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ARLECCHINO di Dario Fo Dialoghi originali Testo e traduzione a

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ARLECCHINO di Dario Fo Dialoghi originali Testo e traduzione a
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 1
ARLECCHINO
di Dario Fo
Dialoghi originali
Testo e traduzione
a cura di Franca Rame
Questa commedia è stata scritta per la Biennale di Venezia per
essere messa in scena nel quattrocentesimo anniversario della
nascita di Arlecchino. La prima rappresentazione di questo
spettacolo si è tenuta al Palazzo del Cinema di Venezia il 18
ottobre 1985.
[Tav. 1, «Venezia»]
Commedia dell’arte all’improvviso
La commedia dell’arte (SVISTA)
Personaggi
Arlecchino
Marcólfa
Isabella (Andreini)
Razzùllo
Scaràcco
Ganàssa
Sparavénto
Burattino
Toni
Balordo
Capocomico
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 2
[Tav. 2, «Le maschere»]
Prologo
Dario Fo entra in scena: veste un costume che riecheggia quello
di Arlecchino e si rivolge direttamente al pubblico.
[Tav. 3, «L’Arlecchino»]
DARIO: Il costume che indosso è quello del primo Arlecchino, e
noterete subito che non ho la maschera. [Tav. 4, «xxx»] Ci sono
stati dei critici che, la prima volta che sono apparso così, si sono
messi quasi a urlare scandalizzati: «Non ha la maschera!»
Evidentemente non erano al corrente del fatto che il primo
Arlecchino non era assolutamente mascherato, ma portava un
maquillage più o meno simile a questo che vedete ora sulla mia
faccia. [Tav. 5, «La prima “maschera” di Arlecchino»]
Il primo Arlecchino fu un grande comico italiano di Mantova, si
chiamava Tristano Martinelli, e si trovava in Francia con la
compagnia dei Geloso.
All’inizio Arlecchino era uno «Zanni in seconda», come veniva
chiamato, cioè di rincalzo, ma esprimeva un’irruenza a dir poco
sconvolgente e, soprattutto, di dimensioni completamente nuove.
Irrompeva sul palcoscenico buttando all’aria l’assetto della
commedia. Non rivestiva un ruolo fisso, il suo era piuttosto un
antiruolo.
Inscenava situazioni e gesti di una scurrilità e pesantezza brutali:
abbassava le brache di colpo e si metteva a defecare… Questo è
il termine «raffinato», non quello usato da Arlecchino. [Tav. 6,
«Arlecchino scurrile»] Naturalmente era tutto finto, non è che
eseguisse oscenità reali. Faceva anche pipì sul pubblico, quasi
sempre spruzzando acqua colorata. In mancanza di materiale
artificiale si accontentava di ingredienti naturali.
Insomma, provocava nel modo più sguaiato, urlando battute
scurrili che alludevano indifferentemente al sesso, alla fame, alla
guerra, alla morte, all’inferno… [Tav. 7, «Arlecchino sguaiato»]
Distruggeva ogni buon modo di pensare, ogni morale. Ecco la
giusta espressione: Arlecchino era fondamentalmente un
amorale.
Quelle sue provocazioni suscitarono indignazione e allo stesso
tempo gli procurarono un successo straordinario; con le sue
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 3
entrate oscene aveva rotto le tradizionali convenzioni dello
spettacolo.
Ma da dove nasceva quel suo sconvolgimento scenico?
Certo dai «mariazzi» della Padania del XV secolo, spettacoli
messi in scena dai contadini durante il banchetto nuziale [Tav. 8,
«Il mariazzo»], ma anche dalla tradizione francese che aveva
ispirato Rabelais e soprattutto i fabliaux dell’alto medioevo.
Se vi è capitato di assistere a qualche nostra rappresentazione del
Fabulazzo osceno, vi sarà rimasto in mente il gioco
scopertamente scurrile e nello stesso tempo poetico della
«Parpaja tòpola». Arlecchino aveva elaborato tutti quei temi e ne
aveva mostrato il risultato dirompente addirittura davanti alla
corte di Francia, presenti il re e la regina. [Tav. 9, «Re e regina»]
Le loro maestà godevano immensamente nell’assistere alle
reazioni sconvolte dei cortigiani e incitavano in ogni occasione
Arlecchino – Tristano Martinelli – a caricare sempre più di follie
le sue esibizioni. Soprattutto la regina stravedeva per questo
nuovo genere che suscitava indignazione e orrore nei nobili
carichi di sussiego, e dimostrava un’enorme simpatia per il
comico, al punto da tenere a battesimo il suo primo figlio. [Tav.
10, «Regina di Francia e Arlecchino con figlio»]
A questo punto è d’obbligo affrontare un luogo comune, una
banalità che continua a dominare nei licei e nelle università, cioè
quello secondo cui i comici dell’arte fossero una masnada di
zingari cenciosi che si spostavano per l’Europa a bordo di
carrette cigolanti, con le loro donne e una turba di bimbi, guitti
di grande genialità, ma inesistenti sul piano della cultura e della
coscienza civile. [Tav. 11, «Il presunto carro dei comici»]. Si
tratta di un errore madornale. La compagnia in cui si esibiva
Tristano Martinelli era composta per un’alta percentuale da
quelli che oggi chiameremmo intellettuali. Il capocomico
dimostrava una grande preparazione umanistica e scientifica. Lo
stesso Martinelli poteva vantare studi di legge e una notevole
conoscenza dei classici.
Giuseppe Domenico Biancolelli, il comico della commedia
all’italiana che sempre in Francia rivestì i panni di Arlecchino
dopo Tristano Martinelli, era, oltre che un uomo di cultura, un
acrobata inimitabile. [Tav. 12, «Vola nell’aria come se ci fosse
nato»] Di lui Molière diceva: «Vola nell’aria come se ci fosse
nato!» Inventava o elaborava da sé i canovacci traducendoli in
commedie compiute grazie a una regia scientifica e fantastica
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insieme. Con lui la maschera di Arlecchino cessa di essere
stereotipo fisso del servo inaffidabile e truculento per adattarsi a
decine di tipi disparati e diversi: Arlecchino giudice corrotto o
irreprensibile, Arlecchino inquisitore, Arlecchino tartufo,
Arlecchino Don Giovanni o servo di Don Giovanni, Arlecchino
sbirro, Arlecchino furfante e marinaio e, per finire, Arlecchino
femmina. [Tav. 13, «xxx»]
Hellequin, Harlekin, Arlekin, Arlequin, Arlecchino sono i nomi
che segnano l’evoluzione di questa maschera nata in Francia, a
Parigi, verso la fine del Seicento: erano gli appellativi di un
diavolo, di un manigoldo pazzo, di uno Zanni bergamasco…
ATTO PRIMO
- DANIELA: Nel primo atto va inserita la scenografia? - NN CAPISCO DOMANDA IN QUANTO C’è LA DESCRIZIONE DELLA SCENOGRAFIA [Tav. 14, «Scena all’italiana»]
Scena all’antica italiana. Su ambo i lati del palcoscenico
spuntano le sagome di due case. Un largo praticabile attraversa
tutto il fronte scenico lasciando libero il proscenio che misura
quattro metri circa. Il praticabile ha una profondità di tre metri
abbondanti. Si accede a esso per mezzo di scale poste sui lati.
Sale lentamente la luce. Entra in scena Arlecchino suonando un
gran trombone le cui spire gli avvolgono il petto, seguito da otto
maschere (gli Zanni) che eseguono capriole, volteggi a ruota e
combattimenti con bastoni, schiaffi e pedate sui ritmi della
canzone «L’eroe».
[Tav. 15, «Arlecchino e gli otto Zanni»]
L’eroe, l’eroe, l’eroe, l’eroe
della vitto-o-ria sia adesso il nostro re
della vittoria il nostro eroe
l’eroe, l’eroe della vittoria sia adesso il nostro re
sia adesso il nostro re.
Ono-o-onor e gloria all’Arlecchin si deve
l’eroe delle nostre vitto-o-rie
sia adesso il nostro re,
il nostro eroe delle vittorie sia adesso il nostro re
sia adesso il nostro re.
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Al termine della canzone Arlecchino esce di scena,
contemporaneamente entra Marcòlfa con un secchio, spazzolone
e strofinaccio. Si pone carponi e inizia a pulire il pavimento.
Canta mentre gli attori continuano a esibirsi in capovolte e
acrobazie clownesche.
[Tav. 16, «Marcólfa col secchio sulla testa»]
[Tav. 17, «Marcólfa al lavoro»]
MARCÓLFA El mé amor m’ha ditto: «mí te amo»
e mí gh’ho respondü: «ma vatte a impìcca!»
Lü el m’ha ditto: «alóra mí te sgagno!»
e m’ha sgagnà lì proprio in sü la ciàpa!
El mé amore a l’è de Porta Négra
el gh’ha ’na bala triste e l’altra alégra…
El mé amore a l’è de Porta Lagna
el gh’ha ’na ciàpa slégna e l’altra stagna!
Larallalarallalarallà! Larallalarallalarallà!
(Finita la canzone guarda in platea e solo allora si accorge che
il pubblico è in sala e, spaventata, grida:) Oh madre! Ma sémo
mati? Ma chi l’è che gh’ha dervì el sipario! Gh’è tüta la zénte
insentàda che la varda… (Indicando gli Zanni) E questi che per
scaldàrse le zónte dei giàmbi e dei bràsi i fa’ lazi e strambolarìe!
(Li sospinge fuori scena) Föra, föra… (Ad alta voce verso la
quinta) Tiré el sipario, saré, che no’ l’è ancora tempo de
’cominciare… La sióra no’ la sta ancora impreparàda col truco…
tiré el sipario!
Dalla quinta di sinistra spuntano due mani gesticolanti e una
voce grida frasi incomprensibili in «grammelotte».
PRIMA VOCE-MANI (Come a dire) No’ l se pol minga.
MARCÓLFA Come, no’ se pòle sarà el sipario?
Da un’altra quinta si ripete il gioco «mani-grammelotte».
SECONDA VOCE MANI (Come a dire che si è bloccata la
rondella!) Gh’è egnù ol rodó.
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MARCÓLFA S’è incantà la rondèla? Ma mí no’ pòdo star a
lavare ol palco co’ la zénte che me varda… Ciamé qualchedün
che lo ’giusta… ciamé l’Arlechìno… [Tav. 18, «Le voci
chiamano Arlecchino»]
FUORI SCENA, A PIÙ VOCI Arlechìno, Arlechìno, Arlechìno!
Entra in scena Arlecchino.
[Tav. 19, «Arlecchino entra in scena»]
ARLECCHINO Ma ti se’ che gh’ho l’impressiùn che
qualchedün mé ciàma? Sento le voci!
MARCÓLFA Arlechìn, a gh’è sucedüt ’na disgràsia! S’è róto el
sipario e tüta la zénte l’è lì insentàda che la mé varda! E mí no’
pòdo lavàr par tèra parchè mé vergogno!
ARLECCHINO (Rivolgendosi al pubblico) Scusé, scusé! A gh’è
stada una disgràsia… S’è stcepàt tüto el sipario e adèso per
piasér dovarìsse voltàr la făcia da l’altra parte!… Parchè
altrimenti lée (Indicando Marcólfa) no’ la pòl lavorare. Alóra,
per piasér, volté la fàcia!… Sarìa come se ghe fosse a casa vostra
una disgràsia, che s’è stcepà la fenèstra e magari mí arìvi lì… mé
’pògio su la fenèstra e disi: «Sióra, vada tranquìla… de intimo…
la se dispòja pure che a mí mé piàse!» Voiàlter mé disé:
«Guardón vilàno!» Alóra, per piasèr, volté la fàcia da l’altra
parte! Gràsie.
MARCÓLFA (Guardando il pubblico) No’ i obedìse!
ARLECCHINO Voltéve! Volté la fàcia da l’altra parte!
MARCÓLFA (C.s.) Ubidíre! Vilàn!
ARLECCHINO I continua a vardare! Quèlo, adiritüra col
binòcolo! Vardón! (Minaccioso) Vardé che mí devénto catìvo!
MARCÓLFA Pejiór par vui! Adèso l’Arlechìno ol dovénta
catìvo!
ARLECCHINO Basta! Devénto catìvo! (Come avesse davanti
una grande lavagna, fa il gesto con le mani di cancellare il
pubblico).
MARCÓLFA Cosa te fèt Arlechìno?
ARLECCHINO I cançèlo tüti!
MARCÓLFA No, lassa stare…
ARLECCHINO (Pausa, guardando in platea) No’ i sparìsse!…
Come l’è difìçile scanzelàre la zénte!
MARCÓLFA Arlechìno, bisogna ’giustàr ol sipario. Te gh’ha
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’na scala lónga?
ARLECCHINO No, ma gh’ho un carèto.
MARCÓLFA E cosa te fèt cont el carèto?
ARLECCHINO L’è un carèto che avémo rubàdo in dol tiàtro chi
de fàcia. El gh’ha de le ròde con dei raggi… mí a ghe strapo via
tüti i raggi, ghe ne fo’ dei pioli… (Strappa i raggi delle ruote) i
meto tüti in fila e monto sü paso-paso, fino in zîma!
MARCÓLFA Ma dio, Arlechìno! Te se’ un finòmeno! Te se’
veramente capàze de montàr su i pioli e d’arivàr fino in alto,
sénsa i stangón laterali? Che bravissimo che te sèt, Arlechìno!
ARLECCHINO No’ son bravissimo… a son baléngo! Marcólfa,
gràsie! Te m’è salvà la vita! Che mí come un cojón a montavi
su’ ’sti pioli e quand’ero in çima: «No’ gh’ho i stangón!» (Mima
una caduta) BRAAAMM… mé stcepàvo tüto! Gràsie, mé
ricorderò de èsto to’ salvaménto! (Riprende a raccontare) Bón,
alóra vago al tiàtro in dove gh’avémo rubà el carètto, lì gh’hanno
’na scala lónga… a cato la scala, ghe strapo via tüti i pioli e ghe
li lasso lì, ciapo i dòi stangón, ghe infilo i mè ragi al posto dei
pioli. Così no’ mé pòden dire che gh’ho rubà ’na scala: gh’ho
rubà dòi stangón! (Ride ammiccando al pubblico) Che testa che
gh’ho, che zervèlo!
MARCÓLFA Ma de fato, caro zervelón, l’è che adèso quei del
tiàtro no’ gh’han pu’ ’na scala, ma sojaménte dei piròli butà per
tèra!
ARLECCHINO Che importa? Tanto loro la scala la non pol pì
adopràre…
MARCÓLFA Parchè?
ARLECCHINO Parchè ol sipario l’è brüsà!
MARCÓLFA Gh’è brüsa ol sipario? Quando?
ARLECCHINO Adèso! Gh’ho dàit l’órden al Ganàssa de
brüsàrlo! (Urlando verso la quinta) Ganàssa, t’è brüsà ol
sipario?
GANÀSSA (Da fuori quinta) Sì capo, ol brüsa!
ARLECCHINO Bravo! Qualsiasi cosa te ghe dise, lü obedíse!
MARCÓLFA Una corda lónga ti ghe l’ha?
ARLECCHINO No, ma gh’ho l’asino!
MARCÓLFA Cosa te fèt con l’asino?
ARLECCHINO L’asino che gh’era tacà al carèto! Quando
gh’avémo portà via el carèto, l’asino s’è metüo a piàgnere… Sét
come i piàgne sempre i àseni quando te ghe pòrtet via el carèto:
(Imita il raglio dell’asino) IIHII IIHIIHIII! Alóra gh’émo portà
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via anca l’àseno. Solo che a l’àseno gh’era tacà una corda che
l’era legàda al tiàtro. Noi gh’émo tirà la corda, ma ol tiàtro no’
vorséva vegnìre… L’è un tìatro stabile… Alóra émo catà un
picón e gh’émo strapàto via l’anèlo dal müro del tiàtro dove l’era
tacàda la corda. Adéso ghe tachémo l’anèlo, la corda e anca
l’àseno al nostro sipario… così che l’àseno ghe fa de contrapéso
e quando ariva in fondo: IIIHII, IHII!, capìmo che el sipario l’è
serà! (Esce).
MARCÓLFA Bravo Arlechìn! At sèt propri un genio!
(Rivolgendosi al pubblico) Sióri speciadóri, dòi minüt, el
Ganàssa e l’Arlechìno giüsteno el sipario… Mí no’ lavo in tèra
parchè mé vergogno… E po’ anderànno a scominciàre con el
prologo i sióri artisti. (Raccoglie gli attrezzi da lavoro e si avvia
a uscire di scena, ma viene bloccata dalle due mani gesticolanti
che già conosciamo, che spuntano dalla quinta accompagnate
dal solito vociare concitato in grammelotte).
PRIMA VOCE-MANI (Grammelotte come a dire che il primo
attore non è arrivato).
MARCÓLFA Cos’è? El primo actòr no’ l’è ’rivà? Oh, bòja!
Altre due mani spuntano da un’altra quinta.
SECONDA VOCE-MANI (Grammelotte come a dire che il
primo attore non verrà).
MARCÓLFA Come no’l végne? Cosa gh’è capitàt?
TERZA VOCE-MANI (Si ripete nuovamente il gioco manigrammelotte, come a dire «E’ in galera!»).
MARCÓLFA In galera? Dio, che disgràssia! (Al pubblico) Ol
primo actór l’è in galera… Alóra niente… me despiàse ma no’ se
fa né prologo, né spectàcolo… Andì a ca’ vostra. Buonasìra!
Entra Arlecchino che, rivolgendosi a Marcólfa,
concitatamente in grammelotte e finisce dicendole:
parla
ARLECCHINO El prologo te lo fe’ ti! (Esce).
MARCÓLFA Cosa? Mí dovarìa fare el prologo?… Mí? Ma si’
mati!? No’ son capàze de sprologàre! (Da una quinta si ripete il
gioco mani-grammelotte: è il capocomico).
ARLECCHINO (In grammelotte come a dire: «Devi
assolutamente fare tu il prologo!»).
MARCÓLFA No’ son capàze… Scapo!
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Entra in scena il capocomico.
[Tav. 20, «Ingresso del capocomico»]
CAPOCOMICO Marcólfa, non fare storie che tu sai pure di che
si tratta nella commedia imperocché in infinite occasioni tu l’hai
veduta. Dài, dacci di prologo.
MARCÓLFA Me scusa, siór capocomico, ma mí la comédia no’
l’ho mai vedùa in enfinìte occasioni, parchè mí son sempre de
drio durante la comédia ad aiutàrghe la sióra Isabella a calàrse i
vestimènti e a tiràrghe su le tètte con i peciòtti per fárghele
sodàte!
CAPOCOMICO Ma cosa vai a tenere simili discorsi in fronte
allo pubblico astante!
MARCÓLFA A mí, dèlo pubblico astante, non mé intèressa
negòtta. Me deve scüsà, ma mì son mica un’attrize, mì… Cosa
me interèsa a mí dèlo pubblico astante… Mì no’ pòdo vedér la
comédia parchè gh’ho da tirare sü le tètte a l’Isabella! El me
tégna chi… (Consegna al capocomico secchio e spazzolone) che
gh’el dimóstro… (Mima quello che va dicendo) Ciàpo una tètta
de l’Isabella e la fo’ sü, la fo’ sü, la fo’ sü, (Mima di arrotolare il
seno della donna come fosse una striscia di stoffa) e ghe mètto
una pèssa con la còla per blocàrghela. Po’ ciàpo l’altra tètta… la
fo’ sü, la fo’ sü: TAC!, àlter peciòt… E meno male che l’Isabella
gh’ha dóe tètte soiaménte, altrimenti, dovarìa cominciàr la
matìna presto a farghe sü e tètte… Po’ ciàpo una corda fina e ghe
légo i birighìgnoli…
CAPOCOMICO Cosa i sarebbe ’sti birighìgnoli?
MARCÓLFA I piró dei capèssoli! In italiano: birighìgnoli.
Ciàpo la cordèta, no’ tròpo fina, parchè se l’è tròpo fina quando
ghe fo’ el nòdo se staca el birighìgnolo… e l’è una roba orénda!
Po’ la cordètta la paso de drio… la paso su le spalle, la paso de
sóto, e po’ ghe do una tiràda… e a gh’è una montàda de tètte mai
vista al mondo! (Indica la base della gola) Ghe ’rìven chi… Dòi
gozzi! L’è belissima! La se sciüga le lacrime parchè l’è
un’operasión dolorosa! Poe, con rispèto parlando, la volto de
drio e fo’ lo mîsmo lavoro con le ciàppe. Con le ciàppe però l’è
un lavoro de concetto… le ciàppe i son pesànte… A ciàpi ’na
corda grossa un dito… (Mima di legare una natica) faso sü ’na
ciàpa… l’altra ciàpa… tiri sü… ghe fazo ’na bèla gobètta…
CAPOCOMICO (Interrompendola) Basta, basta, Marcólfa, che
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 10
non si va a discorrere di certi argomenti in fronte allo pubblico
audente!
MARCÓLFA Parchè? No’ l’è mica ’na roba schifosa lavorar de
tètte e de ciàppe! (Guarda in platea) Ho sentì tante dòne che
faséa ridàde parchè son contente che mí son chi par loro!
(Alzando la voce) Dòne, se qualchedüna gh’avèsse de bisógn de
la levata de tètte e de l’alsabandéra de le ciàppe, son chi! Anca i
òmeni… se gh’avìt qualche còssa de tirar sü… mí sónt a
disposisióne. Dòi baiòcchi soltanto!
CAPOCOMICO (Riconsegna alla donna secchio ecc.) Basta! Ci
vuoi dare di prologo, per favore?
MARCÓLFA No, mí no’ pòdo… no’ son capàce siór…
CAPOCOMICO Tu sei bravissima! Tieni una fantasia
straordinaria e nello mismo tieni pure le physique du rôle!
MARCÓLFA (Spaventata) Cos’è che gh’ho mí, sióre?
CAPOCOMICO Le physique du rôle! Forza Marcólfa! Vai col
prologo! (Esce di scena).
MARCÓLFA (Al pubblico, preoccupata) Se l’ha dit che
gh’ho?… I figh in su l côl? L’è mato? No’ l’é neànche la stagión
dei figh! A l’è la personalità pusé importante de la compagnia,
ma l’è mato! Gh’avét sentìt come ol parla? «Imperocché!
Immantinente! Al pubblico astante!»
Farò el prologo parchè lü el mé comanda de farlo… e se mí no’
fo’ quèl che dise, mé càscia via. Mèti giò i mé arnesi del mesté…
(Si avvicina alla porta di destra e passa in quinta secchio
strofinaccio e spazzolone) Sunt emosionàda… che mí no’ gh’ho
mai parlà con tanta zénte che no’ cognóscio… (Sta per iniziare il
prologo, ma, scorgendo in platea due spettatori ritardatari, una
ragazza e un giovane, li apostrofa dicendo:) Oh… buonasìra!
Sémo un poco in ritardo eh! Buonasììììra! S’éri qui in pensiero…
preocüpàda… me disévo: «’Riverànno ’sti nostri cari amìsi?»
Sun cunténta che sèt ’rivà! (Al pubblico) Avét vist come son
vegnu avanti in mèso a la sala?… Ma disi… mezz’ora de ritardo!
Un végn avanti… cerca de mimetisàrsi un poco, no? Ol camìna e
fa finta de vèsser una poltrona… così: (Mima una camminata da
seduta). Loro no! Testa alta, petto in föra, pancia in dénter!
(Rivolgendosi ai due) Cosa simo? I padroni del tiàtro? (Indica il
giovane) Va, che bèl fiulèt. Bèlo! Anca lée a l’è una bèla
tosèta… (Si rivolge ai due) Ghe ’vèt dàit la mancia a la maschera
che v’ha ’compagnàto al pòsto? Quanto te gh’è dàit?… Che
avarìsia… spilòrcio! Bèlo, ma avaro!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 11
Entra il capocomico.
CAPOCOMICO Ma che vai a importunare lo sopravvenuto
pubblico con queste domande scostumate?
MARCÓLFA Importunà? Ma cosa el dise, siór capocomico… li
ho metüdi a loro agio con el publico!
CAPOCOMICO Dacci di prologo! Piuttosto, hai tu visto li me’
occhiali in qualche loco?
MARCÓLFA Sì, li gh’ho vedüi ne la lògia de la sióra Isabella…
ieri… [Tav. 21, «Marcólfa con gli occhiali»]
CAPOCOMICO Ma che m’importa di ieri? Enfino a un istante
fa li tenevo in su appicciati allo naso per sbirciare lo canovàzzo!
MARCÓLFA Li avrà lasciati in sü allo canovàzzo!
CAPOCOMICO Ah, brava! (Cambia tono: seccato) Ma non ti
sortire con ’ste ciancerìe! Lo canovàzzo lo tiéngo costì nelle mie
mani!
MARCÓLFA Sit vui che dovét savére dove li avìt lassàti… Se
gh’entri mí? Son mica l’addetta ai so’ ogiài mí! Mí lavo in tèra,
tiro su le tètte e le ciàppe, e basta! Son responsabile solamente de
la carna, mí!
CAPOCOMICO Allora tu ci rifai con le ciancerie! Imperocché
anche se io lo savèssi in dove stanno ’sti miei occhiali, nulla me
verrebbe in vantaggio, imperocché senza occhiali non vedo
punto! (Guarda in platea) Nello medesimo proposito, vi è di
molto pubblico?
MARCÓLFA Pieno! Son ’rivàti anca quèi due che s’éremo in
pensiero! El faga una roba, siór capocomico, vaga a comperàrse
un àlter para de ogiài, cossí con quèi novi pòl trovare quèi vègi
che l’ha perdü!
CAPOCOMICO E a te arrisémbra che li occhiali te li gettano
addietro come si costuma con li confetti? Mettici poi d’aggiunta
che io li vo’ a smarrire almanco dieci volte allo giorno… se per
ogni occasione dovessi comprarne uno paro sano, starei fresco!
MARCÓLFA Oh, esageràt! Mica ghe n’ha bisogno una cassa de
ogiài!
CAPOCOMICO Ma che ti cianci la cassa… ma di due para è
certo! Uno per vederci d’appresso e l’altro per vederci da
lontano…
MARCÓLFA No, guardi che no’ serve che sian dòi para… V’el
dimostro: imaginémo che gh’avìt perdü i ogiài par vedérghe da
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 12
luntàn e che portìt sül naso quei par vedérghe da visìn… Se
càpita che i ogiài par vedérghe de lontàn i sont lontàn… vui coi
ogiài par vedérghe de visìn, no’ ghe arivét mica a védar quèli par
vedérghe de lontàn che son lontàn. A meno che vui non purtét
sémper tacàt sül naso i ogiài par vedérghe de lontan, cossì, anco
se avìt perdü i ogiài par vedérghe de visìn e ve càpita la
desgràssia che i ogiài par vedérghe de visìn son talmente visìn
che con i ogiài par vedérghe de lontàn no’ riusìt a vederli parchè
son tròpo visìn… alóra lü doverìssa andà indrìo, sempre pü
indrìo dal punto ’ndóve ha lassàt i ogiài par vedérghe de visìn,
fino al momént che coi ogiài par vedérghe de lontàn, reussìt a
véder i ogiài par vedérghe de visìn.
CAPOCOMICO Basta, che mí fai andare in giostra lo cervello e
nello mismo la vista! (Esasperato, esce di scena).
MARCÓLFA L’ho mandàt föra del rìgolo… Son propri
contenta! No’ lo pòdo véder. Beh… farò ’sto prologo… Che
emosiüne!… Donca, a l’è ’na comédia bèla, ma bèla… da ridere
e da piàgnere… de scambi, de travestimenti, de sesso, de
sporcelénterie. Cosa ne fann!… E de püres… pullici… pulci.
Gh’è un òmo che tüti ciàmeno «El Magnifico» par tòrlo in giro
parchè de magnifico quèlo gh’ha proprio niént. L’è un vècio,
passìto, brütt, sénsa dané… un ex nobile spiantàt! Ròba da non
créderghe, el gh’ha ’na mié ammò bèla, zióvane, nobile, che tüti
ciàmen «Contèssa Isabella». Ma a dir la verità, no’ se vede tanto
che ’sta contèssa Isabella l’è bèla, parchè la va sempre in ziro
strepenàda, vestìda de négher, la piàgne da la matìna a la sira, la
va sémper in gésa a pregà e la camìna ’mè un camèl. La prega, la
piàgne e la camèla da la matìna a la sira. (Mima la camminata da
cammello). La se sconsüma d’amore parchè el so’ marito
Magnifico sbolgirón no’ ghe fa pü i preamboli d’amore in d’el
lèto. Per la verità, no’ ghe fa nemanco i deàmboli d’amore in
d’el lèto… nemanco i triangoli! No’ ghe fa negòta in d’el lèto, né
la varda, né la tóca! Un ziórno l’Isabella contèssa camelóna la
végn a descovrìre che el so’ marito Magnifico s’è inamorà de
una cortizàna, la famosa pütàna Eleonora, detta Strizzamàstci!
’Na parüca rossa fiamegiànte sü la testa… góte (Cerca la
parola) imp… imporpuràde… rosse… due tètte e due ciàppe
d’oro!… che ghe i fo’ mí con la corda… e la camìna che la par
un galeón che va per mare, con le ciàppe che sbatüscia de chì e
de là! (Imita la camminata) L’Isabella… l’è desperàta! «Mi
masso, mi masso!» Po’ de colpo la cambia idea e la fa: «Ma mí
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 13
son mata? Parchè mé devi massà mí? Vo’ a ca’ de la ’Leonora e
la massi a lée!» [Tav. 22, «Mí la massi a lée!»] E camelàndo,
camelàndo, la va a casa dela Eleonora pütàna. Ol destìn vòle che
apéna la entra in della casa, se imbatìse propi in della Eleonora
che la si era apéna levàta dal lèto! No’ crede ai so’ òci: ’na fàcia
slavàda, quàter cavèi desgrassià sü la testa… tètte e ciàppe…
nulla! L’era andàda a dormire e la s’era deslassà i curdùn. La
frana notturna!
L’Isabella la fa: «Scüsa, lée la sarèsse la famosa ’Leonora
pütàna?»
«Sì, sont mí! Molto piazéééére!»
«Molto piazére un casso, cara pütàna ’Leonora! Molto piazére li
mè’ cojóni!» (Rivolgendosi al pubblico imbarazzata) No’ la dis
pròpi ’ste parole chì, l’atrìze… l’ho dìte mí per render mejór ol
concetto… (Pausa. È perplessa) Eh… l’è mica facile racontàre i
comédi eh! (Riprende sul tono di racconto) «Molto piazére li mè
cojóni!» L’Eleonora la dise furente: «A chi, molto piazére li mè
cojóni?» Insomma, un po’ de cojóni de chi e de là: dialettica
femminile! Po’ l’Isabella la fa… (Si interrompe per rivolgersi al
pubblico) L’è una scena! A mí mé piàse! La guardi sémper…
(Riprende a recitare) «Ma come? El mè marìdo mé tradìse con
quèla vècia lì, tüta sderenàda… che mí son ancora in del fior dei
anni! Ah, ah!» La comincia a rìder 'me ’na mata… (Pausa)
L’Eleonora no’ ride niente… la gh’ha un giramento de balle! La
dise: «Come? Son qui, in casa méa… la matìna presto… mi si
insultísce!» (Al pubblico) Come l’è brava! Però besógna dire che
l’Eleonora l’è una pütàna… ma l’è una ragàssa bravissima!
Generosa… de còre… la dà via proprio tüto! L’è una ragàssa che
razióna giusto… e la dise: «Ma sì, l’è véra, mí son vègia, ti a sèt
pü bèla de mí…» e la ride anca lée. Le due dòne fan amicìsia, e
fan coménto de come son cojón i òmeni. Quèla scena l’è molto
gradita da tüte le dòne che stan in platéa. Bàton i man e dìsen:
«L’è vera! L’è vera!» Ier sira a gh’era ’na sciùra che l’ha dit:
«L’è vera, gh’ho portà chi el mè marito come testimone!»
(Pausa, si compiace. Riprende) La ’Leonora la decìd de far un
gran schèrso al Magnifico cujùn marito de l’Isabella: «Te
travestirò de pütàna ’Leonora, così te farét l’amore con el to’
marìo, sénsa che lü se ne incòrga, e, per compenso, te darà anca
dòi fiorini d’oro de la tòa dote!» «Ah!» la fa l’Isabella «son
contenta, così torna a casa quàiche cosa!» Insomma c’è felicità!
In quèl mumènt lì la ’Leonora la bat i man e entri in scena mí
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 14
che son la servèta… no’ parlo ma opero: el mè solito alsabandéra
de le carni. Entri e disi una batüda sola, ma fo’ la méa figura…
A disi: «Desbiòttate, signora contèssa!» La disi benissimo… mé
fan sémper i complimenti! Una sira che a gh’era giò el mè
murùs, per far plü bèla figüra, mé son slungàta la parte. Ho dit:
«Desbiòttate, signora contèssa… per piazére!»
EUH! Le due atrìzi m’han fato una scenàtta! Mé gh’han dit:
«Nun ce se slunga la parte, eh!»
I dòne atrìzi in mate! Beh, alóra lée la se mete tüta sbiòta e mí
fo’ l’alsabandéra mio solito. Po’ ghe metémo la paruca rossa de
la ’Leonora, l’abito de pütàna e po’ la ’Leonora la fa: «Adéso
basta, mia cara contèssa, de caminà come un camelón, eh! Se
camìna con lo scodinzolaménto de le ciàppe! (Cammina
ancheggiando vistosamente) E uno e due… alenàrsi!» E lì
l’Isabella la fa ’na caminàda! La se sloga tüta el bacìno… Cume
se mòven i man devànti al nas del màstcio? Come farfalle
sensuali… (Esegue) Ma no’ ’nscì! (Si schiaffeggia le mani)
Cossì te ghe fé aria! Mèteghe un po’ de languore: e uno e due!
Come se fa la ridàda de oca giuliva? (Esegue) «Ahahah…
ahahah!» Loro la fan pròpi benissimo… a mí mé vegn male.
L’Eleonora la fa: «L’è importantissimo imparà a rider de scema.
Guai a farsi descovrìre intelligente dal màstcio! Ghe vien el
complesso de inferiorità e ol dovénta impotente!»
Come se piàgne con el singhiósso: (Esegue) euheuheuh! Fa
niente se gh’in no’ i làcrimi… importante l’è el singhiósso!
(Esegue) Euheuheuh!
Come se fanno le smorbièsse de spitínfia co’ l’òcio de
ingenuèssa: (Esegue) «Ahhh… oh nohhh… ohhh… (Agita le
dita a ventaglio all’altezza degli occhi imitando lo sbatter delle
ciglia) nohhh… quèsto no’ mé piàse… ohhh… nohhh… Ohhh,
che mal de panza! Oh, che dolor del capo… Me vien de
vomigàre (Esegue): BUHOPP!»
El conato de vomito al momento giusto l’è una roba d’un
eroticìsmo, deo! (Esegue) BUHUOHP! Bello, grosso! Mí su no’
parchè, ma i òmeni divéntan mati par el conato de vomito… (Al
pubblico) Imparare, donne, imparare! Stasera alenàrsi, a casa
ehhh: BUHUOHP! Vedaré còssa ve càpita, vedaré! (Riprende la
lezione) Sospiri: hhh… hhh… Gemiti: ah… ah… Sospiri e
gemiti (Esegue): hhh… ahh… hhh… ahh… Slanguiménto
languido prolungàt: Eoàhhaua! Sospiri, gemiti, slanguimènto
languido-prolungato: Hhh, ahh, eoahh… (Chiude con un gran
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 15
conato di vomito) BUHUOHP! E, a quèl punto lì, el tò marito el
capìs pu’ nagòtta: te salta adòso, el te vór basàre, el te vór…
(Pausa con intenzione) al gh’ha el fiadóne: (Esegue) oohha…
ooohha… ti, el fiadìno: iiihhi… iiihhi… iiihhi… E quand che sèt
al màsimo del riscaldamento del sesso: in bianco! Mandarlo in
bianco! Stop!
«Gh’ho fame!… Gh’ho sete!… Gh’ho sòno! Andémo a lèto?»
«Sì, a lèto!»
«No, caro. Mí da sola in d’el me’ lèto! Tí, a ca’ tua che questa l'è
casa méa!» E lü el va via che gh’ha i cojómberi che ghe fuma!
Scena terza: l’Isabella l’è deslanguìda in sul canapè, entra el
marito, no’ se encòrge de nulla. Lée l’è bravissima, l’ha imparà
la lesiün, la fa andàr i ciàp ’me ’na mata, la sospira… la geme, la
ride, la piàgne… e la vomita! Lü ol perde la testa… ghe salta
adòso… Lée la duvarìa dir: «Gh’ho fame… gh’ho sete…»
insomma, mandarlo in bianco, ma no’ ghe la fa parchè l’è
inamoràda. Fan l’amore… E chì gh’è ’na scena che… si salvi chi
può! Buio totale! Se vede nulla, ma… se sente! Cigolìi tremendi.
’Na roba! Po’ gemiti… ma dio, quante de quèle urla… mai sentìt
ne la mia vida! «Aoahh, mòri! Aoàhhh, sun drè a murì! Aoahhh,
sun morta!» «Aoahhh! Sun mort anca mí!» Dui morti!
Lü l’ha capito benissimo che lée no’ la è ’Leonora pütana, ma
che l’è la sua mujér, ma sta citto parchè avérghe lì la mujèr così
vogliosa, così diversa, così insolita, lo fa impassìre! Lée l’ha
capito che lü l’ha descovèrdo che lée no’ l’è lée, ma che l’è
lée… ma la sta citto parchè aver lì ol marìo così incalorà… che
l’è la prima volta da che lo cognósse… (In falsetto) la fa
impassìre! Fan l’amore ’n’altra volta, ’n’altra volta ancora,
’n’altra volta… L’è proprio el terzo atto, l’è notte… l’è notte
fonda, e l’amore ol dura pròpi tüta la notte!
Dódese ore sèche de amplessi, de orgasmamenteríe… pròpi ’na
roba de… Sòdoma e Gamòrra… ma dio che notte! (Sconcertata
per la risata del pubblico) Gh’è minga de rìder… Ho dit una
roba sbaglià? Sòdoma… o signor scuséme… me curégi sùbet…
Sòdoma e Gomòrra! Fan l’amore, rifàn ancora l’amore, e po’
vanno avanti… insomma, a farla corta, fan l’amore cént e
novantaquàter volte… De amplessi! Vun pusé ’passionà de
l’àlter! Cént e novant… No, calma… ho sbaglià… No’… cént e
novantaquàter l’è propri ’na esagerasión. Perdonéme… L’è
l’entusiasmo de fa’ el prologo! [Tav. 23, «Isabella e il marito
fanno l’amore»] Cént e novantaquàter? Sun mata! No, besógna
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 16
dirlo parchè magari quaichedün dei mastci chi presenti ghe
crede… po’ va a casa frustràtto… No, no’… l’è impossibile. De
già mé par de ’scoltàr le mujér: «E alóra? Te se’ rivà solamente a
cinquantuno… E alóra? Ne manca cént e quarantatrì! E alóra?»
’Sti povri òmeni, tüti morti! No, l’è stato un eróre! (Riprende)
Fan l’amore… quàter volte! (Al pubblico) Si può, no? Ohi,
gióveni, rispondere, eh… Oh! Tüti ’mutolìti! Quàter volte se pòl!
Giornata de festa… domani, riposo… per un mes. (Riprende il
racconto) L’Isabella l’è felice, cuntènta, beata, parchè
finalmente lée, l’Isabella, dòna perbene, contèssa, che la pregava
da la matìna a la sira, che l’andava sémper in gésa… per la prima
volta l’è sodisfàta, cuntènta, una dòna realisàda! E parchè?
Parchè finalmente l’ha imparà a fa’ la pütàna! [Tav 24, «L’ha
imparà a fa’ la pütana»]
Coraggio, donne! Coraggio!
Parte una marcia strombazzante: dalla quinta di destra
reggendo su una spalla un lungo e grosso palo entra Ganàssa.
[Tav. 25, «Il Ganàssa entra con un palo»]
GANÀSSA (Rivolgendosi a Marcólfa) Sióra, sémo ’rivà chi-lò
par ol lavoro…
MARCÓLFA Oh, bravi! (Rivolta al pubblico) Un momento,
perdonéme. (A Ganàssa) E la scala? Dov’è la scala per ol
sipario?
GANÀSSA No’ so mí de la scala… mí gh’ho brusà solo el
sipario. Ol me’ capo ol mé gh’ha dito: «Careghémo ’sto albero e
se va a tiàtro!» Mí no’ savévo che par andar a tiàtro besognàva
portàrse un àrbaro… Dev’esser un’abitudine de i speciadóri de le
çità grande de sentàrse tüti col so’ àrbaro in spala… così, invece
d’entrare col biglietto, ol gh’ha l’àrbaro! «Biglietto!» «No
(Mima di segare un pezzo del palo) gh’ho l’alboramènto!»
MARCÓLFA (lo guarda perplessa) Alboraménto! Ma chi te
crédet de far rìdar, stupidòtt? Che intensiùn gh’avét, de piantà
’sto alboraménto in d’el palco? Ghe tachémo due grandi vele e
andémo tüti par mare a pescare che no’ gh’è nemànco un pèss?
GANÀSSA No’ sarìa una brüta idea! Ma se la vòl savér de
prezìso, l’è mejór domandarlo al méo capo.
MARCÓLFA E dove l’è el vostro capo?
GANÀSSA (Fa un cenno alle sue spalle) De l’altra banda de
l’àrbaro in ponta al pilón. Lée la mé tegna ’sto pilón (Passa il
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 17
palo alla donna caricandoglielo sulla spalla e la sospinge verso
l’uscita di sinistra) cossì la se descarlìga… po’ ’rìva ol méo
capo… che mí ghe lo dimàndo.
MARCÓLFA Ma che te mé fè?… Mí a gh’ho de ziogàr ol
prologo. (Cerca di opporsi, ma poi fatalmente sparisce
spintonata in quinta).
GANÀSSA Staga tranquìla, sióra, che la fago tornàr en un
menùto. (Il palo scorre e porta in scena Arlecchino che lo
sorregge) Salüt, capo! Andémo per mare?
ARLECCHINO Cossa? Per mare?
GANÀSSA Sì, me l’ha dito la sióra che gh’era qua. L’ha dito:
«Piantémo ’sto palo in d’el palco, po’ ghe tachémo tüte le vele…
ghe metémo el timón da popa… la prora de soravìa, e quando
che ’riva el vento… via: andémo tüti per mare, col stangón e ol
sipario!» Ghe femo le vele col sipario? (Compiaciuti, ridono
entrambi).
ARLECCHINO E còssa i fa’ i speciadóri?
GANÀSSA A la vòga! A la vòga! (Ridono ancora).
ARLECCHINO Remare! Remare!
GANÀSSA E quando che sémo in mèso al mare (Mima gli
spettatori che vanno a picco) GLU GLU GLU… tüto el tiàtro
afondà!
ARLECCHINO E i speciadóri i ’négà?
GANÀSSA Sì!
ARLECCHINO I ’néga tüti? (Guarda in platea, intristito) Me
dispiàse!… Ma no’ se poderìa andare a farlo in un àlter tiàtro?
Che quèsti mé son un po’ sempàteghi!
GANÀSSA Capo, tanto domàn ghe ne végn de nòvi! (Ridono
sgangheratamente).
ARLECCHINO (Rivolgendosi al pubblico e alludendo
all’annegamento collettivo) Devo dir quaicòsa a la vostra mama?
(Di nuovo perplesso, a Ganàssa) Te se’ següro che la sióra l’ha
ditto de ’negàrli tüti? Vòjo parlàrghe con ’sta sióra. Dove a l’è la
sióra?
GANÀSSA L’è da l’altra parte de l’àrbaro che lo tégne.
ARLECCHINO E come fago a parlare a ’sta sióra, se l’è da
l’altra parte de l’àrbaro?
GANÀSSA Oh, quèsto l’è fàzil. Ti adéso te scóre de nòvo
all’indrìo (Sottolinea, mimando con grandi gesti, quello che sta
dicendo), lée l’arìva… mí cato el palón… lée la resta qua, mí
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 18
ritorno de là e ti te la incontri chì-lòga.
ARLECCHINO (Ride contento) Fame véder se gh’ho capìt.
Dónca, mí a gh’ho el palón e vago… vago… vago… lée l’arìva
chi… po’ ti te ciàpe el palón e te vè via, e lée la resta qua.
(Pausa. Pensieroso, fa scorrere il palo fuori scena) E noi…
dove sémo andài a finire?
GANÀSSA (Disperato parlando dalla quinta) Oh, capo! Ghe se
sémo perdüi!
ARLECCHINO Ma dove ti gh’è el çervèlo? ? (Ganàssa viene
spinto fuori dal pilone che scorre. Imediatamnete Arlecchino lo
chiama a gran voce)Chiamando ad alta voce) Ganàssa!
Ganàssa!
GANÀSSA (Rientrando e cercandosi) Ganàssa! Ganàssa! Capo,
a me son ritrovato! (Si tasta felice).
ARLECCHINO E l’Arlechino dov’è? Arlechinooo! (Guarda di
qua e di là, disperato a sua volta).
GANÀSSA (urlando) Arlechinooo!
ARLECCHINO (Palpandosi tutto, fin giù sui glutei) Ah, me son
ritrovato! Me son recognossüo da le ciàppe! (Pausa e cambio di
tono. Quasi ispirato) L’è propri vera quèl che dise el Vanzélo:
«Solo chi se perde se retròva!» (Se ne esce illuminato, in estasi,
trascinando il palo fuori scena).
Musica. Dalla quinta di sinistra entra Marcólfa sorreggendo
l’altra estremità del palo.
GANÀSSA Ben tornàda, sióra! Gh’ho parlà col mio capo. Non
andémo per mare. El m’ha dito che vol parlàrghe lü de persona.
La staga chí-lòga che adéso lü ariva. (Musica. Commenta, rivolto
al pubblico) Gh’ho un çervèl, mí! (Esce a sinistra).
MARCÓLFA (Riprende il racconto) Scena quarta…
Entra un nuovo personaggio che ha rimpiazzato Arlecchino al
termine del palo. Calza una maschera chiara con baffi vistosi.
Parla con accento bolognese: è Sparavénto.
SPARAVÉNTO Buondì signàura!
MARCÓLFA Buondì! (Tra sé) Dio, che bèl òmo! (Si avvicina a
Sparavénto decisa a sedurlo imitando la camminata di Eleonora.
In una sequenza senza pause: ride, piange, sospira, geme, e
accenna un conato di vomito) BURP! Perdonéme… ma vien de
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 19
vomigàre! Ma vui no’ sèt Arlechíno?
SPARAVÉNTO (Con soddisfazione) No, sont Sparavénto.
MARCÓLFA Oh, che bel nome! Sensualista! Scüsé, Sparavénto,
cosa fè con ’sto àrbaro in spala?
SPARAVÉNTO Ah, nol so mica me!
MARCÓLFA Andè intorna con un àrbaro in spala e no’ savìt a
còssa serve? (Inizia a ridere da ochetta ed emette conati di
vomito guardando Sparavénto con molta sensualità).
SPARAVÉNTO A l’è stàit un fachìn che m’ha dit: «El vór tegnìl
in spala un momént?» Se véd che el gh’era vegnìt un bisógn
selvàtich de liberàrse!
MARCÓLFA (Fra sé) Ah, ecco dove l’è andàt quèl bòja de
l’Arlechino! (Al pubblico) Végno sübeto. (A Sparavénto) Alóra,
siór Sparavénto, sèt bón de riparàr rondèle e sipari?
SPARAVÉNTO El gh’ha ciàpà in pién, signàura, l’è una vita
che giùsto rondèèèle e ripééér di gran sipàri!
MARCÓLFA Che felicità! E alóra, coraggio! (Gli fa il verso)
Riparééé sipari e rondèèèle.
SPARAVÉNTO A se pòl brisa.
MARCÓLFA Parchè?
SPARAVÉNTO Ghe vurerìa una schéééla!
MARCÓLFA (C.s.) E andìt a cercarla, ’sta schéééla!
SPARAVÉNTO Vado mantinénte! Oh, quèst qui… (Indica il
palo) el tégne lée, el tégne mí, o el pògi par tèra?
MARCÓLFA Par tèra! Son ’n’ atrìze, mí!
SPARAVÉNTO (Posa il palo a terra) Vado e torno. (Al
pubblico, uscendo a sinistra) Che conquista, raghèzz!
MARCÓLFA (Al pubblico) Sére dré a contàrve de l’Isabella…
Entra Arlecchino sulla solita marcetta con una borsa a tracolla
contenente alcune grosse corde. Solleva il palo posato a terra, lo
fa scorrere nella quinta di destra. Appeso all’altro capo del palo
riappare Ganàssa.
ARLECCHINO Ehi, ’ndove a l’è quèl che gh’ho dàit el palón de
tegnìre? (Commenta rivolto al pubblico) Te ghe dèt el palón a un
che gh’ha la fàcia onesta e lü t’el pianta par tèra come se fósse
un orfano. (A Ganàssa) Dove l’è andà l’orfano?
GANÀSSA No’ so mí… ti, pitòsto, ’ndóve t’eri casciàt?
ARLECCHINO (Aggressivo) Mí no’ mé son casciàt! Mí sont
andàit a tór el mestér per fare el lavoro. (Indica il sacco).
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 20
Ganàssa esce di scena portandosi appresso il palo.
MARCÓLFA (Ad Arlecchino) Busiàrdo! Ti te se’ andàit a fare i
tòi bisògni!
ARLECCHINO (Offeso) I mèi bisógn, cara sióra, son stàiti quèi
de andare a tórme ’sta corda e anca ’sti pirói! Po’, ti non te gh’ha
el dirìto de andàrghe a racontàre al publico quali son i me’
bisógn, parchè i me’ bisógn son i me’ bisógn de mí! (Si porta in
proscenio) Parchè mí non vago a domandàrghe a loro quali son i
lor bisógn. (Rivolgendosi a una signora del pubblico) Sióra, son
forse vegnüdo a dirle: «Come la va co’ i bisògn? L’è andàta bén
tranquìla… liscia?» (Ad altri spettatori) E voialtri, avìt avüt lo
sfòrso… soferénsa? Avìt pruvàt con la tisana? (Indignato a
Marcólfa) Ma se végn a tiàtro par parlare de’ bisógni, dico? No,
no’ se fan ’sti descórsi a tiàtro! (Cambia tono) Son descórsi che
se fa’ a tavola!
MARCÓLFA E alóra, ’ndove l’è la scala?
ARLECCHINO (Indica il palo) Questo chi a l’è la scala!
MARCÓLFA ’Sto palón chì, a l’è ’na scala?
ARLECCHINO A l’è un palón se ti lo vàrdet coi ôgi de
incompetént, ma un che l’è apéna del mestè, ol capìsse sübeto
che se trata de ’na scala en embrión! Che una volta in pìe, ghe se
mète deréntro i piòli e ghe se monta.
MARCÓLFA Ghe vòle almànco una ziornáda per improntàrla!
ARLECCHINO No, no’ serve. L’è già improntàda. (Solleva il
palo e lo passa in quinta.)
Musica. Il palo scorre. Entrano in scena tre maschere:
Burattino, Toni e Balordo. Camminano a passi brevi, uno
incollato all’altro con il capo appoggiato al palo. Fingono di
dormire.
MARCÓLFA E questi chi son?
ARLECCHINO Son tre critici de tre giornàl importanti che
stàvan ne l’altro tiàtro a vardàr lo spetàcolo, e se son
’ndormentàdi sübeto. Anche quando brüsàva el sipario, loro ’i
dormìveno. Li émo portati via co’ lo stangón del sipario. Ma
adéso, lasémoli dormire, cossì domani ghe fan una bèla critica.
Andémo! (Spinge le tre maschere fuori scena che si muovono
nello stesso atteggiamento di poco fa. Rientra il palo; ora i
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 21
sorreggitori del palo sono diventati cinque: Ganàssa, Razzùllo,
Scaràcco, Burattino, Balordo. Arlecchino estrae dalla borsa le
corde e, aiutato dai suoi compagni, le affranca alla cima del
palo quindi il palo viene rizzato come fosse l’asta di una
bandiera. Si pongono di fronte al pubblico su un’unica fila
sull’attenti: guardano in platea estatici. Arlecchino intona un
inno patriottico in un linguaggio carico di enfasi, ma fortemente
sconnesso).
[Tav. 26, «Rizzato come se fosse l’asta di una bandiera»]
ARLECCHINO «Oh che sale garréndo sprontàle lo sgualdràppo
che svéntola… anche il cor ci stràmbola, in patrio fulgor… Siam
pronti alla pugna e a crepar con ardor!»
MARCÓLFA (Stufa di essere continuamente interrotta) Adéso,
Arlechìn, te fè el tò lavoràr in perfèto silénsio… che mí gh’ho da
sprologàr. (Al pubblico riprendendo il racconto) Alóra, scena
quarta: l’Isabella la se desvégia… (Arlecchino accenna
nuovamente al canto patriottico delle bandiera). Arlecchino, te
par el moménto de vegnìr chì a cantare una cansóne de lo
sventolaménto de la bandéra? Mí son drè a sprologàr la scena
quarta…
ARLECCHINO Oh bèla… ma avémo el diritto… fémo
l’alsabandéra… prima del lavór, l’è de obbligo!
MARCÓLFA Ma che te dise… l’alsabandéra sénsa la bandéra?
ARLECCHINO No’ podémo tacàrghe la bandéra!
MARCÓLFA Parchè?
ARLECCHINO Parchè non se son ancora desidúi in dove l’è
nasüda la bandéra… se a Reggio Emilia, Verona, Mantova,
Parma, Piacénsa… (Via via sale con la voce imitando gli
annunci dei capotreni all’arrivo nelle stazioni) Guastalla,
Mondovì… Ferrara se scende! (Al pubblico) Oh, che bela
bandéra! Sì, sì, bela… bianca, rosa e verde… come ’na femèna
desnuda che sventola in del zièl!
BURATTINO Mí me piaséva de pu’ quando l’han sventolàda
per la prima volta a Régio Emilia…
GANÀSSA Parchè, coma l’era a Régio Emilia ’sta bandéra?
ARLECCHINO Una riga rossa e una riga bianca, una riga rossa
e ’na riga bianca, e un gran quadratón bleu cielo con tanti
stelìne! Così, l’era la nostra bandéra!
BURATTINO No, l’è impossibile! Quèla l’è la bandéra de’
american!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 22
[Tav. 27, «Quèla l’è la bandéra de’ american!»]
ARLECCHINO Sì, ma ghe l’han robàda a noaltri italiàn!
GANÀSSA Ma chi ghe ròbeno tuto a noaltri italiàn!
ARLECCHINO L’è par questo che po’ noialtri sèmo stàiti
obligat a inventarghe ’sta bandera bianco, ròssa e verde…
CORO Beh, manco male!
RAZZÙLLO L’è ’na una bela bandera anca questa.
ARLECCHINO Gh’e l’han robada anca quèla.
CORO E chi?
ARLECCHINO In tanti… El Mexico, gli ungaresi, i
satrapòn1…anco l’Irlanda…
CORO (Esclamando tutti meraviglia) OH, UUH, AHH!
ARLECCHINO Mí gh’ho una voja mata de’ catarme de novo la
nostra bandera original e de portarghèla via ai ’mericàn: rigòn e
stèline. (Improvvisa una canzone patriottica sull’antica
bandiera). Quante stèle nel zièl che gh’è ogni luze, l’è ’na región
a partir de Nàpuli spléndida, po’ la Sisìlia sprofumàda, po’ la
Sardìnia tüta grigna, po’…
MARCÓLFA (Furente) Alóra? Basta, eh!… Basta! (Le
maschere si zittiscono ma iniziano ad armeggiare intorno al
palo) Oh! Sémo ’rivà a la scena quarta… che l’è molto bèla
parchè gh’é l’Isabella che la se desvégia… (Rivolta al pubblico
distratto dall’armeggiare delle maschere) Guardarmi a me, oh!
Guardé che végno giò e ve fo’ el racónto orègia a orègia, eh!
Stèit chi fino a l’ano venturo! Ciàro? (Riprende il racconto)
Isabella la se desvégia… (tenta di raccontare, ma Arlecchino la
interrompe continuamente per dare istruzioni ai suoi compagni
che stanno agganciando quattro funi alla sommità del palo).
ARLECCHINO E alóra besógna che vun ghe vaga nel publico
là… (Indica la platea sulla destra) e l’àlter ’nd’el pùblico là…
(Indica un altro punto della platea, distribuisce un capo delle
funi ai suoi compagni a ogni maschera).
SCARÀCCO Ma no’ se pòl lavoràre en mèso al publico!
ARLECCHINO (Nei panni del capo dei lavori) Oh bòja! Par
tegnìr in piè un palón besógna che una corda de tegnüda tangente
del triangolo, la sia là de baricàda… Te gh’ha in mente la
piramide?… Fa conto che la piramide sia un pilón: besógna che
ghe sia quatro corde de angolo a tegnìrla.
SCARÀCCO La piramide ’n sül publico no’ la se pòl fare!
1 Suono onomatopeico inventato. Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 23
ARLECCHINO Cito! No’ star a far discusióne, bòja! Besógna
che ve immazinàt che sémo nel millesincoséntovütantasinco…
no’ gh’era ancora l’organisasión dei lavoradóri, i sindacati!
D’acórdo? Ti te vé là, in sètima fila, ’ndóve gh’è ch’él siór col i
ôgiài…
MARCÓLFA (Cerca, alzando la voce di riprendere il racconto)
Alóra la Isabella…
Agganciate le corde alla cime del palo, il palo medesimo viene
sollevato dagli Zanni, mentre Ganàssa e Burattino scendono con
la cima delle corde in platea.
ARLECCHINO (A Ganàssa e Burattino) Domandée per piasére,
vilàni! (Al pubblico, facendo il gesto di alzarsi) Alzàrsi…
alzàrsi… gràsie… un po’ de comprensión, bòja, par chi lavora!
Sémo pròpi in Italia, eh: quatro ciùla che travàja e quèi altri
sentàdi, spaparansàdi a godérse lo spectàcolo! Ministeriali!
(Indicando GANASSA che ha legato il capo della fune al collo
di uno spettatore) Bòja, quèlo còssa ol fa?… Cosa te fai a quèl
siór lì?…
GANASSA (Toglie la fune dal collo dello spettatore,
conciliante) Va bén, ghe la dò ne le mani, che m’aìda a tirare.
ARLECCHINO Ne le man? Ma bòja, ma se uno no’ l’e abituàt a
la corda, ghe se sbréga tüta la pèle, no? Daghe almeno del talco,
del magnesio ne le man… eh! (GANASSA estrae di tasca un
fazzoletto e lo scuote verso lo spettatore avvolgendolo in una
gran nube di talco) L’è un po’ tròpo abondante cossì, eh?
(Scruta con attenzione) Bòja, adèso che se spampàna la nebia…
guarda là chi gh’è! Ol cognósso quèl lì co’ la giàca a vento rossa,
l’è un inteletuàle… GANASSA, tìreghe sübeto via la corda de le
man, che quèlo al momento de la tensióne ol mola tüto… crisi
de’ indentità…flessión culturale…ol büta le corde e scapa. Via,
làsalo stare! E va’ dentro fra i speciadóri tí, obedìse, sübet, par
piasè, entra…
MARCÓLFA (nel tentativo di catturare l’attenzione del
pubblico, con voce acutissima) E alóra, la nostra cara Isabella se
desvégia e la dis al marito: «Caro marito, da oggi farò la
pütàna…» (Continua a parlare ma la sua voce è sopraffatta da
quella di Arlecchino che urla a sua volta. Dalla platea risalgono
in palcoscenico gli attori. Issano il palo, trattenendolo dritto con
quattro corde) Ma basta! Ma te mé distürbet!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 24
ARLECCHINO Ma bòja, ma no’ la se alsa cossì la vôce!
Besógna entratenérlo el publico, no terorisarlo!
MARCÓLFA (Riprende a voce normale) Alóra la dise, la
Isabella, la dise la Isabella, la dise…
ARLECCHINO Cus’è che la dise?
MARCÓLFA Ma fa’ el to’ lavor!… (Riprende il racconto)
L’Isabella… (Ancora la sua voce è sopraffatta dalle urla di
Arlecchino, le cui mani sono finite sotto i piedi di Ganàssa che
sta montando sul palo) L’Isabella…. (Ad Arlecchino, furente)
Insomma, basta!…
ARLECCHINO (Lancia un urlo) Ahhh! I man m’ha schiscià!
MARCÓLFA (Riprende) «Mí farò la pütana», la dise al sol marì,
«mí farò la pütana! Farò la pütana!»
ARLECCHINO (Guardandola attonito) Ma va? ’Ndóve? In che
via?
MARCÓLFA (Indignata) Ma sont minga mí…
ARLECCHINO Cume, no’ te sèt ti…
MARCÓLFA L’è l’Isabella…
ARLECCHINO Che prèzi?
MARCÓLFA (Lo interrompe furiosa) Ma va via!
ARLECCHINO Par comitive?
MARCÓLFA (Riprende, ignorandolo) «Farò la pütana! Oh,
come farò la pütana! Mí farò la pütana…»
ARLECCHINO A gh’ho pagüra che quaichedün a gh’àbia el
sospèto che l’Isabella farà la pütàna. Gh’ho sentìt circolare la
voce. (Rivolto a Ganàssa in cima al palo) Adéso ’ndu l’è che l’è
burlàda ’sta vite? (Ganàssa indica il pavimento. Arlecchino va
cercando la vite di qua e di là e finisce la sua ricerca nella
scollatura di Marcólfa. Mentre Marcólfa parla, Arlecchino
sottovoce continua a ripetere: «La vite, la vite dove si è
cazzàda?»).
MARCÓLFA (Prosegue nel suo racconto infastidita dalle
«spalpignate» di Arlecchino) «Farò la pütana, anderò sü la
caròssa con la mé amìsa ’Leonora, e tüte e dòie farèm ’na mügia
de danée, sarém felìsi e cunténte». (Arlecchino ha infilato le
mani sotto la gonna di Marcólfa che manda un urlo) Cusa te fèt
Arlechìno? Tira via i man!
ARLECCHINO C’è una vite. La vite nella vita.
(Uscendo dal personaggio Franca-Marcólfa
particolare che Dario-Arlecchino è suo marito)
allude
al
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 25
MARCÓLFA Arlecchino, non ti approfittare della parentela!
ARLECCHINO Oh, mama! (Arlecchino, le cui braccia sono
letteralmente sparite fra le sottane di Marcólfa, ammicca
divertito al pubblico).
MARCÓLFA Se gh’è de rìdar?
ARLECCHINO El l’avrìa mai pensàt! Anca ti te gh’ha le corde
intorno a le ciàpe, eh? Ah, ah, Marcólfa! (All’istante, come
impazziti, gli aiutanti di Arlecchino fanno ondeggiare il palo dal
quale è appena sceso Ganàssa. Il palo precipita verso il
pubblico e, come una sciabola, passa a ventaglio sulle teste
degli spettatori) Ohi, ferma, ferma! Le corde… le corde… le
corde!…
MARCÓLFA Ma atensión a le teste… No’ tajàrghe le teste!…
ARLECCHINO Ma desgrasià (Indicando il pubblico)! T’hai dàit
dü sberlüsàde a quèla sióra lì che… che gh’è restàt el segno de
Zorro sü la fàcia. Quèl siór lì, po’, s’è vedüo ’rivàr el palón drito
cossì, che ol ha vusàt: «Porco can, cus’è ’rivà: Ulisse col
Polifemo?» Ma sèt un desgrasià, no’ te se pòl far lavorar,
Scaràco, encosiénte. (Raccontando al pubblico) Bòja, iér sira…
vardé… gh’è sucedùt ’na desgràsia: sèramo a ’sto punto de lo
spetacolo, gh’era qua el palón, propri qua dove sit vialtri… dòi,
tre, quatro… (Indica quattro poltrone dove ora stanno altri
spettatori che reggono le funi) Lo rifasémo… dài, tira che… (Gli
spettatori lanciano grida, spaventati) No, l’è par farve véder…
parchè vun no’ lo crede quant l’è desgrasià quèl (Indica
Scaràcco ). A un certo mumént l’è andato giò el palón cossì:
SGNACH! Mí gh’ho sentì un colpo tremendo, no’ gh’ho üt el
coràjo de vardàre: quatro morti gravi… So’ ’rivàti sübeto tri o
quatri infermieri che j’eràn lì ne l’atrio per caso, son ’rivà dénter
a ’na velocità tremenda. (Mima di sollevare i corpi e di
vivisezionarli rapidissimo) «Al trapianto! Al trapianto!
Donatore!» Gh’han portà via tüto quanto.
L’è una manìa che gh’han adòso, questa qui del trapianto. Ol
savèt che lì föra… föra ’ndove che gh’è el quadrivìa con un’altra
via de travèrso… son sìnque vie… che gh’è un incidente ogni
mes’ora… gh’è grupi de infermieri apogià chì-lòga, ch’ol spia
cossì… (Mima di appiattirsi contro il muro) che quando che
sente un cigolio dei freni: GNIIIU! Föra tüti!
Ho scovèrto che quèi, lor… i infermieri a ghe versa de’ bidoni de
olio de machina sü la strada, che gh’è un Tir che fa una sguràda:
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 26
GNIIIUA! L’è ’rivàto in Duomo! Ma bòja, già en genôgio a
pregare. Mí personalmente vado intorno sémper con un cartèlo
con scrito: «Ho già donato». No’ gh’è un ospedale, una clinica,
che ormai no’ faga i trapianti… e gh’han bisógn de organi nòvi.
A l’è ’na ròba tremenda. Gh’ho visto un siór, un bèl òmo,
simpatico, con la cagnèta, che ol pasegiàva tranchìla… che gh’è
el giàso intorno… la cagnèta l’ha tiràt: GNIAA! No’ l’era ancora
’rivàt col cül par tèra ’sto òmo… sont ’rivàt in sìnque:
«Trapianto!» Via! L’han caregàt via sü l’auto ambulansa co’ la
cagnèta legàda… A la müjé gh’han portà a ca’ la pelle, solo la
pelle… destandüa sü l’ometto… solo la pelle! «Signora, suo
marito è stato generoso, ha donato tutto! (Fa il gesto di lanciare
la stampella) Con quello che resta se vuole… può farsi una
borsetta…» Son de’ desgrasià, de’ mati… A gh’è in giro una
squadra a cercare l’Andreotti che compie i novantùn ani
domàn… e l’è così vispo! (Mima di camminare curvo a gran
velocità) Avìt notato che no’ se parla pü del Andreotti? No’ se
trova pü, ol sta nascondùo… ghe vòjon cavàre föra tüto: cervèlo,
milza, fegato dü reni, un didón del pìe… tüto… la pipa
perfino!… Par farghe el trapianto al Cossiga, tüto ol trapiànteno.
Che Cossiga l’è un po’ giò, cossì… (Mima un personaggio
dall’equilibrio
piuttosto
precario)
ghe
fan
una
«andreottegàda»… bisognerà che je fàgano ’na stortàda sü la
stcèna… quando l’è un po’ giò de morale… TACH! ’na ròba
vìscola, come un arco! T’e gh’e spiàzzi ’na frèzza in del mèso, te
tiri la corda e ZAACK: ol và tüto in mila tochi! ’Na
«cossegàda»! (Le maschere intorno ridono sgangheratamente).
Marcólfa riprende a parlare mentre il palo viene issato e tenuto
ritto dai clown: Arlecchino ci sale sopra, guarda davanti a sé e
all’improvviso si mette a urlare.
ARLECCHINO Lu pisce, lu pisce, lu piscespàda! (Tutte le
maschere mimano di remare a gran ritmo scandendo in coro):
CORO Pisci, pisci, pisci tutto l’anno, la mattanza è ’nu gran
danno… remàti, remàti… [Tav. 29, «De boto me so’ vedüo en
Sesilia sü una barca alla cazza del piscespàda»]
MARCÓLFA Basta!
ARLECCHINO Basta! (Al pubblico): Scusème, l’è staito un
muménto de slanzo ’motìvo… de bòto me so’ vedüo en Sesìlia
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 27
sü una barca alla cazza del piscespàda, pèssi dappertütto… Ho
vedüo: merlussi, tonni… gh’era intra mezzo anche un pésse
tremendo, pìcolo ma d’un rapàzze, con una boca… (Mima un
pesce che arriva velocemente) i mangiava tütti: Silvio facòcero
se ciama! AHM AHM! E canta: «E’ l’amor che me consuma!»
Basta, che chi me vegnèriano föra alusiòn tereménde.
MARCÓLFA Allora te me lassi sprologàre?
ARLECCHINO Scusa, sióra, sarà per un’altra volta.
MARCÓLFA Basta, mí no parlo più dell’Isabella, m’è andàda
föra de zervèlo.
ARLECCHINO Ti gh’ha resón, no’ se pòl fa de ’ste alusión al
presente storico de adèso, se no se finìsse che se tira in balo
Alfano col so’ Lodo, po’ gh’è el Lodo Mondadori, e po’ la
corusión dei ziùdizi, el lodo del lodo coi ziùdizi che se fa’
compràr da quèl avocàt Prevèti del Berluscón che lü, l’avocàt, lo
mète en galera, ma Silvio ol slìssega föra come un pésse da la
rete e fa scorèzze a tüti, l’inventa el prozèsso lóngo e quèlo breve
e quèlo così e così, quèlo rapido, che no’ se vede manco: «In
piedi, entra la corte», ZIUU, la corte l’è già föra… «Cosa fèt qui
cojón che el procèss l’han canzelàt?»
MARCÓLFA (Furente) Alóra? Basta! Se retórna en epoca
originale! Millecinquecentottantacinque…
ARLECCHINO (Sottovoce al pubblico con malcelato pudore)
Po’ salta föra l’avocàt Ghedini e Pecorella, Straccatàne,
Puzzarèllo, Caccamòrti… (Si blocca e indica in fondo alla
pletea) Oddio, chi è quèl con la crapa tüta pelàda che pare un
balón? L’è lü, Bondi, la bala Bondi… (A gran voce) Sono
intorno a zercàrte… (Alzando la voce) scapa che te fan un
trapianto… Bondi, sàlvate!
MARCÓLFA Ma l’è minga bèl che te parli in ’sto modo de
quèl! L’è un minìstero, un po’ de respècto!… Vun che l’è cusì
cultivàt e scrive de le poesie così gentili che pare un bambìn de
l’asilo…tènnere!
ARLECCHINO E mí apùnto ne parlo… son del so’ comitato…
«poeti sleteràti»!
MARCÓLFA Ho dit che no’ se fa ironia… de Bondi no’ se
parla!
ARLECCHINO D’acordo, no’ gh’è parlo ma gh’e canto: «Ohi,
Bondi, Bondi, Bondi… ah, ah! Siamo in giro sempre tondi e
tonti… come lü!» (Mima di pastrocchiarsi Bondi, palpandoselo
tutto, quindi, perentorio) A Bondi ghe fan de’ trapianti… per via
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 28
che l’è nasciüo co’ le bretèle! De bambino… un nase co’ la
camìsa… lü co’ le bretèle. Ma pìcole… du bretelìne pìcole… La
sòa mama l’erá cuntenta quand ol ninàva: «Nanna ohhh, tun tun
tun… (Canta mimando di pizzicare le bretelle del piccolo Bondi
come fossero le corde d’una chitarra) Nanna ohhh, tun tun tun…
Nanna ohoh… tüti i bambini dòrmen ma ol Bondi no’!»
Po’ l’è cresüt e no’ ghe han cambià le bretèle. Ol gh'ha ancora le
bretèle de fiulìn. (Cammina come costretto da tiranti che gli
abbassano vistosamente le spalle).
MARCÓLFA Cosa gh’è serve ’ste bertèle? A tenérghe sü le
ciàppe?
ARLECCHINO No, a tenérghe giò, blocà, la testa!
MARCÓLFA Come a dì la crapa? E perché? Cossa la gh’ha?
ARLECCHINO L’è vöda, con un zervelìn pìcol… Tüto incurvà
come un punto de domanda! L’è cossì vöda che se te ghe parli
dentro sorte föra l’eco… UAO AUOO AUOO!
MARCÓLFA E cosa gh’entra con la bratèla?
ARLECCHINO Parchè se no’ gh’ha le bratèle che la tégne
blocàda, la crapa la vola via come un palunzìn.
(Canta) Vola vola la crapa de’ Bondi,
va zercàndo nòvi mondi,
mondi nòvi come lü
’sto poeta de’ velü!
Tutte le maschere guardano in cielo stupite.
MARCÓLFA
(Tentando
di
interromperlo)
Alóra?
Millecinquecentotantacinque… Se retórna a l’epoca?
(Arlecchino sta farfugliando in sordina) Còssa te dìset?
ARLECCHINO Ma varda tì cossa che sta desendendo dal
zielo… (Dall’alto scende il pupazzo di De Mita) Un campiòn
della politica pasàda… chi è? Me par Ciriaco!
MARCÓLFA Chi?
ARLECCHINO Ciriaco De Mita… (Glorioso) ciamà la pera
Williams per via de la crapa a ponta che tègne! Te gh’è fàit
caso? Gh’ha ’na testa a pera…
MARCÓLFA Come dì ’na pera-pesca?
ARLECCHINO No, l’è una pera e basta… l’è lü, De Mita, se
vede benissimo… in botìgia… sóto spirito… lo spirito eterno
della DC! «Quèl che natura crea, la DC conserva!»
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 29
MARCÓLFA Ma non l’era morto?
ARLECCHINO Morto lü o la DC?
MARCÓLFA Tüte dói!
ARLECCHINO La DC e De Mita morti? Ma no’ mòre mai quei!
Al maximo mòre e se mòre i resùsita… sempre! L’è el partito
surgelato… eterno quèlo!
MARCÓLFA Come el giàzzo nel Polo!
ARLECCHINO Beh, speriémo nel riscaldo de la tèra!
MARCÓLFA Ma il Ciriaco non l’era in galera? Me ricordo ben
che l’è stàit condanà per ruberie!
ARLECCHINO No, l’è stàit condanà, ma in galera ol l’è mai
stà! E se l’han sbatù dentro, l’è sübeto sortito… le so’ galere i
gh’han la porta che zîra come quèle de i grand hotel… ZON
ZON (Gira su se stesso)… dentro e föra!
MARCÓLFA E alóra? Basta! (Cerca di parlare, interrotta
continuamente da Arlecchino, di colpo si blocca e rivolgendosi a
Scaràcco che si è accomodato beato su di una poltrona, urla)
Tornare su…
Nel frattempo il lungo palo viene fissato a terra (centro
palcoscenico). Ganàssa stende sulle corde (APPESE AL
PALO???) mutande, calzini, fazzoletti, fasce di vari colori da
asciugare. Le corde con la biancheria finiscono in platea.
ARLECCHINO Te despiàse vegnìr sü? Ma ti varda, cosa ti
gh’ha combinà? Ma varda!… Tüto el bucato gh’ha fàit!
MARCÓLFA Ganàssa!
ARLECCHINO Avanti tüti e via… rengrasiàre la zénte che v’ha
aiütà!
MARCÓLFA Gràsie mille… coràgio… gràsie mille…
ARLECCHINO Craxi mille…
MARCÓLFA (Correggendolo) No’ eh! No’ tirémo in ballo
Craxi! Per carità, non tornémo ancora indrio nel tempo!
(Venendo verso il pubblico) Alóra, mé son desmentegàta de dir
una roba importantissima, che la vicenda che v’ho cuntà de la
contessa pütàna de la cuntèssa, la se svolge a Napoli! Che mí son
securìssima che nisciün de voialtri se recorda chi l’è che
governava Napoli in quèl tempo lì…
ARLECCHINO (Venendo a sua volta in proscenio si rivolge
minaccioso al pubblico) Dài, avanti… che el primo che alsa la
man ghe la tàjo via de nèto, cossì impara a ziogàre al quiz!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 30
MARCÓLFA (Cercando di superare la voce di Arlecchino)
Alóra, chi l’è che governava Napoli… coràgio!…
ARLECCHINO (Sempre al pubblico) Guai a chi indovina!
Adéso però besógna indovinare… chi gh’era a Napoli in quèl
tempo?…
MARCÓLFA Chi l’è che governava Napoli…
CREDO VADA TAGLIATO… NN RIESCO Più a seguire
ARLECCHINO No, no’… cosa ghe centra el Silvio? Silvio no’l
gh’era ancora, andémo… Andreotti?… Sì, quèlo ol gh’era. Ol l’è
da le guerre puniche che el ghe! (Mima la camminata di
Andreotti).
MARCÓLFA (Rivolta alla platea) Guardi lei, siór… guardi che
l’ho vedüo, sa… che me fa ’na fàcia come de soportasióne…
ARLECCHINO Ma no, l’é stàit cossì: un tic.
MARCÓLFA No, che tic? L’è un vilàno… l’ha fàit ’na smorfia
come dire: lée la lava in tèra e pòe la végn chi adéso a fa’ la
maestrina… Avante, che abi el curàg de dirme ciàro e nèto
«fàcia de…»; ansi, mí adès végni giò… (Decisa si dirige alla
scaletta che porta in platea).
ARLECCHINO Ma ’ndove ti va’?
MARCÓLFA Vago giò e ghe dò uno sgiàffo!
ARLECCHINO Brava, cossì no’ ghe resta pì gnénte par el
trapianto!
MARCÓLFA Eh, adès!
ARLECCHINO (Punta il dito verso la platea) Ehi! Ti gh’ho
vedüo! No, no’ far la spia… Spia, spia, non sei figlio di Maria,
non sei figlio di Gesù, vai all’inferno anche tu.
MARCÓLFA Andémo avante… Lasémo perdere… Chi l’è che
governava Napoli in quèl tempo… che tanto per noialtri… de
süra, de sòta, de föra, chì… per noialtri, insóma, tüti noialtri, o
Carlo, o Alberto, o Ferdinando, lo ciapémo sémper in quèl
bando! (Termina piegando il braccio sinistro battendo con la
mano nell’incavo del braccio medesimo. Questo gesto, chiamato
«gesto dell’ombrell»’, si usa per mandare al diavolo una
persona).
ARLECCHINO Bèla! Fine!… ma triviale! Voglio dire…
triviale, ma fine! No, no, varda che po’ l’è anca quèl gesto sòto
lì… per ritardati eventuali…
MARCÓLFA L’è la metafora ciàra…
ARLECCHINO Scüsa, pòde agiùnger ’na allocusióne a la
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 31
metafora, ’na ’locusióne méa personàl, de oservasión…
MARCÓLFA Parchè… se te disi de no, eh… te ferma
quaichedün?
Silenziosamente sul discorso di Arlecchino entrano in scena tutte
le maschere portando il lungo palo che reggono sulle spalle. (il
palo e le maschere non sono già in scena???)
ARLECCHINO No, no me ferma nisciün. No… vòjo far oservàr
una roba tremenda… me domando sémper mí, e chi sa quanti de
voialtri gh’avéan fato caso, ne la storia d’Italia de tüti i tempi,
quando i sucéd guère, se fa’ i bordèli, se scana… anca lontàn de
qui… pian piano i végne a scanàrse adòso a noialtri. I ghe ciàpa
dentro, sempre! Varda, ne la storia… a gh’è par esempio i
franzós, mèj, i spagnòi, che se cata contra i franzós… (Recita in
grammelotte spagnolo una sfilza di improperi che terminano
con) «Cavròn, ti e to’ mare» (Recita in grammelotte francese,
alludendo a una risposta altrettanto colorita a base di insulti e
minacce) E anca voialtri todèschi! (Vistoso sproloquio in
grammelotte germanico) E anca i inglés! (Esegue un
grammelotte inglese pacato ma carico di disprezzo) Alóra l’è la
guèra! L’è la guèra, bòja! Noialtri inglés andémo a scanàre tüti i
franzósi e desendémo a fa’ la guèra fino en Spagna. E noialtri
spagnoli andémo contro i todèschi e li sbolzerémo de fero e
fuégo, e noialtri todèschi andémo in Anglotèra e andémo a
sbrüsàr, sviolàr e fa’ strame! (Allarga le braccia perentorio)
Fermi! No’ stè a far casòto par niente… a spantegàrve dapartüto!
Trovémose en Italia che gh’è el sole e che ghe se scana che l’è
una meravégia!
MARCÓLFA (Furente) Se non te tase… ciàpo ’sto pilón…
(Indica il palo) te lo frico in d’el cül… ’me fano i türchi, con i
pioli de mància! Ciàro?
ARLECCHINO Calma fiòi… no’ feve tôr dal panico… (Si
muovono al rallenty sollevando le gambe imitando un passo
molto felpato) via normale… cü en dentro sénsa dar ne l’òcio…
un, dòi, tri… (Indignato) E m’avéan dito che l’era uno spetàcolo
consigliato per ragàssi… (Escono).
MARCÓLFA (Verso il pubblico) Donca, alóra…
ARLECCHINO (Da fuori scena) IHEIAIIAIA!
MARCÓLFA Ma se gh’è?
ARLECCHINO (Entra circospetto a passo di danza) Un turco!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 32
(Se ne esce sempre con lo stesso passo sulla solita marcetta).
[Tav. 29, «Fine del primo atto: escono tutti con il palo]
FINE PRIMO ATTO
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 33
SECONDO ATTO
I due becchini, Arlecchino e Razzùllo, famosa maschera
napoletana, stanno dentro una fossa armati di pale e mimano di
scavare. Cantano.
[Tav. 30, «Arlecchino e Razzùllo cantano davanti alla fossa»]
E qui se fano i conti sénsa li rèsti
pasà la barca per fiume no’ se retórna
lassa li smanciarìe, lassa i smorbièssi
che chi a gh’è scrivü: «Basta, sì morti!»
Chisà cosa che spècia in l’àlter mundo
ognün conta di sogni e strambarìe.
O gh’è i indiàn che i dise che po’ se svégia
deréntro un animal con gran contento
tüti contenti de vèss dei anemàl.
A gh’è i saracìn che i gh’ha ol Corano
che i mostra ol paradìs come un bordèlo
’piegnìt de dòne bèle e tüte sbiòte
ridendo tüto el dì se fan l’amore
se fan l’amore sbióte sénsa pecà!
RAZZÙLLO Per chi è che stammo a scavà?
ARLECCHINO Per l’aministrerìa del cimitiéro, l’è lor che ghe
paga!
RAZZÙLLO Sì, va beh, ma chi è ch’amm a seppellì?
ARLECCHINO Ah, el morto, te dise? L’è un che s’è copà da par
lü, un asasìn de se medesimo.
RAZZÙLLO Ah, soicìda?
ARLECCHINO Sì, soicìda, el s’è negá in de l’acqua.
RAZZÙLLO Ah, chillo che dicono che s’è ’negàto…
ARLECCHINO Sì, ol s’è’ negá, con una fòrsa di volontà
incredibile! L’è andàit a casa, l’ha catà un mastèlo impiegnìt
d’acqua, el s’è metüo in genógio, ol s’è pogià una man su la testa
e l’ha dit: «Anégo». E giù… sot’acqua! Dopo un po’ la testa, che
la ragiona, la dise: «Uhè, ma son propri un cojón, morir in quèsta
manéra!» Ma la man caparbia: «Sóto: quèl che è detto è detto.
Crepa!» Ohi, ol gh’era le bollicine che ghe stciopàva dapartüto.
Ghe vegnìvan föra dal naso, da le orège, anca dal cül!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 34
PRUUUOOOAAHM!… Soffioni de Boario!
RAZZÙLLO (Ride divertito) Ah, ah, ah, e tu ce credi che chilo
s’è ’negàto ’a sulo? Secondo a te, uno se mette co’ ’a capa
sott’all’acqua e senza che nisciùno l’aiuta: GLU, GLU, GLU…
se bevve tutta l’acqua? Ma sinti a me, ’isto è ’nu delitto…
qualcheduno l’avrà accìso!
ARLECCHINO No, no, può darse che quaichedün gh’àbia pogià
una man un po’ pesànta sü la crapa par aidàrlo un poco a sta’
sóto, ma varda che a gh’è de la zénte caparbia che quando ha
desidü de masàrse, nisciün la ferma! Mí gh’ho cognosü un che
s’é ’negàto nel vino!
RAZZÙLLO Co’ u vino?
ARLECCHINO Sì, in un tinàsso de vino.
RAZZÙLLO Che bella morte! Ma comme ha fatto?
ARLECCHINO Sta bòn che te conti… (Esce dalla fossa e,
dando colpi con la pala qua e là come stesse sistemando la
terra, racconta) El se ciamàva Bolgirón, a l’era un che
cognosévi bèn. A l’era inamorato del vino! Fato sta però che
quèst’òmo ol gh’aveva ’na maladìa tremenda, un’artrosi psichica
che no’ riusìva a valsàr ol biciér fino a la bocca: (Mima la fatica
di articolare il braccio) TRIC, TRAC, el se blocàva, per il senso
de la colpa e del pecato del ciucatée, tanto che sü quàter biciér
riusìva a bérne a malapena dòi! Bòn, ma per sua fortüna ghe
mòre un zio che ghe lassa un’eredità da no’ dire, ’na valanga de
denari. Alóra a l’è andàit al mercato e l’ha comprà due tinàssi
grandi come ’na casa, ün impienìdo de vino e l’altro vòdo.
RAZZÙLLO Che se ne faceva de chillo vuòdo?
ARLECCHINO Spècia che te conto. L’ha ciapà ’sto tinàsso
impiegnìdo de vino, l’ha fàit un’impalcadüra e l’ha piasàda in
alto in d’el cortile, poi gh’ha metüo ’na canna e un rübinettón
che andava deréntro a l’altro tinàsso, l’ha ciapà ’sto tinàsso vòdo
e ol gh’ha metüo deréntro tùtala mobilìa: el lèto a tre piàsse, ol
comodìn, l’armàdi, el s’è stravacà sóra ol lèto (Mima l’azione
sdraiandosi, sul praticabile). Po’ ol ha dervì el rübinetón e…
giò… una cascàda de vin! E lü bèlo tranquìlo, destendüo sül lèto,
ol speciàva che el vino cresèsse de livelo fino a la bóca, ol
dervìva i lavri e a quèl punto diséva la famosa frase del Vangelo:
«Lasciate che i vini vengano a me!» Ol bevevo beato sénsa
neanche besògno de valsàr el brasso e ol cantava felice:
«BLUGLBLUGLBLUG!»,
ol
pareva
un
mandolìn:
«BLUGLBLUGLBLUGHHHBBBGUM!»
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 35
RAZZÙLLO Ma comme? O vino no’ saièva de livello e
l’annegava?
ARLECCHINO No, parchè el fürbastro, lü, l’aveva metü ’na
vescìga con un galegiànte colegàta a una leva, de manéra che
quand el vino l’era a un livèl che montava tropo: CLOOK,
sübeto scatàva la leva e seràva de bòto ol rübinetòn. Lü speciàva
e ol beveva pian, pian, ma apéna el livèlo desendéva tròpo,
scatava de nòvo la leva e gió!… ’na cascàda de vino! E lü l’era
sèmper contento cont ol livèlo giusto, ubriaco ma scientifico!…
(Si leva in piedi) Soltanto che un ziorno ’st’òmo no’ va a
inamoràrse de una dòna?
RAZZÙLLO Che no’ ci piaceva o vino?
ARLECCHINO No, l’era una brava dòna, che ghe piazéva el
vin. Tant’è vera che loro, tüti e dòi, i stava slongàdi tüto el
ziórno sü ’sto lèto… fasévan l’amor deréntro al vino!… «Oh,
meo caro… BLUGBLUG… te vòjo bén… BLUGBLUG… va
sòto ti che mí anégo!» Sémper co’ la vescìga de livèl pronta,
imbriàghi tüto el ziórno de amor e de vin! (Pausa breve)
Soltanto che, varda, certe volte le dòne son catìve. ’Sta dòna no’
va a inamoràrse de un altro òmo?
RAZZÙLLO Normale!
ARLECCHINO Un òmo che ghe piaséva el late! (Razzùllo ha un
moto di disgusto) Sì… che ol stéva tüto el ziórno stravacà
deréntro un basletòn grande, impiegnì de late, immergiüo fino a
la bóca, e ol cantava cansóni de embriàgo de vin nel late!
RAZZÙLLO Traditore! Ma come se fa a pijàrse per uno che
tètta ’o latte?
ARLECCHINO Te gh’ha rasón. Pensa che quèsti dòi, lée e lü,
fasévano l’amore deréntro el late! «PIRIPATAGNAC… amore
mio… SPLISHSPLASH… vado in apnea.» (Mima
l’abbracciarsi e il rotolarsi nell’amplesso) E se sciuncìvan tüto
el ziórno nel late, che la sira era tüto formàgio!
RAZZÙLLO Deggeneràti!
ARLECCHINO Degeneràti! Ma col castigo di Dio: «Chi fa
l’amore nel late lo trasforma in formaggio! Invece, chi fa
l’amore nel vino… spumante!» Fatto sta che el nostro òmo,
quèlo bòno che ghe piaséva el vino, l’è andàit a casa e per la
disperasión la stcepà la vescìga del galegiànte. Ghe vegnìva giò
una cascata de vin sénsa fermàrse, lü stè stravacà sül lèto col
vino che cresséva.
L’han sentìdo cantare e gorgoglià tüta la note. La matìna, quando
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 36
son rivà i parenti e gli amìsi, han trovà ol tinàsso che
strabordava… tüto ol vino per la strada, con la mobilia,
compreso ol lèto, e lü, quèst’òmo, sgiunfiàt ne la panza che
sembrava la cupola de San Pietro… morto ’negàto! Tüt’intorno
se spantegàva un lèzo de vin che al funerale erano tüti ’mbriàchi,
’mbriaco ol prévete, gli amìsi, i parenti, perfin i quatro bechìn,
che portava la bara, tüti inciucà che cantavan (Intona il «De
profundis» ballandoci sopra).
[Tav. 32, «Annegato nel vino»]
I DUE IN CORO
In morte de profundis
te se’ crepà
E miserere nobis
te se’ crepà
E feretrum peccati
te se’ crepà
Requiem aeternam dona eis Domine
te’ se crepà
Peccata mundi, peccata mundi,
peccata mundi.
ARLECCHINO Crédeme, se un ol gh’ha la volontà de morire, el
mör e nisciün lo ferma! (Scavando con la pala estrae dalla fossa
un teschio che rotola fra i piedi di Razzùllo che zompa
spaventato).
RAZZÙLLO Madonna mia, che impressione, ’na capa ’e
muorto!
ARLECCHINO Ohi, ma te se ciàpet spavento per una crapa de
morto? A te sèt un bechino, caro!
RAZZÙLLO E ’n lu vulìssi fare ’sto mestiere… Nu’ me so’
ancora abbituàto! (Raccatta il teschio) E poi io ’sto teschio
manco lo cognóscio!… (Lancia il teschio, che Arlecchino afferra
al volo).
ARLECCHINO Fàmeghe vedér, bòja… me par de cognóserlo…
Sì, a lo recognósco! Adèso che lo vardo bèn, quèsto l’è ol zio de
quèlo che l’è negà ne l’acqua. L’era un che gh’aveva una fàcia,
de vivo… uguale e precisa a quèsta! Solo che adèso el gh’ha lo
sguardo un pochetìn più profondo! L’era un sbolzirón pièn de
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 37
prosopopea, ’na fàcia de merda! (Lancia il teschio a Razzùllo
che, spaventato, lo rilancia ad Arlecchino).
[Tav. 33, «Lancia il teschio a Razzùllo che, spaventato, lo
rilancia ad Arlecchino»]
RAZZÙLLO IAOOOO! Ah, che impressione! La vol
fernéscere?
ARLECCHINO L’ho fàit par fèt far un po’ d’abitüdin!
RAZZÙLLO Me ci hai tutto sconvoglìto! Mo’ m’è venuto da
pisciàre!
ARLECCHINO Te se’ un po’ debilitád de vesìga? Va’ a pisà!
RAZZÙLLO E addò? Bisogna che me ne vaga föra do cimitiéro.
ARLECCHINO E parchè te ghe deve tôr tüto ’sto distürbo? Pisa
chì!
RAZZÙLLO Addóve? Sopra ’na tomba?
ARLECCHINO No, miga sü una tomba qualsiasi. Sü quèsta per
esempio. Questa l’è una tomba bòna de pisàrghe sóra!
RAZZÙLLO Ma nun te pare che ci manchiamo ’nu puoco de
rispetto?
ARLECCHINO Che? Rispetto pe’ de’ morti malnati, bastròchi a
’sta manéra? Ma l’è giusto pisàrghe adòso. Varda qua… te dò
l’esempio storico! (Si pongono di schiena rispetto al pubblico,
Arlecchino armeggia attorno alla braghetta dei pantaloni).
RAZZÙLLO Puòzzo anch’io?
ARLECCHINO Come no’? Favorisca! (I due mimano di orinare
nella fossa).
Spunta un teschio dalla tomba che cerca di ripararsi il capo con
le mani più che scheletriche.
PRIMO TESCHIO Oh, che state a fare, zozzoni?
RAZZÙLLO ’Na capa ’e muòrto che parla!
ARLECCHINO (Al teschio) Eh, ma de che cosa te se laméntet?
T’ho dàit una lozione par i cavèi!
PRIMO TESCHIO Un poco de creanza per i morti! Siate
stramaledetti!
ARLECCHINO (A Razzùllo) Te dévet abituà, sopratüto quando
te incóntret dei morti come quèsti, che de viv sont stàit cossì
boriósi, che no’ se riése mai a convìnzerli de ’sta citto manco da
morti. Ma co’ ’na bèla inafiàda in fronte adèso ghe rinfresco le
idee! (Piscia con voluttà).
PRIMO TESCHIO Basta, maledetti sporcaccioni!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 38
ARLECCHINO Cosa? Te dit «sporcacioni»?
Arlecchino e Razzùllo prendono a schiaffi il teschio, dalla cui
bocca alla fine schizza una manciata di denti.
PRIMO TESCHIO (Piagnucolando) Mi avete fatto uscire tutti i
denti! (Si porta le mani scheletriche alla bocca).
ARLECCHINO Oh, ma no’ l’è un teschio, l’è un caimano!
PRIMO TESCHIO Malnato, non si batte sui morti!
ARLECCHINO Sü dei morti come ti se pisa, se pisa, ghe se
spüda, se caga e po’ ghe se scorèza anca par ’sciügar el tüto!
PRIMO TESCHIO Vergogna! Non siete buoni de parlare d’altro
che de sporcarìa! De orine, d’escrementi!
RAZZÙLLO Oh, s’è scatenato crapa ’e muorto!
PRIMO TESCHIO Dovreste almanco tenere un poco de rispetto
per il luogo.
ARLECCHINO Parchè, che luogo l’è quèsto, sentémo!
PRIMO TESCHIO È un luogo sacro codesto dove se consuma il
trapasso per l’aldilà.
ARLECCHINO E ti te sa come la ciamàva gli antìghi ’sta
filosofia de l’andà de là?
PRIMO TESCHIO Non lo so e non m’importa!
ARLECCHINO No’ te importa parchè te se’ un strùnz trücà de
teschio fàit con un calco de una scoréza!
PRIMO TESCHIO Ohi, dico!
RAZZÙLLO Vacce piano… mòderati co’ ’sti morti.
ARLECCHINO No, no, l’è proprio adèso che besógna dìrghele
’ste ròbe, che i son morti, parchè se te ghe i dìset de vivi, lori te
méten in galera!… (Al teschio) Sénte qua, morto… dònca, i
greci, che sont i padri de tüto el nostro pensiér ragionato, loro, ol
problema de l’anima ol ciamàvan «éscatos». (Il teschio si infila
le dita nel naso e Arlecchino gli molla un ceffone) Sémper co’ i
didi deréntro i bôgi del naso. Va’ che büsi che te se’ concià!
(Riprende il discorso) Alóra, i ciamàva, gli antighi, «éscatos» el
pensiero de l’anima e de l’aldilà, e i ciamava «escatologia» la
filosofia e ol ragionamento sül trapasso. (Il teschio ascolta
interessato) Orbene ’sti greci furbàssi i ciamàvan la merda
«scatos», e la filosofia sü la merda «scatologia». Una «e» de
diferénsa, una pìcola «e» de congiunsión tra «scatos» e
«éscatos» che ghe permete a la merda de librarse nel ziélo e de
spantegàr de spüssa tüto el paradìs! T’è capìt, fàcia d'escatòs?
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 39
RAZZÙLLO Che capa ca tenevano ’sti greci!
PRIMO TESCHIO Ah, un’altra nefandezza mi tocca sentire!
Villani, rozzi! Il vostro è un parlare da eretici screanzati. Finirete
tutti e due abbruciati! Stanotte stessa apparirò in sogno al
vescovo inquisitore e gli dirò: «Eminenza, andate a pigliar quei
due becchini che sono zozzi, eretici e anticristo!» E…
VUUUMMM, sul falò!
ARLECCHINO Ah, puranco de morto te fa la spia! E alóra:
TIEHH!
I due becchini prendono ripetutamente a pedate il teschio
palleggiandoselo finchè rotola per terra cadendo nelle mani di
Arlecchino che lo raccoglie e gli sputa nelle orbite. Dalla tomba
ora spunta agitandosi uno scheletro.
SCHELETRO DEL PRIMO TESCHIO Ridammi la mia testa!
Puliscila e ridammela!
Arlecchino getta il teschio tra le mani dello scheletro mentre,
dalla tomba, spunta un secondo teschio.
SECONDO TESCHIO (Furente) Come vi permettete di trattare
a ’sto modo mio nipote?
RAZZÙLLO Mo’, ha da venì fòri tutta la famiglia de cape ’e
muòrto!
ARLECCHINO (Al secondo teschio) Ma cosa gh’ho fáit?… Par
una pesciadìna, cossì, scherzósa!
PRIMO TESCHIO No, m’ha mollato una gran pedata che m’ha
scassato tutta la mascella!
SECONDO TESCHIO Provaci con me se hai il coraggio, che
stanotte ti vengo a tirare per i piedi e ti faccio crepare di
spavento!
ARLECCHINO A mì?
SECONDO TESCHIO Sì, a tì!
ARLECCHINO E alóra un’altra pesciàda!
I due becchini mollano schiaffi e pedate ai due teschi mentre
dalla quinta di destra entra in scena un prete.
PRETE Siamo pronti con ’sta fossa? Che state combinando coi
teschi, voi?
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 40
ARLECCHINO Sémo drée a ziogàre un poco con ’sti morti, a
darghe pesciàde par farli un po’ contenti, che son proprio sénsa
vita!
PRETE Alóra, venì ad aiutare a portare la salma!
Arlecchino, Razzùllo e il prete escono a destra e rientrano con
due parenti che portano la salma sulle spalle, seguiti dalla
vedova e amici tra i quali spicca un personaggio con una piuma
rossa sul cappello, cantano in coro il «Dies irae».
[Tav. 34, «Il funerale»]
«Ille te domine meo
qui fecit terram et aquam
laudate deum
a peccatum mortis servat
insuescit confiteor
vincere dies irae».
Appoggiano la salma a terra che rotola sul bordo della fossa. Il
defunto presenta un ventre rigonfio.
PRETE Un poco di rispetto, pure se è cadavere!
La vedova piangente si getta sul corpo del morto e grida tra i
singhiozzi la sua disperazione in grammelotte. Ogni volta che la
donna abbraccia il marito, dalla bocca del morto escono spruzzi
d’acqua. Uno del seguito apre l’ombrello e lo porge alla vedova
perché si ripari dagli spruzzi.
[Tav. 35, «Grida la sua disperazione»]
RAZZÙLLO (Indicando la vedova) Ma che sta dicendo?
ARLECCHINO La parla el dialèt del so’ paese. La dîs che l’è
disperàda. Disperàda che la vòl morire anegàda anca èla! La
dîse: «Te sèt negàt par colpa mia… E mí te amavo tanto!» (Il
cognato solleva ombrello e vedova e, in grammelotte, la
consola) Questo l’è el fradèlo del morto… l’è inamorato matto
de la vedova. (La vedova è tornata in ginocchio; il personaggio
con piuma rossa sul cappello la solleva, lei lo abbraccia) Questo
invece l’è quèlo che ghe piàse a lée, quèsto co’ la piuma rossa.
El cognato l’è geloso, (I personaggi, parlando in grammelotte,
eseguono quanto viene raccontato da Arlecchino) ghe porta via
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 41
l’ombrèlo, ghe porta via la vedova… Lée no’ ’l vole miga, va in
braso a quèlo co’ la piuma rossa. Lée la s’è metüa in ginógio a
piàgne… La vedova l’è desperàda. (L’amante la solleva e
l’abbraccia con ardore, il prete cerca di dividerli) El prévete l’è
anca lü inamorà de la dona… inamorato mato!
RAZZÙLLO Pur’isso?
ARLECCHINO Sì, de quèl co’ la piuma rossa… L’è geloso!..
Lée lo manda via… El prévete l’è inrabì, lée la piagne… la dise
che lü el ghe tegnéva mano al so’ marito… che lü de vivo l’era
un sporcacción. Ol fradèlo giura che invece l’era ’na brava
persona… ma lée, la vedova, ghe racónta che quando l’era in
vita l’ha metü inzìnte tüte le zóvine del paese: «E ti, prévete, te
ghe tegnévet man!» Lü, ol prévete, se difende: «No, mí gh’ho
sempre vüsàt che l’era un sporcazón… no’ gh’ho gimài dato
l’assoluzión quando ol vegnìva a confesàrse!»
PRETE È morto in peccato!
I teschi che spuntano dalla tomba addentano la tunica del prete
che reagisce schiaffeggiandoli.
RAZZÙLLO E s’ha pìglia cólli morti!
ARLECCHINO Eh, ma va che ’sti morti son rognosi… Pare el
Parlamento europeo!… Però, siór prévete, me dispiàse, ma se l’è
morto in pecà, per léze ’sto morto no’ se pol sepelìre in luogo
consacrato, besognerà zetárlo in de la fòsa di can!
PRETE Giusto, ben detto!
FRATELLO Int la fòsa di can mì fradèl?… At caza tì int la fòsa
di can… brüt burdigón! (Si avventa contro il prete prendendolo
a schiaffi).
PRETE (Accomodante) Fratello… (Accusa un primo schiaffo)
fratello… (Altro schiaffo) cerca di ragionare, fratello!
VEDOVA Tregua, bisogna spostare il morto, può farsi male!
Dopo aver spostato il morto, il fratello riprende a schiaffeggiare
il prete, che reagisce mollandogli potenti ceffoni.
PRETE Fratello!… (Schiaffo) Fratello!… (Altro schiaffo. Alla
fine della colluttazione il prete ha la peggio e cade morto
rotolando riverso dal praticabile sul palcoscenico).
ARLECCHINO La Chiesa è caduta! Ma arriverà un tedesco che
la resusciterà. Nostradamus, libro quarto.
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 42
VEDOVA Ha ammazzato il prete! (Rivolgendosi all’amante)
Ammazzalo, càvaci l’occhi… accìdilo!
Gag di cazzotti tra l’amante e il fratello del morto; i due
finiscono con l’uccidersi l’un l’altro, stramazzando al suolo. Il
fratello ruzzola dal praticabile andando a finire addosso al
prete.
VEDOVA Aahh!… sono rimasta invedovata per la seconda
volta!
ARLECCHINO Bòja, son cento repliche che ol fradèl del morto
va a crepare con la testa pogiàda süi ciàpi del prévete! (Alla
vedova) Pitòsto, sióra, chi l’è che paga par el sepeliménto de ’sti
tri altri morti, adèso?
VEDOVA Ci penseremo dopo! Adesso venite a casa mia. C’è il
grande pranzo delle esequie… Tenetemi compagnia. (Si avvia
all’uscita).
ARLECCHINO Andémo, andémo! Se magna.
TESCHI (Rispuntando dalla tomba) E noialtri no’ se magna?
ARLECCHINO Boja, che mondo! Non solo i pensionati vol
magnàre, anca i morti, adèso! Bón, portémo anca loro. (Si china
sulla tomba e agguanta i due teschi) Andiamo!
MANI SCHELETRICHE (le mani scheletriche si agitano fuori
dalla tomba) Aoh, e noialtre mani?
ARLECCHINO L’è un pranzo de’ sióri quèsto, se magna sénsa
mani! (Sferra un calcio alle mani scheletriche).
Esplode una musica allegra. Tutti danzano compresi i morti che
si levano in piedi ballano come marionette.
[Tav. 36, «Ballano come marionette»]
FINE
LA SERRATURA
Personaggi
Arlecchino
Franceschina
Razzùllo
Scaràcco
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 43
Ganàssa
Uomo con chiave d’oro
Entra in scena Arlecchino suonando un gran trombone.
Lentamente si porta in proscenio. Rivolgendosi al pubblico dice:
ARLECCHINO Emo perdü ’na ciàve! Par piasér, se trové ’na
ciàve, portéla chi-lòga…
Dalla quinta di sinistra entrano tre attori – Razzùllo, Scaràcco,
Ganàssa – portando un tavolo. Lo posano. Si guardano attorno
e, non contenti di dove l’hanno sistemato, decidono di cambiare
collocazione. Tutti e tre cercano di sollevarlo con sforzi immani,
senza riuscire però a spostarlo di un millimetro.
RAZZÙLLO Forza, tirate!
SCARÀCCO Bòja, che pesante!… pare de marmo!
GANÀSSA Provémo a valzàrlo inséma.
RAZZÙLLO No’ ’l végne miga… l’ünica a l’è far léva. Vo’ a
tòr una léva. (Dalla quinta prende un grosso bastone).
GANÀSSA Cossa l’è ’sta léva?
SCARÀCCO La léva serve par levàre! Besógna essere moderni!
Se fa tüto co’ la léva. Te lo digo me che ho stüdiato scienze
confuse. L’è la prima lége chimica: mèti e léva. Varda chi, basta
ficàrghe sòta ol palo cossì, e ol se valza! (Muove il bastone senza
esito).
GANÀSSA Eh, no’ sucéd ’negòta!
RAZZÙLLO Si nu’ fate l’appòggio… nu’ fate la léva!
GANÀSSA No, chi ghe vol el contrapéso de la balànza!
RAZZÙLLO Coss’è ’sta balànza?
GANÀSSA La balànza l’è come una léva, però pusé granda! L’è
semplice (A Scaràcco ) ti spòstate lì (Gli indica un lato del
tavolo) basta che mí me sénta qua (Si siede sul lato opposto)
oplà! Te vede che monta? (Il tavolo si alza sul lato di Scaràcco
).
[Tav. 37, «Scaràcco, Ganàssa e il tavolo»]
SCARÀCCO L’è véra, l’è ’gnüt legéro ’me ’na plüma! Sì, ma
par valzàrlo de qua cossa ti fa’ adéso?
GANÀSSA Basta che mí a végna de lì… e se valza anca de là.
Dài, ti va sòta… (Razzùllo si mette carponi sotto il tavolo) Prima
léva! (Strisciando, raggiunge il centro del tavolo) Adèso paso de
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 44
là un pochetìno… èco, vàlzet: (Razzùllo solleva il groppone e, di
conseguenza, il tavolo) se parte! (Razzùllo, oppresso dal peso,
cammina con gran fatica) Ohé! Quèsto se ciàma ol meràcolo de
la mecànega e de contrapési a balànza!…
SCARÀCCO Meràcolo! (Portano il tavolo sul lato destro della
scena, lo posano ed escono).
Sottofondo musicale. Entra Franceschina.
FRANCESCHINA (Urla perentoria verso la quinta da dove è
entrata) Coràjo, entrare… e recordàrse ol basaménto! (Esce).
Ganàssa e Scaràcco entrano ed escono portando in scena vari
elementi. Tra questi, un’enorme serratura coperta da un
lenzuolo. La abbandonano a metà percorso: l’oggetto rimane
sospeso nel vuoto, ma nessuno si fa meraviglia dell’incredibile
magia. Ci accorgiamo però che sotto il lenzuolo c’è, nascosto,
Scaràcco che la sposta per posarla sul tavolo, ma sventato
com’è, lascia le mani sotto il peso.
SCARÀCCO Oh, che dolore! Me son ’ncastràto le man sòta a
’sto peso… (Dà strattoni per liberarsi) no’ végnen anca via…
me so’ ’ncastrà sôta… Come fàso adéso?… (Al pubblico) Déme
’na man, fè quaicòsa.. dai! (Cerca di liberare le mani) Bòja! Son
vegnüde via da sole!… (Mostra al pubblico due mani enormi,
gonfie e color rosso ciclamino) Oh, bòja! (Esce).
Sulla musica entrano altri facchini che portano casse di varie
dimensioni, combinano guai e incidenti a ripetizione. Rientra
Franceschina che solleva il lenzuolo che copre la grande
serratura. Porta con sé un secchio e un piumino per spolverare.
Stop musica.
FRANCESCHINA (Rivolgendosi alla serratura) Bèla, dólze…
me tresòro, adés végn chi che te mèto a l’órden, cara, la mia
bèla, belìsima seradürìna, deo che dolzóre! (La spolvera con il
piumino) Chi l’è quèl disgrasiàto d’un trovarobe che t’ha
desmentegàta in sü ’sto palco, in mèso ai ragnatéli, in mèso a la
ruménta? Adés te lavi, vo’ a tòr una bèla sidèla de acqua fresca e
profümada. (Fa per andarsene ma ritorna sui suoi passi) No, te
còvro parchè no’ vòjo che pasa quaich malnàt… e te varda e te
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 45
tóca. Sta lì, eh, mia bèla tòpa (Esce).
Riprende la musica; entra da destra Arlecchino cantando e
portando sulle spalle un’enorme chiave. Infilati al braccio, ha
due canestri coperti da un tovagliolo.
ARLECCHINO (Al pubblico) Gh’ho truvà la ciàve!
(Sorpassando la serratura, la chiave vibra e strattona
Arlecchino quasi a trattenerlo) Ma bòja!… Ma che te ciàpa,
desgrasià! (A soggetto, parla con la chiave cercando di
calmarla) Ma cosa ti va zercàndo? Cosa zèrchi? Petrolio?…
L’acqua? (Indicando la serratura nascosta dal lenzuolo) Una
fonte? L’è quèsta? Spècia… ghe dev’esser l’acqua, bòja:
l’acqua, l’acqua! (Solleva il lenzuolo e scopre la serratura)…
No, no’ l’è acqua quèsta…. (La chiave trascina Arlecchino verso
la toppa) No! Ferma! (Strattona e schiaffeggia la chiave) Oh,
golosa!… No’ vardàre!… Ohi! (Accarezza la serratura) Arabomoresca! Varda che bèla…
Entra Franceschina a catapulta. Arlecchino nasconde la grande
chiave dietro la schiena.
[Tav. 38, «Arlecchino e Franceschina»]
FRANCESCHINA Fermo lì!… Tira gió quèle manàsse
sporselénte de la mia seradürìna!
ARLECCHINO Ohi, mata! Cossa che gh’ho fato?… L’ho apéna
sfioràda con un dit.
FRANCESCHINA L’è propri con i didi che no’ se va a sfioràr le
seradüre… Se coménsa a far de le smorbièsse con un dido e no’
se sa dove se va a fornìre… (Si è resa conto dell’impaccio di
Arlecchino) Cossa te nascondi lì, cossa ti gh’ha lì de drio?
ARLECCHINO Mì… qui? De drio? A gh’ho un bastón.
FRANCESCHINA Ah, un bastón? E de quando in qua se fa
vergognànsa a mostràr un bastón?
ARLECCHINO A mí m’han sémper insegnato che no’ se mostra
mai un bastón a le seradüre zóvene e de bén.
FRANCESCHINA Ehhh, quèsta l’è una parlàda savia e
costümàda. (Inzuppa uno strofinaccio nel secchio e inizia a
lavare la serratura) Végn chi, bèla seradüra, che te nèto e te
prepari par la tòa festa… deo, che bèla…
A sua volta Arlecchino ha infilato la chiave fra due casse in
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 46
modo che resti in piedi e, canticchiando, la strofina con uno
strofinaccio sul quale sputa ripetutamente, esaltato.
FRANCESCHINA Ehhh… cossa ti gh’ha là?
ARLECCHINO Un membro del comitato per la ricerca del
tricolore in Italia… déto anche «ciavetìn».
FRANCESCHINA No’ te fa vergognànsa mostràr ’sto trivelón
balòsso a una seradürìna immacolata come la mia?
ARLECCHINO Immacolata?
FRANCESCHINA Immacolata!
ARLECCHINO
Così
granda…
ancora
immacolata?
(Sghignazza).
FRANCESCHINA Vilàno! L’è immacolada no’ par mancansa
de richieste, ma par una scelta politico-religioso-ideologica e
sociale!
ARLECCHINO Ah sì… scüsa, fame provàr… (Si avvicina
brandendo la chiave).
FRANCESCHINA No! Fermo lì, e no’ vardàrla che te me la
sconsümi! Va via, volgaràsso, via! La còvro… un paravento!
(Conficca due manici di scope nel tavolo, sui quali stende un
lenzuolo, così da nascondere la serratura agli occhi di
Arlecchino).
ARLECCHINO (Estrae da uno dei due canestri un
armamentario da barbiere: un rasoio, un pennello, uno
specchio, borotalco, e inizia a fare toeletta alla sua chiave) La
tualèt del ciavetón! (Annoda all’immaginario collo della chiave
un tovagliolo).
FRANCESCHINA Oehhh! (Estrae dal secchio un lunghissimo
nastro di raso azzurro con il quale avvolge la serratura come
fosse un uovo di Pasqua).
ARLECCHINO Va’, che meravégia! El nastro! ’Riverà el
ministro a tajàrghe el nastro… e se fréga la seradüra.
FRANCESCHINA Ma tase… tàjate la léngua! (Indica il fiocco)
Varda che bèl!.
ARLECCHINO Oh… nastro azzurro… l’è nato el ciavetìn!
FRANCESCHINA Ma va via, va, va via… (Estrae dal secchio
due enormi orecchini colorati, li mostra ad Arlecchino e li
appende ai lati della serratura) Orechìni par seradüre!…
ARLECCHINO Bòja! La seradüra de Natale! (Mima di radere la
chiave) Ciavetón de primo pelo… (Estrae un barattolo nel quale
intinge due dita).
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 47
FRANCESCHINA Cossa l’è che te fe’?
ARLECCHINO Olio… ghe dò de l’olio aromatico per ciàve,
ciavetón, seradüre e cadenàs!
FRANCESCHINA Te me ne dà un fiatìn anco par la mia
seradürìna?
ARLECCHINO Comoda. (Le offre il barattolo) Ma cara…
vaghe pian!… l’è forte. (Franceschina imbratta d’olio la
serratura) No’ così, bòja, soltanto nei punti erogeni! (Mostra i
punti predetti).
FRANCESCHINA Oh… no’ tocàrla!…
ARLECCHINO Che meravégia! Ma che meravégia! (Ammira
appassionato la serratura) Roba che… Sente, se podrìa far en
manéra che… che ghe sia un contatto… se pur spirituale… tra el
ciavetón… (A tiritera) Ciavetón settentrionale bèla presènsa a
scopo amicìsia òfresi.
FRANCESCHINA Gimài al mondo… gimài al mondo! Te
vogherìsi infilàrghe quèl ciavetón sbolgiróso ne la méa
creatürìna santa?…
ARLECCHINO Sénsa impegno! Po’, cus’è ’sta storia de la
seradürìna santa? Cossa te credi d’avérghe lì, el cadenàs de’
meràcoli?
FRANCESCHINA De’ meràcoli! Te la gl’ha dit caro Arlechìno,
de’ meràcoli! Te gh’ha in mént el paradìs?
ARLECCHINO Sì…
FRANCESCHINA Te gh’ha in mént el gran portón che gh’è
devanti al paradìs?
ARLECCHINO Sì.
FRANCESCHINA Prima de i nìvoli… te gh’ha in mént che sü
quél portón gh’è una seradüra? Beh, quèla seradüra l’è la méa.
ARLECCHINO La seradüra del portón del paradìs?
FRANCESCHINA Sì, zertaménte, e quand ’riverá la fine del
mondo, el ziórno del giudìsio… dio, dio, già mel vedi, el Cristo
ol spunta da i nìvoli, belìsimo, da la tèra sponta föra tüti i morti
tremendìsimi che guàrdan la mia seradüra pién de sperànsa, tüti
insèma parleràn in tüte le lingue del mondo e…
ARLECCHINO (Interrompendola) I morti… i morti che pàrlen?
FRANCESCHINA E diseràn: «Oh, che belìssima seradüra…»
(Prosegue in grammelotte, uno sfarfugliare stridente da
chioccia).
ARLECCHINO Pàrlen cossì i morti?…
FRANCESCHINA Sì, i morti pàrlen cossì…
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 48
ARLECCHINO Giüsto che sìen morti! Galìne imbriàghe!
FRANCESCHINA «Cito!» farà Gesù Cristo.
ARLECCHINO «Cito, morti, o ve ’cópo tüti!»
FRANCESCHINA I morti se tàsen spaventati, po’ el Cristo ol fa
un ségn cossì con la man, e da una parte i va i bòni, da l’altra i
catìvi, e in mèso i se resta i cojóni.
ARLECCHINO Giustìsia divina!
FRANCESCHINA Po’ el Cristo ol va verso la mia seradüra, la
guarda fisaménte…
ARLECCHINO Po’ ciàpa ’na bèla ciàve tùta d’oro…
FRANCESCHINA No, niente ciàve!
ARLECCHINO Ghe presto la mia?
FRANCESCHINA No, par piasér… vergognoso!
ARLECCHINO Sénsa ciàve?
FRANCESCHINA El Cristo dà una bufàda a la mia seradüra e la
seradüra la se desléngua, gira el cadenàs, spalanca la porta, e le
anime sante éntran in del paradìs, i cativàssi se sprofóndan in
d’el inferno, el portón se sèra e lì devànti, in t’el teréno di
nisciüno, réstan i cojóni come ti, Arlechíno!
ARLECCHINO Ma ti te sèt sigüra che quèsto ol sia propri el
Gesù Cristo en persona, el Redentore, quèsto qua ch’ol bufa le
seradüre? Oh, varda, varda, el mé ciavetón sta andànd en
slanguiménto, bòja, o l’è tüto pién de passión… ah… el brüsa…
bòja, par piasér… (Gridando verso la quinta) ona sidèla, svelti,
’na sidèla d'acqua frésca!
FRANCESCHINA (Fredda) Indiferénte, indiferénte.
Entra una maschera con un secchio, lo posa ai piedi di
Arlecchino che affonda la grossa chiave nell’acqua. Subito ne
fuoriesce una nube di vapore.
ARLECCHINO Bòja! Oh che fuoco d’amore!
FRANCESCHINA Indiferénte… sono indiferénte al ciavetóne
lesàto… indiferénte!
ARLECCHINO Va’ el vapore che sconsüma la passión!
FRANCESCHINA Bollito de ciavetóne… sono indiferénte!
ARLECCHINO Sénte, àbit un pòc de pietà, fèit en manéra che ol
calór de quèsto méo ciavetón…
FRANCESCHINA Mai!
ARLECCHINO …ghe pòsa entrar…
FRANCESCHINA Mai!
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 49
ARLECCHINO …in te la tòa seradürìna! (Con enfasi)
Seradürìna fresca, fresca seradürìna! Ol dis anca el poeta,
Petrarca: «Dolze, ciàra, fresca seradürìna, fa bén de sera e ancòr
de la matìna».
FRANCESCHINA Tase, seradüròmane, tase! Va via! Se no,
varda: ciàpo quèl to’ ogetóne oréndo e ol mèti in sü l’incüdine
infocàta… e co’ un martèlo ghe dò tante de quèle martelàde che
t’el fo’ vegnìr apiatìto… che come màsimo te se pòde far aria
come co’ un ventàjio…
ARLECCHINO (Rivolto alla chiave) Ohi, t’è capìt, caro el mè
ciavetón, mètite el core in pase che d’andar par tòpole sante
incóe a l’è proibito. Fa’ conto d’èsser en quaresima. (Solleva da
terra uno dei due canestri) Ma no’ stémo a piànser ’n sül late
sversàt e andémo… (Scopre il contenuto del canestro) Ohh! A
vedo qua un regalo… meravigióso!
FRANCESCHINA Se gh’è?…
ARLECCHINO La méa mama l’ha preparà un canestrìn…
FRANCESCHINA Che bòna mama…
ARLECCHINO Varda qua… (Estrae una collana di salamelle)
una sciarpa… de lügànega!
FRANCESCHINA (Sospira golosa) Ahhh!
ARLECCHINO (Se l’avvolge intorno al collo) Contra el frèdo e
el mal de gola.
FRANCESCHINA (Geme per il languore) Ahhh!
ARLECCHINO Varda qua… olio… no’… vino santo… varda
qua… un formàgio, ma che formàgio, l’è un brilànto! (Pone
sull’anulare una provola)… ghe fo’ ’na montadüra d’anèl… el
básen tüti.
FRANCESCHINA (Altro gemito) Ahhh!
ARLECCHINO Varda qua… ehhh! un polàstro! Un polàstro
’rostìto ancora caldo! (Estrae dal canestro una spazzola e va
sfregando il pollo).
FRANCESCHINA Ahhh! Arlechìno, ti sèt bèlo, ti sèt
inteligénte, ti sèt bravìsimo! Se magna?
ARLECCHINO No! Soltanto le persone zentìli, de còre, e che
gh’han amore par i ciavetón, i magna!
FRANCESCHINA Vilàn!
ARLECCHINO Quèi che tégn fresche le seradüre e ghe fa’ far i
giòghi d’amor co’ i ciavetóni!
FRANCESCHINA Vilàno! Te me gh’ha gnanca dit: «Te voi
favorire, cara Franceschina?»
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 50
ARLECCHINO Pròvate a spazolàr el polàstro: ol devénta una
roba meravegiósa! (Cambia tono) Parchè, tì te m’ha dit: «Vuoi
favorire» a propòsit del me ciavetón che l’era là che ’ndava a
sconsümarse, adiritüra, ch’ol pareva un turìbolo en gésa?
FRANCESCHINA Sun drè a murìr de fame!
ARLECCHINO E alóra, ti fa de manéra che no’ se disléngua più
’sto ciavetón, desgrasià!
FRANCESCHINA (Indignata) Gimài al mondo! No’ se fa
comèrcio co’ l’onór de la méa seradüra, ciàro?
ARLECCHINO E alóra ti tégnite l’onór de la tòa seradüra, mí
me tegnerò ol fragrànse del polàstro e la sòa impiegnidüra!
(Batte con le nocche delle dita sul pollo) TOC TOC TOC! Sénte,
che crocànte! (Porta il pollo alle orecchie) Se sénte anca el
mare! (Porta il pollo all’orecchio di Franceschina) Sénte!
FRANCESCHINA Oh Arlechìn… mòro de fam!
ARLECCHINO El mar de i polàstri!
FRANCESCHINA Arlechìno, Arlechìno… no’ ne pòdo pì. Te
me giüri che te saré delicádo?
ARLECCHINO Delicádo come ’na ciàve de violìn.
FRANCESCHINA Una volta sola?
ARLECCHINO Una volta sola.
FRANCESCHINA (Si lamenta, quasi piangendo) Ahi, ahi, ahi!
Par mèso polàstro?
ARLECCHINO No, un polàstro intrégo.
FRANCESCHINA D’acòrdo. Dame el polàstro.
ARLECCHINO Te dò anca do’ salamìn. (Entrano Razzùllo e
Saracco che, approfittando della distrazione di Franceschina,
tentano di rubare la serratura) Ohé… ladri!… ladri!… Bòja…
desgrasià!
RAZZÙLLO No’ sémo ladri! Se voleva solo darghe un poco
d’olio.
SCARÀCCO Una vongiadìna!
ARLECCHINO Ve dò ’na ciavàda! (Mena fendenti con la
chiave) Desgrasià! (I due fuggono) Desgrasià! I va’ intórno, ’sti
ladri, a rubare le seradüre par vénderle in Oriente… ai sultani…
FRANCESCHINA (Geme di spavento) Uhhh, uhhh…
ARLECCHINO … che gh’han i àrem impiegnìd de seradüre de
tüte le rase e i colori.
FRANCESCHINA Che desgràsia… s’eri dré a perdi la seradüra
e el polàster in una volta sola.
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 51
Stacco musicale. Entra in scena un uomo con una grande chiave
d’oro sulla spalla. Sorride spavaldamente guardando la
serratura.
FRANCESCHINA Ciùla… che ciavetón d’oro! (Si avvicina
all’uomo con sguardo incantato)
[Tav. 38 bis, «El ciavetón d’oro»]
ARLECCHINO Ma che d’oro… l’è un cadenàsc d’otón indorà.
FRANCESCHINA (Si blocca) L’è vera, l’è un feràscio. Un
feràscio indoràto.
ARLECCHINO (Rivolgendosi all’uomo della chiave) Cossa te
vardi? Cossa credi, d’ésser el Superman dei ciavettóni, tì?
L’arcangelo Gabriele co’ in spalla la ciàve de San Pietro in
Roma?
FRANCESCHINA Mirate popolo… mirate: ciavetóni in
competisión!
ARLECCHINO L’è inütil che te stè chi… no’ gh’è mercato. L’è
già promèsa! Preferìse el ferro, sano e onesto, caro mio! (A
Franceschina) ’Ndémo, combinémo ’sto nostro afàre.
FRANCESCHINA Giusto, combinémo.
Arlecchino e Franceschina si spostano, parlottando, sul lato
opposto della scena.
ARLECCHINO Dame un po’ de parfümo de farlo rinvegnìr.
FRANCESCHINA Parfümo?… No’ ghe fa mal?
L’uomo si avvicina alla serratura sventolandole intorno la
chiave d’oro; la serratura affascinata segue l’uomo ed entrambi
escono di scena.
ARLECCHINO Oh boja, la scapa! (Corre ad inseguire la
serratura) L’è scapàda, l’è scapàda la frescolina! (Entra tra le
quinte e rientra con la serratura nella quale è conficcata la
chiave d’oro)
FRANCESCHINA La mia seradüra!… Oh… oh!…
ARLECCHINO La frescolìna!
FRANCESCHINA (Una ragazza fra il pubblico esclama: Oh,
dio!) Che è? (Scruta fra il pubblico).
ARLECCHINO L’ha dit: «Oh dio!… oh dio!…» (Indica la
ragazza in platea).
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 52
FRANCESCHINA (Alla ragazza, uscendo dal personaggio) Ma
no, sta tranquilla, è falso, tutto finto.
ARLECCHINO Dopo una bona confesióne el pecàto è rimesso.
FRANCESCHINA (percuote la cassa della serratura) È di
legno, senti, è di legno.
ARLECCHINO Peccato… è un peccato di legno!
FRANCESCHINA (Riprendendo a recitare) Ohhh… che
desgràsia!
ARLECCHINO San Pietro ha colpito ancora! (Va verso destra
dove ha lasciato la chiave).
FRANCESCHINA ’Na povra dòna la fa tanti sacrifìsi par tirar
sü ’na seradüra imacolàta e ol prim desgrasià de ciavetón dorato
che ghe va dré, me la scapa, ’sta spitìnfia, e la se fa infilsàre!
ARLECCHINO (Grido di dolore) Ahhh! (È tutto preso ad
armeggiare con la chiave nascosta dietro una cassa).
FRANCESCHINA Se gh’è?
ARLECCHINO L’è morto!
FRANCESCHINA Chi?
ARLECCHINO El ciavetón! (Estrae il chiavettone).
FRANCESCHINA Oh… parchè?
ARLECCHINO Senza anima… (La chiave si affloscia).
FRANCESCHINA Ohhh…
ARLECCHINO Oh, tragedia d’amore! (Se la getta sulle spalle,
ammosciata com’è, ed esce di scena. Stacco musicale).
FINE (?)
L’ASINO E IL LEONE
All’inizio della scena si ode un grande abbaiare: entra
Arlecchino terrorizzato.
ARLECCHINO Ahhh… can de un can… bòja, che el deo di can
te fülmini, can de l’ostia, can de’ smòrbi, can maladì! Bòja, no’
se pol andar pì intorna, gh’è i can dapartüto, anca da le fenèstre i
spórze compàgn de i cristiàn. Stéva caminando tranquìlo, ghe
vedo ’na bèla fenèstra cont sül pogiö un baslòt impiegnìdo de
lüganeghe, de salamìn, ol gh’era de’ tòchi de carne, bòja d’un
can, fago par svalzàr la mano… UAUHHH! Salta föra un can
tremendo che a momenti me sgagna via tuta la man! E daghe da
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 53
magnàr de la carne velenósa a ’sti can che fan la guardia a le
lüganeghe!… che i resta sèchi! (Con un gran balzo Razzùllo e
Scaràcco entrano in scena. Calzano sul viso maschere con
sembianze di cane. Zompano su quattro zampe e saltano
abbaiando addosso ad Arlecchino che grida spaventato) Ohi!…
e che è?
RAZZÙLLO (Togliendosi la maschera) Ah, ah! Ce se’ cascato
’me nu mèrolo!
SCARÀCCO (Anche lui si scopre il viso) Ah, te gh’ha catàt ’na
bèla strissa de ciàpe, veh, Arlechìno?
ARLECCHINO Bòja! Cojón desgrasiào! A sèt vui?
RAZZÙLLO Ah, ah… è ’nu spasso de scompisciàrse a vedé
come te zompa pe’ ’n’abbaiàta!
SCARÀCCO GNAM! Ol pare che te gh’abbia ciapàt la
tarantola.
RAZZÙLLO-SCARÀCCO (I due ballando e cantando girano
attorno ad Arlecchino sfottendolo ed escono di scena [Tav. 39,
«Razzùllo e Scaràcco sfottono Arlecchino»])
Zompa, zompa, c’è ’nu cagnóne,
Arlecchino è ’nu pisciacchióne.
Pe’ ’na botta de spavénto ci s’è cattàto la tremarèlla.
Lui voléa la salamella
E s’è accattato la scarella.
Zompa accà, zompa allà,
Arlecchino è ’nu quaquaraquà.
ARLECCHINO (Anche lui accenna qualche passo di danza a
controsfottò) Canté! Canté! Ah, ah, come sit cojón! Ma de bón
vui credét che mí gh’ho catàt spavént par vui?
RAZZÙLLO-SCARÀCCO (Rientrando in scena) Ah no, eh?
ARLECCHINO Ma no’ de següro, bòja! Co’ ’sta maschera
(Indica la maschera che Razzùllo tiene ancora in mano), se vede
de lontàn co l’è de carta. Ma po’… mí, mí… ah, ah… Arlechìno
ch’ol cata spavento par un can? Ma vui el savét qual è el mè vero
mestè? (Diniego dei due) Ah, a l’è quèl de andàr intórna par
l’Aministrerìa de Venésia a tôr i cani rabiósi e famélighi.
(Scaràcco scoppia a ridere seguito dal compare) Sì! Quand gh’è
un can faméligo, me ciàmeno mí. «Arlechìno! Cata ’sto can!»
(Mima con truculenza l’azione raccontata) Mí ’rivo davanti a
’sto can, ghe pónto i ôgi tremendi, lü ol grigna. Mí slonzo ’na
man… lü ol salta par catàrme la man… ghe tiro via la man, me
pasa soravìa col salto… ghe cato un cojón… ghe strizo un
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 54
cojón… cato l’altro cojón… ghe fazo una treza de cojón! (Imita i
guaiti del cane) IUAH! IUAH!
SCARÀCCO (Lo aggredisce alle spalle, abbrancandolo per le
natiche) AOOH! UOUOH!
ARLECCHINO (Mostrando le mani richiuse a pugno)
Desgrasià, Scaràcco ! M’è restà i cojón del can in man!
RAZZÙLLO Ah!… Ma mo’ l’hai vedüo l’achiappacani de
l’Aministrerìa de Venésia. OHAUOO… (Razzùllo e Scaràcco
escono danzando e cantando)
Zompa zompa,
facce ’nu botto,
Arlecchino è ’nu quaquaraquà.
ARLECCHINO Desgrasià… mecragnón! Far catàr de ’sti
spavénti! Che gusto a far ’sti schèrzi… (Se ne sta andando ma
viene bloccato da Franceschina che entra da dove sono usciti i
due compari). [Tav. 40, «Franceschina e Arlecchino»]
FRANCESCHINA Oh Arlechìn, cossa l’è capitàt che te gh’ho
sentìt criàre contra i tòi compari Razzùllo e Scaràcco?
ARLECCHINO No, sont loro che crìan contra de mí. Sì, parchè
gh’ho fàit uno schèrso e se sont inrabìt…
FRANCESCHINA Sì? Che schèrso?
ARLECCHINO Parchè mí gh’ho fàit una scomésa… gh’ho fàit
un ziògo… che l’è un indovinèl… che gh’ho guadagnàt diése
bajòchi. T’el fago anca a tí ’sto indovinèl?
FRANCESCHINA Sì, fàmelo.
ARLECCHINO A gh’è una roba giàlda e verdolìna con tüte le
plüme intórna, che la sta dentro ’na gabietìna e la fa: cip, cip…
Indovina, cosa l’è? La fa: cip, cip… Indovina, cosa l’è?
FRANCESCHINA Ma l’è un canaríno.
ARLECCHINO Canaríno? No, no.
FRANCESCHINA L’è un üselèto.
ARLECCHINO No, gnanca un üselèto.
FRANCESCHINA Lasso.
ARLECCHINO ’Na sciavàta!
FRANCESCHINA ’Na sciavàta?
ARLECCHINO Sì.
FRANCESCHINA Giàla e vérda?
ARLECCHINO Giàla e verde; l’ho pituràda mí cossì, che me
piàse.
FRANCESCHINA In te la gabièta?
ARLECCHINO In te la gabièta l’ho metüa mí parchè cossì a
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 55
gh’è l’aria e la sciavàta no’ spüsa miga.
FRANCESCHINA E tüte le plüme intórno…
ARLECCHINO Parchè cossì l’è pì soffice…
FRANCESCHINA E cip cip?
ARLECCHINO Ghe l’ho giùnta mí, se no’ l’era tropo fàcile e
indovinava sübit. Ah, ah… se sont inrabìt!
FRANCESCHINA Ma tase!… Gh’ho sentìt che i parlava e i
diséva che ti sèt un spaventàt. (Gli punta addosso un dito,
minacciosa) Atènto, sa’, Arlechìno, che mí no’ me va d’avèr par
òmo un òmo che no’ l’è un òmo!
ARLECCHINO Bòja, ma tì te va a créder quèl che racónta quèi?
’Sti cagasóto! Verà el ziórno che ghe farò vedèr mí chi son mì a
quèli…
FRANCESCHINA E spero bén, caro Arlechìno, coi fati e no’
solamente co’ le parole, altrimenti tì a mí… no’ te me sfiori
nemanco una ciàpa cont’un dito!
ARLECCHINO Ma bòja, ma parchè te fèt cossì, Franceschina?
Bòja, sont el tò moróso… fame una smorbièssa de moróso.
FRANCESCHINA No! ’N’altra volta! (Esce di scena).
ARLECCHINO (Implorante) Un basìn, bòja, un basìn! La me
despréssia… l’è tüta colpa de quèi desgrassià canàjà. (Entra un
asino: cambia tono) AIAHH! San Giorgio, presto, a cavàlo, il
drago! Un drago… San Giorgio… (Si ferma, sbircia l’animale e
si rende conto dell’equivoco. Pausa) Comodo, San Giorgio, no’
gh’è besógn che ti mònti a cavàlo… No’ l’é un drago, a l’é un
asino. Bèstia! Son un desgrasià, a me cati i àsini par draghi. (Fa
gesti all’asino che trotta per la scena) Végne qua un momento…
(L’asino si arresta) Va’ che bèla bèstia, va’ che bèla bèstia
(L’asino incrocia le zampe atteggiandosi a bullo) Che bèla
posisión de asino! Scüseme, ma tì no’ te gh’ha un padrón?
(Rivolto al pubblico) A l’è inteligénte! Sénte, sénte asino…
(Ancora al pubblico) Vòjo védar se l’è un caso o se l’è proprio
inteligénte davéra. (All’asino) Sénte, dévete dirme: l’ültima volta
che t’è encontrà el tò padrón, dove l’era, dove l’era el tò padrón?
L’era de là… de sü… de gió… (L’asino volge la testa a sinistra,
a destra, in giù, in su, poi galoppa torno-torno) Ol s’era
sperdüo? (L’asino si blocca e fa cenno di sì [Tav. 41, «Te s’è
perdüo?»]) Ol s’era sperdüo! Gh’ho indovinato! Ma che bèstia
inteligénte! El se fa capíre! Adèso ghe domando: chi l’era el tò
padrón? Dime: l’era un vilàn?… (L’asino fa cenno di no) No,
no’ l’era un vilàn. L’era un nodàro?… (L’asino tentenna con la
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 56
testa) Quasi? Alóra un prévete? (L’asino fa cenno di sì) Un
prévete, gh’ho indovinàto, un prévete! (L’asino raglia in segno
di assenso) Bòja, un prévete! Che inteligénte de bèstia. Adèso
dime: l’ültima volta che te l’hàit encontrà, cosa el faséva ’sto to’
padrón? (L’asino accenna un passo di danza) Ol balàva? Sì, ol
balàva, ol balàva! (Danza a sua volta) E balàndo, cosa ol faséva?
(Raglio dell’asino) Cantava? Fa’ sentì… (L’asino riprende a
ragliare) Cantava! Alóra o l’era ’mbriàgo? (L’asino fa cenno di
sì e barcolla vistosamente a imitare il passo incerto di un
ubriaco) L’era ’mbriàgo! Balàva cantando da ’mbriàgo! E da
’mbriàgo cosa l’ha combinà?… Fame capíre… fame un segno…
che mí capìsi. (L’asino leva la gamba e gli orina addosso.
Arlecchino si scansa e il getto finisce in platea annaffiando gli
spettatori delle prime file) O bòja… no, no… férmate… lase…
oh bòja… ohi ohi… (Agli spettatori) Oh, scüsème… no, l’è
acqua… l’è roba… sana, naturàle… (Rivolto nuovamente
all’asino) E dime, dime: dopo, cosa l’ha combinàt ancora…
(L’asino si accuccia; si odono boati sospetti. Dal sedere
vengono sparate palle di sterco che finiscono addosso ad
Arlecchino [Tav. 42, «Dialogo tra l’asino e Arlecchino»]) Cosa ti
fa’? Cosa so’ ’sti versi? No, no, no! (Urla di Arlecchino e altri
rumori dell’asino; una scarica di palle viene proiettata in
platea; Arlecchino si rivolge al pubblico) Scüsème… no, no, l’è
solo carta pitürada de scuro. Fuori… l’è carta… La signora la
gh’ha avèrta? Ecco, dentro gh’è la sorprésa. (All’asino) Sénte,
fame un piasér: vòjo savér cosa l’ha fàit dòpo che s’è scarigàdo,
’sto tò prévete ’mbriàgo, cosa l’ha fàit?… (L’asino, con ragli
sensuali, si pone in posizione rampante e si avvinghia ad
Arlecchino quasi a volerlo montare. Arlecchino si divincola) Ma
non se fan ’ste robe devànti a la zénte!… (L’asino lo sbaciucchia
sul collo) Cosa fàit?… A l’era inamoràto! (L’asino si dimena in
atteggiamenti vezzosi) Oh, varda… come se fa capire!
(All’asino) El padrón a l’era inamoràto? De ’na dòna, eh? Sénte,
eche cosa l’ha fàito? L’amore, l’ha fàit l’amore? (L’asino raglia
assentendo) E faséndo l’amore cosa gh’è capitàt?…(L’asino si
lascia cadere di schianto a terra) Morto?… Gh’è catà un
colpo… (L’asino, rantolando, solleva a stento la testa e poi si
lascia andare, morto) Un colpo d’amore? (L’asino raglia in
falsetto) No’ piàgnere, no’ piàgnere, l’è andàto tüto bén. (Lo
afferra per la cavezza e lo aiuta a rimettersi in piedi) Varda che
in tùta la desgràsia te sèt fortünàt, parchè ti gh’ha encontràto mí,
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 57
parchè par légge se dise che quando un asino sénsa padrón
encóntra un padrón che no’ gh’ha l’asino, el so’ asino ol devénta
lü… Sì, vòjo dire che lü devénta l’asino… no, vòjo dire che…
’nsòma, lü devénta el padrón de l’asino che no’ gh’ha el padrón.
Mí son el tò padrón. Sèt conténto? (L’asino fa cenno di no) No’
te sèt conténto?… Ma parchè? (L’asino se ne va caracollando
per la scena) Végne qua, sii bòn… sii bòn veh! Végne qua!
Obedìse!! (Afferra un bastone e colpisce l’asino) Végne qua
sübeto parchè se no’ devénto una bèstia!… Mí son el padrón!
(Sbracciarsi del sedicente padrone e ragli di protesta dell’asino
che scalcia, fa volar via il bastone dalle mani di Arlecchino,
quindi, serrando le mascelle a tagliola, lo afferra per un
orecchio e lo trascina a terra) Ahi, ahi, ahi! Aìdo, aìdo, basta!
Son mí l’àseno, tì el padrón! (I due compari che vestivano la
pelle dell’asino si scoprono con una gran risata).
RAZZÙLLO Ah, ah! ’N’artra sbolzonàta de cojóne!
RAZZÙLLO-SCARÀCCO (Danzando) Arlechìn, batòcio,
zervèlo d’una gaìna, e côr de un peòcio… Ah, ah… (Sempre
cantando e facendo piroette escono di scena)
Zompa, zompa a lo pendajóne,
Arlecchino è ’nu gran cojóne,
lu ce vulìva lu ciucciarièllo
e s’è innaffiato cu’ lu pisciariéllo,
s’è beccato ’nu petacchióne,
Arlecchino è ’nu quaquaraquà!
ARLECCHINO (Tenta a sua volta di danzare per darsi un tono)
Desgrasià, maledèto! Me ciàpen propri tüti per un cojón… Ma se
pol vésser cossì baltrón? (Piange) Me ciàpen tüti ’me un
tamburo… (Afferra il bastone da terra e, soprapensiero,
colpisce le palle di sterco dell’asino che sono rimaste in scena.
Ne fa volare qualcuna in platea) Bòja!… l’è cossì che l’è nato el
golf! (Riprende a commiserarsi) Ma son propri un cojón. Me fan
uno schèrso e mí sübeto ghe vago dentro. Eh, ma no’ se pol
andare avente cossì. (Risoluto) Adèso basta, el pròsimo schèrso
che me fano, no’ ghe casco miga! (Gridando minaccioso) No’
ghe casco! Se me fan lo schèrso pi’ tremendo, varda… pitòsto
me cago adòso! Bòja, me smèrdolo!… ma con ’na dignità
tremènda! (Esce di scena con passo tronfio).
Entra il banditore.
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 58
BANDITORE State in ascolto, gente di questo quartiere! Da
questo istante state bén asserràti nelle vostre case di poi che un
lióne arrabbiato e famélico… (Dal fondo scena entra un leone
che si avvicina al banditore di soppiatto) è fuggito dal serraglio
dello soltàno che se ne stava in sua nave in lo porto. Isto lióne
s’ha già isbranàto lo guardiano e doe persone sane. State bén
asserràti nelle vostre case, gente, fino a che non sarà pijàto isto
lióne. [Tav. 43, «Il banditore e il leone»]
Il leone azzanna il braccio del banditore e glielo stacca di netto.
Quindi se lo divora. Il banditore urlando esce di scena. Anche il
leone si allontana. Entra Arlecchino.
ARLECCHINO Ohéh… ol gh’avéva rasón el mè compàre
Ganàssa quando diséva: «Eh, Arlechìn, sia bén ciaro che ogne
òmo ol se fa de lü mismo… Ol caràctere de ógne òmo ol se
fàbrica dentro in t’el zervèlo…» A l’è questión de costànsa, a l’è
questión de criàrse, ciaro, in te la crapa: «Arlechìn, a sèt un
bravàso de coràjo, Arlechìn, a se’ una tempesta, ohé! Arlechìno,
un teremòt!» E po’ l’è questión anca de ’mprontàrse ’na fàcia de
diavolàsso catìvo, tremènda, ’na camenàda de schìscia palón!
(Mima una camminata da gradasso) Varda chi, ’na catapùlta!
’Na catapùlta umana! (Arlecchino va a sbattere contro un uomo
che entra in scena correndo. È un beccaio che tiene sottobraccio
un paniere ricolmo di carne e salami. Nello scontro il paniere
cade a terra) Ohi… cossa ti fa’, desgrasià? Ti va intórna sénsa
gnanca vardà ’ndóve te mete i piè…
BECCAIO Perdonéme… ma l’è stàit par lo spavénto… (Indica
alle spalle di Arlecchino).
ARLECCHINO Spavénto? De mí? Ti gh’hai spavénto de mí?…
(Gli si avvicina) Tranquìlo… végne chi… (Alle spalle di
Arlecchino, dalla quinta, si affaccia il leone. Arlecchino non se
ne rende conto).
BECCAIO No, per carità!
ARLECCHINO Ma no’ te tòco! No’ te tòco! (Il beccaio è
terrorizzato) Végne, no’ te magno miga!
BECCAIO Aiuto! (Fugge uscendo di scena).
ARLECCHINO Ma bòja!… (Al pubblico) Ah, funsionà, son
treméndo! (Entra un altro uomo, Arlecchino lo chiama) Végne
chi, vàrdame in fàcia, tì! (L’uomo scorge il leone che si erge
rampante. Fugge urlando. Arlecchino, esterrefatto, si rivolge al
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 59
pubblico) Son tropo treméndo, bòja!… Fago proprio spavénto!
(Raccoglie il paniere con tutto quèllo che contiene) Ohé, ecco el
premio, el premio par el bravàsso… El coràjo premia! Adèso me
magno comodo ’sta lüganega! (Si va a sedere sui gradini del
praticabile) El primo che me végn a sfrugugnàm le bale, ghe
staco i cojón mèsmi con le mie man… Voi vèsser tranquìlo.
(Estrae dal canestro una salsiccia e se la muove davanti al viso
come fosse un serpente) Pare viva, vèh, ’sta lüganega. (Alle
spalle di Arlecchino il leone ruggisce. Arlecchino osserva
sorpreso la salsiccia) El laménto de la lüganega… (Senza
volgere il capo) Ahhh, v’ho recognossüo: Scaràcco, Razzùllo!
Sèt vui ’n’artra volta? Che torménto, bòja! Prima me fèt ol
schèrso del can, po’ quèlo de l’àseno, adèso quèlo del león… Ma
sèt propri de’ rompicojón! Adèso féme de nòvo ’scoltà com’è
isto rugìto, dài…
LEONE (Emette un ruggito sommesso) UOAUHUOAH!
ARLECCHINO (Ridendo) Questo sarèsse un ruggito de león?
Questa l’è una rana con le adenoidi! Varda… el león se fa cossì,
’scolta: (Imita un ruggito) UOAUHUOAH!.
LEONE (Emette a sua volta un ruggito fragoroso come un
boato) UOAHHH!
ARLECCHINO (Allocchito) Complimenti! T’è fàit un progrèso!
(Il leone continua a ruggire. Arlecchino si volta a guardarlo e
sobbalza) Ohi, che meravegióso costume… Oh… ma da ’ndov’è
che végne? ’Ndov’è che l’avìt catà? (Si leva in piedi e lo tasta)
Varda che pèle! La par de un león vero. (Gli afferra la coda) La
côa! (Gira il capo disgustato) Anca la spüssa la par vera! (Gli
sferra un calcio bonario) Adèso, Scaràcco e Razzùllo, via!… (Il
leone riprende a ruggire. Arlecchino torna a sedersi sui gradini)
No’ stéme a rompere parchè fin che se ziòga va bén, ma mí
quando magno devénti ’na bèstia se i me tòca. (Estrae salumi dal
canestro) Varda, el parsütto lo magno dopo, adèso me magno un
salamìn pìcolo pìcolo… (Il leone copre con i suoi ruggiti la voce
di Arlecchino e addenta il salame) Te gh’avévo avertìt che po’
devénto ’na bèstia! Adès te sgagno ’n’orègia… (Si avventa
contro il leone e gli addenta un orecchio. Il leone molla il
salame lamentandosi per il dolore, poi reagisce e si mette in
posizione rampante) Te sé rivòltet a mí?… E alóra: cojóni!
Varda qua, una bèla intorcicàda de cojóni… (Gli afferra i
testicoli; il leone emette guaiti penosi) No’ t’è piasüa, eh, la
strisadìna de cojóni? (Il leone a terra si dimena e si lecca le parti
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 60
strizzate) No’ piàgne, no’ piàgne, varda, fémo la pace… (Afferra
dal canestro due cotechini) La pace de’ salamìn! Alóra: a tì
Scaràcco , che te sét ’nte te frico un salamìn in bòca (Esegue); a
tì Razzùllo, che te sèt de drio, l’altro salamìn… (Gli solleva la
coda e ficca il cotechino nel sedere. Ruggito del leone,
stranamente acuto sul finale) Ah, no’ te piàse? Ah, Razzùllo, no’
te piàse i schèrsi?… Ve piàse soltanto fàrgheli ai artri…
«Zompa, zompa…» (Ballando e cantando, fa il verso ai due
amici che crede nella pelle del leone. Entra in scena
Franceschina che, vedendo il leone, dopo pochi passi si blocca
terrorizzata) Se gh’è? Franceschina…
FRANCESCHINA (Con voce strozzata) Oh, deo santo!
Arlechìn, scapa! A gh’è una bèstia feròze. No’ te mòvere! No’
parlare! No’ respirare! [Tav. 44, «Arlechìn, scapa!»]
ARLECCHINO (Finge di non rendersi conto del leone che sta
alle sue spalle) Podo almeno cagàrme adòso sénsa far rumòre?
(Si gira) L’è quèlo? Ti m’ha spaventà. A l’è un lión. Altro che
bèstia feroze! (Il leone si sdraia a terra mugolando e si lecca
una zampa) Oh, pòer lión… el gh’ha una spina nel piè. (Rivolto
al pubblico) La sfortüna che gh’han i lióni! Tüte le spine che
gh’è intórna… ZAC! se infílsa dentro al so piè! (Sottovoce al
leone, dentro la pelle del quale è sempre convinto stiano i suoi
due compari) Bravi. Continuèt cossì. Fèime un piasér, Razzùllo
e Scaràcco, stèt al ziògo… féme far una bòna fegüra con
Franzeschìna, che po’ ve regalo un tòco de carne par un…
(Mima di togliere una spina dalla zampa del leone) Ecco la
spina!
FRANCESCHINA Sàlvate Arlechìn!… (Il leone si fa rampante)
Madre, me punta a mí! Me zompa adòso!
ARLECCHINO No, Franzeschìna… no’ farte pagüra… ghe son
chi mí! A ’ste bèstie besógna savér come catàrle. Varda, se ciàpa
la côa, la se slónga, e po’ la se gira… (Arlecchino afferra il leone
per la coda e gliela torce facendola girare come fosse una
manovella. Canta) «Oh, che bèlo l’organéto che faséva far
l’amore…» (Il leone dimena il sedere assecondando
Arlecchino).
FRANCESCHINA Arlechìn! No’ imazinàvo mí che tì te
gh’avésse tanto stòmego! Atènto de no’ farte sgagnàre…
ARLECCHINO Sgagnàre a mí? Varda, varda cosa ghe fago: ghe
infìlo la mano ne lo stòmego… (Infila l’intero braccio nelle
fauci del leone) Ah, ah!… ghe la infilo de qua e la végn föra de
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 61
là! (Dal sedere esce la mano dell’attore che sta dentro il leone)
Varda, ol pare un gatón. (La mano afferra la coda e la fa
roteare).
FRANCESCHINA Oh, Arlechìn, perdòneme si te gh’avévo
credüt un cagasòto! No’ gh’ho mai vedüo nisciùn cussì bravóso
de coràjo, mí. Te ghe vòj un gran bén, Arlechìn méo caro. (Si
avvicina ad Arlecchino, ma il leone le ruggisce contro;
Franceschina retrocede spaventata).
ARLECCHINO A l’è gelóso! (Il leone si struscia contro
Arlecchino) Oh… quante pürese! (Le acchiappa con le unghie e
le schiaccia, con la perizia e la velocità d’una scimmia).
FRANCESCHINA (Verso la quinta, gridando) Razzùllo,
Scaràcco, vegnìt a véder cossa l’è bòn de far el mé Arlechìn con
un león. (Esce).
ARLECCHINO (Scuote la mano a liberarsi di qualcosa) Che
bava! T’è magnà de le lümaghe crüde? (Gridando a
Franceschina) No’ ghe son ’sti dòi mè compari… A sont ’ndàt
par de là col traghèt…
FRANCESCHINA (Entrando) Ma cosa ti disi, via col traghèt? I
sont là in sül ponte… Vàrdali! (Gridando) Razzùllo, Scaràcco…
(Chiamandoli, esce di scena).
ARLECCHINO (Osservando meglio nella direzione indicata da
Franceschina) Eh già, ghe sont lori! Ma alóra… chi gh’è
deréntro in ’sta pele a fa’ ol lión? Chi gh’è? (Spalanca la bocca
del leone e ci guarda dentro) Ohi, chi sit vui lì derènter? Vegnìt
föra… feve cognòsse. At sèt tì, Burattino? Responde! (Il leone
ruggisce in forma d’eco) A gh’è l’eco! Dài, no’ fa’ schèrsi! Fèit
cognòsse! (Guarda sotto la coda e il leone scoreggia) Come non
detto!
Il leone esce di scena; entra Franceschina con Razzùllo e
Scaràcco .
FRANCESCHINA Vegnì a véder Arlechìn. (Si accorge che il
leone non c’è più) ’Ndóve ol s’è casciàt ol león?
ARLECCHINO L’è andàit a cagare un po’ de eco.
FRANCESCHINA ’Sti to’ dói compari no’ ghe crede che tì, ol
león, te lo fa balàre ’me un gato.
ARLECCHINO Bòn, apéna che ol torna, ve fago véder. Elo là,
varda, se spùlsa, l’è pièn de pürese.
FRANCESCHINA Ecolo che ’riva…
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 62
SCARÀCCO Bòja, che león! Via, scapémo!
ARLECCHINO Cagasóto! Che pagüra! (Canta a sfottò)
«Zompa, zompa…»
RAZZÙLLO (Appiattito alla quinta) E vulìsse véde! Chisto è
uno lióne vero. S’è sbranato pure lo guardiano.
FRANCESCHINA Ol cata un cavàl… ol sbrana!… Scapémo!
Oh deo, sàlvame!
Franceschina, Razzùllo e Scaràcco fuggono fuori scena.
ARLECCHINO Ohh! Ol gh’ha magnà el cavàlo… e anca el
carèto! Ma alóra a l’è un lión vero!! (Impietrito dalla paura, non
riesce più a muovere le gambe. Il leone entra in scena, si
avvicina ad Arlecchino, lo lecca, gli si struscia contro) Ol me
asàgia… Se ghe piàso, ol me magna! (Il leone si accovaccia e
costringe Arlecchino a sederglisi accanto) Gh’ho capìt, te devo
spüresare. (Esegue. Rivolgendosi al pubblico) Morale: no’ l’è
tanto del lión che besógna aver pagüra, ma de le sue pürese!
Sulla canzone «Zompa-zompa» entrano in scena l’asino che
caracolla, un orso con le ali da pipistrello, la grande serratura
con chiave infilata, due spettri con cranio da morto. Tutti
danzano intorno al leone che a sua volta balla ergendosi
rampante. [Tav. 45, «Tutti gli animali»] Entra anche
Franceschina che danza con Arlecchino. Alla fine tutti gli
animali si scompongono: appaiono gli attori che gettano le pelli
fuori scena. Tutte le maschere, agitando tamburelli e picchiando
su grandi tamburi da tammuriata, danzano e cantano il finale.
Zompa, zompa a lo pendajóne,
Arlecchino è ’nu gran cojóne,
lu ce vulìva lu ciucciarièllo
e s’è innaffiato cu’ lu pisciariéllo,
s’è beccato ’nu petacchióne,
Arlecchino è ’nu quaquaraquà
FINE (?)
ARLECCHINO FALLOTROPO
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 63
DARIO (?) Ora vi racconto lo schema iniziale di uno di questi
canovacci, quello dell’Arlecchino fallotropo o fallofalo, cioè
portatore o esibitore di fallo. Arlecchino non sta mai fermo
dentro a un personaggio: lo vediamo saltare da un giudice dentro
un boia, un capitano, un turco; diventa una donna, poi un laido
affarista e via dicendo…Con il fallotropo, ci troviamo davanti a
una particolare chiave del personaggio di Arlecchino, una delle
poche volte nelle quali lo incontriamo come un servo e, per
giunta, di un padrone nobile, importante: il Magnifico. Questi è
la caricatura del «magnifico» per antonomasia, Lorenzo il
Magnifico; ed è anche il prototipo di un’altra maschera, il
mercante Pantalone. Tutti e due, il Mercante e il Magnifico, sono
personaggi deprecabili, e deprecati, nella Commedia dell’Arte. Il
primo è rozzo, mentre l’altro è tirchio. In questo canovaccio
compare appunto il personaggio del Magnifico, uno che ha
distrutto tutto quanto possedeva: non soltanto gli averi che gli
hanno passato gli avi, ma anche la propria forza morale, la
propria generosità e, soprattutto, la propria potenza sessuale. È
spompato, tanto da non essere in grado di avere un rapporto con
una donna, e si preoccupa di accentuare la propria forza
ingerendo una pozione che si è fatto fabbricare da una
fattucchiera. La megera consegna una fiaschetta con la pozione
«miracolosa» ad Arlecchino e lo prega di non propinarne più di
un cucchiaino al giorno al suo padrone, altrimenti il sesso gli
aumenterà via via… tanto da arrivare a scoppiargli in modo
orrendo. Arlecchino con la fiaschetta miracolosa se ne va
all’osteria. Beve, tracanna vino in quantità, si ubriaca, e ciucco
com’è si beve anche la pozione. Dopo qualche minuto sente il
suo sesso aumentare di volume diventando via via enorme, una
cosa di dimensioni orrende, che spinge… spinge tanto da
spaccargli la cintura… saltano anche i bottoni dei pantaloni e
arriva a premerlo sotto il collo… Dentro questo canovaccio
abbiamo trovato annotazioni incomprensibili. A un certo punto si
legge: «lazzo delle donne che arrivano, lazzo di Arlecchino che
si vuol camuffare, lazzo della pelle appesa a essiccare (pelle di
gatto), lazzo delle ragazzine che vogliono accarezzare il gatto,
lazzo del cane, lazzo della pelle gettata, lazzo di Arlecchino che
ritrova le bende di fantolino, fasciatura del fantolino, ninna
mento del fantolino, lazzo di Arlecchino che vede altre donne e
ragazze arrivare, le donne vogliono ninnare il fantolino,
Arlecchino si difende a più non posso, ma le donne riesono a
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 64
sopraffarlo avventandosi sul fantolino: esplosizione del
fantolino». Abbiamo ricostruito questo pezzo, che ora vado a
eseguire in una pantomima abbastanza veloce. Inizio dal
momento in cui Arlecchino si ritrova a trangugiare beato e felice
la pozione. La pozione fa subito un effetto terribile, ed ecco!…
di qui comincia l’azione. (Canta in grammelotte) Canto del
XVIII secolo per ubriachi solisti!
ARLECCHINO FALLOTROPO (eliminare questo titolo?)
Arlecchino entra in scena cantando, mima di avere due
fiaschette in mano e ogni tanto beve dall’una e dall’altra.
ARLECCHINO Va’, vaghe, che bón ’sto vin, düls e stagno che
mé fa i galìti ai büdèi e che me scarligà giò in fondo a la panza
fin ai cojómbari cünt ol bindorlòn fin a le orègie de fam
stciupà… (Rivolto al pubblico) Canto del XVII secolo,
bergamasco, per ubriachi solisti. (Continua il suo canto, in
grammellotte, all’improvviso mima di osservare le due
fiaschette… di colpo si rende conto dell’equivoco) Ohi, bòja, la
poziün, la poziün in dua l’è fornìda… l’ho bevùda, l’ho ciüciada
tüta… Cojùn, gh’ho bevùt tüto ol vin… e anca la posión… Bòja
che calór che végne… (Guardandosi il bassoventre) Fermo!
(Mima lo sforzo di arrestare la crescita del fallo) Basta così,
fermo brigante! Va’ che göba! Pom! M’ha stacà i botón… No,
mi strozzi! (Sempre più impegnato ad arrestare la tremenda
crescita del fallo) No, te me stròset! Strosàt dal proprio figlio!
Dóe ghe nascondo ’sta göba… Come ol nascondo ’sto birbànt
borioso? (Si guarda intorno e mima di vedere stesa su una corda
una pelle di gatto) Ohi, chi gh’è… una pèle de gatto… ah, pèle
de gat apendùda a ’siccàre… (Mima di afferrarla e di avvolgere
il fallo nella pelle del gatto) va’ che bela pèla, va’ che bel gatto,
proprio de la mia misura (Si siede su uno sgabello e tenta di
accavallare la gamba ma l’ingombro del fallo e della sua
appendice, non glielo permettono) MMIIAAAO! (accarezza il
«gattone») MMIIIIAAAOO! che gattasc! (In grammellotte e
azioni mimiche fa immaginare l’arrivo di un gruppo di donne)
Bongiorno segnóra, gh’ho un gato, me piàse i gati, vo’ mato mí
per i gati, gh’ha una cóa ’sto gato… Ve piàse i gati sióra? No,
dona, me dispiàs ma ’sto gato non se toca… anca ti tosèta no’
tocàre ol gato… l’è selvatico! Le fiolète no’ toca i gati! Questo
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 65
po’ l’è un gato rognóso… tremendo! Bambinèta, no! l’è un
selvatigo che, se te ghe det una carèssa, tira su tüto ol pelo… No’
lo pòdo dare in brasso a nissùno! (Mima di subire l’aggressione
di un cane) Un can, bòja un can (Imita l’abbaiare di un cane)
UAA! UUAAA! UAAAA! (Lancia un urlo) Ahia, oahia, ahaaa!
Boja, che sgagnàda! Ahia, che mal! Ohi, che dolore! Ohi, ahia
che sgagnàda! Maledisiùn! Ahiaiaiai! (Mima di gettare lontano
la pelle del gatto) Via la pel! Ma perchè i can ghe l’han tanto coi
gati… m’ha sgagnà dapartüto! Arìva de l’altra zénte, arìva dòne,
arìvan dòne dapartùto… se son date l’apuntamento proprio qua
per vedé i gati. (Mima di afferrare una lunga fascia appesa a un
fantomatico filo) Varda come son fortunàdo… bende de
fantolino, le fasse, no’ gh’ho mai fassa’ un fantolin, (Mima di
avvolgere il bambino nella fascia) sarà cussì, me l’avessero
insegnàt… va che bela fassadüra, adesso che fo’ una gala…
Miiaaaooo! Miaaaooo! Ah no, boja no’ fa mia inscì ol
bambin…. (Lo culla canticchiando come volesse addormentarlo)
Nana bobo’, nana bobo’, tüti i bambini dorme ma questo no!…
Bongiorno signora… l’è ol me’ bambin, apéna nato… no’ so se
me asomégia… Se l’è un màstcio?… Sì, sì l’è un màstcio! No’
se nina cussì? E come si nina. Se sta fermo col busto e se nina
soltanto co’ le brassa? Ma mí ghe son cussì taca’ a ’sto bambìn
che no’ pòdo… (Mima l’ insistenza delle donne e di ragazzine
che insistono per prendersi in braccio il fantolino) Ma fiolèta,
prima te vulévet el gato adèso ol bambìn? Ma no’ te vergogni?
Va via, su, no’ se tócan i bambin! No’ signora no’ ghe lo dago in
brasso a nisciùno! (Mima l’assalto delle femmine che ad ogni
costo vogliono prendere in braccio il bambino) No! No!
Signora! Ferme! Boja! No! Nooo! (Mima lo scoppiar del proprio
fallo) BUAAAM! A mè sctiopà ol bambìn! Come è bello viver
de castrato!
FINE (?)
Arlecchino – Testo rivisto FINALE del 16 aprile – inserimento tavole del 19‐20 aprile 66
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