lo trasforma in formaggio! Invece, chi fa l’amore nel vino… spumante!» Fatto sta che el nostro òmo, quèlo bòno che ghe piaséva el vino, l’è andàit a casa e per la disperasión la stcepà la vescìga del galegiànte. Ghe vegnìva giò una cascata de vin sénsa fermàrse, lü stè stravacà sül lèto col vino che cresséva. L’han sentìdo cantare e gorgoglià tüta la note. La matìna, quando Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 36 son rivà i parenti e gli amìsi, han trovà ol tinàsso che strabordava… tüto ol vino per la strada, con la mobilia, compreso ol lèto, e lü, quèst’òmo, sgiunfiàt ne la panza che sembrava la cupola de San Pietro… morto ’negàto! Tüt’intorno se spantegàva un lèzo de vin che al funerale erano tüti ’mbriàchi, ’mbriaco ol prévete, gli amìsi, i parenti, perfin i quatro bechìn, che portava la bara, tüti inciucà che cantavan (Intona il «De profundis» ballandoci sopra). [Tav. 32, «Annegato nel vino»] I DUE IN CORO In morte de profundis te se’ crepà E miserere nobis te se’ crepà E feretrum peccati te se’ crepà Requiem aeternam dona eis Domine te’ se crepà Peccata mundi, peccata mundi, peccata mundi. ARLECCHINO Crédeme, se un ol gh’ha la volontà de morire, el mör e nisciün lo ferma! (Scavando con la pala estrae dalla fossa un teschio che rotola fra i piedi di Razzùllo che zompa spaventato). RAZZÙLLO Madonna mia, che impressione, ’na capa ’e muorto! ARLECCHINO Ohi, ma te se ciàpet spavento per una crapa de morto? A te sèt un bechino, caro! RAZZÙLLO E ’n lu vulìssi fare ’sto mestiere… Nu’ me so’ ancora abbituàto! (Raccatta il teschio) E poi io ’sto teschio manco lo cognóscio!… (Lancia il teschio, che Arlecchino afferra al volo). ARLECCHINO Fàmeghe vedér, bòja… me par de cognóserlo… Sì, a lo recognósco! Adèso che lo vardo bèn, quèsto l’è ol zio de quèlo che l’è negà ne l’acqua. L’era un che gh’aveva una fàcia, de vivo… uguale e precisa a quèsta! Solo che adèso el gh’ha lo sguardo un pochetìn più profondo! L’era un sbolzirón pièn de Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 37 prosopopea, ’na fàcia de merda! (Lancia il teschio a Razzùllo che, spaventato, lo rilancia ad Arlecchino). [Tav. 33, «Lancia il teschio a Razzùllo che, spaventato, lo rilancia ad Arlecchino»] RAZZÙLLO IAOOOO! Ah, che impressione! La vol fernéscere? ARLECCHINO L’ho fàit par fèt far un po’ d’abitüdin! RAZZÙLLO Me ci hai tutto sconvoglìto! Mo’ m’è venuto da pisciàre! ARLECCHINO Te se’ un po’ debilitád de vesìga? Va’ a pisà! RAZZÙLLO E addò? Bisogna che me ne vaga föra do cimitiéro. ARLECCHINO E parchè te ghe deve tôr tüto ’sto distürbo? Pisa chì! RAZZÙLLO Addóve? Sopra ’na tomba? ARLECCHINO No, miga sü una tomba qualsiasi. Sü quèsta per esempio. Questa l’è una tomba bòna de pisàrghe sóra! RAZZÙLLO Ma nun te pare che ci manchiamo ’nu puoco de rispetto? ARLECCHINO Che? Rispetto pe’ de’ morti malnati, bastròchi a ’sta manéra? Ma l’è giusto pisàrghe adòso. Varda qua… te dò l’esempio storico! (Si pongono di schiena rispetto al pubblico, Arlecchino armeggia attorno alla braghetta dei pantaloni). RAZZÙLLO Puòzzo anch’io? ARLECCHINO Come no’? Favorisca! (I due mimano di orinare nella fossa). Spunta un teschio dalla tomba che cerca di ripararsi il capo con le mani più che scheletriche. PRIMO TESCHIO Oh, che state a fare, zozzoni? RAZZÙLLO ’Na capa ’e muòrto che parla! ARLECCHINO (Al teschio) Eh, ma de che cosa te se laméntet? T’ho dàit una lozione par i cavèi! PRIMO TESCHIO Un poco de creanza per i morti! Siate stramaledetti! ARLECCHINO (A Razzùllo) Te dévet abituà, sopratüto quando te incóntret dei morti come quèsti, che de viv sont stàit cossì boriósi, che no’ se riése mai a convìnzerli de ’sta citto manco da morti. Ma co’ ’na bèla inafiàda in fronte adèso ghe rinfresco le idee! (Piscia con voluttà). PRIMO TESCHIO Basta, maledetti sporcaccioni! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 38 ARLECCHINO Cosa? Te dit «sporcacioni»? Arlecchino e Razzùllo prendono a schiaffi il teschio, dalla cui bocca alla fine schizza una manciata di denti. PRIMO TESCHIO (Piagnucolando) Mi avete fatto uscire tutti i denti! (Si porta le mani scheletriche alla bocca). ARLECCHINO Oh, ma no’ l’è un teschio, l’è un caimano! PRIMO TESCHIO Malnato, non si batte sui morti! ARLECCHINO Sü dei morti come ti se pisa, se pisa, ghe se spüda, se caga e po’ ghe se scorèza anca par ’sciügar el tüto! PRIMO TESCHIO Vergogna! Non siete buoni de parlare d’altro che de sporcarìa! De orine, d’escrementi! RAZZÙLLO Oh, s’è scatenato crapa ’e muorto! PRIMO TESCHIO Dovreste almanco tenere un poco de rispetto per il luogo. ARLECCHINO Parchè, che luogo l’è quèsto, sentémo! PRIMO TESCHIO È un luogo sacro codesto dove se consuma il trapasso per l’aldilà. ARLECCHINO E ti te sa come la ciamàva gli antìghi ’sta filosofia de l’andà de là? PRIMO TESCHIO Non lo so e non m’importa! ARLECCHINO No’ te importa parchè te se’ un strùnz trücà de teschio fàit con un calco de una scoréza! PRIMO TESCHIO Ohi, dico! RAZZÙLLO Vacce piano… mòderati co’ ’sti morti. ARLECCHINO No, no, l’è proprio adèso che besógna dìrghele ’ste ròbe, che i son morti, parchè se te ghe i dìset de vivi, lori te méten in galera!… (Al teschio) Sénte qua, morto… dònca, i greci, che sont i padri de tüto el nostro pensiér ragionato, loro, ol problema de l’anima ol ciamàvan «éscatos». (Il teschio si infila le dita nel naso e Arlecchino gli molla un ceffone) Sémper co’ i didi deréntro i bôgi del naso. Va’ che büsi che te se’ concià! (Riprende il discorso) Alóra, i ciamàva, gli antighi, «éscatos» el pensiero de l’anima e de l’aldilà, e i ciamava «escatologia» la filosofia e ol ragionamento sül trapasso. (Il teschio ascolta interessato) Orbene ’sti greci furbàssi i ciamàvan la merda «scatos», e la filosofia sü la merda «scatologia». Una «e» de diferénsa, una pìcola «e» de congiunsión tra «scatos» e «éscatos» che ghe permete a la merda de librarse nel ziélo e de spantegàr de spüssa tüto el paradìs! T’è capìt, fàcia d'escatòs? Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 39 RAZZÙLLO Che capa ca tenevano ’sti greci! PRIMO TESCHIO Ah, un’altra nefandezza mi tocca sentire! Villani, rozzi! Il vostro è un parlare da eretici screanzati. Finirete tutti e due abbruciati! Stanotte stessa apparirò in sogno al vescovo inquisitore e gli dirò: «Eminenza, andate a pigliar quei due becchini che sono zozzi, eretici e anticristo!» E… VUUUMMM, sul falò! ARLECCHINO Ah, puranco de morto te fa la spia! E alóra: TIEHH! I due becchini prendono ripetutamente a pedate il teschio palleggiandoselo finchè rotola per terra cadendo nelle mani di Arlecchino che lo raccoglie e gli sputa nelle orbite. Dalla tomba ora spunta agitandosi uno scheletro. SCHELETRO DEL PRIMO TESCHIO Ridammi la mia testa! Puliscila e ridammela! Arlecchino getta il teschio tra le mani dello scheletro mentre, dalla tomba, spunta un secondo teschio. SECONDO TESCHIO (Furente) Come vi permettete di trattare a ’sto modo mio nipote? RAZZÙLLO Mo’, ha da venì fòri tutta la famiglia de cape ’e muòrto! ARLECCHINO (Al secondo teschio) Ma cosa gh’ho fáit?… Par una pesciadìna, cossì, scherzósa! PRIMO TESCHIO No, m’ha mollato una gran pedata che m’ha scassato tutta la mascella! SECONDO TESCHIO Provaci con me se hai il coraggio, che stanotte ti vengo a tirare per i piedi e ti faccio crepare di spavento! ARLECCHINO A mì? SECONDO TESCHIO Sì, a tì! ARLECCHINO E alóra un’altra pesciàda! I due becchini mollano schiaffi e pedate ai due teschi mentre dalla quinta di destra entra in scena un prete. PRETE Siamo pronti con ’sta fossa? Che state combinando coi teschi, voi? Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 40 ARLECCHINO Sémo drée a ziogàre un poco con ’sti morti, a darghe pesciàde par farli un po’ contenti, che son proprio sénsa vita! PRETE Alóra, venì ad aiutare a portare la salma! Arlecchino, Razzùllo e il prete escono a destra e rientrano con due parenti che portano la salma sulle spalle, seguiti dalla vedova e amici tra i quali spicca un personaggio con una piuma rossa sul cappello, cantano in coro il «Dies irae». [Tav. 34, «Il funerale»] «Ille te domine meo qui fecit terram et aquam laudate deum a peccatum mortis servat insuescit confiteor vincere dies irae». Appoggiano la salma a terra che rotola sul bordo della fossa. Il defunto presenta un ventre rigonfio. PRETE Un poco di rispetto, pure se è cadavere! La vedova piangente si getta sul corpo del morto e grida tra i singhiozzi la sua disperazione in grammelotte. Ogni volta che la donna abbraccia il marito, dalla bocca del morto escono spruzzi d’acqua. Uno del seguito apre l’ombrello e lo porge alla vedova perché si ripari dagli spruzzi. [Tav. 35, «Grida la sua disperazione»] RAZZÙLLO (Indicando la vedova) Ma che sta dicendo? ARLECCHINO La parla el dialèt del so’ paese. La dîs che l’è disperàda. Disperàda che la vòl morire anegàda anca èla! La dîse: «Te sèt negàt par colpa mia… E mí te amavo tanto!» (Il cognato solleva ombrello e vedova e, in grammelotte, la consola) Questo l’è el fradèlo del morto… l’è inamorato matto de la vedova. (La vedova è tornata in ginocchio; il personaggio con piuma rossa sul cappello la solleva, lei lo abbraccia) Questo invece l’è quèlo che ghe piàse a lée, quèsto co’ la piuma rossa. El cognato l’è geloso, (I personaggi, parlando in grammelotte, eseguono quanto viene raccontato da Arlecchino) ghe porta via Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 41 l’ombrèlo, ghe porta via la vedova… Lée no’ ’l vole miga, va in braso a quèlo co’ la piuma rossa. Lée la s’è metüa in ginógio a piàgne… La vedova l’è desperàda. (L’amante la solleva e l’abbraccia con ardore, il prete cerca di dividerli) El prévete l’è anca lü inamorà de la dona… inamorato mato! RAZZÙLLO Pur’isso? ARLECCHINO Sì, de quèl co’ la piuma rossa… L’è geloso!.. Lée lo manda via… El prévete l’è inrabì, lée la piagne… la dise che lü el ghe tegnéva mano al so’ marito… che lü de vivo l’era un sporcacción. Ol fradèlo giura che invece l’era ’na brava persona… ma lée, la vedova, ghe racónta che quando l’era in vita l’ha metü inzìnte tüte le zóvine del paese: «E ti, prévete, te ghe tegnévet man!» Lü, ol prévete, se difende: «No, mí gh’ho sempre vüsàt che l’era un sporcazón… no’ gh’ho gimài dato l’assoluzión quando ol vegnìva a confesàrse!» PRETE È morto in peccato! I teschi che spuntano dalla tomba addentano la tunica del prete che reagisce schiaffeggiandoli. RAZZÙLLO E s’ha pìglia cólli morti! ARLECCHINO Eh, ma va che ’sti morti son rognosi… Pare el Parlamento europeo!… Però, siór prévete, me dispiàse, ma se l’è morto in pecà, per léze ’sto morto no’ se pol sepelìre in luogo consacrato, besognerà zetárlo in de la fòsa di can! PRETE Giusto, ben detto! FRATELLO Int la fòsa di can mì fradèl?… At caza tì int la fòsa di can… brüt burdigón! (Si avventa contro il prete prendendolo a schiaffi). PRETE (Accomodante) Fratello… (Accusa un primo schiaffo) fratello… (Altro schiaffo) cerca di ragionare, fratello! VEDOVA Tregua, bisogna spostare il morto, può farsi male! Dopo aver spostato il morto, il fratello riprende a schiaffeggiare il prete, che reagisce mollandogli potenti ceffoni. PRETE Fratello!… (Schiaffo) Fratello!… (Altro schiaffo. Alla fine della colluttazione il prete ha la peggio e cade morto rotolando riverso dal praticabile sul palcoscenico). ARLECCHINO La Chiesa è caduta! Ma arriverà un tedesco che la resusciterà. Nostradamus, libro quarto. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 42 VEDOVA Ha ammazzato il prete! (Rivolgendosi all’amante) Ammazzalo, càvaci l’occhi… accìdilo! Gag di cazzotti tra l’amante e il fratello del morto; i due finiscono con l’uccidersi l’un l’altro, stramazzando al suolo. Il fratello ruzzola dal praticabile andando a finire addosso al prete. VEDOVA Aahh!… sono rimasta invedovata per la seconda volta! ARLECCHINO Bòja, son cento repliche che ol fradèl del morto va a crepare con la testa pogiàda süi ciàpi del prévete! (Alla vedova) Pitòsto, sióra, chi l’è che paga par el sepeliménto de ’sti tri altri morti, adèso? VEDOVA Ci penseremo dopo! Adesso venite a casa mia. C’è il grande pranzo delle esequie… Tenetemi compagnia. (Si avvia all’uscita). ARLECCHINO Andémo, andémo! Se magna. TESCHI (Rispuntando dalla tomba) E noialtri no’ se magna? ARLECCHINO Boja, che mondo! Non solo i pensionati vol magnàre, anca i morti, adèso! Bón, portémo anca loro. (Si china sulla tomba e agguanta i due teschi) Andiamo! MANI SCHELETRICHE (le mani scheletriche si agitano fuori dalla tomba) Aoh, e noialtre mani? ARLECCHINO L’è un pranzo de’ sióri quèsto, se magna sénsa mani! (Sferra un calcio alle mani scheletriche). Esplode una musica allegra. Tutti danzano compresi i morti che si levano in piedi ballano come marionette. [Tav. 36, «Ballano come marionette»] FINE LA SERRATURA Personaggi Arlecchino Franceschina Razzùllo Scaràcco Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 43 Ganàssa Uomo con chiave d’oro Entra in scena Arlecchino suonando un gran trombone. Lentamente si porta in proscenio. Rivolgendosi al pubblico dice: ARLECCHINO Emo perdü ’na ciàve! Par piasér, se trové ’na ciàve, portéla chi-lòga… Dalla quinta di sinistra entrano tre attori – Razzùllo, Scaràcco, Ganàssa – portando un tavolo. Lo posano. Si guardano attorno e, non contenti di dove l’hanno sistemato, decidono di cambiare collocazione. Tutti e tre cercano di sollevarlo con sforzi immani, senza riuscire però a spostarlo di un millimetro. RAZZÙLLO Forza, tirate! SCARÀCCO Bòja, che pesante!… pare de marmo! GANÀSSA Provémo a valzàrlo inséma. RAZZÙLLO No’ ’l végne miga… l’ünica a l’è far léva. Vo’ a tòr una léva. (Dalla quinta prende un grosso bastone). GANÀSSA Cossa l’è ’sta léva? SCARÀCCO La léva serve par levàre! Besógna essere moderni! Se fa tüto co’ la léva. Te lo digo me che ho stüdiato scienze confuse. L’è la prima lége chimica: mèti e léva. Varda chi, basta ficàrghe sòta ol palo cossì, e ol se valza! (Muove il bastone senza esito). GANÀSSA Eh, no’ sucéd ’negòta! RAZZÙLLO Si nu’ fate l’appòggio… nu’ fate la léva! GANÀSSA No, chi ghe vol el contrapéso de la balànza! RAZZÙLLO Coss’è ’sta balànza? GANÀSSA La balànza l’è come una léva, però pusé granda! L’è semplice (A Scaràcco ) ti spòstate lì (Gli indica un lato del tavolo) basta che mí me sénta qua (Si siede sul lato opposto) oplà! Te vede che monta? (Il tavolo si alza sul lato di Scaràcco ). [Tav. 37, «Scaràcco, Ganàssa e il tavolo»] SCARÀCCO L’è véra, l’è ’gnüt legéro ’me ’na plüma! Sì, ma par valzàrlo de qua cossa ti fa’ adéso? GANÀSSA Basta che mí a végna de lì… e se valza anca de là. Dài, ti va sòta… (Razzùllo si mette carponi sotto il tavolo) Prima léva! (Strisciando, raggiunge il centro del tavolo) Adèso paso de Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 44 là un pochetìno… èco, vàlzet: (Razzùllo solleva il groppone e, di conseguenza, il tavolo) se parte! (Razzùllo, oppresso dal peso, cammina con gran fatica) Ohé! Quèsto se ciàma ol meràcolo de la mecànega e de contrapési a balànza!… SCARÀCCO Meràcolo! (Portano il tavolo sul lato destro della scena, lo posano ed escono). Sottofondo musicale. Entra Franceschina. FRANCESCHINA (Urla perentoria verso la quinta da dove è entrata) Coràjo, entrare… e recordàrse ol basaménto! (Esce). Ganàssa e Scaràcco entrano ed escono portando in scena vari elementi. Tra questi, un’enorme serratura coperta da un lenzuolo. La abbandonano a metà percorso: l’oggetto rimane sospeso nel vuoto, ma nessuno si fa meraviglia dell’incredibile magia. Ci accorgiamo però che sotto il lenzuolo c’è, nascosto, Scaràcco che la sposta per posarla sul tavolo, ma sventato com’è, lascia le mani sotto il peso. SCARÀCCO Oh, che dolore! Me son ’ncastràto le man sòta a ’sto peso… (Dà strattoni per liberarsi) no’ végnen anca via… me so’ ’ncastrà sôta… Come fàso adéso?… (Al pubblico) Déme ’na man, fè quaicòsa.. dai! (Cerca di liberare le mani) Bòja! Son vegnüde via da sole!… (Mostra al pubblico due mani enormi, gonfie e color rosso ciclamino) Oh, bòja! (Esce). Sulla musica entrano altri facchini che portano casse di varie dimensioni, combinano guai e incidenti a ripetizione. Rientra Franceschina che solleva il lenzuolo che copre la grande serratura. Porta con sé un secchio e un piumino per spolverare. Stop musica. FRANCESCHINA (Rivolgendosi alla serratura) Bèla, dólze… me tresòro, adés végn chi che te mèto a l’órden, cara, la mia bèla, belìsima seradürìna, deo che dolzóre! (La spolvera con il piumino) Chi l’è quèl disgrasiàto d’un trovarobe che t’ha desmentegàta in sü ’sto palco, in mèso ai ragnatéli, in mèso a la ruménta? Adés te lavi, vo’ a tòr una bèla sidèla de acqua fresca e profümada. (Fa per andarsene ma ritorna sui suoi passi) No, te còvro parchè no’ vòjo che pasa quaich malnàt… e te varda e te Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 45 tóca. Sta lì, eh, mia bèla tòpa (Esce). Riprende la musica; entra da destra Arlecchino cantando e portando sulle spalle un’enorme chiave. Infilati al braccio, ha due canestri coperti da un tovagliolo. ARLECCHINO (Al pubblico) Gh’ho truvà la ciàve! (Sorpassando la serratura, la chiave vibra e strattona Arlecchino quasi a trattenerlo) Ma bòja!… Ma che te ciàpa, desgrasià! (A soggetto, parla con la chiave cercando di calmarla) Ma cosa ti va zercàndo? Cosa zèrchi? Petrolio?… L’acqua? (Indicando la serratura nascosta dal lenzuolo) Una fonte? L’è quèsta? Spècia… ghe dev’esser l’acqua, bòja: l’acqua, l’acqua! (Solleva il lenzuolo e scopre la serratura)… No, no’ l’è acqua quèsta…. (La chiave trascina Arlecchino verso la toppa) No! Ferma! (Strattona e schiaffeggia la chiave) Oh, golosa!… No’ vardàre!… Ohi! (Accarezza la serratura) Arabomoresca! Varda che bèla… Entra Franceschina a catapulta. Arlecchino nasconde la grande chiave dietro la schiena. [Tav. 38, «Arlecchino e Franceschina»] FRANCESCHINA Fermo lì!… Tira gió quèle manàsse sporselénte de la mia seradürìna! ARLECCHINO Ohi, mata! Cossa che gh’ho fato?… L’ho apéna sfioràda con un dit. FRANCESCHINA L’è propri con i didi che no’ se va a sfioràr le seradüre… Se coménsa a far de le smorbièsse con un dido e no’ se sa dove se va a fornìre… (Si è resa conto dell’impaccio di Arlecchino) Cossa te nascondi lì, cossa ti gh’ha lì de drio? ARLECCHINO Mì… qui? De drio? A gh’ho un bastón. FRANCESCHINA Ah, un bastón? E de quando in qua se fa vergognànsa a mostràr un bastón? ARLECCHINO A mí m’han sémper insegnato che no’ se mostra mai un bastón a le seradüre zóvene e de bén. FRANCESCHINA Ehhh, quèsta l’è una parlàda savia e costümàda. (Inzuppa uno strofinaccio nel secchio e inizia a lavare la serratura) Végn chi, bèla seradüra, che te nèto e te prepari par la tòa festa… deo, che bèla… A sua volta Arlecchino ha infilato la chiave fra due casse in Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 46 modo che resti in piedi e, canticchiando, la strofina con uno strofinaccio sul quale sputa ripetutamente, esaltato. FRANCESCHINA Ehhh… cossa ti gh’ha là? ARLECCHINO Un membro del comitato per la ricerca del tricolore in Italia… déto anche «ciavetìn». FRANCESCHINA No’ te fa vergognànsa mostràr ’sto trivelón balòsso a una seradürìna immacolata come la mia? ARLECCHINO Immacolata? FRANCESCHINA Immacolata! ARLECCHINO Così granda… ancora immacolata? (Sghignazza). FRANCESCHINA Vilàno! L’è immacolada no’ par mancansa de richieste, ma par una scelta politico-religioso-ideologica e sociale! ARLECCHINO Ah sì… scüsa, fame provàr… (Si avvicina brandendo la chiave). FRANCESCHINA No! Fermo lì, e no’ vardàrla che te me la sconsümi! Va via, volgaràsso, via! La còvro… un paravento! (Conficca due manici di scope nel tavolo, sui quali stende un lenzuolo, così da nascondere la serratura agli occhi di Arlecchino). ARLECCHINO (Estrae da uno dei due canestri un armamentario da barbiere: un rasoio, un pennello, uno specchio, borotalco, e inizia a fare toeletta alla sua chiave) La tualèt del ciavetón! (Annoda all’immaginario collo della chiave un tovagliolo). FRANCESCHINA Oehhh! (Estrae dal secchio un lunghissimo nastro di raso azzurro con il quale avvolge la serratura come fosse un uovo di Pasqua). ARLECCHINO Va’, che meravégia! El nastro! ’Riverà el ministro a tajàrghe el nastro… e se fréga la seradüra. FRANCESCHINA Ma tase… tàjate la léngua! (Indica il fiocco) Varda che bèl!. ARLECCHINO Oh… nastro azzurro… l’è nato el ciavetìn! FRANCESCHINA Ma va via, va, va via… (Estrae dal secchio due enormi orecchini colorati, li mostra ad Arlecchino e li appende ai lati della serratura) Orechìni par seradüre!… ARLECCHINO Bòja! La seradüra de Natale! (Mima di radere la chiave) Ciavetón de primo pelo… (Estrae un barattolo nel quale intinge due dita). Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 47 FRANCESCHINA Cossa l’è che te fe’? ARLECCHINO Olio… ghe dò de l’olio aromatico per ciàve, ciavetón, seradüre e cadenàs! FRANCESCHINA Te me ne dà un fiatìn anco par la mia seradürìna? ARLECCHINO Comoda. (Le offre il barattolo) Ma cara… vaghe pian!… l’è forte. (Franceschina imbratta d’olio la serratura) No’ così, bòja, soltanto nei punti erogeni! (Mostra i punti predetti). FRANCESCHINA Oh… no’ tocàrla!… ARLECCHINO Che meravégia! Ma che meravégia! (Ammira appassionato la serratura) Roba che… Sente, se podrìa far en manéra che… che ghe sia un contatto… se pur spirituale… tra el ciavetón… (A tiritera) Ciavetón settentrionale bèla presènsa a scopo amicìsia òfresi. FRANCESCHINA Gimài al mondo… gimài al mondo! Te vogherìsi infilàrghe quèl ciavetón sbolgiróso ne la méa creatürìna santa?… ARLECCHINO Sénsa impegno! Po’, cus’è ’sta storia de la seradürìna santa? Cossa te credi d’avérghe lì, el cadenàs de’ meràcoli? FRANCESCHINA De’ meràcoli! Te la gl’ha dit caro Arlechìno, de’ meràcoli! Te gh’ha in mént el paradìs? ARLECCHINO Sì… FRANCESCHINA Te gh’ha in mént el gran portón che gh’è devanti al paradìs? ARLECCHINO Sì. FRANCESCHINA Prima de i nìvoli… te gh’ha in mént che sü quél portón gh’è una seradüra? Beh, quèla seradüra l’è la méa. ARLECCHINO La seradüra del portón del paradìs? FRANCESCHINA Sì, zertaménte, e quand ’riverá la fine del mondo, el ziórno del giudìsio… dio, dio, già mel vedi, el Cristo ol spunta da i nìvoli, belìsimo, da la tèra sponta föra tüti i morti tremendìsimi che guàrdan la mia seradüra pién de sperànsa, tüti insèma parleràn in tüte le lingue del mondo e… ARLECCHINO (Interrompendola) I morti… i morti che pàrlen? FRANCESCHINA E diseràn: «Oh, che belìssima seradüra…» (Prosegue in grammelotte, uno sfarfugliare stridente da chioccia). ARLECCHINO Pàrlen cossì i morti?… FRANCESCHINA Sì, i morti pàrlen cossì… Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 48 ARLECCHINO Giüsto che sìen morti! Galìne imbriàghe! FRANCESCHINA «Cito!» farà Gesù Cristo. ARLECCHINO «Cito, morti, o ve ’cópo tüti!» FRANCESCHINA I morti se tàsen spaventati, po’ el Cristo ol fa un ségn cossì con la man, e da una parte i va i bòni, da l’altra i catìvi, e in mèso i se resta i cojóni. ARLECCHINO Giustìsia divina! FRANCESCHINA Po’ el Cristo ol va verso la mia seradüra, la guarda fisaménte… ARLECCHINO Po’ ciàpa ’na bèla ciàve tùta d’oro… FRANCESCHINA No, niente ciàve! ARLECCHINO Ghe presto la mia? FRANCESCHINA No, par piasér… vergognoso! ARLECCHINO Sénsa ciàve? FRANCESCHINA El Cristo dà una bufàda a la mia seradüra e la seradüra la se desléngua, gira el cadenàs, spalanca la porta, e le anime sante éntran in del paradìs, i cativàssi se sprofóndan in d’el inferno, el portón se sèra e lì devànti, in t’el teréno di nisciüno, réstan i cojóni come ti, Arlechíno! ARLECCHINO Ma ti te sèt sigüra che quèsto ol sia propri el Gesù Cristo en persona, el Redentore, quèsto qua ch’ol bufa le seradüre? Oh, varda, varda, el mé ciavetón sta andànd en slanguiménto, bòja, o l’è tüto pién de passión… ah… el brüsa… bòja, par piasér… (Gridando verso la quinta) ona sidèla, svelti, ’na sidèla d'acqua frésca! FRANCESCHINA (Fredda) Indiferénte, indiferénte. Entra una maschera con un secchio, lo posa ai piedi di Arlecchino che affonda la grossa chiave nell’acqua. Subito ne fuoriesce una nube di vapore. ARLECCHINO Bòja! Oh che fuoco d’amore! FRANCESCHINA Indiferénte… sono indiferénte al ciavetóne lesàto… indiferénte! ARLECCHINO Va’ el vapore che sconsüma la passión! FRANCESCHINA Bollito de ciavetóne… sono indiferénte! ARLECCHINO Sénte, àbit un pòc de pietà, fèit en manéra che ol calór de quèsto méo ciavetón… FRANCESCHINA Mai! ARLECCHINO …ghe pòsa entrar… FRANCESCHINA Mai! Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 49 ARLECCHINO …in te la tòa seradürìna! (Con enfasi) Seradürìna fresca, fresca seradürìna! Ol dis anca el poeta, Petrarca: «Dolze, ciàra, fresca seradürìna, fa bén de sera e ancòr de la matìna». FRANCESCHINA Tase, seradüròmane, tase! Va via! Se no, varda: ciàpo quèl to’ ogetóne oréndo e ol mèti in sü l’incüdine infocàta… e co’ un martèlo ghe dò tante de quèle martelàde che t’el fo’ vegnìr apiatìto… che come màsimo te se pòde far aria come co’ un ventàjio… ARLECCHINO (Rivolto alla chiave) Ohi, t’è capìt, caro el mè ciavetón, mètite el core in pase che d’andar par tòpole sante incóe a l’è proibito. Fa’ conto d’èsser en quaresima. (Solleva da terra uno dei due canestri) Ma no’ stémo a piànser ’n sül late sversàt e andémo… (Scopre il contenuto del canestro) Ohh! A vedo qua un regalo… meravigióso! FRANCESCHINA Se gh’è?… ARLECCHINO La méa mama l’ha preparà un canestrìn… FRANCESCHINA Che bòna mama… ARLECCHINO Varda qua… (Estrae una collana di salamelle) una sciarpa… de lügànega! FRANCESCHINA (Sospira golosa) Ahhh! ARLECCHINO (Se l’avvolge intorno al collo) Contra el frèdo e el mal de gola. FRANCESCHINA (Geme per il languore) Ahhh! ARLECCHINO Varda qua… olio… no’… vino santo… varda qua… un formàgio, ma che formàgio, l’è un brilànto! (Pone sull’anulare una provola)… ghe fo’ ’na montadüra d’anèl… el básen tüti. FRANCESCHINA (Altro gemito) Ahhh! ARLECCHINO Varda qua… ehhh! un polàstro! Un polàstro ’rostìto ancora caldo! (Estrae dal canestro una spazzola e va sfregando il pollo). FRANCESCHINA Ahhh! Arlechìno, ti sèt bèlo, ti sèt inteligénte, ti sèt bravìsimo! Se magna? ARLECCHINO No! Soltanto le persone zentìli, de còre, e che gh’han amore par i ciavetón, i magna! FRANCESCHINA Vilàn! ARLECCHINO Quèi che tégn fresche le seradüre e ghe fa’ far i giòghi d’amor co’ i ciavetóni! FRANCESCHINA Vilàno! Te me gh’ha gnanca dit: «Te voi favorire, cara Franceschina?» Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 50 ARLECCHINO Pròvate a spazolàr el polàstro: ol devénta una roba meravegiósa! (Cambia tono) Parchè, tì te m’ha dit: «Vuoi favorire» a propòsit del me ciavetón che l’era là che ’ndava a sconsümarse, adiritüra, ch’ol pareva un turìbolo en gésa? FRANCESCHINA Sun drè a murìr de fame! ARLECCHINO E alóra, ti fa de manéra che no’ se disléngua più ’sto ciavetón, desgrasià! FRANCESCHINA (Indignata) Gimài al mondo! No’ se fa comèrcio co’ l’onór de la méa seradüra, ciàro? ARLECCHINO E alóra ti tégnite l’onór de la tòa seradüra, mí me tegnerò ol fragrànse del polàstro e la sòa impiegnidüra! (Batte con le nocche delle dita sul pollo) TOC TOC TOC! Sénte, che crocànte! (Porta il pollo alle orecchie) Se sénte anca el mare! (Porta il pollo all’orecchio di Franceschina) Sénte! FRANCESCHINA Oh Arlechìn… mòro de fam! ARLECCHINO El mar de i polàstri! FRANCESCHINA Arlechìno, Arlechìno… no’ ne pòdo pì. Te me giüri che te saré delicádo? ARLECCHINO Delicádo come ’na ciàve de violìn. FRANCESCHINA Una volta sola? ARLECCHINO Una volta sola. FRANCESCHINA (Si lamenta, quasi piangendo) Ahi, ahi, ahi! Par mèso polàstro? ARLECCHINO No, un polàstro intrégo. FRANCESCHINA D’acòrdo. Dame el polàstro. ARLECCHINO Te dò anca do’ salamìn. (Entrano Razzùllo e Saracco che, approfittando della distrazione di Franceschina, tentano di rubare la serratura) Ohé… ladri!… ladri!… Bòja… desgrasià! RAZZÙLLO No’ sémo ladri! Se voleva solo darghe un poco d’olio. SCARÀCCO Una vongiadìna! ARLECCHINO Ve dò ’na ciavàda! (Mena fendenti con la chiave) Desgrasià! (I due fuggono) Desgrasià! I va’ intórno, ’sti ladri, a rubare le seradüre par vénderle in Oriente… ai sultani… FRANCESCHINA (Geme di spavento) Uhhh, uhhh… ARLECCHINO … che gh’han i àrem impiegnìd de seradüre de tüte le rase e i colori. FRANCESCHINA Che desgràsia… s’eri dré a perdi la seradüra e el polàster in una volta sola. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 51 Stacco musicale. Entra in scena un uomo con una grande chiave d’oro sulla spalla. Sorride spavaldamente guardando la serratura. FRANCESCHINA Ciùla… che ciavetón d’oro! (Si avvicina all’uomo con sguardo incantato) [Tav. 38 bis, «El ciavetón d’oro»] ARLECCHINO Ma che d’oro… l’è un cadenàsc d’otón indorà. FRANCESCHINA (Si blocca) L’è vera, l’è un feràscio. Un feràscio indoràto. ARLECCHINO (Rivolgendosi all’uomo della chiave) Cossa te vardi? Cossa credi, d’ésser el Superman dei ciavettóni, tì? L’arcangelo Gabriele co’ in spalla la ciàve de San Pietro in Roma? FRANCESCHINA Mirate popolo… mirate: ciavetóni in competisión! ARLECCHINO L’è inütil che te stè chi… no’ gh’è mercato. L’è già promèsa! Preferìse el ferro, sano e onesto, caro mio! (A Franceschina) ’Ndémo, combinémo ’sto nostro afàre. FRANCESCHINA Giusto, combinémo. Arlecchino e Franceschina si spostano, parlottando, sul lato opposto della scena. ARLECCHINO Dame un po’ de parfümo de farlo rinvegnìr. FRANCESCHINA Parfümo?… No’ ghe fa mal? L’uomo si avvicina alla serratura sventolandole intorno la chiave d’oro; la serratura affascinata segue l’uomo ed entrambi escono di scena. ARLECCHINO Oh boja, la scapa! (Corre ad inseguire la serratura) L’è scapàda, l’è scapàda la frescolina! (Entra tra le quinte e rientra con la serratura nella quale è conficcata la chiave d’oro) FRANCESCHINA La mia seradüra!… Oh… oh!… ARLECCHINO La frescolìna! FRANCESCHINA (Una ragazza fra il pubblico esclama: Oh, dio!) Che è? (Scruta fra il pubblico). ARLECCHINO L’ha dit: «Oh dio!… oh dio!…» (Indica la ragazza in platea). Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 52 FRANCESCHINA (Alla ragazza, uscendo dal personaggio) Ma no, sta tranquilla, è falso, tutto finto. ARLECCHINO Dopo una bona confesióne el pecàto è rimesso. FRANCESCHINA (percuote la cassa della serratura) È di legno, senti, è di legno. ARLECCHINO Peccato… è un peccato di legno! FRANCESCHINA (Riprendendo a recitare) Ohhh… che desgràsia! ARLECCHINO San Pietro ha colpito ancora! (Va verso destra dove ha lasciato la chiave). FRANCESCHINA ’Na povra dòna la fa tanti sacrifìsi par tirar sü ’na seradüra imacolàta e ol prim desgrasià de ciavetón dorato che ghe va dré, me la scapa, ’sta spitìnfia, e la se fa infilsàre! ARLECCHINO (Grido di dolore) Ahhh! (È tutto preso ad armeggiare con la chiave nascosta dietro una cassa). FRANCESCHINA Se gh’è? ARLECCHINO L’è morto! FRANCESCHINA Chi? ARLECCHINO El ciavetón! (Estrae il chiavettone). FRANCESCHINA Oh… parchè? ARLECCHINO Senza anima… (La chiave si affloscia). FRANCESCHINA Ohhh… ARLECCHINO Oh, tragedia d’amore! (Se la getta sulle spalle, ammosciata com’è, ed esce di scena. Stacco musicale). FINE (?) L’ASINO E IL LEONE All’inizio della scena si ode un grande abbaiare: entra Arlecchino terrorizzato. ARLECCHINO Ahhh… can de un can… bòja, che el deo di can te fülmini, can de l’ostia, can de’ smòrbi, can maladì! Bòja, no’ se pol andar pì intorna, gh’è i can dapartüto, anca da le fenèstre i spórze compàgn de i cristiàn. Stéva caminando tranquìlo, ghe vedo ’na bèla fenèstra cont sül pogiö un baslòt impiegnìdo de lüganeghe, de salamìn, ol gh’era de’ tòchi de carne, bòja d’un can, fago par svalzàr la mano… UAUHHH! Salta föra un can tremendo che a momenti me sgagna via tuta la man! E daghe da Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 53 magnàr de la carne velenósa a ’sti can che fan la guardia a le lüganeghe!… che i resta sèchi! (Con un gran balzo Razzùllo e Scaràcco entrano in scena. Calzano sul viso maschere con sembianze di cane. Zompano su quattro zampe e saltano abbaiando addosso ad Arlecchino che grida spaventato) Ohi!… e che è? RAZZÙLLO (Togliendosi la maschera) Ah, ah! Ce se’ cascato ’me nu mèrolo! SCARÀCCO (Anche lui si scopre il viso) Ah, te gh’ha catàt ’na bèla strissa de ciàpe, veh, Arlechìno? ARLECCHINO Bòja! Cojón desgrasiào! A sèt vui? RAZZÙLLO Ah, ah… è ’nu spasso de scompisciàrse a vedé come te zompa pe’ ’n’abbaiàta! SCARÀCCO GNAM! Ol pare che te gh’abbia ciapàt la tarantola. RAZZÙLLO-SCARÀCCO (I due ballando e cantando girano attorno ad Arlecchino sfottendolo ed escono di scena [Tav. 39, «Razzùllo e Scaràcco sfottono Arlecchino»]) Zompa, zompa, c’è ’nu cagnóne, Arlecchino è ’nu pisciacchióne. Pe’ ’na botta de spavénto ci s’è cattàto la tremarèlla. Lui voléa la salamella E s’è accattato la scarella. Zompa accà, zompa allà, Arlecchino è ’nu quaquaraquà. ARLECCHINO (Anche lui accenna qualche passo di danza a controsfottò) Canté! Canté! Ah, ah, come sit cojón! Ma de bón vui credét che mí gh’ho catàt spavént par vui? RAZZÙLLO-SCARÀCCO (Rientrando in scena) Ah no, eh? ARLECCHINO Ma no’ de següro, bòja! Co’ ’sta maschera (Indica la maschera che Razzùllo tiene ancora in mano), se vede de lontàn co l’è de carta. Ma po’… mí, mí… ah, ah… Arlechìno ch’ol cata spavento par un can? Ma vui el savét qual è el mè vero mestè? (Diniego dei due) Ah, a l’è quèl de andàr intórna par l’Aministrerìa de Venésia a tôr i cani rabiósi e famélighi. (Scaràcco scoppia a ridere seguito dal compare) Sì! Quand gh’è un can faméligo, me ciàmeno mí. «Arlechìno! Cata ’sto can!» (Mima con truculenza l’azione raccontata) Mí ’rivo davanti a ’sto can, ghe pónto i ôgi tremendi, lü ol grigna. Mí slonzo ’na man… lü ol salta par catàrme la man… ghe tiro via la man, me pasa soravìa col salto… ghe cato un cojón… ghe strizo un Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 54 cojón… cato l’altro cojón… ghe fazo una treza de cojón! (Imita i guaiti del cane) IUAH! IUAH! SCARÀCCO (Lo aggredisce alle spalle, abbrancandolo per le natiche) AOOH! UOUOH! ARLECCHINO (Mostrando le mani richiuse a pugno) Desgrasià, Scaràcco ! M’è restà i cojón del can in man! RAZZÙLLO Ah!… Ma mo’ l’hai vedüo l’achiappacani de l’Aministrerìa de Venésia. OHAUOO… (Razzùllo e Scaràcco escono danzando e cantando) Zompa zompa, facce ’nu botto, Arlecchino è ’nu quaquaraquà. ARLECCHINO Desgrasià… mecragnón! Far catàr de ’sti spavénti! Che gusto a far ’sti schèrzi… (Se ne sta andando ma viene bloccato da Franceschina che entra da dove sono usciti i due compari). [Tav. 40, «Franceschina e Arlecchino»] FRANCESCHINA Oh Arlechìn, cossa l’è capitàt che te gh’ho sentìt criàre contra i tòi compari Razzùllo e Scaràcco? ARLECCHINO No, sont loro che crìan contra de mí. Sì, parchè gh’ho fàit uno schèrso e se sont inrabìt… FRANCESCHINA Sì? Che schèrso? ARLECCHINO Parchè mí gh’ho fàit una scomésa… gh’ho fàit un ziògo… che l’è un indovinèl… che gh’ho guadagnàt diése bajòchi. T’el fago anca a tí ’sto indovinèl? FRANCESCHINA Sì, fàmelo. ARLECCHINO A gh’è una roba giàlda e verdolìna con tüte le plüme intórna, che la sta dentro ’na gabietìna e la fa: cip, cip… Indovina, cosa l’è? La fa: cip, cip… Indovina, cosa l’è? FRANCESCHINA Ma l’è un canaríno. ARLECCHINO Canaríno? No, no. FRANCESCHINA L’è un üselèto. ARLECCHINO No, gnanca un üselèto. FRANCESCHINA Lasso. ARLECCHINO ’Na sciavàta! FRANCESCHINA ’Na sciavàta? ARLECCHINO Sì. FRANCESCHINA Giàla e vérda? ARLECCHINO Giàla e verde; l’ho pituràda mí cossì, che me piàse. FRANCESCHINA In te la gabièta? ARLECCHINO In te la gabièta l’ho metüa mí parchè cossì a Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 55 gh’è l’aria e la sciavàta no’ spüsa miga. FRANCESCHINA E tüte le plüme intórno… ARLECCHINO Parchè cossì l’è pì soffice… FRANCESCHINA E cip cip? ARLECCHINO Ghe l’ho giùnta mí, se no’ l’era tropo fàcile e indovinava sübit. Ah, ah… se sont inrabìt! FRANCESCHINA Ma tase!… Gh’ho sentìt che i parlava e i diséva che ti sèt un spaventàt. (Gli punta addosso un dito, minacciosa) Atènto, sa’, Arlechìno, che mí no’ me va d’avèr par òmo un òmo che no’ l’è un òmo! ARLECCHINO Bòja, ma tì te va a créder quèl che racónta quèi? ’Sti cagasóto! Verà el ziórno che ghe farò vedèr mí chi son mì a quèli… FRANCESCHINA E spero bén, caro Arlechìno, coi fati e no’ solamente co’ le parole, altrimenti tì a mí… no’ te me sfiori nemanco una ciàpa cont’un dito! ARLECCHINO Ma bòja, ma parchè te fèt cossì, Franceschina? Bòja, sont el tò moróso… fame una smorbièssa de moróso. FRANCESCHINA No! ’N’altra volta! (Esce di scena). ARLECCHINO (Implorante) Un basìn, bòja, un basìn! La me despréssia… l’è tüta colpa de quèi desgrassià canàjà. (Entra un asino: cambia tono) AIAHH! San Giorgio, presto, a cavàlo, il drago! Un drago… San Giorgio… (Si ferma, sbircia l’animale e si rende conto dell’equivoco. Pausa) Comodo, San Giorgio, no’ gh’è besógn che ti mònti a cavàlo… No’ l’é un drago, a l’é un asino. Bèstia! Son un desgrasià, a me cati i àsini par draghi. (Fa gesti all’asino che trotta per la scena) Végne qua un momento… (L’asino si arresta) Va’ che bèla bèstia, va’ che bèla bèstia (L’asino incrocia le zampe atteggiandosi a bullo) Che bèla posisión de asino! Scüseme, ma tì no’ te gh’ha un padrón? (Rivolto al pubblico) A l’è inteligénte! Sénte, sénte asino… (Ancora al pubblico) Vòjo védar se l’è un caso o se l’è proprio inteligénte davéra. (All’asino) Sénte, dévete dirme: l’ültima volta che t’è encontrà el tò padrón, dove l’era, dove l’era el tò padrón? L’era de là… de sü… de gió… (L’asino volge la testa a sinistra, a destra, in giù, in su, poi galoppa torno-torno) Ol s’era sperdüo? (L’asino si blocca e fa cenno di sì [Tav. 41, «Te s’è perdüo?»]) Ol s’era sperdüo! Gh’ho indovinato! Ma che bèstia inteligénte! El se fa capíre! Adèso ghe domando: chi l’era el tò padrón? Dime: l’era un vilàn?… (L’asino fa cenno di no) No, no’ l’era un vilàn. L’era un nodàro?… (L’asino tentenna con la Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 56 testa) Quasi? Alóra un prévete? (L’asino fa cenno di sì) Un prévete, gh’ho indovinàto, un prévete! (L’asino raglia in segno di assenso) Bòja, un prévete! Che inteligénte de bèstia. Adèso dime: l’ültima volta che te l’hàit encontrà, cosa el faséva ’sto to’ padrón? (L’asino accenna un passo di danza) Ol balàva? Sì, ol balàva, ol balàva! (Danza a sua volta) E balàndo, cosa ol faséva? (Raglio dell’asino) Cantava? Fa’ sentì… (L’asino riprende a ragliare) Cantava! Alóra o l’era ’mbriàgo? (L’asino fa cenno di sì e barcolla vistosamente a imitare il passo incerto di un ubriaco) L’era ’mbriàgo! Balàva cantando da ’mbriàgo! E da ’mbriàgo cosa l’ha combinà?… Fame capíre… fame un segno… che mí capìsi. (L’asino leva la gamba e gli orina addosso. Arlecchino si scansa e il getto finisce in platea annaffiando gli spettatori delle prime file) O bòja… no, no… férmate… lase… oh bòja… ohi ohi… (Agli spettatori) Oh, scüsème… no, l’è acqua… l’è roba… sana, naturàle… (Rivolto nuovamente all’asino) E dime, dime: dopo, cosa l’ha combinàt ancora… (L’asino si accuccia; si odono boati sospetti. Dal sedere vengono sparate palle di sterco che finiscono addosso ad Arlecchino [Tav. 42, «Dialogo tra l’asino e Arlecchino»]) Cosa ti fa’? Cosa so’ ’sti versi? No, no, no! (Urla di Arlecchino e altri rumori dell’asino; una scarica di palle viene proiettata in platea; Arlecchino si rivolge al pubblico) Scüsème… no, no, l’è solo carta pitürada de scuro. Fuori… l’è carta… La signora la gh’ha avèrta? Ecco, dentro gh’è la sorprésa. (All’asino) Sénte, fame un piasér: vòjo savér cosa l’ha fàit dòpo che s’è scarigàdo, ’sto tò prévete ’mbriàgo, cosa l’ha fàit?… (L’asino, con ragli sensuali, si pone in posizione rampante e si avvinghia ad Arlecchino quasi a volerlo montare. Arlecchino si divincola) Ma non se fan ’ste robe devànti a la zénte!… (L’asino lo sbaciucchia sul collo) Cosa fàit?… A l’era inamoràto! (L’asino si dimena in atteggiamenti vezzosi) Oh, varda… come se fa capire! (All’asino) El padrón a l’era inamoràto? De ’na dòna, eh? Sénte, eche cosa l’ha fàito? L’amore, l’ha fàit l’amore? (L’asino raglia assentendo) E faséndo l’amore cosa gh’è capitàt?…(L’asino si lascia cadere di schianto a terra) Morto?… Gh’è catà un colpo… (L’asino, rantolando, solleva a stento la testa e poi si lascia andare, morto) Un colpo d’amore? (L’asino raglia in falsetto) No’ piàgnere, no’ piàgnere, l’è andàto tüto bén. (Lo afferra per la cavezza e lo aiuta a rimettersi in piedi) Varda che in tùta la desgràsia te sèt fortünàt, parchè ti gh’ha encontràto mí, Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 57 parchè par légge se dise che quando un asino sénsa padrón encóntra un padrón che no’ gh’ha l’asino, el so’ asino ol devénta lü… Sì, vòjo dire che lü devénta l’asino… no, vòjo dire che… ’nsòma, lü devénta el padrón de l’asino che no’ gh’ha el padrón. Mí son el tò padrón. Sèt conténto? (L’asino fa cenno di no) No’ te sèt conténto?… Ma parchè? (L’asino se ne va caracollando per la scena) Végne qua, sii bòn… sii bòn veh! Végne qua! Obedìse!! (Afferra un bastone e colpisce l’asino) Végne qua sübeto parchè se no’ devénto una bèstia!… Mí son el padrón! (Sbracciarsi del sedicente padrone e ragli di protesta dell’asino che scalcia, fa volar via il bastone dalle mani di Arlecchino, quindi, serrando le mascelle a tagliola, lo afferra per un orecchio e lo trascina a terra) Ahi, ahi, ahi! Aìdo, aìdo, basta! Son mí l’àseno, tì el padrón! (I due compari che vestivano la pelle dell’asino si scoprono con una gran risata). RAZZÙLLO Ah, ah! ’N’artra sbolzonàta de cojóne! RAZZÙLLO-SCARÀCCO (Danzando) Arlechìn, batòcio, zervèlo d’una gaìna, e côr de un peòcio… Ah, ah… (Sempre cantando e facendo piroette escono di scena) Zompa, zompa a lo pendajóne, Arlecchino è ’nu gran cojóne, lu ce vulìva lu ciucciarièllo e s’è innaffiato cu’ lu pisciariéllo, s’è beccato ’nu petacchióne, Arlecchino è ’nu quaquaraquà! ARLECCHINO (Tenta a sua volta di danzare per darsi un tono) Desgrasià, maledèto! Me ciàpen propri tüti per un cojón… Ma se pol vésser cossì baltrón? (Piange) Me ciàpen tüti ’me un tamburo… (Afferra il bastone da terra e, soprapensiero, colpisce le palle di sterco dell’asino che sono rimaste in scena. Ne fa volare qualcuna in platea) Bòja!… l’è cossì che l’è nato el golf! (Riprende a commiserarsi) Ma son propri un cojón. Me fan uno schèrso e mí sübeto ghe vago dentro. Eh, ma no’ se pol andare avente cossì. (Risoluto) Adèso basta, el pròsimo schèrso che me fano, no’ ghe casco miga! (Gridando minaccioso) No’ ghe casco! Se me fan lo schèrso pi’ tremendo, varda… pitòsto me cago adòso! Bòja, me smèrdolo!… ma con ’na dignità tremènda! (Esce di scena con passo tronfio). Entra il banditore. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 58 BANDITORE State in ascolto, gente di questo quartiere! Da questo istante state bén asserràti nelle vostre case di poi che un lióne arrabbiato e famélico… (Dal fondo scena entra un leone che si avvicina al banditore di soppiatto) è fuggito dal serraglio dello soltàno che se ne stava in sua nave in lo porto. Isto lióne s’ha già isbranàto lo guardiano e doe persone sane. State bén asserràti nelle vostre case, gente, fino a che non sarà pijàto isto lióne. [Tav. 43, «Il banditore e il leone»] Il leone azzanna il braccio del banditore e glielo stacca di netto. Quindi se lo divora. Il banditore urlando esce di scena. Anche il leone si allontana. Entra Arlecchino. ARLECCHINO Ohéh… ol gh’avéva rasón el mè compàre Ganàssa quando diséva: «Eh, Arlechìn, sia bén ciaro che ogne òmo ol se fa de lü mismo… Ol caràctere de ógne òmo ol se fàbrica dentro in t’el zervèlo…» A l’è questión de costànsa, a l’è questión de criàrse, ciaro, in te la crapa: «Arlechìn, a sèt un bravàso de coràjo, Arlechìn, a se’ una tempesta, ohé! Arlechìno, un teremòt!» E po’ l’è questión anca de ’mprontàrse ’na fàcia de diavolàsso catìvo, tremènda, ’na camenàda de schìscia palón! (Mima una camminata da gradasso) Varda chi, ’na catapùlta! ’Na catapùlta umana! (Arlecchino va a sbattere contro un uomo che entra in scena correndo. È un beccaio che tiene sottobraccio un paniere ricolmo di carne e salami. Nello scontro il paniere cade a terra) Ohi… cossa ti fa’, desgrasià? Ti va intórna sénsa gnanca vardà ’ndóve te mete i piè… BECCAIO Perdonéme… ma l’è stàit par lo spavénto… (Indica alle spalle di Arlecchino). ARLECCHINO Spavénto? De mí? Ti gh’hai spavénto de mí?… (Gli si avvicina) Tranquìlo… végne chi… (Alle spalle di Arlecchino, dalla quinta, si affaccia il leone. Arlecchino non se ne rende conto). BECCAIO No, per carità! ARLECCHINO Ma no’ te tòco! No’ te tòco! (Il beccaio è terrorizzato) Végne, no’ te magno miga! BECCAIO Aiuto! (Fugge uscendo di scena). ARLECCHINO Ma bòja!… (Al pubblico) Ah, funsionà, son treméndo! (Entra un altro uomo, Arlecchino lo chiama) Végne chi, vàrdame in fàcia, tì! (L’uomo scorge il leone che si erge rampante. Fugge urlando. Arlecchino, esterrefatto, si rivolge al Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 59 pubblico) Son tropo treméndo, bòja!… Fago proprio spavénto! (Raccoglie il paniere con tutto quèllo che contiene) Ohé, ecco el premio, el premio par el bravàsso… El coràjo premia! Adèso me magno comodo ’sta lüganega! (Si va a sedere sui gradini del praticabile) El primo che me végn a sfrugugnàm le bale, ghe staco i cojón mèsmi con le mie man… Voi vèsser tranquìlo. (Estrae dal canestro una salsiccia e se la muove davanti al viso come fosse un serpente) Pare viva, vèh, ’sta lüganega. (Alle spalle di Arlecchino il leone ruggisce. Arlecchino osserva sorpreso la salsiccia) El laménto de la lüganega… (Senza volgere il capo) Ahhh, v’ho recognossüo: Scaràcco, Razzùllo! Sèt vui ’n’artra volta? Che torménto, bòja! Prima me fèt ol schèrso del can, po’ quèlo de l’àseno, adèso quèlo del león… Ma sèt propri de’ rompicojón! Adèso féme de nòvo ’scoltà com’è isto rugìto, dài… LEONE (Emette un ruggito sommesso) UOAUHUOAH! ARLECCHINO (Ridendo) Questo sarèsse un ruggito de león? Questa l’è una rana con le adenoidi! Varda… el león se fa cossì, ’scolta: (Imita un ruggito) UOAUHUOAH!. LEONE (Emette a sua volta un ruggito fragoroso come un boato) UOAHHH! ARLECCHINO (Allocchito) Complimenti! T’è fàit un progrèso! (Il leone continua a ruggire. Arlecchino si volta a guardarlo e sobbalza) Ohi, che meravegióso costume… Oh… ma da ’ndov’è che végne? ’Ndov’è che l’avìt catà? (Si leva in piedi e lo tasta) Varda che pèle! La par de un león vero. (Gli afferra la coda) La côa! (Gira il capo disgustato) Anca la spüssa la par vera! (Gli sferra un calcio bonario) Adèso, Scaràcco e Razzùllo, via!… (Il leone riprende a ruggire. Arlecchino torna a sedersi sui gradini) No’ stéme a rompere parchè fin che se ziòga va bén, ma mí quando magno devénti ’na bèstia se i me tòca. (Estrae salumi dal canestro) Varda, el parsütto lo magno dopo, adèso me magno un salamìn pìcolo pìcolo… (Il leone copre con i suoi ruggiti la voce di Arlecchino e addenta il salame) Te gh’avévo avertìt che po’ devénto ’na bèstia! Adès te sgagno ’n’orègia… (Si avventa contro il leone e gli addenta un orecchio. Il leone molla il salame lamentandosi per il dolore, poi reagisce e si mette in posizione rampante) Te sé rivòltet a mí?… E alóra: cojóni! Varda qua, una bèla intorcicàda de cojóni… (Gli afferra i testicoli; il leone emette guaiti penosi) No’ t’è piasüa, eh, la strisadìna de cojóni? (Il leone a terra si dimena e si lecca le parti Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 60 strizzate) No’ piàgne, no’ piàgne, varda, fémo la pace… (Afferra dal canestro due cotechini) La pace de’ salamìn! Alóra: a tì Scaràcco , che te sét ’nte te frico un salamìn in bòca (Esegue); a tì Razzùllo, che te sèt de drio, l’altro salamìn… (Gli solleva la coda e ficca il cotechino nel sedere. Ruggito del leone, stranamente acuto sul finale) Ah, no’ te piàse? Ah, Razzùllo, no’ te piàse i schèrsi?… Ve piàse soltanto fàrgheli ai artri… «Zompa, zompa…» (Ballando e cantando, fa il verso ai due amici che crede nella pelle del leone. Entra in scena Franceschina che, vedendo il leone, dopo pochi passi si blocca terrorizzata) Se gh’è? Franceschina… FRANCESCHINA (Con voce strozzata) Oh, deo santo! Arlechìn, scapa! A gh’è una bèstia feròze. No’ te mòvere! No’ parlare! No’ respirare! [Tav. 44, «Arlechìn, scapa!»] ARLECCHINO (Finge di non rendersi conto del leone che sta alle sue spalle) Podo almeno cagàrme adòso sénsa far rumòre? (Si gira) L’è quèlo? Ti m’ha spaventà. A l’è un lión. Altro che bèstia feroze! (Il leone si sdraia a terra mugolando e si lecca una zampa) Oh, pòer lión… el gh’ha una spina nel piè. (Rivolto al pubblico) La sfortüna che gh’han i lióni! Tüte le spine che gh’è intórna… ZAC! se infílsa dentro al so piè! (Sottovoce al leone, dentro la pelle del quale è sempre convinto stiano i suoi due compari) Bravi. Continuèt cossì. Fèime un piasér, Razzùllo e Scaràcco, stèt al ziògo… féme far una bòna fegüra con Franzeschìna, che po’ ve regalo un tòco de carne par un… (Mima di togliere una spina dalla zampa del leone) Ecco la spina! FRANCESCHINA Sàlvate Arlechìn!… (Il leone si fa rampante) Madre, me punta a mí! Me zompa adòso! ARLECCHINO No, Franzeschìna… no’ farte pagüra… ghe son chi mí! A ’ste bèstie besógna savér come catàrle. Varda, se ciàpa la côa, la se slónga, e po’ la se gira… (Arlecchino afferra il leone per la coda e gliela torce facendola girare come fosse una manovella. Canta) «Oh, che bèlo l’organéto che faséva far l’amore…» (Il leone dimena il sedere assecondando Arlecchino). FRANCESCHINA Arlechìn! No’ imazinàvo mí che tì te gh’avésse tanto stòmego! Atènto de no’ farte sgagnàre… ARLECCHINO Sgagnàre a mí? Varda, varda cosa ghe fago: ghe infìlo la mano ne lo stòmego… (Infila l’intero braccio nelle fauci del leone) Ah, ah!… ghe la infilo de qua e la végn föra de Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 61 là! (Dal sedere esce la mano dell’attore che sta dentro il leone) Varda, ol pare un gatón. (La mano afferra la coda e la fa roteare). FRANCESCHINA Oh, Arlechìn, perdòneme si te gh’avévo credüt un cagasòto! No’ gh’ho mai vedüo nisciùn cussì bravóso de coràjo, mí. Te ghe vòj un gran bén, Arlechìn méo caro. (Si avvicina ad Arlecchino, ma il leone le ruggisce contro; Franceschina retrocede spaventata). ARLECCHINO A l’è gelóso! (Il leone si struscia contro Arlecchino) Oh… quante pürese! (Le acchiappa con le unghie e le schiaccia, con la perizia e la velocità d’una scimmia). FRANCESCHINA (Verso la quinta, gridando) Razzùllo, Scaràcco, vegnìt a véder cossa l’è bòn de far el mé Arlechìn con un león. (Esce). ARLECCHINO (Scuote la mano a liberarsi di qualcosa) Che bava! T’è magnà de le lümaghe crüde? (Gridando a Franceschina) No’ ghe son ’sti dòi mè compari… A sont ’ndàt par de là col traghèt… FRANCESCHINA (Entrando) Ma cosa ti disi, via col traghèt? I sont là in sül ponte… Vàrdali! (Gridando) Razzùllo, Scaràcco… (Chiamandoli, esce di scena). ARLECCHINO (Osservando meglio nella direzione indicata da Franceschina) Eh già, ghe sont lori! Ma alóra… chi gh’è deréntro in ’sta pele a fa’ ol lión? Chi gh’è? (Spalanca la bocca del leone e ci guarda dentro) Ohi, chi sit vui lì derènter? Vegnìt föra… feve cognòsse. At sèt tì, Burattino? Responde! (Il leone ruggisce in forma d’eco) A gh’è l’eco! Dài, no’ fa’ schèrsi! Fèit cognòsse! (Guarda sotto la coda e il leone scoreggia) Come non detto! Il leone esce di scena; entra Franceschina con Razzùllo e Scaràcco . FRANCESCHINA Vegnì a véder Arlechìn. (Si accorge che il leone non c’è più) ’Ndóve ol s’è casciàt ol león? ARLECCHINO L’è andàit a cagare un po’ de eco. FRANCESCHINA ’Sti to’ dói compari no’ ghe crede che tì, ol león, te lo fa balàre ’me un gato. ARLECCHINO Bòn, apéna che ol torna, ve fago véder. Elo là, varda, se spùlsa, l’è pièn de pürese. FRANCESCHINA Ecolo che ’riva… Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 62 SCARÀCCO Bòja, che león! Via, scapémo! ARLECCHINO Cagasóto! Che pagüra! (Canta a sfottò) «Zompa, zompa…» RAZZÙLLO (Appiattito alla quinta) E vulìsse véde! Chisto è uno lióne vero. S’è sbranato pure lo guardiano. FRANCESCHINA Ol cata un cavàl… ol sbrana!… Scapémo! Oh deo, sàlvame! Franceschina, Razzùllo e Scaràcco fuggono fuori scena. ARLECCHINO Ohh! Ol gh’ha magnà el cavàlo… e anca el carèto! Ma alóra a l’è un lión vero!! (Impietrito dalla paura, non riesce più a muovere le gambe. Il leone entra in scena, si avvicina ad Arlecchino, lo lecca, gli si struscia contro) Ol me asàgia… Se ghe piàso, ol me magna! (Il leone si accovaccia e costringe Arlecchino a sederglisi accanto) Gh’ho capìt, te devo spüresare. (Esegue. Rivolgendosi al pubblico) Morale: no’ l’è tanto del lión che besógna aver pagüra, ma de le sue pürese! Sulla canzone «Zompa-zompa» entrano in scena l’asino che caracolla, un orso con le ali da pipistrello, la grande serratura con chiave infilata, due spettri con cranio da morto. Tutti danzano intorno al leone che a sua volta balla ergendosi rampante. [Tav. 45, «Tutti gli animali»] Entra anche Franceschina che danza con Arlecchino. Alla fine tutti gli animali si scompongono: appaiono gli attori che gettano le pelli fuori scena. Tutte le maschere, agitando tamburelli e picchiando su grandi tamburi da tammuriata, danzano e cantano il finale. Zompa, zompa a lo pendajóne, Arlecchino è ’nu gran cojóne, lu ce vulìva lu ciucciarièllo e s’è innaffiato cu’ lu pisciariéllo, s’è beccato ’nu petacchióne, Arlecchino è ’nu quaquaraquà FINE (?) ARLECCHINO FALLOTROPO Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 63 DARIO (?) Ora vi racconto lo schema iniziale di uno di questi canovacci, quello dell’Arlecchino fallotropo o fallofalo, cioè portatore o esibitore di fallo. Arlecchino non sta mai fermo dentro a un personaggio: lo vediamo saltare da un giudice dentro un boia, un capitano, un turco; diventa una donna, poi un laido affarista e via dicendo…Con il fallotropo, ci troviamo davanti a una particolare chiave del personaggio di Arlecchino, una delle poche volte nelle quali lo incontriamo come un servo e, per giunta, di un padrone nobile, importante: il Magnifico. Questi è la caricatura del «magnifico» per antonomasia, Lorenzo il Magnifico; ed è anche il prototipo di un’altra maschera, il mercante Pantalone. Tutti e due, il Mercante e il Magnifico, sono personaggi deprecabili, e deprecati, nella Commedia dell’Arte. Il primo è rozzo, mentre l’altro è tirchio. In questo canovaccio compare appunto il personaggio del Magnifico, uno che ha distrutto tutto quanto possedeva: non soltanto gli averi che gli hanno passato gli avi, ma anche la propria forza morale, la propria generosità e, soprattutto, la propria potenza sessuale. È spompato, tanto da non essere in grado di avere un rapporto con una donna, e si preoccupa di accentuare la propria forza ingerendo una pozione che si è fatto fabbricare da una fattucchiera. La megera consegna una fiaschetta con la pozione «miracolosa» ad Arlecchino e lo prega di non propinarne più di un cucchiaino al giorno al suo padrone, altrimenti il sesso gli aumenterà via via… tanto da arrivare a scoppiargli in modo orrendo. Arlecchino con la fiaschetta miracolosa se ne va all’osteria. Beve, tracanna vino in quantità, si ubriaca, e ciucco com’è si beve anche la pozione. Dopo qualche minuto sente il suo sesso aumentare di volume diventando via via enorme, una cosa di dimensioni orrende, che spinge… spinge tanto da spaccargli la cintura… saltano anche i bottoni dei pantaloni e arriva a premerlo sotto il collo… Dentro questo canovaccio abbiamo trovato annotazioni incomprensibili. A un certo punto si legge: «lazzo delle donne che arrivano, lazzo di Arlecchino che si vuol camuffare, lazzo della pelle appesa a essiccare (pelle di gatto), lazzo delle ragazzine che vogliono accarezzare il gatto, lazzo del cane, lazzo della pelle gettata, lazzo di Arlecchino che ritrova le bende di fantolino, fasciatura del fantolino, ninna mento del fantolino, lazzo di Arlecchino che vede altre donne e ragazze arrivare, le donne vogliono ninnare il fantolino, Arlecchino si difende a più non posso, ma le donne riesono a Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 64 sopraffarlo avventandosi sul fantolino: esplosizione del fantolino». Abbiamo ricostruito questo pezzo, che ora vado a eseguire in una pantomima abbastanza veloce. Inizio dal momento in cui Arlecchino si ritrova a trangugiare beato e felice la pozione. La pozione fa subito un effetto terribile, ed ecco!… di qui comincia l’azione. (Canta in grammelotte) Canto del XVIII secolo per ubriachi solisti! ARLECCHINO FALLOTROPO (eliminare questo titolo?) Arlecchino entra in scena cantando, mima di avere due fiaschette in mano e ogni tanto beve dall’una e dall’altra. ARLECCHINO Va’, vaghe, che bón ’sto vin, düls e stagno che mé fa i galìti ai büdèi e che me scarligà giò in fondo a la panza fin ai cojómbari cünt ol bindorlòn fin a le orègie de fam stciupà… (Rivolto al pubblico) Canto del XVII secolo, bergamasco, per ubriachi solisti. (Continua il suo canto, in grammellotte, all’improvviso mima di osservare le due fiaschette… di colpo si rende conto dell’equivoco) Ohi, bòja, la poziün, la poziün in dua l’è fornìda… l’ho bevùda, l’ho ciüciada tüta… Cojùn, gh’ho bevùt tüto ol vin… e anca la posión… Bòja che calór che végne… (Guardandosi il bassoventre) Fermo! (Mima lo sforzo di arrestare la crescita del fallo) Basta così, fermo brigante! Va’ che göba! Pom! M’ha stacà i botón… No, mi strozzi! (Sempre più impegnato ad arrestare la tremenda crescita del fallo) No, te me stròset! Strosàt dal proprio figlio! Dóe ghe nascondo ’sta göba… Come ol nascondo ’sto birbànt borioso? (Si guarda intorno e mima di vedere stesa su una corda una pelle di gatto) Ohi, chi gh’è… una pèle de gatto… ah, pèle de gat apendùda a ’siccàre… (Mima di afferrarla e di avvolgere il fallo nella pelle del gatto) va’ che bela pèla, va’ che bel gatto, proprio de la mia misura (Si siede su uno sgabello e tenta di accavallare la gamba ma l’ingombro del fallo e della sua appendice, non glielo permettono) MMIIAAAO! (accarezza il «gattone») MMIIIIAAAOO! che gattasc! (In grammellotte e azioni mimiche fa immaginare l’arrivo di un gruppo di donne) Bongiorno segnóra, gh’ho un gato, me piàse i gati, vo’ mato mí per i gati, gh’ha una cóa ’sto gato… Ve piàse i gati sióra? No, dona, me dispiàs ma ’sto gato non se toca… anca ti tosèta no’ tocàre ol gato… l’è selvatico! Le fiolète no’ toca i gati! Questo Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 65 po’ l’è un gato rognóso… tremendo! Bambinèta, no! l’è un selvatigo che, se te ghe det una carèssa, tira su tüto ol pelo… No’ lo pòdo dare in brasso a nissùno! (Mima di subire l’aggressione di un cane) Un can, bòja un can (Imita l’abbaiare di un cane) UAA! UUAAA! UAAAA! (Lancia un urlo) Ahia, oahia, ahaaa! Boja, che sgagnàda! Ahia, che mal! Ohi, che dolore! Ohi, ahia che sgagnàda! Maledisiùn! Ahiaiaiai! (Mima di gettare lontano la pelle del gatto) Via la pel! Ma perchè i can ghe l’han tanto coi gati… m’ha sgagnà dapartüto! Arìva de l’altra zénte, arìva dòne, arìvan dòne dapartùto… se son date l’apuntamento proprio qua per vedé i gati. (Mima di afferrare una lunga fascia appesa a un fantomatico filo) Varda come son fortunàdo… bende de fantolino, le fasse, no’ gh’ho mai fassa’ un fantolin, (Mima di avvolgere il bambino nella fascia) sarà cussì, me l’avessero insegnàt… va che bela fassadüra, adesso che fo’ una gala… Miiaaaooo! Miaaaooo! Ah no, boja no’ fa mia inscì ol bambin…. (Lo culla canticchiando come volesse addormentarlo) Nana bobo’, nana bobo’, tüti i bambini dorme ma questo no!… Bongiorno signora… l’è ol me’ bambin, apéna nato… no’ so se me asomégia… Se l’è un màstcio?… Sì, sì l’è un màstcio! No’ se nina cussì? E come si nina. Se sta fermo col busto e se nina soltanto co’ le brassa? Ma mí ghe son cussì taca’ a ’sto bambìn che no’ pòdo… (Mima l’ insistenza delle donne e di ragazzine che insistono per prendersi in braccio il fantolino) Ma fiolèta, prima te vulévet el gato adèso ol bambìn? Ma no’ te vergogni? Va via, su, no’ se tócan i bambin! No’ signora no’ ghe lo dago in brasso a nisciùno! (Mima l’assalto delle femmine che ad ogni costo vogliono prendere in braccio il bambino) No! No! Signora! Ferme! Boja! No! Nooo! (Mima lo scoppiar del proprio fallo) BUAAAM! A mè sctiopà ol bambìn! Come è bello viver de castrato! FINE (?) Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 66