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Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
Kasparhauser Lichtung. Luci 10 | 2014 Lichtung. Luci Kasparhauser Lichtung. Luci 10 | 2014 A cura di Giacomo Conserva Rivista di cultura filosofica. Redazione: Marco Baldino, Giacomo Conserva, Jacopo Valli. Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a mezzo rete ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale qui raccolto. Kasparhauser ISSN 2282-1031 2 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Indice Introduzione 4 Giacomo Conserva e Jesse S. Cohn Viaggiatori mentali 5 Giuseppe Crivella Dylan Thomas: la cerebrale lebbra degli emblemi 18 Giuseppe Crivella Robbe-Grillet: come il congegno disfatto di un orologio 30 Marco Baldino Büchner: il delitto come pensiero 45 Francesca Brencio Arthur Rimbaud: il peso insopportabile 50 Marco Nicastro Vincent Van Gogh: un pennello fremente di febbre e di emozione 64 Maurizio Montanari Deleuze-Guattari: la letteratura minore nell‘argot di Céline 87 Giacomo Conserva Adorno, Fortini/Gryphius, Alciati 97 Sonia Caporossi Wittgenstein: un monologo 105 Fabio Ciriachi Il concetto di concetto: suggestioni sul senso del dire 119 Stefano Scrima Brutti filosofi 135 Gli autori 139 3 Lichtung. Luci Introduzione di Giacomo Conserva C‘è una ragazza che sta bruciando C‘è una bambina che sta bruciando da qualche parte. La sua carne si decompone, la fiamma nera diventa luce. I suoi occhi vedono la luce. La bellezza divina per i neoplatonici passa nell‘universo, lo organizza, gli dà un senso (tracce di questo modo di vedere si trovano notoriamente alla base del pensiero di Tommaso d‘Aquino e di Heidegger). Il mondo non sarà salvato dalla bellezza perché lo è, di base, già; occorre solo (solo) sintonizzarsi sulla più profonda connessione delle cose, e imparare a limitare, soggettivamente e collettivamente, il peso materiale e mentale della iniquità. Sarà vero questo, non sarà vero? Quello che raccogliamo più sotto sono (fra le altre cose) sforzi di indagare come poesia, arte, filosofia si confrontino con bellezza, senso, sofferenza. Una luce (un brillare); mille luci. 4 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Viaggiatori mentali di Giacomo Conserva e Jesse S. Cohn I. William Blake, ―Il Viaggiatore Mentale‖ (Pickering Manuscript). 2. Jesse S. Cohn, ―Il viaggiatore mentale di Blake‖, 2000. 3. Bibliografia di ricerca su The Mental Traveller. 4. Nota finale. I. Il Viaggiatore Mentale di William Blake (traduzione di G. Conserva) Ho viaggiato attraverso un Paese di Uomini, un paese di Uomini & di Donne anche, ed ho udito & visto cose tanto orribili come i freddi vagabondi della Terra non hanno mai conosciuto. Perché lì il Bambino nasce in gioia che è stato generato in atroce dolore, proprio come noi Raccogliamo in gioia il frutto che con amare lacrime abbiamo seminato. E se il Bambino nasce Maschio viene dato ad una Vecchia Donna che lo inchioda sopra una roccia, cattura le sue grida in coppe d‘oro. Lei stringe spine di ferro attorno al suo capo, gli fora sia mani che piedi, gli taglia fuori il cuore al fianco per fargli sentire sia caldo che freddo. Le sue dita numerano ogni Nervo proprio come un Usuraio conta il suo oro; lei vive delle sue grida & lamenti, e ringiovanisce mentre lui invecchia. Finché lui diventa un giovane che versa sangue e Lei diventa una Vergine luminosa; allora lui strappa via i suoi Legami 5 Lichtung. Luci e la stringe giù per la sua gioia. Lui pianta se stesso in tutti i suoi Nervi, proprio come un Allevatore il suo marchio e Lei diventa la sua dimora e Giardino fruttevole settanta volte. Un‘Ombra Anziana, presto lui svanisce, vagando attorno un Terrestre Giaciglio, tutto pieno di gemme & d‘oro che con industria si è procurato. E queste sono le gemme dell‘Animo Umano, i rubini & le perle di un occhio che soffre per amore, l‘infinito oro di un cuore tormentato, il gemito del martire & il lamento dell‘innamorato. Esse sono la sua carne, esse sono la sua bevanda; egli nutre il Mendicante & il Povero ed il Viaggiatore in cammino: per sempre aperta è la sua porta. Il suo dolore è la loro eterna gioia, fanno risuonare i tetti & le pareti; finché dal fuoco del focolare una Piccola Bambina salta fuori. E Lei è tutta di solido fuoco e gemme & oro, così che nessuno la mano osa stendere per toccare la sua forma di Bambina, e avvolgerla nelle sue fasce. Ma Lei giunge all‘Uomo che ama, sia giovane o vecchio, o ricco o povero; essi scacciano via l‘anziano Ospite, un Mendicante alla porta di un altro, lui se ne va via lontano piangendo, Finché qualcun altro lo accolga dentro: Spesso cieco & piegato dagli anni, aspramente afflitto, Finché non può conquistare una Ragazza. 6 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 E per allietare la sua Vecchiaia che raggela, il Povero Uomo la prende fra le braccia; la Capanna svanisce dalla sua vista, il Giardino & le sue amabili Gioie. Gli Ospiti si spargono per il paese, poiché l‘Occhio alterandosi altera tutto; i Sensi si avvolgono dalla paura e la piatta Terra diventa una Palla; Le Stelle, il Sole, la Luna, tutti svaniscono via, un deserto vasto senza confine, e niente rimane da mangiare o bere, ed un oscuro deserto tutto attorno. Il miele delle sue labbra di Bambina, il pane & il vino del suo dolce sorriso, il gioco selvaggio del suo occhio vagante lo tirano indietro all‘Infanzia; perché mentre mangia & beve lui diventa più giovane & sempre più giovane ogni giorno; e sul deserto selvaggio tutti e due vagano in terrore & spavento. Come la Cerva selvatica lei fugge via, la sua paura pianta più di un cespuglio selvaggio; mentre lui la insegue notte & giorno, da varie arti di Amore incantato; da varie arti di Amore & Odio, finché il vasto deserto è tutto piantato di Labirinti di ingannevole Amore, dove si aggira il Leone, il Lupo & l‘Orso; finché lui diventa un capriccioso bambino, e lei una Vecchia Donna piangente; allora più di un Amante vaga qui, il Sole & le Stelle sono tratte più vicino, 7 Lichtung. Luci gli alberi portano alla luce dolce Estasi a tutti quelli che nel deserto si aggirano, finché più di una Città vi viene Costruita, e più di una piacente casa di Pastore. Ma quando trovano il Bambino corrucciato, terrore colpisce attraverso tutta la vasta regione: gridano: ―il Bambino! Il Bambino è Nato!‖ e scappano via da ogni parte. Perché chi osa toccare la forma corrucciata, il braccio gli si rinsecchisce fino alla radice; Leoni, Orsi, Lupi tutti fuggono lamentandosi, ed ogni Albero fa cadere i suoi frutti. E nessuno può toccare quella forma corrucciata, a meno che non sia una Vecchia Donna; lei lo inchioda sopra la Roccia, e tutto avviene come ho raccontato. 2. Il viaggiatore mentale di Blake di Jesse S. Cohn* ―Il Viaggiatore Mentale‖ di William Blake non è solo un‘opera ―ciclica‖ nel senso del Finnegans Wake di Joyce o di Piedra del sol di Octavio Paz: è la descrizione di un mondo ciclico, un universo di spazio-tempo circolare in cui tutte le cose si ripetono. Qui, i normali processi ciclici della natura sono esagerati, spinti a estremi innaturali: così, una terra arida prima germoglia (vv. 27-28) per poi rinsecchirsi in un ―deserto‖, e i cieli stessi si allontanano (v. 65) per poi riavvicinarsi (v. 88). La vita umana sembra seguire lo stesso schema: i Viaggiatori trovano una casa (vv. 38-39), e vengono cacciati via (v. 61); si riuniscono in reverente attesa (v. 5), e fuggono pieni d‘orrore (vv. 94-96) — volta dopo volta, all‘infinito. Ogni movimento individuale cancella sé stesso entro una totalità statica. 8 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Un mondo di infinita ripetizione è un mondo di infinitamente ripetute crudeltà e miserie, e in effetti sono queste l‘oggetto principale della narrazione. Attraverso gli occhi del Viaggiatore eponimo, vediamo un bambino indifeso dato ad una Vecchia Donna che lo inchioda sopra una roccia, cattura le sue grida in coppe d‘oro (10-12) Sfruttato e tormentato, sopravvive e raggiunge l‘età adulta, mentre la sua tormentatrice ―diventa giovane‖ (v. 20); noi lo vediamo prendere il sopravvento sulla ―Vergine‖, e ―legarla giù per la propria gioia‖, sfruttandola così come lei aveva sfruttato lui: Finché lui diventa un giovane che versa sangue e Lei diventa una Vergine luminosa; allora lui strappa via i suoi Legami e la stringe giù per la sua gioia (21-24) Osserviamo lei diventare sempre più giovane, mentre lui si trasforma progressivamente in un vecchio pieno di rimpianti (v. 44 e v. 29). Cacciato dalle manovre di lei dalla propria casa, la insegue per il ―vasto deserto‖, finché ―lui diventa un capriccioso Bambino/ e lei una Vecchia Donna piangente‖, e tutto quanto il ciclo è pronto per ricominciare. Ma Lei giunge all‘Uomo che ama, sia giovane o vecchio, o ricco o povero; essi scacciano via l‘anziano Ospite, un Mendicante alla porta di un altro, lui se ne va via lontano piangendo (49-53) [..................................................................] mentre lui la insegue notte & giorno, da varie arti di Amore incantato; 9 Lichtung. Luci da varie arti di Amore & Odio, finché il vasto deserto è tutto piantato di Labirinti di ingannevole Amore, dove si aggira il Leone, il Lupo & l‘Orso; finché lui diventa un capriccioso bambino, e lei una Vecchia Donna piangente (79-86). Oppresso ed oppressore cambiano di posto volta dopo volta, ma nessuno dei due può raggiungere una vittoria permanente, poiché la poesia finisce dove era iniziata: una ―Vecchia Donna/[...] lo inchioda sopra la Roccia/ E tutto avviene come ho raccontato (vv. 102-104). Le narrazioni lineari collocano le azioni dei personaggi entro un quadro in cui esse hanno un senso: una causa dà origine ad un‘azione diretta ad una meta, e che ha un risultato. In una narrazione circolare come quella de ―Il Viaggiatore Mentale‖, le azioni sono il risultato di sé stesse, cosicché non indicano nessuna origine o meta finale, e semplicemente fanno riferimento a sé stesse. Secondo i criteri convenzionali, una narrazione simile appare quasi letteralmente senza senso: è ―chiusa in sé‖ come la nemesi dei poemi epici di Blake, lo spettrale Urizen (Il libro di Urizen, I. 3). Ogni azione annulla sé stessa, e vice versa. Dove è dunque il senso della conclusione — ―e tutto avviene come ho raccontato‖? (v. 104, corsivo aggiunto) Come possiamo dare un senso a quanto viene fatto nel ―Viaggiatore Mentale‖? Una risposta potrebbe trovarsi in una sezione che pare servire come il fulcro di tutta questa totalità ciclicamente ruotante. Questo elemento appare isolato, apparentemente fuori contesto, nella sedicesima stanza del ―Viaggiatore Mentale‖, dove incontriamo un verso che Arthur Adamson acutamente identifica come il ―momento cruciale‖ del testo (v. 48). Ecco il verso: ―Poiché l‘Occhio alterandosi altera tutto‖ (v. 62). Per dare un senso al ―tutto‖ cui questa enigmatica frase si riferisce, potremmo provare a contestualizzarlo chiedendoci cosa Blake pensa attorno agli Occhi. Secondo Linda M. Lewis, Milton fu il padre poetico le cui opere William Blake si sentí più fortemente ―obbligato 10 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 a revisionare‖ (v. 148); un modo di scoprire tutto quanto Blake pensava su un argomento qualunque è proprio lo scoprire che valutazioni egli dava delle opinioni espresse Milton su di esso. In effetti, è proprio lo schema psicologico presentato da Milton le Libro 5 del Paradiso Perduto che Blake pare deciso a screditare nel suo manifesto giovanile Non c‘è nessuna religione natura. Laddove Milton descrive la Caduta dell‘umanità come una rivolta dell‘Immaginazione contro il ―Dominio della Ragione‖ e la ―Guardia dei 5 Sensi‖ (Paradise Lost, 5, vv. 100-112), Blake inverte queste proposizioni, dichiarando che è l‘Immaginazione a dovere giustamente dominare la varie facoltà, e che questo suo posto è stato usurpato dalla Ragione. Ritenere che i desideri & le percezioni dell‘uomo dipendano unicamente dagli organi di senso‖, asserisce Blake, porta inevitabilmente alla conclusione che essi ―devono essere limitati agli oggetti di senso‖ — ―che se non fosse per il Principio Poetico o Profetico, quello Filosofico & Sperimentale sarebbero rapidamente alla mercé delle cose & rimarrebbero immobili, incapaci di fare altro dal ripetere volta dopo volta lo stesso squallido ciclo‖ (Blake 1). L‘‖universo‖ percettivo di una umanità i cui cinque sensi siano stati disciplinati dalla Ragione, secondo Blake, è ―un ciclo squallido‖, un circolare ―mulino dai complicati ingranaggi‖(v. 2). Non è difficile capire che l‘universo circolare del Viaggiatore Mentale è un altro esempio di ―mulino dai complicati ingranaggi‖, e il suo asse sembra essere questa alterazione dell‘Occhio che fa sí che ―i Sensi si rinserrino dalla Paura‖ (v. 63). Sembra conseguirne che il motivo per la circolarità senza senso della narrazione si trova in qualche modo secondo Blake in questa alterazione dell‘Occhio — che è anche una alterazione dell‘―Io‖, una trasformazione del Sé. Colui le cui ―porte della percezione‖ sono state aperte dall‘Immaginazione vede un mondo ―infinito‖ piuttosto che un regno di penuria (Blake, ―Il Matrimonio del Cielo e dell‘Inferno‖ 39); se i cinque sensi sono governati dalla Ragione si vede un mondo di risorse finite, in cui il guadagno di una persona è la perdita di un‘altra. Cosí, Blake considera le conseguenze della filosofia empiristica una sorta di 11 Lichtung. Luci egoismo materialisticamente legittimato: l‘infinita reciproca crudeltà dell‘universo che Blake descrive è una conseguenza di questo restringimento dei sensi. Mentre l‘Immaginazione percepisce un regno di pienezza da godere e condividere, il puro empirista (come Blake scrisse in un poema aforistico all‘inizio della sua opera) ritiene che le proprie ―gioie‖ devono derivare dalla ―altrui sventura‖, e cerca quindi di ―imprigionare l‘altro per il Proprio piacere‖ (Il Pezzo di Terra & il Sassolino, vv. 1011) ― che è esattamente il crimine che uomo e donna si infliggono reciprocamente nel Viaggiatore Mentale. L‘universo delimitato di questo ―mulino dai complicati ingranaggi‖, in quanto spazio radicalmente chiuso su di sé, è la scena di giochi a somma zero. ―L‘uomo non è migliorato dal danno di un altro‖ risponde Blake a Bacone in una nota (v. 768). Ma questo è esattamente quanto l‘uomo e la donna del Viaggiatore Mentale cercano di fare quando a turno si ―legano‖ e raccolgono il ―frutto‖ delle sofferenze dell‘altro (vv. 24-27). In un mondo ciclico, naturalmente, simili sforzi di accumulare ricchezza sono futili tanto quanto ingiusti: i diversi Giocatori semplicemente fanno a turno nel derubarsi l‘un l‘altro. Anche se il Viaggiatore ci dice che la sua storia racconta di ―cose cosí orribili/ come i freddi viaggiatori della Terra non hanno mai conosciuto‖ (vv. 3-4), noi freddi viaggiatori della Terra non siamo estranei in questo strano paese; pure noi alteriamo il mondo con i nostri Occhi ristretti e giochiamo inutili giochi di guadagno e perdita. L‘allegoria di Blake ci invita a guardare in faccia l‘irrazionalità che ci imprigiona: il senso di questa narrazione lo troviamo nel modo in cui essa rispecchia la nostra propria mancanza di senso. C‘è qualche modo per abbandonare la ruota, per redimere l‘Occhio e l‘―Io‖ dalla loro materialistica corruzione? In quanto Viaggiatore Mentale ― un veggente introspettivo la cui visione giunge dall‘Immaginazione piuttosto che dalla Ragione ― il narratore del poema non partecipa della squallida economia percettiva del mondo che evoca. Così, come suggerisce Morton D. Paley, sfugge al legame reciproco in cui restano intrappolati torturatori e vittime della narrazione circolare (vv. 123-124). In questo 12 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 trascendere, assomiglia al protagonista di un capitolo del Matrimonio del Cielo e dell‘Inferno che viene condotto da un angelo moralizzante attraverso tutta una serie di scene orripilanti che portano infine ad un ―mulino‖. Come annoiato da tutte queste fantasie di giustizia/ vendetta divina, il narratore si trasporta in un luogo più piacevole — lasciandosi dietro l‘angelo. Alla fine, racconta, ―mi levai e andai in cerca del mulino, & lì trovai il mio Angelo che sorpreso mi chiese come avevo fatto a sfuggirmene‖. Il protagonista risponde, ―Tutto quello che abbiamo visto dipendeva solo dalla tua metafisica‖ (Blake, vv. 40-41). (trad. di G. Conserva) * Ringraziamo sentitamente l‘autore per la gentile concessione. The Explicator 58.3 (Spring 2000): 130-133; http://www.saintbonaventure.com/faculty/mcelvogue/documents/Blake8 Cohn4p.pdf Opere Citate A. Adamson, ―Structure and Meaning in Blake‘s The Mental Traveller‖ in Mosaic: A Journal for the Comparative Study of Literature and Ideas, 7.4 (Summer 1974). 41-58. W. Blake, The Poetry and Prose of William Blake, Ed. David V. Erdman, Doubleday, New York 1970. Linda Lewis, The Promethean Politics of Milton, Blake and Shelley, Columbia U. of Missouri P., 1992. Milton, Paradise Lost, Ed. Merritt Y. Hughes. Macmillan, New York 1962. Morton D. Paley, Energy and the Imagination. A Study of the Development of Blake‘s Thought, Oxford UP, Oxford 1970. 3. 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The Velvet Underground, ―Some Kinda Love‖, 1969, https://www.youtube.com/watch?v=p8aax-k5wTU [testo: http://www.sing365.com/music/lyric.nsf/Some-Kinda-Lovelyrics-VelvetUnderground/464F1217FC179C45482569880029FF1C]. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, 2 voll., trad. it. di B. Maffi, Il Saggiatore, Milano 1969 (1963). [molti dei testi qui citati sono recuperabili in rete tramite libgen.org, o altri siti] 4. Nota finale «Nel poema Il Viaggiatore Mentale di William Blake abbiamo una visione del ciclo della vita umana, da nascita a morte a rinascita. I due protagonisti del poema sono una 16 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 figura maschile ed una figura femminile, che si muovono in direzioni opposte: una invecchia mentre l‘altra ringiovanisce, e vice versa. La relazione ciclica fra di loro attraversa quattro punti cardinali: una fase figlio-madre, una fase marito-moglie, una fase padre-figlia, ed una quarta fase di quanto Blake identifica come spettroemanazione... Nessuna di queste fasi è del tutto vera...» (Northrop Frye, Anatomy of Criticism, Princeton UP, 2000 (1957), p. 322 passim). 17 Lichtung. Luci Dylan Thomas: la cerebrale lebbra degli emblemi di Giuseppe Crivella Scrive Dylan Thomas alla fine di uno dei suoi più noti racconti giovanili, intitolato Nella direzione del principio: Di chi era l‘immagine del vento, l‘impronta sullo scoglio, l‘eco che chiedeva una risposta? Essa era aurea e anguicrinita. Si muoveva nel campo salato, ingoiante, al storia e le rocce, le oscure anatomie, lo stesso mare ancorato. Infuriava nell‘utero infecondo […]. Egli vide la reietta immagine disegnata con un piede d‘incubo intinta nel veleno e incorniciata dal vento, impronta del pollice che lei affondò sulla mano come un‘ombra palmata, interrogazione dell‘eco […]. Una voce quella sera traversò la luce e le onde, una forma assunse i mutevoli umori, da dove la cantaride marina verde-oro tinge lo strascico del polpo una virulenza strisciò attraverso la spuma, e dai quattro angoli della mappa un cherubino nella forma di un‘isola soffiò le nuvole verso il mare. 1 Per penetrare nella dizione lirica di Dylan Thomas è necessario sforzarsi di immaginare la vitrea porosità di un vuoto stillante il deserto crepitare di forme senza nome: un violento impeto alla contorsione, un grumoso serto di avvolgimenti ritmicamente astratti, giustapposti l‘uno all‘altro a formare l‘ordinata trina lungo l‘orlo di un delicato merletto, al cui centro però è giunto a depositarsi qualcosa di infestante, forse di diabolico. E ancora, si pensi allo schiudersi appena accennato di bocche consumate, nel cui soffocante sibilo è il contatto profondo con l‘estrema squama di un silenzio figurato nelle viscide sinuosità di un serpente di cui sia invisibile il capo. Un infittirsi filamentoso di mani, dita, unghie che si strappano senza posa da un corpo comune, lanciate nel buio come 1 D. Thomas, Poesie e racconti, a cura di A. Marianni, Einaudi, Torino, 1996, p. 574-575. 18 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 gelide comete per cercare di afferrare, o anche solo accarezzare, le ultime propaggini dell‘essere, ma al tempo stesso metamorfosate in fiori, i cui petali sono lembi di sudari sporchi, nere schegge di pianto, pagine lacere e frammenti di ossa. È così che al nisus imaginativus2 di Dylan Thomas non è possibile porre argine, sovrapporre vagli di codici, imporre disciplina interna. Per lui, evocare la cosa è produrla in una assediante scintillazione di corpi informi, figure dell‘irrappresentabile e friabili corone di echi visionari, al cui immoto marasma di ramificazione semiorganiche è impossibile sottrarsi. Out of a war of wits, when folly of wods Was the world‘s to me, and syllables Fell hard as whips on an old wound, My brain came crying into the fresh light, Called for confessor but there was none To purge after the wit‘s fight, And I was struck dumb by the sun. Praise that my body be whole, I‘ve limbs, Not stumps, after the hour of battle, For the body‘s brittle and the skin‘s white. Praise thet only th wits are hurt after the wit‘s fight.3 Siamo dinanzi ad una eruzione graduale di nessi riposti, segreti, appena intravisti seppur tenaci o pressoché infrangibili per quanto inaspettati: non assicurati da alcun vincolo di somiglianza o manifesta inerenza reciproca, essi rispondono unicamente alle leggi ferree ed aberranti di una ghirlanda analogica perspicua solo alla voyance del 2 Con questa formula ci riferiamo qui a G. Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, Milano, 2003, soprattutto pp. 243-258. 3 D. Thomas, cit., p. 394. Uscendo da una guerra di acutezze,/ Quando la follia delle parole/ Era per me quella del mondo, e le sillabe/ Si abbattevano come staffili su una vecchia ferita,/ Il mio cervello entrò urlando dentro la fresca luce,/ Chiamai un confessore ma non c’era/ Che mi assolvesse dopo quella lotta,/ E fui ammutito dal sole./ Sia lode al cielo che il mio corpo è integro./ Ho membra, non moncherini, dopo quella battaglia,/ Perché fragile è il corpo e bianca è la pelle;/ Lode al cielo che solo il senno è ferito/ Dopo una guerra d’arguzie. 19 Lichtung. Luci poeta, che raccorda intreccia declina apparizioni di mondo secondo le linee spiraliformi di una siris infinita. Fermiamoci pertanto un attimo alla immagine della spirale appena evocata: essa non va intesa qui come la regolare figura geometrica, ma piuttosto come il corpo di un aspide strettamente avvolto su se stesso, attraversato da un fremere sottile e continuo; tale aspide-spirale, al nostro minimo segno di avvicinamento prende a muoversi, scatta verso di noi, per rinserrarsi poi subito diventando un blocco compatto, un nero segno di minaccia e terrore posato accanto alle nostre mani, abbandonato davanti ai nostri passi, remoto e incombente. Ma sia che si svolga, sia che si rinserri, tale spirale va pensata anche come un rutilante interfoliarsi di fuochi immaginifici, nelle cui congestionate espressioni il reale è trasfigurato nelle risonanze emesse da una dolorante conchiglia verbale, nel cui incavo madreperlaceo l‘odore stesso della salsedine da cui proviene colpisce il lettore con una sgargiante raffica di immagini: cupole e aironi, schiume ed albe, lingue in sfacelo e rintocchi di Angelus, nel cui sfocato allinearsi esso si fa crampo intrappolato dall‘immortale grido della rugiada: Night in the sockets round, Like some pitch moon, the limit of the globes; Day lights the bone; Where no cold is, the skinning gales unpin The winter‘s robes; The film of spring is hanging from the lids. Light breaks on secret lots, On tips of thought where thoughts smell in the rain; When logics die, The secret of the soil grows through the eye, And blood jumps in the sun; Above the waste allotments the dawn halts.4 4 Ivi, pp. 26-28. La luce nelle orbite contorna,/ Luna di pece, il limite dei globi;/ Il giorno illumina l’osso;/ Dove non fa mai freddo, la raffica che spella/ Slaccia le vesti dell’inverno;/ La membrana primaverile dalle palpebre pende.// La luce appare su segreti appezzamenti,/ Sugli scarti del pensiero dove i pensieri esalano alla 20 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Il linguaggio di Dylan Thomas si fa carico di una inventività disperante e dilaniata, indomita, corposa e precipite, forgiata in un dinamismo plastico pari forse solo ad alcuni componimenti dell‘ultimo Rimbaud. In lui l‘abnorme e l‘irrelato scandiscono diffusamente il plasmarsi multiplo di astrali architetture visionarie, nelle cui contratte calamitazioni a distanza viene ad essere trascritto un cifrarsi nebuloso di segni ed oggetti trasvalutati nei loro portati di senso. Si prenda ad esempio la dimensione equorea, così ricorrente nella prima produzione del grande poeta gallese: essa ritorna sempre contrassegnata dalla icasticità della forza primordiale; essa chiama in causa e coordina per effrazioni reciproche tutte le contraddittorie sfaccettature che a quella appartengono, ma che raramente vengono esplicitate e ―attivate‖ contestualmente. Lo scenario marino è sempre un paesaggio di palpitazioni primigenie ― spesso molto affine alla spiaggia che attraversa e contempla Stephen Dedalus nel capitolo dell‘Ulysses ispirato a Proteo5 ― in cui l‘uomo non è ancora pienamente presente, ma solo alluso adombrato, e forse escluso, da un gioco di possibilità organiche che scorrono ardenti nelle vene della terra: I dreamed my genesis in sweet of sleep, breaking Through the rotating shell, strong As motor muscle on the drill, driving Through vision and the girdered nerve. From limbs that had the measure of the worm, shuffled Off from the creasing flesh, filed Through all the irons in the grass, metal of suns in the man melting night […] I dreamed my genesis and died again, shrapnel pioggia;/ Quando le logiche muoiono,/ Il segreto del suolo cresce attraverso l’occhio/ E il sangue balza nel sole;/ Sopra i terreni esausti l’alba arresta il suo corso. 5 J. Joyce, Ulisse, ed. it. a cura di G. De Angelis, Mondadori, Milano 1999, pp. 38-53. 21 Lichtung. Luci Rammed in the marcing heart, hole In the stitched wound and clotted wind, muzzled Death on the mouth that ate the gas. Sharp in my second death I marked the hills, harvest Of hemlock and the blades, rust My blood upon the tempered dead, forcing My second struggling from the grass.6 Una circolazione febbrile e sottile di schegge e detriti ― pastose recrudescenze dell‘informe ― si mette in moto, invadendo lo spazio della visione dalla fissità della luna alle ben irrorate membra di alberi e piante; ma in questa circolazione v‘è sempre qualcosa che improvvisamente blocca, paralizza e arresta il corso delle cose, le trasforma oscuramente in sembianti d‘altro, le allontana dal loro lucus generativo, elevandole su di un piano di significazione che ostruisce e impossibilita la scorrevolezza della vita naturale. Il pensiero e la parola dell‘uomo dilagano con la foga corrosiva di una contaminazione inarrestabile. Ed è proprio in questo momento che nasce la poesia di Dylan Thomas: in essa tutto ciò che tenderebbe a cristallizzarsi in simbolo o testimonianza del passaggio deformante dell‘uomo, viene delicatamente degradato a mera effervescenza simulacrale, deposito segnico stremato ed esautorato d‘ogni rimando semantico, e quindi riassorbito un in intrico immemoriale di immagini pure assolute, le quali non smettono di inoltrarsi nella cavernosa sonnolenza di ciò che è anteriore all‘umano: midolla schiumanti soffiate sul sole, squame di testuggini diventate linfe che percorrono arterie di cristalli, 6 D. Thomas, cit., p. 30. Sognai la mia genesi nel sudore del sonno, rompendo/ Il guscio rotante, potente come il muscolo/ D’un motore sul trapano, inoltrandomi/ nella visione e nel nervo travato.// Da membra fatte a misura del verme, sbarazzato/ Dalla carne grinzosa, limato/ Da tutti i ferri dell’erba, metallo/ Di soli nella notte che gli uomini fonde [...].// Sognai la mia genesi e di nuovo morii, shrapnel/ Conficcato nel cuore in marcia, strappo/ Nella ferita ricucita e vento coagulato, morte/ Con museruola sulla bocca che ingoiò gas.// Scaltrito nella mia seconda morte contrassegnai le alture,/ Messe di lame e di cicuta, ruggine/ Il mio sangue sui morti temprati, forzando/ La mia seconda lotta per strapparmi dall’erba. 22 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 teschi covati dal mare e naufragi di tendini invischiati nelle cortecce dei giunchi. È così che la poesia diventa liturgia dell‘alogico, chiamata a celebrare il cerchio bollente dei tempi in gestazione; e solo in tal senso è possibile parlare con cognizione di causa di imagery, intendendo quell‘ancestrale afflato panico che, con nozione desunta da note pagine kantiane7 [7], potremmo definire anche Einbildungskraft, a designare quella intensa forma di eidetismo8 [8] che si nutre di immagini dialettiche calate in un processo di ecolalia differita del visibile. L‘immagine è satura di una endogena tensione sussultoria; da essa uno screziato mulinare di frantumi irradia proiezioni di mondi destinati ad essere sopraffatti dal verminoso intrudersi dell‘eternità nelle fibre tenui e cedevoli del tempo, vissuto qui come una ferita sacra da cui il passato stilli con la tremante pace di una nuvola. Anche per il gran gallese possono valere senza dubbio pertanto le splendide e penetranti analisi che Bonnefoy dedica alla poesia di Pierre-Albert Jourdan: les mots, les quelques mots de la poésie [di Dylan Thomas] sont bien tournés, la plupart, vers l‘au-delà de leur capacité ordinaire – celle qui s‘en tient à l‘idée qu‘il dirait grise, à, l‘image qui flambe faux à la sortie du sommeil – et autant qu‘il le peut il cherche à dégager sa parole, maintenue au plus près d‘une perception purement sensible […]. Son attention recherche la chose que sa notion n‘a pas encore atténuée, la couleur ou l‘odeur qu‘aucun adjectif n‘a compromises, l‘évidence qui le dissuade de continuer de parler. D‘où un rayonnement, dans ses pages, qu‘il semble qu‘on pourrait dire, sans chercher plus le recommencement, le retour de la réalité naturelle en son être propre, qu‘un emlpoi comme silencieux des mots dégagerait d‘une brume, découvrant des 7 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, ed. it. a cura di A. Gargiulo e P. D’angelo, Laterza, Roma 2005, soprattutto la Nota prima riferita alla soluzione dell’antinomia del gusto, in cui si affronta il problema dell’idea estetica come inexponible Vosrtellung, pp. 365-378. 8 G. Celati, Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 1975, p. 199. 23 Lichtung. Luci correspondences que nos langues savaient peut-être, mais que le concept a perdu. 9 La poesia di Dylan Thomas nasce da un folle rogo di visioni venute a librarsi davanti all‘inquieta voyance del poeta attraverso una ottenebrante chiarità di nomi rescissi dalla inerzia delle cose. La parola non designa, non nomina, non significa: il linguaggio quindi non viene trasceso verso la decantazione pura di un metalinguaggio perfetto e trasparente a se stesso, ma s‘abbassa verso una sfera transverbale in cui il significante è come portato ad annichilirsi, mettendo il concetto a diretto contatto con la bruciante superficie delle cose. La poesia sorge come il portato alchemico di questa combustione dell‘immateriale nella corteccia fibrillante del sensibile, divenuto lingua in grado di proferire se stesso: esemplare in tal senso è una delle liriche più note del gran gallese Especially when the october wind, nel corso della quale una turbinosa trama isotopica di termini afferenti alla dimensione propriamente linguistica si innesta su una serie di presenze naturali che sembrano voler ―alienare‖ la parola umana, sradicandola dalla sua essenziale ma anche frustrante appartenenza alla sfera di matrici semantiche codificate ed ossificate (syllabic blood, tower of the words, wordy shapes, the spider-tongued, the dark-vowelled birds10): Especially when the october wind With frosty fingers punishes my hair, Caught by the crabbing sun I walk on fire And cast a shadow crab upon the land, By the sea‘s side, hearing the noise of birds, Hearing the raven cough in winter sticks, My busy heart who shudders as she talks Sheds the syllabic blood and drains her words 9 Y. Bonnefoy, La Vérité de parole, Gallimard, Paris 1988, p. 312. In effetti tutto il saggio può benissimo essere letto come una riflessione perfettamente aderente alla poetica di Dylan Thomas, a cominciare dal titolo che evoca in un allineamento significativamente paratattico e asindetico i quattro dati portantia attorno a cui orbita tutta la sua lirica: les mots, les noms, la nature, la terre, cfr. pp. 311-323. 10 D. Thomas, cit., pp 22-24. 24 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Shut, too, in a tower of words, I mark On the horizon walking like the trees The wordy shapes of women, and the rows Of the stat-gestured children in the park. Some let me make you of the vowelled beeches, Some of the oaken voices, from the roots Of many a thorny shire tell you notes, Some let me make you of the water‘s speeches.11 La parola plurale della lirica attraversa e sonda questa finitudine, trascrivendone le riposte potenzialità semantiche in una ardita intelaiatura di armoniche mentali, nel cui concentrico ripercuotersi a latitudini infinite un trascolorante mosaico di folgorazioni colpisce la sensibilità stessa del poeta adulterandola nel luogo di una stordita turbolenza disseminativa dalla quale il segno e la cosa riemergono sempre coi segni reciprocamente scambiati. Da qui spire psichiche si distendono a forgiare nuovi paesaggi di simboli. Il vettore analogico adesso però non è diretto dal principio delle affinità formali tra gli elementi messi in gioco; piuttosto esso procede per contrasti e conflitti figurali, accoppiamenti di immagini remotissime declinate attraverso una allegorizzazione perpetuamente riverberata lungo direttrici di significanza aperte alle più controverse traversie dell‘immaginario. È quindi un crudele sortilegio scompositivo quello che regge tutta la poetica del gran gallese. Se infatti il cosiddetto objective correlative di Eliot ha il compito precipuo di stabilire una linea di derivazione condizionante tra due dati solo apparentemente irrelati ― noto è l‘esempio dell‘acqua e della terra per il cavolo, e dello stesso cavolo per le emozioni che esso inevitabilmente suscita, così che «the 11 Ivi, p. 23. Specialmente se il vento d’ottobre/ Con dita gelate punisce i miei capelli,/Artigliato dal sole cammino sulle fiamme/E getto un granchio d’ombra sulla terra,/ In riva al mare, udendo il chiasso degli uccelli/ Il cuore indaffarato che trema se lei parla/ Sparge sangue sillabico, drena le sue parole.// Rinchiuso in una torre di parole,/ Traccio sull’orizzonte che cammina con gli alberi/ Verbali forme di donne e le file/ Dei bimbi nel parco che hanno gesti di stella./ Fatemi farvene alcune con vocali di faggi,/ Alcune con voci di quercia, dirvi note/ Dalle radici di molte spinose contee./ Fatemi farvene alcune con discorsi dell’acqua. 25 Lichtung. Luci only way of expressing emotion in the form of art is by finding an ―objective correlative‖; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion»12 ― in Dylan Thomas avviene qualcosa di assolutamente diverso: i campi associativi vengono schiacciati senza preavviso e senza mediazione l‘uno sull‘altro, in una coincidenza forzosa e implosiva, mediante la quale si trova ad essere espulso dalla poesia di Thomas tutto il pulviscolo emozionale che in Eliot garantiva la continuità tra le due figure nonché la legittimità del nesso, attivando invece una sorta di vertiginosa relazione circolare tra le immagini così che la commistione di umano e animale, di equoreo e celeste, di terragno ed aereo crea una dimensione fluida di trasmutazioni continue e inesorabili: Fishermen of mermen Creep and harp on the tide, sinking their charmed, bent pin With bridebait of gold bread, I with a living skein, Tongue and ear in the thread, angle the temple-bound Curl-locked and animal cavepools of spells and bone, Trace out a tentacle, Nailed with an open eye, in the bowl of wounds and weed To clasp my fury on ground And clap its great bllod down; Never shall beast be born to atlas the few seas Or poise the day on a horn.13 La parola poetica deve per forza di cose deragliare verso forme allotrope di sensibilità, le percezioni 12 Th. S. Eliot, The sacred wood, essays on poetry and criticism, Barnes & Noble, NY, 1966, p. 34. 13 D. Thomas, cit., pp. 100-102, I pescatori di tritoni strisciano e arpeggiano/ Sulla marea, tuffando il loro magico spillo ricurvo/ Innescato con aurea mollica; io con una viva matassa,/ Lingua e orecchio nel filo, pesco nel pozzo/ Dell’animale caverna d’incantesimi e d’osso fasciata/ Chiusa da riccioli e tempie,/ Scopro un tentacolo, afferrato/ Con l’occhio aperto, nella scodella di piaghe ed erbacce/ Per stringere al suolo la mia furia/ E abbattere il suo nobile sangue./ Mai bestia nascerà a segnar nell’atlante i pochi mari/ O a soppesare il giorno sopra un corno. 26 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 adulterarsi come se le terminazioni nervose dell‘uomo fossero state innestate su di un reticolo cerebrale in cui vengono a inscriversi la vibratilità infinitesima della medusa, le oscillazioni di petali e stami, la fredda desertificazione dei mari lunari, le lente danze dei polpi. Dell‘objective correlative di Eliot rimane solo la correlazione immensa, illimitata, puntiforme ed amorfa di tutto con tutto, in una sorta di panpsichismo che trasforma il respiro umano in una pioggia scintillante d‘ali involate verso l‘indaco del cielo racchiuso nella capsula lucente di un ranuncolo. Dylan Thomas mette in atto una sofisticata rabdomanzia figurale che arriva a liquefare la presenza del reale in una soffusa geminazione di immagini poste sempre in corrispondenza sulla base della loro costitutiva antinomicità, ma proprio per questo sottilmente attrattive l‘una dell‘altra: in questa ricca fluttuazione di segni riportati sempre al loro statuto di raffigurazioni concrete il linguaggio pulsa in lunghi squarci d‘apparizioni sconnesse vorticanti attorno all‘impreciso affiorare di poli analogici che attraversano tutta la lunghezza dei componimenti. Un sobbollimento impervio ma tenace si placa allora in un assestamento carico di conflittuali dinamiche interne, supremamente trattenute però dalle ferree soluzioni ritmico-prosodiche trovate dal gran gallese. Si vedano ad esempio le liriche a rombo, scritte cioè in modo che dal vertice superiore al centro della figura un elemento grammaticale occupi sempre il verso secondo la lunghezza crescente dello spazio disponibile ― da una sola parola ad una intera frase ― così che il punto mediano della losanga diventa simultaneamente la zona di rovesciamento speculare di tutta la lirica, la quale, se nella disposizione dei versi inizia a decrescere, nel discorso lirico prende ad avviarsi verso una chiusa folgorante e perentoria, come accade in modo magistrale in The/ Born sea14. Si tratta di uno schema che trova il proprio contrappunto nei componimenti a clessidra, ove, capovolgendo lo schema dei precedenti ― nei Collected poems del ‘52 questi seguono immediatamente quelli a rombo ― sono il primo e l‘ultimo verso ad occupare la 14 Ivi, p. 194. 27 Lichtung. Luci massima estensione, mentre il centro si contrae in un unica parola attorno alla quale far ruotare lo sviluppo di tutta la lirica, come avviene in That he let the dead lie though they moan15, in cui Rock (Roccia) costituisce il momento di transizione dalla prima metà della lirica ― dedicata alla descrizione della condizione dei morti evocati nel primo verso ― alla seconda, in cui si accavallano immagini di movimento e caduta, in parte a contestare, in parte a rafforzare quelle immediatamente precedenti, quasi a voler comprimere nelle sorvegliate e contrattili architetture del verso la misura aurea della divina sproporzione tra la cosa e il segno, l‘idea e il linguaggio, il concetto e l‘immagine. I segni verbali qui diventano emblemi condotti perversamente al loro stato più intenso di crisi, diffrazione e dissolvimento, fino ad assumere il ruolo di controfigure della coscienza, dell‘io lirico che non unifica, non accentra, non circonda le cose comprimendole nelle fredde regioni del dicibile ma, simile alla vibrazione di un oggetto dimenticato, si apre ad una eccentricità predicativa il cui incontenibile éclat assorbe ogni stato dell‘immaginario. Probabilmente nessuno ha delineato con maggior acume critico di Piero Bigongiari ― in saggio del ‘69 dedicato a Yves Bonnefoy ― questo metodo, che porta l‘io a confondersi con un indifferenziato elementare, da cui eruzioni di simboli in decomposizione si susseguono col ritmo alterno di una distruzione creatrice: [siamo di fronte a] una totale designificazione della figura che in tale processo riduttivo dei segni verso il significato attinge i suoi culmini metamorfici, cioè appunto il processo induttivo del significato verso tutti i significabili compresi in quel sistema segnico messo in atto dalla finitudine dell‘immagine. 16 La finitudine dell‘immagine, esibita nelle disarticolanti sinossi figurali di sistemi segnici ormai sprovvisti di uno statuto linguistico dominante, non trascrive e non traduce 15 Ivi, p. 200. P. Bigongiari, La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano 1972, p. 287. 16 28 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 più nulla; piuttoto essa diventa una ferita in seno alla quale gli oggetti stessi si contraddicono e contraddicono la loro irrecuperabile e altrimenti impronunciabile oggettività; tramite essa fisionomie al tempo stesso astrali e telluriche fiottano nei precordi stessi della materia, fattasi turbinoso specchio nel cui diffuso punto cieco è possibile cogliere il puro tremore di immagini che diventano visione: I, in my intricate image, stride on two levels, Forged in man‘s minerals, the brassy orator Laying my ghost in metal, The scales of this twin world tread on the double [...] Image of images, my metal phantom Forcing forth through the harebell, My man of leaves and the bronze root, mortal, unmortal, I, in my fusion of rose an male motion, Create this twin miracle.17 17 D. Thomas, cit., p. 34. Io, nella mia immagine intricata, avanzo su due piani,/ Forgiato con minerali d’uomo, oratore d’ottone,/ Depongo il mio spettro nel metallo,/ Mi bilancio sui due piatti di questo mondo gemino.[...]// Immagine di immagini, mio fantasma di metallo/ Che urge attraverso il convolvolo,/ Mio uomo di foglie e di radice di bronzo, mortale, immortale,/ Io, fusione di rosa e maschio impeto,/ Creo questo miracolo gemello. 29 Lichtung. Luci Robbe-Grillet: come il congegno disfatto di un orologio. di Giuseppe Crivella Con le seguenti parole si chiude Les gommes, seconda prova romanzesca18 di Alain Robbe-Grillet e opera pilota del cosiddetto Nouveau Roman, pubblicato nel 1953: dans l‘eau trouble de l‘aquarium des ombres passent. Le patron est immobile à son poste. Son buste massif s‘appuie sur les deux bras tendus, largement écartées; les mains s‘accrochent au rebord du comptoir; la tête penche, presque menaçante, la bouche un peu tordue, le regard vide. Autour de lui les spectres familers dansent la valse, comme des phalènes qui se cognent en ronde contre un abaj-jour, comme de la poussière dans le soleil, comme les petits bateaux perdus sur la mer, qui bercent au gré de la houle leur cargaison fragile, les vieux tonneaux, les poissons morts, les poulies et les cordages, les bouées, le pain rassis, les couteaux et les hommes. 19 Sono parole che puntano a comporre l‘immagine di una decantazione lenta, quasi un sonnambolico deporsi del reale nel torpido rollio di riflessi i quali, nel loro flebile sommuoversi, già finiscono col cancellare qualche aspetto saliente di ciò che per un attimo vi era apparso, ignoto e banale, privo di durata ma insistente, annegato nella fatua 18 Il suo primo romanzo fu pubblicato nel 1949 e si intitolava Un régicide. 19 A. Robbe-Grillet, Les gommes, Ed. de Minuit, Paris 1953, p. 264. Nell’acqua torbida dell’acquario passano delle ombre. Il proprietario è immobile al suo posto. Il suo busto massiccio s’appoggia sulle due braccia tese, molto divaricate; le mani s’aggrappano ai bordi del bancone; la testa penzola, quasi minacciosa, la bocca un po’ contorta, lo sguardo vacuo. Attorno a lui degli spettri familiari danzano il valzer, come falene che sbattano in circolo contro un’abat-jour, come polvere nel sole, come le piccole imbarcazioni perdute sul mare, che cullano a seconda del moto ondoso il loro carico fragile, le loro vecchie botti, i pesci morti, pulegge e cordami, le boe, il pane raffermo, i coltelli e gli uomini. [Traduzione mia]. 30 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 concretezza di superfici che, in seno alla loro spenta desolazione, sembrano aver riassorbito ogni ipotesi di profondità. È anche però un‘immagine-matrice: da essa si liberano gli scatti intrusivi e verticali di una visione che evacua il pensiero, estromette dalla osservazione i tempi lunghi della riflessione, distorce, disinnesca, dissocia e diffrange la stabilità della contemplazione, appiattendola unicamente sulla impaginazione ottica del mondo emendato non tanto di ogni consistenza, ma piuttosto di una sua specifica ponderabilità meditativo-cognitiva. Tra il reale e il pensiero l‘occhio s‘insinua come un iperbolico tramite di captazioni ellittiche stratificate negli strappi imponderabili seppur palmari di un aporetico apparire; aporetico ed impuro, contratto nelle traversie eversive di un visibile bleso e attratto in una comatosa silloge di indeducibili ― forse anche indecidibili ― nessi tra atti e intenzioni, effetti e moventi, determinazioni e gesti che sabotano la macchinosa chirurgia ricostruttiva del pensiero rendendola piuttosto un disegno ― freudianamente, quasi un‘analisi ― interminabile e lacunosa, una ricerca, oramai cancerogena, del centro connettivo di tutto fattosi però a questo punto strangolato sguardo incuneato nel negarsi perentorio delle cose per eccesso di presenza. Ma che cos‘è la presenza qui? Presuntiva, gommée, cedevole, essa è un volto di cera che s‘eclissa al solo sfiorarlo, poroso specchio nel quale gli spezzati spessori della scrittura calano per uscirne definitivamente devastati dalla solida elusività di uno spettrale limbo oltre il quale il linguaggio stesso si fa corpo in poltiglia, mobile museo di disfacimenti nella cui pulverulenta spoglia qualcosa di perduto per sempre ancora sembra tendersi verso la raffigurazione, in una nera ressa di segni isolanti che corrugano l‘incrinato schermo dello sguardo. In Robbe-Grillet la narrazione instaura una coincidenza infesta e infernale tra parola e cosa, superficie e sguardo. Uno scambio convulso ma sottile, quasi insensibile, tra oggetto e occhio è ciò che egli persegue; in tal modo noi vediamo il soggetto ritrarsi in una muta pausa di registrazione, durante la quale il mondo si deposita dinanzi ad esso come la desolata totalità di una inerzia 31 Lichtung. Luci materiale prima e mentale poi, destinata a crollare costantemente sotto il peso catastale della propria contratta superfluità, anonima e oggettiva, ostinata e silenziosa, minerale ed immota. Eppure, all‘interno di tale Théâtre de Métamorphoses ― per citare almeno un altro grande protagonista del Nouveau Roman, Jean Ricardou ―, ad essere labirintico non è il reale, ma il soggetto, così che in Robbe-Grillet il passo disorientato e le endogene forze di smarrimento custodite nelle cose arrivano sinistramente a combaciare, deflagrando nello straziato attrarsi e sovrapporsi, per analogie degeneri, in spaccati narrativi che ogni volta da capo riprendono le situazioni ritratte alterandone dall‘interno i tratti di riconoscibilità. Si prenda ad esempio Wallas, ectoplasmico protagonista di Les gommes: non solo la sua indagine, ma la sua stessa identità, fin dall‘inizio, ovvero dal primo incontro con l‘insidioso e ambiguo Laurent, si tramuta in un capogiro vanamente interrogante, in una ricerca cieca che riesce a guadagnare solo progressivi e corrosivi margini di oscurità, in un accerchiamento ottenebrante di coordinate sempre riferibili a più ordini di lettura i quali, incardinandosi l‘uno all‘altro secondo un asse verticale che li mette tutti in rotazione continua, facendoli ora collimare ora collidere, scardina la loro coerenza orizzontale, sintattica. In tal modo nei romanzi di Robbe-Grillet non siamo mai messi di fronte allo svolgersi ― o, al massimo, all‘involversi ― di una linea diegetica, ma piuttosto a ciò che con Raymond Bellour potremmo chiamare arbre narratif20, ad intendere cioè una narrazione incessante e blandamente regolata da protocolli interni di sviluppo dei filamenti diegetici i quali, pur propagandosi da un unico tronco di eventi, finiscono con lo sfibrarlo, rendendo tale nucleo iniziale una sorta di origine parentetica ampiamente sostituibile e rivedibile, se non proprio decisamente removibile, in quanto soggetta a distrofie cronologiche talmente fitte e ricorrenti da tramutare l‘ormai logoro istituto della narrazione in una formidabile variazione sul nulla. 20 R. Bellour, Entre-images 2: mots, images, POL, Paris 1999, p. 228. 32 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Il romanzo à la Robbe-Grillet è allora un coacervo di eventi atopici: in esso ciò che viene a mancare da subito è la stabilità di un piano di esposizione su cui disporre più o meno ordinatamente la catena dei fatti, i gesti delle figure, i nomi delle cose, la successione degli episodi, la relazione tra i luoghi. Ma perché ciò accade? Perché Robbe-Grillet affronta la materia romanzesca scorciandola secondo ciò che potremmo definire precisi e drastici ―tagli tropologici‖: in sostanza egli tratta paesaggi e ambienti, tempi e situazioni come fossero simboli instabili, matrici fluide d‘una significazione aperta, polimorfa, capricciosa, proiezioni e irradiazioni multipolari di un dato brutalmente mondano, finito, terreno e, proprio per questo, privo di una definibilità acclarata. Non siamo di fronte a tracce o indizi, ma piuttosto dinanzi a figurae di un‘absentia assolutamente irriducibile nel suo trasparente esondare oltre ciò che la designa come tale, seppur, al tempo stesso, chirurgicamente inquadrata dalle estenuate pause descrittive, nel cuore delle quali essa si colloca ora come uno sfondo slittante, ora come una reticolare linea di fuga la quale, pur inanellando lungo il suo sviluppo tutti i vari episodi secondo la coordinata della similarità, invece di condurre fuori dalla rappresentazione piomba senza preavviso in un punto interno a questa, celato in un‘intercapedine dell‘evidenza che, nel momento stesso in cui si mostra, occlude allo sguardo tutta una porzione del visibile ritratto facendo sì che questo esploda in scalene incrinature ottiche ove visione e abbaglio finiscono con l‘intrudersi l‘una nell‘altro. Ma nello specifico che cosa dobbiamo intendere con l‘espressione figurae dell‘absentia. Absentia di cosa? La domanda, appena posta, incontra subito un ostacolo: l‘absentia qui è un valore assoluto e irriducibile, non rimanda a nulla perché essa è tutto: la vacatio, per sommo paradosso, occupa ogni spazio, intride e satura di sé tutti gli angoli del reale. La figura è tropologicamente reattiva non perché nel suo complesso gioco di rimandi debba esprimere l‘assenza di qualcosa di specifico, ma perché nel suo costante eludere i raccordi che potrebbero bloccarla, essa deve mimare il luogo e l‘atto stesso di una assenza in 33 Lichtung. Luci sé, ovvero di una absentia in re e non di una semplice absentia rerum. Attraverso l‘astratto intarsio di frantumi e muchi emessi da un reale indocile e mendace in cumuli contrattili di percezione e memoria zampillanti freneticamente apparenze affette da qualche indefinibile distorsione, nel romanzo di Robbe-Grillet ricordo e dissolvenza stringono una malata complicità che porta all‘azzeramento reciso e irreversibile di ogni coefficiente psichico all‘interno del (dis)farsi narrativo. Potremmo allora dire che gli husserliani atti di coscienza, ovvero tutto il fascio di ingenti e strutturanti irradiazioni intenzionali, qui brillano appena sull‘annodato torpore delle cose come una soffocata opalescenza, quasi una sorta di estrema e vacua accensione del reale venuto a illuminarsi soltanto per una impersonale autoscopia, in forza della quale il vitreo occhio di nessuno improvviso spalanca il proprio ottuso lucore di sguardo dal cuore stesso dell‘inerte, tramando, torpido e tenace, una intricatissima ragnatela di osservazioni tutte poste rasoterra allo spaesato oggettivarsi di un mondo tramontato in una demente invadenza di immagini slegate. Ecco allora un‘altra delle caratteristiche salienti della poetica di Robbe-Grillet: nelle sue opere, romanzesche e cinematografiche, le immagini sono visceralmente percorse da un continuo tremito vegetale che le porta oscuramente ad accavallarsi, ad incrociarsi e sovrapporsi, ma anche a scoppiare le une nelle altre, come per una travagliata germinazione scissipara che assesta non pochi contraccolpi alla centralità testimoniale del narratore. E dunque, se per molta narrativa la domanda portante è ―chi vede i fatti riportati?‖, qui la questione si fa più radicale diventando: ―che cosa vede chi sta guardando (e narrando)?‖. Lo spostamento del problema permette cosí di annichilire risolutamente la persona loquens. Proprio per questa serie di motivi Wallas fattualmente per tutto lo svolgimento della vicenda non agisce mai. Egli, sfocatissimo portavoce del narratore, viene utilizzato unicamente come un mobilissimo e discontinuo catalizzatore di eventi intorno al quale creare un campo di attrazione ove far convergere fattori, elementi e linee di 34 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 forza, il censimento dei quali tuttavia non consente in alcun modo di portare alla luce l‘architettura effettiva della trama: ecco allora che fin dalle prime battute il corpo dell‘assassinato misteriosamente scompare per non riapparire più, i suoi cognomi raddoppiano simmetricamente al raddoppiarsi delle pistole che avrebbero potuto sparargli ― una della quali appartiene addirittura a Wallas ―, si moltiplicano i moventi validi dell‘omicidio cosí come aumentano sempre di più le persone vagamente informate su di esso, in una farsesca e caotica farandola di congetture le quali, sempre più numerose ― e proprio per questo reciprocamente escludentisi ―, finiscono con l‘offuscare, negare, cancellare completamente l‘intermittente realtà del fatto: Wallas ne sait plus d‘où lui revient cette image. Il parle – tantôt au milieu de la place – tantôt sur des marches, de très longues marches – à des personnage qu‘il n‘arrive pas à séparer les uns des autres, mais qui étaient à l‘origine nettement caractérisés et distincts. Lui-même a un rôle précis, probablement de premier plan, officiel peut-être. Le souvenir devient brusquement très aigu; pendant une fraction de seconde, toute la scène prend une densité extraordinaire. Mais quelle scène? 21 Romanzo tumultuosamente incoativo Les gommes, romanzo che piétine sur place, a fronte dei molteplici spostamenti di Wallas, strutturato attorno ad uno sfigurato mimetismo descrittivo: l‘oggetto riprodotto dalla scrittura è a sua volta già incassato all‘interno di una narrazione e dunque viene ad essere il portato di una immagine seconda. Il romanzo nasce elevando il proprio realismo alla seconda; la narrazione si svolge ― ma sarebbe più 21 Les gommes, p. 238. Wallas non sa più da dove gli provenga questa immagine. Egli parla – ora al centro della piazza, ora su degli scalini, scalini molto larghi – a personaggi che non riesce a separare gli uni dagli altri, ma che erano in origine nettamente caratterizzati e distinti. Egli stesso ha un ruolo preciso, probabilmente di primo piano, ufficiale forse. Il ricordo diventa bruscamente molto acuto; in una frazione di secondo tutta la scena raggiunge una densità straordinaria. Ma quale scena? [Traduzione mia]. 35 Lichtung. Luci corretto dire si avvolge ― lungo nuclei di eventi che a loro volta risultano ripresi da frammenti di un récit il quale sembra aver già preso risolutamente le distanze dal reale. Si tratta dunque di un realismo inguainato nel circolare isolamento di un linguaggio senza contatto con ciò che designa, separato da questo attraverso un fragilissimo gioco di maschere, o meglio, attraverso un‘ossessione inesorabile di travestimenti ed equivoci, sdoppiamenti e discronie che disordinano l‘opera, lasciando che in essa si aprano, all‘altezza dei punti di sutura tra gli avvenimenti, i sottili lampeggiamenti di una lacuna la quale associa per effrazione e divarica così la parola dalla cosa. Il linguaggio in Robbe-Grillet contorna la zona di emersione da cui l‘oggetto stenta ad apparire; al suo posto sopravviene una profusione slegata di immagini nella cui delicata e ardente irruzione è contenuta una riserva verticale di sensi tanto più rigorosamente irreggimentati nella linea narrativa, quanto più refrattari a situarsi in essa al fine di darle una fisionomia coerente. Ritorni e ripetizioni si fanno eco circondando un linguaggio che racconta la propria distruzione perseguita mediante il suo compattarsi in una dura corteccia di vicende che avviluppano e strangolano la cedevole polpa del reale. E tuttavia cet univers brut est plus complexe qu‘on ne pense. Tout élémentaire qu‘elle soit, l‘intervention du voyeur transforme le monde solide des choses en un monde évanéscent de la pensée. Travail disproportionné de l‘esprit affronté à des difficultés imaginaires, ou tout au contraire impuissant à concevoir une réalité qui dépasse ses facultés d‘absorption. Surplaces de la pensée ressassante. Éclairs d‘idées aussitôt disparues et dont la trace elle-même s‘efface bientôt. Pour les héros de Robbe-Grillet […], d‘une façon particulièrement fruste, le spectacle est souvent à l‘intérieur sans que l‘intéressé prenne garde ni que l‘auteur nous previenne de cette brusque prééminence des images inconsistentes du passé (ou de 36 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 l‘imagination) sur celles tangibles du présent (ou de la réalité). 22 Esiste quindi nei romanzi di Robbe-Grillet uno strabismo ingenito della parola: questa infatti scatena uno sdoppiamento in cui essa stessi viene a perdersi, naufraga, o piuttosto vi si riassorbe in una nascita ininterrotta di segni, splendenti e nascosti, visibili o occulti23, a partire dai quali ogni scena diventa insensibilmente il decrepito teatro di una azione che nel proprio farsi crea i presupposti materiali dell‘evento passato da cui essa discende. Si prenda ancora una volta Les gommes: qui tutto è retto dall‘aspra certezza ― propria di Wallas ma, alla fine del romanzo, anche nostra ― che ogni fatto sia irreversibile e reiterabile; la morte di X è avvenuta senza dubbio, ma nonostante ciò essa continua ad accadere, a ripetersi di quadro in quadro, tramite però il ricorso a configurazioni di elementi e concause che variano chiamando in causa un poligono aperto di personaggi dalle identità ironicamente ridondanti. Se proviamo a guardare il centro di questo romanzo non troviamo altro che un‘immagine perfettamente sfocata, una sorta di schermo forato, uno specchio inspiegabilmente cieco su cui sia stato steso uno strato di vernice bianca. È stata senza dubbio Yvonne 22 C. Mauriac, l’alittérature contemporaine, Albin Michel, Paris 1969, p. 281. In ogni caso l’intero saggio offre molti spunti di notevolissima pregnanza critica, tra cui il parallelismo tra i romanzi e i primi film di Robbe-Grillet: cfr. pp. 274-292. Questo universo informe è più complesso di quanto non lo si creda. Per quanto possa essere elementare, l’intervento del voyeur trasforma il mondo solido delle cose in un mondo evanescente del pensiero. Lavoro sproporzionato dello spirito messo di fronte a delle difficoltà immaginarie o, tutto al contrario, impotente nel concepire una realtà che oltrepassi le sue facoltà d’assorbimento. Surplace del pensiero rimuginante. Lampi di idee presto scomparse e la cui traccia stessa si cancella immediatamente. Per gli eroi di Robbe-Grillet […], in un modo alquanto frusto, lo spettacolo è spesso all’interno senza che l’interessato se ne accorga, né che l’autore ci informi di questa brusca preminenza delle immagini inconsistenti del passato (o dell’immaginazione) su quelle tangibili del presente (o della realtà). [Traduzione mia]. 23 Cfr. anche B. Morrissette, “Surfaces et structures dans les romans de Robbe-Grillet”, in The French Rewiew, vol 31, N. 5 (April 1958), pp. 364-369. 37 Lichtung. Luci Guers la prima a cogliere questo aspetto saliente della narrativa di Robbe-Grillet: l‘exactitude descriptive de l‘auteur ne serait-elle que fausse clarté? Or ces choses compactes, solides, précisément décrites, en établissant un contraste frappant avec une signification fuyante, créent justement l‘atmosphère kafkaesque et ambiguë qu‘une telle technique voudrait transmettre. Dans Les Gommes le héros-détective voit dans une vitrine un mannequin représentant un peintre devant un tableau. Un paysage grec est peint sur la toile alors que a sous les yeux un carrefour dans une ville du vingtième siècle. Le contraste ainsi établi entre la réalité ambiante et la réalité imaginaire a pour effet «une réalité d‘autant plus frappante qu‘elle est la négation du dessin censé la reproduire». 24 Il fatto che regge tutta la vicenda brilla d‘oscurità: abbiamo il sospetto di due morti, ma un solo nome. L‘intricata intelaiatura di passaggi e contatti tra questi dati di partenza svia non solo Wallas, ma anche gli uomini di Bona, tra cui l‘assassino, il quale, subito dopo il delitto, si rende conto che potrebbe aver sparato all‘uomo sbagliato, se non addirittura ad un cadavere. La realtà, ci dice Robbe-Grillet, è ineluttabile: c‘è stato un omicidio; tuttavia essa è anche insidiosamente contorta: moventi e spiegazioni arrivano in seconda battuta attorno alle cose e le circondano come un corte flebile ma tenace. Wallas si trova a cercare le cause di un fatto inspiegabile anche per 24 Y. Guers, “La technique romanesque chez Alain Robbe-Grillet”, in The French Review, Vol. 35, N. 6 (May, 1962), p. 570. Fra virgolette caporali la citazione di Robbe-Grillet tratta da Les gommes, p. 121. L’esattezza descrittiva dell’attore non sarà allora un falsa chiarezza? Ora, queste cose compatte, solide, precisamente descritte, nello stabilire un contrasto manifesto con una significazione fuggevole, creano giustamente l’atmosfera kafkiana e ambigua che una tale tecnica vorrebbe trasmettere. In Les Gommes l’eroe-detective vede in una vetrina un manichino che rappresenta un pittore davanti ad un quadro. Un paesaggio greco è dipinto sulla tela mentre ha sotto gli occhi un incrocio in una città del ventesimo secolo. Il contrasto così creato tra la realtà circostante e la realtà immaginaria ha per effetto «una realtà tanto più incisiva, dal momento che essa è la negazione del disegno deputato a riprodurla». [Traduzione mia]. 38 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 chi l‘ha provocato. Le sue indagini quindi cercano di inquadrare in un disegno omogeneo brani di realtà che solo accidentalmente si trovano interconnessi secondo una linea di realizzazione unitaria. Crescendo attorno al darsi in contumacia delle cose, il linguaggio di Robbe-Grillet finisce col non trovare più un punto che sia esterno ad esso, al suo spazio di distribuzione e strutturazione. Ma non è soltanto un processo di divaricazione crescente quello che si compie tra la parola e la cosa: come già notato sopra, la seconda si annulla, e nel suo annullarsi produce una nuova dimensione di designazione vuota, in cui il linguaggio irrompe producendo una sorta di controfigura verbale della cosa. La biforcazione tra le due si rovescia in un bifrontismo speculare della parola rispetto a se stessa. Si prendano ancora una volta a titolo d‘esempio le allucinate deambulazioni di Wallas, le quali sembrano tutte orientate la reperimento di una traccia definitiva e inconfutabile in grado di spiegare senza residui tutti gli altri indizi inventariati. In realtà la sua ricostruzione non ha un centro e non avendo un centro non riesce a stabilire livelli e gradi di dipendenza tra gli elementi reperiti; il quadro generale che egli appronta è sempre soggetto a continui seppur minimali riassestamenti interni che finiscono con lo smontarlo. L‘asciutto realismo di Robbe-Grillet è tale perché da esso è stato espunta completamente l‘idea di un soggetto coordinante; il disegno esplicativo che Wallas schizza con grande fatica eredita la stessa fisionomia di insanabile discontinuità dalla condizione di minuta frammentazione e dispersione in cui versa il reale, in cui egli si muove come galleggiandovi. Osserviamo ancora una volta: è un solitario senza volto, non ha psicologia, non emerge con tratti caratteriali marcati. In egual modo egli non possiede elementi per identificare né il responsabile dell‘omicidio né la vittima; nello stessa maniera tutti coloro che ruotano attorno alla sua figura continuano ad ignorarlo o comunque a non riconoscerlo. Ciò comporta che la medesima sequenza possa ripetersi sempre, pur esibendo di volta in volta connotati variati. Osserva a tal proposito Alain-Michel Boyer: 39 Lichtung. Luci énigme du destin et de l‘identité de l‘homme, pion ou jeton poussé au gré des joueurs, être aveugle dans un univers indéchiffrable: le roman s‘achève sur une question qui est peut-être absence de question dans les yeux vides, le visage énigmatique et figé du patron du café Sphynx, Sphynx éternelle, ici pur pouvoir d‘interroger, sans nul souci de réponse. À l‘énigme proprement policière, se substitue celle que pose l‘existence même de l‘homme, en proie à l‘énigme du monde. Interpréter, dèchiffrer ne suffit plus, il faut exorciser les signes. Alors que le détective cherche à élucider une énigme, le lecteur, en quête d‘un sens, ne découvre qu‘un récit, qui se révèle peut-être ce sens et cette énigme. 25 Robbe-Grillet sembra aver risolto il problema kafkiano della durata indefinita della trama ricorrendo a una soluzione molto diversa ma sostanzialmente complementare a quella dello scrittore praghese. Anche in Les gommes la vicenda si protrae interminabilmente, ma non secondo le dinamiche di quel labirinto lineare precisamente fratturato in segmenti sempre più brevi a cui fa riferimento Deleuze ― citando Borges26 ―, optando piuttosto qui per uno sviluppo sinistramente spiraliforme. Nel suo avvitarsi attorno ad un punto cieco che non smette di mutare aspetto, però la spirale si muove, scivola altrove rispetto al suo luogo d‘origine, si deforma ed esplode lasciando al suo posto uno sfibrato groviglio di punti 25 A.-M. Boyer, “L’énigme, l’enquête et la quête du récit: la fiction plicière dans Les gommes et Le voyeur d’Alain Robbe-Grillet”, in French Forum, Vol. 6, N. 1 (January 1981), p. 77. Sottolineatura nostra. Enigma del destino e dell’identità dell’uomo, pedina o fiche gettata secondo il gusto dei giocatori, essere cieco in un universo indecifrabile: il romanzo si chiude su una domanda che è forse assenza di domanda negli occhi vuoti, il viso enigmatico e fisso del proprietario del caffè Sfinge, eterna Sfinge, qui puro potere d’interrogare, senza alcuna preoccupazione di risposta. All’enigma propriamente poliziesco subentra quello che pone l’esistenza stessa dell’uomo, preda dell’enigma del mondo. Interpretare, decifrare non bastano, bisogna esorcizzare i segni. Nel momento in cui il detective cerca di chiarire un enigma, il lettore, alla ricerca di un senso, non scopre che un racconto, che si rivela essere forse questo senso e questo enigma. [Traduzione mia]. 26 Cfr. G. Deleuze, Logique du sens, Ed. de Minuit, Paris 1976, p. 77. 40 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 irrelati, sfocati residui di un punto-zero contrattosi fino alla sparizione. Il romanzo assume globalmente la figura di uno spazio densamente astratto non perché esso non abbia una ossatura definita, ma piuttosto proprio perché in esso il nitore con cui è delineata la struttura dedalicamente ricorsiva e l‘icasticità alienante tramite la quale si profilano personaggi, ambienti, situazioni, dialoghi, fanno in modo che sempre nuovi elementi possano svincolarsi dal complesso generando narrazioni accessorie, protocollari, parallele. Non è la vaghezza dei dati a rendere la vicenda sfumata, è la loro esasperata esattezza notazionale a trasformare la trama in un disegno disarticolato di attuazioni diegetiche equivalenti e coesistenti in un sistema di integrazioni reciproche la quale rende la narrazione satura di informazioni indecidibili. Per Robbe-Grillet non sarà allora scorretto parlare di ibrida ma pura fenomenalità delle cose: ibrida, perché in lui tutto ciò che appare si situa in un punto di fusione tra la realtà e l‘immaginazione, il sogno e il delirio. Frantumi di un mondo oggettivo si intrudono nella grumosa pasta informe di una visione sconfinante sempre in una massa allucinogena multiforme. Pura, in quanto la fenomenalità del suo mondo, proprio in forza della sua matrice di molteplice ibridazione, non rimanda a nulla di diverso da essa, a nulla di concreto al di là di ciò che si manifesta con la dura ostinazione di un miraggio, il quale non svanisce neppure dopo che se n‘è accertata la natura illusoria. Forse solo in questo senso va interpretato lo scarto lessicale di Yvonne Guers, la quale, allontanandosi da Roland Barthes che aveva parlato di littérature objective27, preferisce usare l‘aggettivo objectal28, ad indicare la perfetta e paradossale fisionomia di un mondo narrativo che tanto più si compone di oggetti che evacuano ogni componente umana, quanto più tali oggetti si stagliano in un noeud d‘agencements intentionnels che finiscono con il riammettere quella componente, sebbene declinata 27 Cfr. il secondo saggio di Essais critiques dal titolo “Littérature objective”, apparso per la prima volta su Critique nel 1954, ora in R. Barthes, Oeuvres complètes II, Seuil, Paris 2005, p. 293-303. 28 Y. Guers, Op cit, p. 577. 41 Lichtung. Luci secondo degli stati aberranti29. Inoltre, se è vero che l‘esasperata clarté dei dati ripetutamente offerti fa ruotare senza sosta la storia su se stessa, è anche vero che le deliberate sovrapposizioni tra un l‘impianto extradiegetico a focalizzazione interna (prospettiva di Wallas) e a focalizzazione zero30 (narratore pseudo-onnisciente) permettono di spiegare in pieno il reticolare disarcionamento conoscitivo di cui siamo vittima. Ciò accade perché questionnant et conjectural31 è il mondo stesso per Robbe-Grillet, scandito da quell‘anaphorique léger qui à la fois désigne et se tait32. È Roland Barthes a servirsi di questa formula; poco oltre egli mette in luce il dispositivo stilistico a doppio regime che innerva tutta la scrittura di Robbe-Grillet: da una parte domina una marcata inspiration chosiste33, la quale lascia campeggiare al centro della sosta descrittiva la cosa attorniata da un freddo alone di insignificanza; dall‘altra parte troviamo un utilizzo spiazzante del visuel34, intendendo con ciò la tendenza a lavorare unicamente per temps litotiques35, mediante cui il mondo è condotto a squadernarsi dinanzi a noi come un artefatto intrico geometrico, in seno al quale il linguaggio si degrada in una compagine inerte di nomi e nei cui complessi riverberi l‘appareil descriptif di RobbeGrillet si scopre mystificateur. Più o meno negli stessi anni in cui Barthes sviluppava queste tesi, Maurice Blanchot dedicava un suo scritto a Le voyeur, poi raccolto nel 1959 in Le livre à venir col titolo di La clarté romanesque. Si tratta di un testo forse troppo trascurato dalla saggistica successiva, nel quale l‘autore 29 In questo senso il caso de La jalousie è più che emblematico. Cfr. soprattutto G. Genette, Figure III, ed. it. a cura di L. Zecchi, Einaudi, Torino, p. 237. In effetti Robbe-Grillet riesce a sconvolgere puntualmente anche queste classificazioni. A volte nel romanzo vengono riportate informazioni che Wallas non può conoscere, ma che non servono a nulla per quanto riguarda una maggiore intelligenza della vicenda. 31 I due termini sono di Roland Barthes, Op cit, p. 548. Il saggio si intitola Le point sur Robbe-Grillet, uscito per la prima volta su Préface nel 1962. 32 Ivi p. 549. 33 Ivi, p. 454. 34 Ivi, p. 296. 35 Ivi, p. 301. 30 42 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 individua due connotati salienti strettamente interconnessi: l‘esistenza di un‘ immagine centrale e la presenza di uno sguardo dalla felpata immobilità36. Il primo connotato s‘offre secondo i procedimenti di una descrizione ― come già visto poco più sopra ― senza ombre, investita di una chiarezza illimitata seppur sempre solo parziale, nel cui seno tutto finisce col farsi misteriosa e compatta visibilità. Tuttavia, anche se l‘immagine centrale sembra occupare perfettamente il punto di fuga dello spazio narrativo e psichico dei romanzi, in realtà essa ha qui il valore di un dato oscuro, da cui è possibile vedere non tanto ciò che questa mostra, quanto piuttosto il fatto che ciò che la sua surface rayonnante illumina non è altro che la controparte d‘apparenza ingannevole di un mondo al quale non è dato accesso. L‘immagine è centrale non rispetto ad altre immagini o ad altre sequenze narrative, ma unicamente rispetto ai diagrammi di ricostruzione e dénouement che di volta in volta i personaggi mettono in campo (e con loro il lettore). L‘immagine centrale costituisce quel piano di raffigurazione grazie al quale la scena può avere luogo. In realtà noi non vediamo mai quella immagine, ma piuttosto osserviamo attraverso di essa ciò che questa rivela a partire dal suo ineliminabile remous avuegle: la scène à laquelle nous n‘assistons pas, n‘est rien d‘autre qu‘une image centrale qui se construit peu à peu par une superposition subtile de détails, de figures, de souvenirs, par la métamorphose et l‘inflechissement insensible du dessin ou d‘un schème autour duquel tout ce que voit le voyageur [Blanchot sta parlando de Le voyeur] s‘organise et s‘anime. 37 36 M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 219-226. Ivi, p. 221. La scena alla quale noi non assistiamo non è nient’altro che una immagine centrale che si costruisce a poco a poco attraverso una sovrapposizione sottile di dettagli, di figure, di ricordi, attraverso la metamorfosi e l’attenuazione insensibile del disegno o di uno schema attorno al quale tutto ciò che vede il viaggiatore s’organizza e si anima. [Traduzione mia]. 37 43 Lichtung. Luci Ma suddetta immagine ― foyer vivant38 di uno spazio irriducibilmente en abîme rispetto al suo volume di strutturazione ― sarebbe mutila e inutile senza l‘altra caratteristica, ovvero lo sguardo immobile. In RobbeGrillet questo sguardo veicola tutto il taglio della narrazione, essendo preposto a ricevere e riprodurre le vicende che gli si dipanano dinanzi. Tale riproduzione però avviene in modo completamente arbitrario, discontinuo, imponderabile. L‘occhio infatti sembra non far altro che aprirsi e chiudersi di fronte alla scena, non trattenendone che particole dissociate e periferiche, zone indistinte, aspetti costanti seppur riportati come in una sovrimpressione di sezioni temporali diverse, chiamate a fondendosi in quel «molteplice indecidibile dell‘evento»39, di cui la letteratura è al tempo stesso effige e ombra, e dove appare come le vide en quoi tout se fait transparence.40 38 Ivi, p. 223. A. Badiou, L’essere e l’evento, a cura di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova 1995, p. 197. La meditazione in questione è dedicata a Mallarmé, autore che, a nostro giudizio, risulta molto affine a RobbeGrillet. 40 M. Blanchot, Op cit, p. 222. 39 44 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Büchner: il delitto come pensiero di Marco Baldino Le cronache criminali di Lipsia registrano, alla data del 13 novembre 1823, l‘esecuzione del soldato Johann Christian Woyzeck, assassino della propria amante. Il processo era stato accompagnato da una lunga disputa medico-giuridica sullo stato mentale dell‘imputato e sulla natura della cosiddetta monomania. Straordinaria analogia, quindi, con il caso Pierre Rivière — Francia, Aunày, nei pressi di Vire e di Caen — il quale, il 3 giugno 1835, sterminava la propria famiglia a colpi di roncola. Condannato a morte il 12 novembre 1835, fu poi graziato il 10 febbraio 1836. Morì suicida, in carcere, nel 1840. Anche il processo Rivière fu accompagnato da vaste polemiche tra medici e giuristi, che raggiunsero la stampa, aventi per oggetto lo stato mentale del soggetto e la natura della monomania. Pierre Rivière lasciò un‘imponente Memoire in cui spiega le ragioni del proprio gesto, riportata alla luce dall‘equipe di Foucault nel 1973. J. Ch. Woyzeck invece non lasciò dietro a sé alcun documento scritto. Supplì, tuttavia a questa lacuna, la penna di una giovane e geniale scrittore romantico, morto all‘età di soli 24 anni, Georg Büchner, che, in un intervallo di tempo non meglio precisabile, comunque compreso tra il ‘23 (anno della morte del Woyzeck) e il ‘37 (anno della morte di Büchner) scrisse il dramma Woyzeck. Büchner morì il 19 febbraio 1837, a Zurigo, dove si era stabilito da pochi mesi. A partire dal 1835 si era invece stabilito in Francia, dove dimorò presumibilmente fino verso la fine del 1836, cioè giusto il periodo del processo Rivière. Ora, niente prova che Büchner fosse al corrente del caso Rivière, ma si potrebbe sospettare che questi abbia voluto dare a Woyzeck quella parola che Rivière aveva saputo prendere da sé nella sua Memoire, quella parola che doveva servire all‘incolto milite omicida di manifestare 45 Lichtung. Luci l‘intreccio di meditazione e dolore che lo aveva condotto al delitto. Passaggi e peculiarità del dramma di Büchner 1. Secondo la scienza (il medico-professore) Woyzeck è affetto da «una bellissima aberratio mentalis partialis della seconda specie». Tale ―affezione‖ è dunque ―bellissima‖, cioè interessante per il sapere medicopsichiatrico allora appena toccato da quei progressi che, in breve, porteranno la psichiatria ad una chiara istituzionalizzazione. In secondo luogo, essa è ―parziale‖: Woyzeck non è matto su tutti gli aspetti della vita, ma delira solo su un punto. Qui si innesta il discorso della monomania, poi abbandonato dalla psichiatria.41 2. Woyzeck soffre in effetti di allucinazioni, ma queste allucinazioni sembrano portare con sé l‘eco di un sapere arcano (la ―follia‖ non è ancora perfettamente medicalizzata e, vedremo, come questa sia ancora avvicinata all‘animalità, all‘immoralità, a una qualche forma di hybris meditativa). Visioni essenziali di Woyzeck Vede una testa rotolare proprio in corrispondenza di quella striscia chiara sopra l‘erba, la sera. Vede che un fuoco correre per il cielo e sotto sente un rimbombo, come di trombe. Quando il sole è a picco, a mezzogiorno (si noti la corrispondenza con tema classico della letteratura visionaria: «l‘ora del mezzogiorno nell‘Antichità era un‘ora fasta e nefasta, l‘ora non solo della sospensione di ogni attività sotto la vampa accecante del sole, ma anche l‘ora delle visioni proibite, con il loro seguito di delirio»42 ed è come se il mondo prendesse fuoco, una voce terribile 41 Oggi straordinariamente rilanciato a dal delitto di Cogne (30 gennaio 2002). 42 P. Klossowski, “Nietzsche, il politeismo, la parodia”, trad. it. di A. Serra, Mimesis, 12, 1997. 46 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 parla a Woyzeck (N.B. si tratta della stessa voce che, più tardi, Büchner associerà al delitto: «Ammazza, ammazza la lupa del diavolo!»). 3. Sebbene Büchner non lo dice esplicitamente, lo spettatore e il lettore sono sollecitati a costruire da sé un‘analogia tra Woyzeck e l‘animale: 1) il cavallo ammaestrato dei baracconi (Scena V): l‘uomo della baracca così presenta il suo prodigio: «un animale umano... eppure un animale, une bête»; 2) Woyzeck, come sostiene il medico-professore, è effettivamente poco più che una bestia, questi giura infatti di averlo visto pisciare contro il muro, come un cane (Scena VI). E quando Woyzeck invoca la natura, il dottore replica che l‘uomo è uomo proprio perché libero dalla natura, egli controlla, con la volontà, il musculus constrictor che consente di trattenere l‘urina; 3) Woyzeck muove le orecchie in modo asinino (Scena XV); — il dottore ne fa oggetto di una singolare lezione ―accademica‖; 4) il capitano (Scena I) rimprovera a Woyzeck la sua debolezza nei confronti della pulsione sessuale (Woyzeck ha un figlio illegittimo dalla prostituta Maria) e quindi non ha morale, è une bête. 4. L‘amore animale di Woyzeck (Franz) per Maria è poi alla base della sua ossessione (Woyzeck è geloso) e quando Maria lo tradisce con il tamburmaggiore e tutta la città lo sbeffeggia, lui, i cui pochi soldi della diaria non sono sufficienti a mantenere il figlio e la madre e che pertanto si sottopone a grotteschi esperimenti medicoalimentari per qualche spicciolo in più, si abbandona al delirio. Ecco di nuovo la voce che gli sussurra dal ventre della terra. «Ammazza, ammazza la lupa del diavolo». Corre in città, si batte col rivale e ne ha la peggio, acquista un coltello, uccide Maria. 5. Infine, ecco il discorso giuridico, appena accennato, in quest‘opera incompiuta, per bocca di un poliziotto: «un bel delitto, un delitto ben fatto, proprio bello. Tanto bello che non si poteva pretendere di più» (Scena XXVIII). 47 Lichtung. Luci Conclusioni A. In via del tutto generale, si potrebbe assumere che Woyzeck (come Rivière) abbia espresso, nella sua Memoire, il conflitto tra l‘urgenza del pensiero e la compressione a cui la sua vita fu esposta. Tale compressione fu tanto forte da rendere impossibile a quel pensiero l‘accesso al linguaggio. La pulsione a pensare si manifestò quindi in un gesto estremo, ma pieno di sostanza meditativa, a volte eccessiva, tralignante («Woyzeck. Tu sei un buon uomo, un buon uomo. Ma pensi troppo, e questo affatica, consuma», Scena I, Capitano) — qui il delitto va compreso come una forma di pensiero. Woyzeck è, in un certo senso, un pensiero che si leva dai margini con il bête e si impone allo sguardo dei saperi ufficiali come uno sconquasso. Ma i saperi ufficiali (qui psichiatria e giurisprudenza) non hanno nessuna intenzione di lasciarsi sconquassare e rispondono quindi a questo modo: folle o criminale, folle o criminale. Esiste tuttavia una trama della follia che la medicina ha classificato come ―monomania‖ e che consiste in una sorta di intermittenza della ragione e che potrebbe, se non altro, rendere giustizia di un rapporto articolato con la ragione stessa: il soggetto è solo puntualmente pazzo, pazzo solo su un punto e savio su tutto il resto. B. Woyzeck è eterogeneo all‘umana compagine, alla dimensione socialmente omogenea; egli è la piega immorale, folle e delittuosa del pensiero; egli è la parte dell‘umano che commercia con il bête, che si consuma nell‘idiozia e quindi, essenzialmente, esso è non-pensiero: «C‘è bel tempo, signor capitano. Vede, un cielo cosí bello, grigio; verrebbe voglia di piantarci un chiodo e impiccarcisi, solo per quella lineetta, fra sì e ancora sì, e no. Signor capitano, sí o no? il no c‘è perché c‘è il sí, o il sí c‘è perché c‘è il no? Ci devo pensar su» (Scena IX). Pensare qui significa una dolorosa lotta con ciò che parla dall‘arcana dimensione del ‗fuori‘: teste che rotolano sul fondo del prato, fuochi che corrono per il cielo, voci 48 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 terribili che sussurrano dal cuoio della terra... E che non trova rappresentanza nel flusso omogeneo del pensiero. Woyzeck è l‘aria disperata e stravolta che si dipinge sui volti di vite ritagliate con ferocia nel corpo dell‘esistente e, con un moto d‘esclusione, escluse dal pensiero affinché quella vita diventi una vita Umana. Woyzeck è un surriscaldamento del pensiero, un pensiero senza linguaggio, un pensiero che cerca la coerenza del proprio delirio in un gesto che si imponga alla societé in modo dirompente, in un modo che non possa più essere ignorato, in un delitto. Woyzeck è un pensiero surriscaldato, privo di linguaggio, contiguo ai territori dell‘immoralità, dell‘animalità, della stupidità («Quanto siete stupido! Tremendamente stupido! Woyzeck», Scena I, Capitano), della follia che «corre per il mondo come un rasoio aperto» (Scena IX, Capitano). 49 Lichtung. Luci Arthur Rimbaud: il peso insopportabile di Francesca Brencio L‘angelo e il bambino E già il nuovo anno aveva esaurito la prima luce, luce che piace ai bambini, e a lungo richiesta e presto scordata: sepolto nel sorriso e nel sonno, tacque il languidetto bambino; lo abbraccia un letto di piume, e tutt‘intorno per terra: strepitosi sonagli, e conservando il loro ricordo, carpisce sonni felici, e riceve i doni dei celesti, dopo i doni della madre. Stira la bocca sorridente, e le labbra appena dischiuse sembrano invocare Dio: accanto alla testa l‘angelo sta sospeso, chino, e cerca di cogliere i deboli sussurri del cuore innocente, e pendendo dalla sua visione, contempla i tratti eterei; in ammirazione delle gioie della fronte serena, in ammirazione delle gioie della mente, e dell‘intatto fiore di Noto: «Bambino simile a noi, vieni, sali con me al cielo, entra nei regni celesti; abitaci, tu degno delle regge celesti viste nei sogni; la terra non ti seppellisca, figlio celeste! Per nessuno c‘è fede senza rischi: mai gioie serene confortano i mortali; dallo stesso profumo del fiore viene su qualcosa d‘amaro, e i cuori commossi sono sollevati da una triste gioia; mai il piacere gode senza nube e traspare una lacrima nel riso incerto. Che? la fronte pura ti marcirebbe a causa di una vita amara, e l‘affanno con le lacrime ti turberebbe gli occhietti azzurri, e l‘ombra del cipresso ti strapperebbe le rose del volto? Questo no: penetrerai con me nelle regioni degli dei, e unirai la tua voce ai concerti dei celesti, spierai gli uomini sotto di te, e le passioni degli uomini. Vieni: per te il Nume spezza i lacci dell‘esistenza. Ma la madre non sia velata a lutto: non faccia distinzioni tra feretro e culla; rilassa il sopracciglio triste, né i lutti contristino il volto: piuttosto sparga gigli a piene mani: infatti l‘ultimo giorno fu per il puro il giorno più bello». Ora sta avvenendo questo: avvicina lieve l‘ala alla bocca rossa, recide l‘ignaro e porta l‘anima del reciso sulle ali azzurre, con un volo delicato lo trasporta su nelle sedi celesti: ora il piccolo letto custodisce soltanto delle membra smorte, alle quali tuttavia non è venuta meno la grazia, ma non lo anima più il respiro e rende la vita. È trapassato… ma ancora sulle labbra che sanno di baci Espirano sorrisi, e aleggia il nome della mamma, e morendo ricorda i doni dell‘anno che nasce. Penseresti che quegli occhi spenti siano socchiusi per un sonno tranquillo; ma quel sonno, più che mortale per il nuovo onore, 50 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 non so perché avvolge la fronte di luce celeste, e dimostra che egli non è più una radice della terra ma figlio del cielo. Oh! Con quanta pena la madre pianse la perdita, e con quante lacrime bagnò il caro sepolcro! Ma ogni volta che chiude gli occhi nel dolce sonno dalla rosea soglia del cielo rifulge un bambino, Angelo, e si diverte a richiamare la dolce madre. Si scambiano sorrisi: poi, perso nell‘aria, con le ali nivee svolazza attorno alla mamma stordita, e congiunge quelle labbra con labbrucce divine1 Smarrisco il mondo e muoio lo dimentico l‘ho sepolto nella tomba delle mie ossa George Bataille 2 I. «Poeta, Rimbaud lo fu in modo assoluto, perentorio»3. Eppure, come ricorda Isabelle Rimbaud, quando ― durante la malattia ― ella leggeva al fratello qualcosa, «quando capitava un verso, anche uno solo, mi supplicava di saltare. Aveva orrore della poesia»4. Arthur Rimbaud morì il 10 novembre del 1891 a trentasette anni; accanto a sé non c‘era più traccia di fede nella poesia5; eppure di lui rimangono i versi che, come 1 A. Rimbaud, “L’ange et l’enfant”, in A. Rimbaud, Poesie latine, in Opere, a cura di D. Grange Fiori, Mondadori, Milano 1975, p. 424 sgg. 2 G. Bataille, Nietzsche. Il culmine e il possibile, trad. it. a cura di A. Zanzotto, Rizzoli, Milano 1970, p. 99 3 V. Segalen, Il doppio Rimbaud, trad. it. a cura di F. Pietranera, Ed. Rosellina Archinto, Milano 1990, p. 5. 4 Ibidem, p. 50. 5 «Vostro fratello ha la fede, figliola che mai ci avevate detto? Ha la fede, e anzi non ho mai visto una fede di qualità simile!» scrive Isabelle Rimbaud alla madre riportando le parole che il sacerdote le disse nel momento della confessione di Arthur prima della morte (cfr. Isabelle Rimbaud alla madre, in A. Rimbaud, Opere, cit., p. 629). Tuttavia, come sottolinea Yves Bonnefoy a proposito della conversione in extremis di Rimbaud alla religione cattolica, «per un’anima incapace di dimenticare la promessa di Gesù, la conversione di Marsiglia non è stato il primo impeto di speranza. Ma tutte le altre volte, finché Rimbaud fu cosciente, Dio sembrava non rispondere. Spesso detestato per la morale da lui avallata, atteso talvolta 51 Lichtung. Luci dice Coulon, «sono il suo cervello, il suo sangue e la sua carne direttamente messi sulla carta»6. Forse è per questo che per capire Rimbaud «bisogna studiarlo e bisogna, soprattutto, amarlo»7, bisogna, come dice Bonnefoy, «separare la sua voce dalle tante altre voci che ad essa si sono mescolate»8 e pensare questa attraverso la misura del silenzio. Cresciuto dalla madre nella piccola Charleville, «una città superlativamente idiota fra tutte le città di provincia»9, senza la figura paterna accanto, desideroso di fuggire da quel posto per realizzare la libertà libera e con essa i propri sogni, poco più che adolescente, Rimbaud sperimenta la solitudine dell‘esistenza «grigiastra». Egli avvertì il suo legame con Charleville come un cappio che lo stringeva, come un luogo che inebetiva le sue capacità e lo confinava fuori dal mondo. Il 2 maggio del 1870 scrive a Izambard: «Sono spaesato, malato, furibondo, istupidito, stravolto; aspiravo a bagni di sole, a passeggiate senza fine, riposo, viaggi, avventure, bohémienneries insomma» . 10 Qualche mese dopo (il 2 novembre) scrive ancora al suo interlocutore: «Signore, sono tornato a Charleville il giorno dopo aver lasciato lei. Mia madre mi ha accettato, e io – eccomi qua, l‘ozio assoluto. Mia madre non ha l‘intenzione, pare, di mettermi in convitto fino al ingordamente, nella Saison en enfer o nelle Illuminations, il Dio cristiano fu sempre un assente, e se l’opera di Rimbaud può avere valore di testimonianza, lo è davvero e soltanto di quella morte del divino che anche Nietzsche ha descritto. Si faccia pure, se lo si desidera, della conversione di un morente il segno del risveglio di Dio. Ma che non si cerchi la sua presenza in una poesia che spesso ha tentato di provocar- lo senza incontrare null’altro che il suo silenzio». Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, trad. it. a cura di G. Caramore, Marietti, Casale Monferrato 1988, p. 114. 6 F. Liuzzi, Arturo Rimbaud, Formiggini, Roma 1926, p. 9. 7 Ibid., p. 8. 8 Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 1. 9 A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, in Opere, cit., p. 440. 10 Ivi, p. 441. 52 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 gennaio ‘71.[…] Muoio, mi decompongo nella mediocrità, nella meschinità, nel grigiastro. Che vuole, mi sono tremendamente incaponito a voler adorare la libertà libera, e… un mucchio di cose da fare pietà, vero?» 11 Charleville è quel posto, o «natio borgo», in cui il giovane Arthur si decompone; esso assurge a paradigma di inettitudine e di miseria; nella lettera del 28 agosto 1871 a Paul Demeny scrive: «Situazione dell‘imputato: da più di un anno ho abbandonato la vita normale, per quel che lei sa. Chiuso perpetuamente in questa inqualificabile contrada ardennese, senza frequentare un solo uomo, raccolto in un lavoro infame, inetto, ostinato, misterioso, rispondendo col silenzio alle domande, alle apostrofi grossolane e cattive, mostrandomi dignitoso nella mia posizione ex-tra-legale, ho finito col provocare risoluzioni atroci, da parte d‘una madre inflessibile quanto settantatré amministrazioni dai berretti di piombo. Mi ha voluto imporre un lavoro – da ergastolano, a Cherleville (Ardennes)! Un posto per il tal giorno, diceva, oppure, quella è la porta. Rifiutavo questa vita; senza dire le mie ragioni: sarebbe stato pietoso. Fino a oggi, sono riuscito a eludere le scadenze. Lei, si è ridotta a questo: augurarsi perpetuamente una mia partenza avventata, la fuga!» 12 La povertà interiore e la solitudine che Rimbaud avverte nella sua città non fanno che frustrare il suo desiderio di realizzazione, e di libertà. A Théodore de Banville scrisse il 24 maggio 1870 così: «Maestro, […] ho diciassette anni. L‘età delle speranze e delle chimere, dico- no, – e, ragazzo sfiorato dalle dita della Musa – scusi la banalità, – mi son messo a dire la mia fiducia, le mie speranze, le mie sensazioni, tutte le cose dei poeti – che io chiamo: primavera. […] Fra due anni, fra un anno forse, sarò a Parigi. – Anch‘io, signori del giornale, 11 12 Ivi, p. 445. A. Rimbaud, “Lettera a Paul Demeny”, in Opere, cit., p. 464 sgg. 53 Lichtung. Luci sarò Parnassiano! – ho in me qualcosa, non so bene… che vuol salire… – Giuro, caro Maestro, di adorare per sempre le due dee, la Libertà e la Musa» . 13 La povertà e la solitudine di cui si fa qui parola non sono solo certa prigionia e desolazione tipiche di un adolescente, ma sono quelle del poeta, il cui essere è avvertito per di più, come un essere dal «sangue cattivo»: «Mi è proprio evidente che sono sempre stato razza inferiore. La rivolta, non mi è possibile capirla […]. Non ho mai fatto parte di questo popolo; non sono mai stato cristiano; io sono della razza che nei supplizi cantava» . 14 Sono la solitudine e la povertà di chi comprende l‘insoddisfazione proveniente dalla quotidianità, da quella medietà che egli ritiene sterile e grigia di fronte all‘ideale, di fronte alle ambizioni. Tutto il mondo a lui circostante ― affetti, casa, lavoro ― appariva agli occhi di Rimbaud come una condanna. La vita, nella sua manifestazione immediata, nella sua concretezza era una condanna, quella vita per lui così ordinaria e che imponeva delle esigenze necessarie per la propria sussistenza era il vero limite di fronte al suo essere poeta, o meglio, così egli lo intese, come un limite da superare, da oltrepassare in vista dei «bagni di sole» e dei dettami della Musa. Probabilmente questa insoddisfazione, questo senso di voler com-prendere il mondo e il suo senso più intimo rappresentano la prima tappa per l‘affermazione di quella condotta di vita che in più di un‘occasione fece di Arthur Rimbaud un «povero da strada»15, un barbone dalle dita fortunate. 13 A. Rimbaud, “Lettera a Théodore de Banville”, in Opere, cit., p. 439 sgg. 14 A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit., pp. 217 e 221. 15 Si ricordi come Mathilde Verlaine rimase scandalizzata dalla scoperta dei pidocchi sul cuscino di Rimbaud quando egli era ospite presso la casa dei coniugi Verlaine, e facendone parola al marito, egli rispose che Rimbaud amava portarli con sé per poterli attaccare ai preti (la testimonianza è riportata in G. Robb, Rimbaud, trad. it. a cura di M. Mascarino, A. Palladino, Carocci, Roma 2002, p. 115). Anche il 54 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 La sua ribellione, ovvero quella che chiama la sua ripugnanza contro il dovere imposto e ordinario, si manifesta sin da subito persino nella eccessiva eccellenza di studente, perché le sue ripugnanze producono obbedienza e ipocrisia, nei primi tre anni e mezzo passati all‘Istituto Rossat nel periodo 1861-1864, dove vinse tredici premi e si guadagnò undici note di merito. Nella sua ricerca della perfezione scolastica e intellettuale insieme, egli aveva già l‘idea di: «Osservare ogni cosa da vicino, descrivere la vita moderna con coraggiosa precisione e il mo- do con cui essa corrompe il genere umano […] al fine di accelerarne la distruzione» . 16 Osservare il mondo al fine di smascherare tutte le menzogne che esso racchiude ed ergersi nel- la propria solitudine come un osservatore esterno, un anatomista del vissuto, un nuovo Prometeo che priva il mondo ― il suo mondo, Charleville ― del senso più intimo, in cui perfino gli affetti sono spogliati di ogni valore. Tuttavia, Rimbaud sperimentò questa solitudine non soltanto nella sua città, ma anche nel rapporto con la madre; sebbene fosse una donna intelligente e sensibile, M. me Rimbaud non seppe comprendere quel sentirsi abbandonato che Arthur avvertì sia nei suoi confronti sia nei confronti del padre, capitano dell‘esercito francese mai ritornato a Charleville dopo il 1860: «E la Madre, chiudendo il libro del Dovere, se ne andava, soddisfatta e fiera. Non vedeva negli occhi azzurri e sotto la fronte piena di protuberanze, l‘anima del suo bambino in preda alle ripugnanze. Tutto il giorno sudava obbedienza; intelligente, molto; eppure qualche nero tic, qualche mania, indicavano in lui le acerbe ipocrisie. […] Pietà! Era amico soltanto di bambini scarni cognato di Verlaine, desideroso di incontrare il futuro grande poeta trovò «un ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo scolaro» (Cfr. G. Robb, Rimbaud, cit., p. 119). 16 Biglietto di Arthur Rimbaud a Delahaye, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 61. 55 Lichtung. Luci che, fronti nude, occhi stinti sulle guance, celando magre dita nere e gialle di fango sotto vesti vecchiotte e puzzolenti di sciolta, conversavano con la dolcezza degli idioti! […] A sette anni, faceva romanzi sulla vita del vasto deserto, dove splende una Libertà felice» . 17 Questo medesimo sentimento torna anche altrove, nelle Strenne degli orfani: «La stanza è piena d‘ombra; si ode vagamente il sussurro di due bambini mesto e dolce […] Un‘assenza si avverte in ogni cosa… Non c‘è dunque per queste creature una madre, dal fresco sorriso, dagli occhi trionfanti? […] Il sogno d‘una madre, è il tiepido tappeto, il nido di bambagia dove i bimbi acquattati, dormono un dolce sonno di candide visioni!… Ma questo, – è un nido senza tepore né piume, dove i piccoli han freddo, e paura, e non dormono; nido ghiacciato amaramente al vento… il vostro cuore ha capito: – bambini senza madre. Non più la madre a casa! – e assai lontano il padre!… » . 18 Rimbaud non fu mai un figlio a casa, o meglio, un figlio e un fratello che sentì la casa come dimora e rifugio. Forse il desiderio della fuga nasce proprio da questa presa di coscienza, da questo sentimento che fa avvertire ad Arthur come tutto gli sia estraneo; e forse ha qui origine quel disincanto del mondo che egli sperimenta sin da adolescente, e che frantuma nell‘indifferenza delle consuetudini del piccolo villaggio ardennate tutti i suoi sogni e tutte le ambizioni di gloria. «A ogni essere, parecchie altre vie mi sembrano dovute»19, scrive in Una stagione in Inferno. Viene da domandarsi quali siano queste altre vie, se è vero che «in un solaio in cui mi chiusero dodicenne ho conosciuto il 17 A. Rimbaud, “I poeti di sette anni”, in Opere, cit., p. 92 sgg. A. Rimbaud, Le strenne degli orfani, in Opere, cit., pp. 5-7. 19 A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 251. 18 56 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 mondo, ho illustrato la commedia umana»20. Ma Rimbaud sperimentò la delusione non soltanto a Cherleville, ma anche altrove: Parigi, Londra, l‘Abissinia non erano poi così diverse tra loro. II. Rimbaud compose L‘angelo e il bambino poco più che quindicenne, nel primo semestre del 1869. Sebbene il titolo possa far presumere qualcosa di serafico tale da legare l‘immagine dell‘angelo a quella del fanciullo, in realtà il contenuto della poesia parla d‘altro: tratta dell‘ideale che un angelo persegue nel recidere la vita di un bambino. L‘interrogativo non è perché un quindicenne scriva di morte, ma come la morte non sia solitudine, ma una condizione privilegiata di relazioni. Ciò che merita di essere considerato non è tanto il discorso che l‘angelo pronuncia nel momento che precede la morte del bambino, quanto come il bambino, una volta morto, possa realizzare pienamente il suo rapporto con la madre. L‘immagine finale dei sorrisi e dei baci racchiude molto della condizione affettiva ed esistenziale del giovane Rimbaud. Proprio nell‘inversione del significato che la vita e la morte o che la solitudine e la comunicazione rivestono in questa lirica si compie il miracoloso, il serafico ― e non è un caso che il giovane Rimbaud scelga l‘immagine dell‘angelo. In questo senso l‘opera poetica di Rimbaud fin dall‘inizio va al di là del cliché del poeta maledetto, del rivoluzionario, del bohemien. Una volta sperimentata la vita come assenza di pienezza, rimane solo la morte come realizzazione di questa, o meglio, come custode di una promessa che attende il suo soddisfacimento. Se è valida l‘affermazione di Cioran per la quale Rimbaud è un ingegno che si è distrutto per aver voluto dare un senso alla propria esistenza21, allora in questa sua 20 A. Rimbaud, Illuminazioni, in Opere, cit., p. 301. Cfr. E. M. Cioran, La tentazione di esistere, trad. it. a cura di L. Colasanti, C. Laurenti, Adelphi, Milano 1984, p. 24. 21 57 Lichtung. Luci distruzione egli sperimenta la vertigine del proprio essere a metà. Perciò, come ha giustamente osservato Camus, possiamo dire che «la grandezza di Rimbaud non sta nei primi gridi di Charleville né entro i traffici dell‘Harar ma prorompe nell‘attimo in cui, dando alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che mai le sia stato conferito, dice ad un tempo il suo trionfo e la sua angoscia, la vita assente al mondo e il mondo inevitabile, il grido verso l‘impossibile e la realtà ruvida da stringere, il rifiuto della morale e la nostalgia irresistibile del dovere. Nel momento in cui, portando in sé l‘illuminazione e l‘inferno, insultando e salutando la bellezza, ha fatto di una contraddizione irriducibile un duplice e alterno canto, è poeta della rivolta, e il massimo» . 22 Leggendo I deserti dell‘amore si ha la sensazione che mai fu scritta da lui poesia più triste, mai fu sentita in modo così radicale la sua condizione di perdita della purezza della vita, di solitudine, di mancanza di comunione ― corporale prima che spirituale. L‘opera inizia dicendo: «Questi scritti sono di un giovane, giovanissimo uomo, la cui vita si è sviluppata un po‘ dappertutto; senza madre, senza paese, noncurante di quel che è noto, in fuga davanti a ogni forza morale, come già lo furono molti uomini giovani, e meritevoli di compassione» . 23 Poco oltre continua: «Io ero abbandonato, in quella casa di campagna senza fine: a leggere in cucina, a far asciugare davanti agli ospiti il fango dei miei vestiti, alle conversazioni in salotto: mortalmente agitato dal mormorio del latte la mattina e dalla notte d‘un secolo fa […]. A tutto ciò 22 A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, trad. it. a cura di L. Magrini, Bompiani, Milano 2000, p. 717 sgg. 23 A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 195. 58 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 piangevo enormemente. Infine sono sceso in un luogo pieno di polvere, e, seduto su una catasta di legna, ho lasciato che si esaurissero insieme a quella notte tutte le lacrime del mio corpo» . 24 E nel Battello ebbro scrive: «Ma è vero, ho pianto troppo! Son desolanti le Albe. Ed è atroce ogni luna, ed è amaro ogni sole» . 25 Queste parole ricordano i versi di Orazione della sera dove si legge: «Il mio cuore triste è a volte alburno ove sanguina il cupo giovane oro dei succhi» . 26 Il tema è sempre il medesimo: l‘impossibilità di raggiungere quella comunanza tanto agognata, quella pienezza irrisolta il cui orizzonte fugge in una fuga eterna27. III. Solitudine è perciò il venir meno di tutto ciò che è oggetto di desiderio, di amore, di appartenenza. La prima solitudine fu quella della madre, la seconda quella di Dio e della Vergine28, la terza quella dell‘amore, la quarta quella della poesia. In questa condizione, Rimbaud consegnò al fallimento la propria esistenza ― per eccesso di orgoglio, di coraggio, perché si può essere falliti anche per eccesso, non solo per difetto ― rendendola poco più che un malinteso29. E il suo fallimento fu triplice: fu quello dell‘incapacità di farsi veggente ― così come si era proposto nelle lettere a 24 A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 197 sgg. A. Rimbaud, “Battello ebbro”, in Opere, cit., p. 149. 26 A. Rimbaud, “Orazione della sera”, in Opere, cit., p. 81. 27 A. Rimbaud, “Credo in Unam”, in Opere, cit., p. 19. 28 Cfr. A. Rimbaud, “Le prime comunioni”, in Opere, cit., pp. 131141. 29 P. Claudel, Prefazione a Arthur Rimbaud, Oeuvres, in A. Rimbaud, Opere, cit., p. 730. 25 59 Lichtung. Luci Izambard e Demeny del 187130 ―, quello della carità e della pietà, che segnavano le poesie della giovinezza, e infine quello dello spirito di verità. Soprattutto quest‘ultimo sarà ciò che egli denuncerà in modo implacabile nella Stagione in Inferno, la sua sregolatezza programmatica di tutti i sensi che avrebbe dovuto condurlo a comprendere la verità, a farsi verità dopo aver partecipato della visione. Tuttavia, in cosa altro mai può riposare l‘essenza della poesia e della sua verità, osserva Bonnefoy, «se non nella confessione del fallimento»31 e nel riconoscere che l‘affannarsi del poeta per cercare la realtà nella sua essenza lo spinge proprio nella direzione opposta di questa ricerca, cioè nel perdere la realtà e con essa se stesso? Cercare la purezza della vita, l‘eternità, attraverso il loro opposto conducono Rimbaud a una perdita di esse: «Rivoltarsi contro la loro presente miseria, ingiuriarla con il pretesto dell‘Ignoto, essere odio prima di essere amore, è davvero questo il mezzo per ristabilire la felicità e l‘amore originari? Non è forse escludersi ancora un po‘ di più dal grande festino rifiutato?» 32 Solo attraverso la presa di coscienza del proprio fallimento risulta chiara l‘espressione: «Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l‘ho trovata amara. – E l‘ho insultata» . 33 Ormai Rimbaud ha consapevolezza non solo di questo suo fallire, ma di come sia impossibile attuare la riconciliazione: del passato col presente, di Charleville con Londra, di se stesso con Dio, della poesia con la vita. È la coscienza dell‘impossibile che si apre a lui nei suoi 30 Cfr. A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, e “Lettera a Paul. Demeny”, in Opere, cit., p. 448 sgg. Sul tema del poeta veggente in Rimbaud cfr. inoltre G. Robb, Rimbaud, cit., pp. 84-96; G. Deleuze, Critica e Clinica, trad. it. a cura di A. Panaro, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 45-48. 31 Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 48. 32 Ivi, p. 47. 33 A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 211. 60 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 multiformi aspetti. «Conosco ancora la natura? Mi conosco? ― Basta con le parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Gridi, tamburo, danza, danza, danza, danza!»34 Impossibile è la libertà libera, impossibile la salvezza, impossibile la poesia senza il pensiero della morte. «Il vecchiume poetico era per buona parte nella mia alchimia del verbo. Mi abituai all‘allucinazione semplice […]. Più tardi spiegai i miei sofismi magici con l‘allucinazione delle parole! Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Stavo in ozio, preda di una febbre pesante […]. Dicevo addio al mondo in una sorta di romanze […]. Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande intiepidite. Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco […]. Divenni un‘opera favolosa: vidi che in tutti gli esseri c‘è un destino di felicità: l‘azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervarsi.» 35 Tuttavia, la coscienza dell‘impossibile e di come esso rappresenti il limite ultimo verso il quale necessariamente egli tende, non lo irretiscono, non lo imprigionano. Rimbaud vuole, ancora e comunque, ciò che gli fu negato, ciò che il mondo gli ha negato: la purezza, l‘eternità, la vita e ― soprattutto ― la pienezza. Vuole la felicità, la vita chiara, quel raggio di luce che fa cantare la sta- tua di Memnone. Così, per ritrovare quella promessa, egli sceglie «le corrispondenze». «È ritrovata. che? – l‘Eternità. È il mare andato via col sole. Anima sentinella, Mormoriamo l‘assenso della notte di niente e del giorno di fuoco. Dai suffragi umani, dai comuni slanci 34 A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 221. 35 A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., p. 243 sgg. 61 Lichtung. Luci tu là ti liberi e voli a seconda. Poi che da voi sole, braci di raso, esala il Dovere senza un: finalmente. Là niente speranza, non c‘è un orietur. Scienza con pazienza, il supplizio è certo. È ritrovata. Che? - l‘Eternità. È il mare andato via col sole.» 36 L‘eternità è il mare andato via col sole ― in un‘altra stesura dirà «sciolto nel sole»37; ora è nel lampo dell‘analogia che si compie la promessa, il ritorno alla purezza, la realizzazione della pienezza. Tuttavia, in questo lampo in cui sembra che l‘unione venga realizzata, che la pro- messa venga soddisfatta e con essa il peso dell‘attesa alleggerito dal compimento, il poeta non dimentica lo scarto che l‘impossibile genera e come, ancora una volta, la pienezza non sia una meta a portata di mano: di qui l‘incapacità della sintesi, di essere sintesi. «In quel periodo» scrive nelle Minute «era la mia vita eterna, non scritta, non cantata, ― qualcosa come la Provvidenza nella quale si crede e non si canta.»38 Ancora una volta non c‘è possibilità di nutrire l‘illusione e non c‘è possibilità per la realizzazione della comunione, della pienezza. Accettare tragicamente questo scarto è l‘unico modo che può fare dell‘eternità un momento della vita, che può rendere «la vita chiara», almeno per un attimo, una tenera certezza che 36 A. Rimbaud, L’eternità, in Opere, cit., pp. 167-169. Cfr. A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., pp. 249-251. Qui la poesia dice: «È ritrovata! / Che? L’eternità. / È il mare sciolto / nel sole. / Anima mia eterna, / osserva il tuo volto benché / la notte sia sola / e il giorno sia in fiamme. / Dunque ti liberi / da umani suffragi, / da slanci comuni! / Tu voli a seconda… / – Mai la speranza. / non c’è un orietur. / Scienza e pazienza, / certo è il supplizio. / Non più domani, braci di raso, Vostro ardore, è il dovere. / È ritrovata! Che? – l’Eternità. / È il mare sciolto / nel sole». 38 A. Rimbaud, “Età dell’oro”, in “Minute per Una stagione in Inferno”, in Opere, cit., p. 277. 37 62 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 può far intuire il ritrovamento di quella purezza originaria tanto desiderata. Si può forse affermare che nel suo cammino Rimbaud opera una sola scelta: la via deludente della distruzione, l‘abuso delle droghe per comprendere che esse non sono tanto una sostanza quanto una rêverie, non un avvicinamento all‘essere quanto una rassegnata passività39. E viene imposto alla parola il peso di un destino che non può che giungere al silenzio, e Rimbaud consegnò ad esso la parte più importante della sua poetica. Spesso, infatti, solo il silenzio rende ragione di un‘intera esistenza di cui non è possibile comprendere il senso con le parole. «Ritrovare la purezza non nella coscienza ma in ciò che la nega: questo è stato il tentativo di Rimbaud.»40 Una stagione in Inferno «significa ciò che dice, alla lettera e in ogni senso»41. Non si tratta di una sofferenza gratuita, ma necessaria come altrettanto necessaria è la discesa agli inferi «da cui tornerà redentore»42. In de profundis Rimbaud torna dagli inferi; egli ha visto e la visione lo ha reso partecipe; la visione si è offerta a lui nella sua materialità, nelle sue manifestazioni fisiche; l‘Inferno che Rimbaud ha esperito si è presentato al poeta nella vita; per questo egli dice: «Mi sarà lecito possedere la verità in un‘anima e un corpo» . 43 Così la solitudine e quella infelicità e tristezza che lo hanno accompagnato nella vita sono diventate in Rimbaud una ricerca di senso, sebbene distruttiva. Infatti, anche laddove vi è una distruzione è possibile rintracciare un senso per quella stessa distruzione, un senso disperato ma pur sempre senso. Questo Rimbaud lo sapeva, «piccola rosa in un giardino e metafora di Dio»44. 39 Cfr. Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 37. D. Ropps, Rimbaud, Morcelliana, Brescia 1935, p. 62. 41 Lettera di Isabelle Rimbaud, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 215. 42 Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 29. 43 A. Rimbaud, “Addio”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 265. 44 D. Ropps, Rimbaud, cit., p. 170. 40 63 Lichtung. Luci Vincent Van Gogh: un pennello fremente di febbre e di emozione* di Marco Nicastro Per colui che possiede curiosità artistica e sensibilità estetica, entrare in contatto da solo a solo con l‘opera di Vincent Van Gogh, uno dei più originali pittori della storia dell‘arte occidentale, è certamente esperienza entusiasmante. Nel museo della capitale olandese a lui dedicato (la cui visita ha fornito lo spunto ultimo per questo contributo) si può facilmente essere investiti dalla potenza dei suoi quadri che, pur riprendendo la lezione della pittura di Millet, di Rembrandt, Hals e altri fiamminghi (in particolare per la resa delle ombre e della luce o dei soggetti tratti da una realtà quotidiana priva di orpelli ma dalla forte carica sentimentale), di Delacroix e Rubens (per la loro sapienza nell‘uso del colore), e infine dei suoi contemporanei più all‘avanguardia, gli Impressionisti, presentano importantissimi elementi di novità, in particolare relativamente all‘uso del colore e al modo di stenderlo sulla tela. Da una serie di opere risalenti alla prima produzione artistica del pittore olandese, in cui egli cerca di perfezionare le sue capacità rappresentative rifacendosi prevalentemente ad un utilizzo del colore e ad una composizione del quadro vicini alla tradizione del realismo (soggetti umili, paesaggi rurali in toni scuri e tendenzialmente più cupi), si passa nei piani superiori del museo ai dipinti che tanto lo hanno reso famoso, coi loro colori sgargianti e puri, coi loro contrasti forti, con le peculiari pennellate, brutali e vorticose. Vincent Van Gogh fu un pittore caratterizzato da una spasmodica tensione verso il miglioramento. In dieci anni di attività artistica ci ha lasciato più di 1000 disegni e * Espressione usata da Van Gogh in un’analogia tra l’opera di Rembrandt in pittura e quella di Shakespeare in letteratura (lettera a Theo del 24 giugno 1880). 64 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 schizzi e 800 tra dipinti e acquerelli. Disegnava innanzitutto per un fortissimo bisogno personale di catarsi e per la necessità di mantenere un equilibrio interiore: Per dimenticare, mi sdraio sulla sabbia vicino a un vecchio tronco d‘albero e ne faccio un disegno, fumando la pipa, guardando il cielo azzurro cupo o il muschio e l‘erba. Questo mi calma (Lettere a Theo**, p. 126). […] ecco perché chiedo perentoriamente tela e colori: solo così sento la vita, quando riesco a spingere a fondo il lavoro (p. 281). […] quando uno ha dentro di sé il fuoco e l‘anima non può reprimerli – e preferisce bruciare piuttosto che soffocare. Quello che si ha dentro deve uscire fuori. A me, ad esempio, dipingere un quadro permette di respirare, e se non lo facessi, mi sentirei più infelice di quanto non sia (Lettera alla sorella Willemien, Einaudi, p. 336). Nei primi anni della sua attività ufficiale di pittore dedicò moltissime energie al perfezionamento della sua tecnica di rappresentazione della figura umana, forse anche perché essendo un autodidatta per vocazione e indole personale, si sentiva in difetto rispetto a chi era riuscito a seguire un percorso accademico tradizionale e ad essere riconosciuto come pittore a partire da esso. Il quadro a detta di molti più significativo di questo primo periodo è I mangiatori di patate (1885), nel quale è possibile individuare una grande attenzione e un religioso rispetto per la durezza della condizione in cui versavano specifiche categorie di lavoratori; la forza espressiva delle loro mani nodose e dei loro volti scavati e quasi caricaturali dice molto del tentativo dell‘artista di creare volutamente nell‘osservatore una forte impressione emotiva, che andasse al di là della semplice constatazione di una cruda realtà. Quest‘opera rivela anche il suo ** I brani delle lettere di Van Gogh al fratello Theo sono tratti da Lettere a Theo, a cura di M. Cescon, Guanda, Parma 1984; in tutti gli altri casi da Lettere, a cura di Cynthia Saltzman, traduzione di Margherita Botto, Laura Pignatti e Chiara Stangalino, Einaudi, Torino 2013. 65 Lichtung. Luci autentico interesse per ciò che era umile, basso, scartato dagli altri. Ancora ventenne, in un periodo di fervore religioso, andò a vivere per qualche tempo in un poverissimo paesino di minatori predicando il Vangelo in condizione di autentica povertà, cosa che gli attirò l‘antipatia dello stesso clero locale che lo vedeva come un tipo eccentrico e pericoloso per il suo zelo così radicale. Van Gogh era un uomo che viveva di assoluti, capace di immergersi completamente in un‘attività o in un progetto quando lo sentiva veramente suo, come fece, in una prima fase della sua vita, con la religione. Tuttavia, la sua intolleranza alle regole, all‘ipocrisia e all‘ottusità propria di certi rituali di apprendimento tipici dei normali percorsi di studio e di formazione religiosa emerse ben presto. Ad esempio, a proposito della sua formazione da evangelizzatore, a quei tempi, diceva al fratello: […] Preferirei morire, piuttosto che venir preparato alla missione religiosa dall‘accademia; e ho avuto una lezione da un falciatore tedesco che mi è servita assai più di una lezione di greco (Lettere a Theo, p. 80). Ma ne aveva anche per i formatori nelle accademie d‘arte, non meno ipocriti secondo lui: Devi sapere che con gli artisti è la stessa cosa che con gli evangelisti. Esiste una vecchia scuola esecrabile, tirannica, l‘esasperazione della desolazione insomma, uomini provvisti di una corazza, un‘armatura di acciaio di pregiudizi e convenzioni; quando essi si trovano alla testa degli affari distribuiscono gli incarichi e con un sistema di aggiramento tentano di difendere i loro protetti e di escludere l‘uomo semplice. […] Tale stato di cose ha il suo lato negativo per colui che dissente da tutto ciò e che protesta con tutta l‘anima, con tutto il cuore, e con tutta l‘indignazione di cui è capace. Per conto mio rispetto gli accademici che non sono come quelli là. […] Ora, una delle ragioni per cui sono fuori posto, per cui per anni sono stato fuori posto, è semplicemente perché 66 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 ho idee diverse da quelle dei signori che danno lavoro ai tipi che la pensano come loro. Non è una questione di vestito, come mi è stato ipocritamente rimproverato, è una questione molto più seria, te lo assicuro (ivi, p. 84). A causa di questa sua propensione a fare solo ciò che sentiva veramente contestando regole e consuetudini inveterate dovette presto uscire tumultuosamente dalla casa paterna, dove si sentì e fu sempre come un estraneo, specie dopo la sua decisione di abbandonare una vita lavorativa e un percorso formativo regolare, ma anche per le stranezze comportamentali, gli atteggiamenti estremi, e l‘inclinazione alla libertà di pensiero e di condotta di cui egli fu sempre consapevole e orgoglioso: Involontariamente sono diventato per la famiglia una specie di personaggio impossibile e sospetto. […] Io sono un uomo istintivo, capace di fare cose più o meno insensate, delle quali mi accade più tardi di pentirmi. Mi succede anche di parlare e agire un po‘ troppo rapidamente, quando invece sarebbe meglio pazientare. […]. Ora, colui che è assorbito da tutte queste cose [lo studio della letteratura e dell‘arte, ndr], diventa scandaloso, shocking per gli altri, e senza volerlo manca più o meno a certe forme e convenienze sociali. Però è un peccato prendersela a male (ivi, pp. 81-82). Nonostante la sua sincera spinta umanitaria, che dimostrò di possedere anche quando concluse la sua fase di ricerca spirituale, si contrappose sempre alla religiosità bigotta dell‘epoca incarnata per antonomasia dall‘austera e limitata figura paterna. Di tale condizione, emblematico risulta il quadro realizzato subito dopo la morte del padre Natura morta con Bibbia (1885), in cui il pittore contrappone ai colori smorti di una vecchia Bibbia e di una candela spenta il giallo vivace di un piccolo libro moderno posto accanto, La joie de vivre di Emile Zola, uno dei suoi scrittori preferiti. Quei due libri vicini ma molto diversi rappresentano bene il rapporto di Van Gogh col padre e forse con l‘autorità in generale: la ricchezza e la vitalità emotiva dell‘esistenza che si contrappongono ad 67 Lichtung. Luci una condizione di freddezza e di insensatezza (il tutto realizzato magistralmente nel quadro attraverso il gioco di luce e il contrasto cromatico): Papà non è un uomo per il quale posso sentire quello che sento per te [il fratello Theo, ndr]. […] Naturalmente gli voglio bene, ma si tratta di un sentimento del tutto diverso da quello che provo per te. […] Papà non può comprendermi e seguirmi; e io non posso accettare il suo sistema, che mi opprime e mi soffocherebbe (ivi, p. 108). Forse proprio per questo mancato riconoscimento da parte della sua famiglia fu sempre forte il suo bisogno di riconciliazione e di calore umano, che finì per riversare tutto sul rapporto con Theo, con le donne, con gli altri artisti. L‘amore per una donna, ad esempio, era per lui un‘esperienza radicale come tutte quelle che viveva, non meno arricchente della pittura. Sentiva un profondo bisogno di comunione, di comprensione e di autenticità emotiva, aspetti che non riuscì mai a trovare durante la sua ricerca spirituale nell‘ambito di un‘istituzione religiosa. Cercò la soddisfazione di questo bisogno anche all‘interno di un rapporto di coppia, un rapporto intensamente e matericamente vissuto come la composizione dei suoi dipinti: Mi sentivo ancora raggelato fin nel profondo dell‘anima dalla fredda parete di una chiesa, reale o immaginaria che fosse. E non volevo rimanerne stordito. Vorrei essere con una donna, mi dissi; non posso vivere senza amore, senza una donna. Non potrei apprezzare la vita se non ci fosse in essa qualcosa di infinito, di profondo, di reale. […] ho bisogno di una donna; non posso, non devo, non voglio vivere senza amore. Sono un uomo e come tale ho le mie passioni; devo andare da una donna se non voglio diventare di ghiaccio o di pietra. […] la scintilla di fuoco di cui abbisogniamo è l‘amore, e non esattamente l‘amore spirituale (ivi, p. 112). Van Gogh fu un uomo continuamente alla ricerca della propria vocazione, del proprio modo di stare con gli altri e 68 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 nel mondo, e con un bisogno di autenticità che lo macerava continuamente. Diceva al fratello: il mio tormento non è altro che questo: in cosa potrò riuscire? […] A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C‘è qualcosa in me; che è dunque? (ivi, p. 88). Quando individuava una strada che riteneva potesse essere quella giusta vi si dedicava anima e corpo, mettendo a rischio perfino la propria sopravvivenza (come durante il periodo di predicazione presso il piccolo villaggio di minatori). Quando poi sentì, evidentemente a ragione, di aver trovato la sua vera strada, quella dell‘arte, vi si gettò coerentemente a capofitto come a voler ricuperare il tempo perduto nei precedenti peregrinaggi esistenziali e con uno spirito di abnegazione ed un‘umiltà fuori dal comune. Raggiunse con maggiore chiarezza questa consapevolezza in uno stato di miseria assoluta, dopo aver dormito all‘addiaccio per giorni vagando per le campagne brumose del Borinage, costretto a scambiare alcuni suoi disegni per qualche pezzo di pane. Fu l‘esito di un percorso di scarnificazione, quasi un viaggio a ritroso verso la semplicità e la ricchezza dell‘essere originario: Ebbene, è stato proprio in questa miseria che mi sono sentito ritornare la forza e mi sono detto « nonostante tutto ritornerò ancora a galla, riprenderò la matita che ho abbandonato nel mio grande scoraggiamento e mi rimetterò a disegnare». E da allora mi sembra che sia tutto cambiato per me, e ora sono in cammino, e la mia matita è diventata un poco più docile e sembra diventarlo di più giorno per giorno (ivi, p. 91). Sentiva di essere portato per l‘arte ― d‘altronde alcune sue abilità comparvero relativamente presto nella sua vita, come ci è dato sapere da alcuni schizzi giovanili pervenutici ―, forse anche di avere un talento, ma questo non rallentò mai la sua ansia di ricerca, di perfezionamento, di autocorrezione, né il bisogno di un confronto schietto e leale con altri artisti ed intenditori 69 Lichtung. Luci d‘arte. Il dialogo ed il confronto con suo fratello, con alcuni amici e soprattutto con altri colleghi, era per lui un pensiero fisso, una condizione imprescindibile per la crescita artistica e personale. Si sentiva un pittore, lo dichiarava apertamente, ma intendendo con ciò non una condizione di privilegio acquisita quanto piuttosto una condizione di ricerca dolorosa, di esplorazione di linguaggi diversi dal proprio, in un processo di evoluzione continuo che prevedeva la necessità di confrontarsi e di apprendere da scuole artistiche diverse, senza limitarsi a seguire un sistema, per quanto riconosciuto o apprezzato. Quanto a Mauve (pittore fiammingo sposato con una cugina di Van Gogh, ndr), gli sono molto affezionato e mi considero fortunato di poter imparare da lui; ma non posso limitarmi a un unico sistema o ad un‘unica scuola. Amo anche altri che sono diversi da lui e lavorano in modo del tutto diverso. Mauve si offende del fatto che io abbia detto «sono un artista» cosa che non intendo ritrattare, perché, naturalmente, un significato aggiunto di questa parola è: «sempre alla ricerca, senza mai trovare». Per me il termine significa: «sto cercando, sto lottando, ci sono dentro con tutte le mie forze» (ivi, pp. 118-122). Van Gogh dimostra come l‘arte, quella autentica, non sia un esercizio solipsistico di creazione quanto piuttosto un‘attività legata alla dimensione dell‘altro, alla necessità di comunicare agli altri il proprio Sé e di confrontarsi con quanto di tale comunicazione gli altri recepiscono. Ciò che lo faceva soffrire non erano tanto le critiche quanto la difficoltà a trovare dei partner tolleranti e rispettosi capaci di mettersi in relazione innanzitutto con lui, in quanto uomo, e con la sua pittura in quanto suo prodotto più autentico, invece che lasciarsi bloccare dalle sue ruvidità e dalle sue eccentriche apparenze, oppure da pregiudizi sul modo giusto o sbagliato di fare arte. Questo bisogno di sincero contatto umano prima di ogni cosa fu sempre centrale nella sua vicenda: Quando si vive con gli altri e si è uniti ad essi da un affetto sincero si è consapevoli di avere una 70 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 ragione di vita e non ci si sente più del tutto inutili e superflui: abbiamo bisogno l‘uno dell‘altro per compiere lo stesso cammino e la stima che abbiamo di noi stessi dipende molto anche dai nostri rapporti col prossimo […] Io sento il bisogno di una famiglia, di affetto, di rapporti cordiali col prossimo; non posso vivere privo di tutto questo senza sentire un profondo senso di vuoto (ivi, p. 79). Per un uomo come lui alla strenua ricerca della propria dimensione esistenziale, bisognoso di relazioni calde e di comprensione, l‘indifferenza o il rifiuto degli altri erano devastanti; anche perché quel rifiuto veniva solitamente rivolto non solo alla sua arte e alle sue idee sull‘arte, ma alla sua persona, a quel suo singolare modo di essere per cui tanto aveva sofferto e lottato prima di definirlo. Ciò che per lui era una conquista esistenziale, l‘esito prezioso di un cammino verso l‘autenticità, molti lo scartavano con ribrezzo. I rifiuti che ricevette in amore lo segnarono per l‘ipocrisia e il disprezzo con cui vennero dati; come pure lo segnò l‘intenzione di suo padre di farlo internare, ancora giovane, per le sue scelte di vita. Il suo modo di essere, lontano dal modus vivendi di molti suoi contemporanei, era considerato follia. Così la difesa strenua del proprio sentire più profondo e della propria individualità e unicità come artista s‘impose fin dall‘inizio della sua carriera e costituì un leitmotiv anche della sua esperienza di pittore oltre che della sua vita. Tuttavia, nonostante le asperità caratteriali Van Gogh riusciva ad essere un amico fedele. Quando si legava ad una persona credeva fermamente nel valore di quel rapporto, portandolo avanti al di là di tutto, se necessario. La pittura divenne sì, ad un certo momento, lo scopo primario della sua esistenza, ma i rapporti interpersonali e la necessità di calore umano costituirono sempre un elemento altrettanto importante nella sua vita. Ciò è testimoniato emblematicamente dalla sua relazione con la prostituta Sien e il figlio di questa, di cui si prese cura amorevolmente per un lungo periodo ― pur nella propria miseria ― donando loro una casa ed un po‘ di tranquillità. La relazione suscitò comprensibilmente scandalo e venne 71 Lichtung. Luci duramente osteggiata dai suoi familiari, innanzitutto. Ma lui continuò a crederci e a difenderla strenuamente, fino a quando fu costretto a scegliere con dolore tra il suo sostentamento ― personale e artistico ― garantito dal fratello, e quell‘amore cosí singolare e disinteressato. D‘altronde, l‘altruismo per Vincent era la via privilegiata per reagire alla depressione e alle sconfitte della vita: decise di diventare missionario e di dedicarsi agli ultimi dopo la sua prima grande delusione amorosa in età giovanile; poi si dedicò a Sien, dopo aver visto crollare le proprie speranze di fidanzamento con la cugina Kee. E che dire infine del suo desiderio, in un periodo particolarmente critico della sua vita, di fondare ad Arles la ―Casa gialla‖, un luogo da lui immaginato e progettato, che doveva accogliere artisti per dipingere, dialogare, confrontarsi e trarre reciprocamente ispirazione? Non era forse terribilmente altruistico, cioè mirante al superamento del proprio ego e delle proprie ambizioni solipsistiche, il progetto di creare una comune di artisti che si scambiassero stimoli e lavori, che si nutrissero intellettualmente a vicenda? Questa casa doveva essere un luogo di rinascita; gialla, del colore del sole fonte di vita (il giallo divenne poi il colore di Van Gogh per antonomasia), avrebbe visto alle pareti i suoi girasoli, anch‘essi gialli. Quasi il sogno di un‘immersione, assieme ad altri artisti, in un mondo di luce nel quale e a partire dal quale poter creare. Colpisce poi la forza nel credere ai propri sentimenti e alle proprie idee, che probabilmente gli garantì la perseveranza necessaria nel corso della sua poco considerata carriera artistica e di un‘esistenza spesso cosí grama; egli ne aveva già dato prova in gioventù, quando l‘amore controverso ed unilaterale verso una cugina lo portò a insistere per tre giorni coi suoi genitori solo per avere un colloquio chiarificatore con lei (rischiando di bruciarsi una mano per provare la serietà dei suoi intenti!); oppure quando percorse quasi 70 chilometri a piedi per raggiungere la casa di un pittore olandese suo contemporaneo che ammirava, per poi tornarsene immediatamente indietro senza nemmeno presentarsi, 72 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 colpito e deluso dall‘aspetto freddamente ordinario del suo studio. Questa forza caratteriale, questa potenza dell‘immaginazione e del sentimento, indici di una personalità estremamente vitale, egli le traspose nella propria arte, ritengo primariamente attraverso tre elementi: il particolare dinamismo della pennellata, il carattere materico dei suoi dipinti, l‘uso del colore. Che grandi invenzioni sono il tono e il colore! E chiunque non impari a sentirli, vive lontano dalla vera vita (ibidem, p. 107, corsivo mio). […] So per certo che possiedo un istinto per il colore e che mi verrà sempre di più e che la pittura l‘ho fin nel midollo delle ossa (ivi, p. 161). Per Van Gogh il colore era sentimento e vita. Egli vedeva la realtà come un‘infinita gradazione di colore, comprendendola essenzialmente sulla base dei colori. Solo che possedeva un apparato percettivo, sia in termini cognitivi che emotivi, decisamente più sensibile del normale. Egli non solo percepiva in modo abnorme, ma reinterpretava ed esprimeva la realtà in modo assolutamente originale, sulla base del fortissimo sommovimento interiore che gli stimoli fisici avevano determinato in lui. Voglio passare attraverso le gioie e i dolori della vita per poterli dipingere dalla mia esperienza personale (ivi, p. 127, corsivo mio). Vedo disegni e dipinti nelle capanne più povere, nell‘angolo più lurido. E la mia mente è attratta da queste cose come una forza irresistibile. Le altre cose vanno perdendo sempre più interesse e più me ne libero, più rapidamente il mio occhio afferra le cose per il loro valore pittorico (ivi, p. 153). Van Gogh non voleva rappresentare la realtà, avvicinarsi ad essa nel senso consueto del termine, cioè attraverso un perfezionamento della tecnica figurativa (almeno da un certo periodo della sua vita artistica in poi). Egli voleva più che altro ricreare nel quadro la realtà così 73 Lichtung. Luci come lui la vedeva, ossia attraverso il filtro delle sue emozioni e della sua concezione coloristica. Colorista è l‘uomo che sa subito come analizzare un colore quando lo vede in natura e dice, ad esempio: «quel grigio-verde è giallo, più nero e blu». In altre parole, l‘uomo che sa trovare i grigi della natura sulla sua tavolozza. […] è dovere del pittore essere completamente preso dalla natura e usare tutta la sua intelligenza nel suo lavoro per esprimere il sentimento (ivi, pp. 155-156). […] Invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi mi servo del colore in modo più arbitrario per esprimermi con intensità (ivi, p. 287). L‘uso estremamente personalizzato dei colori in tinte pure e i contrasti cromatici tra complementari per risaltarne la potenza determinavano effetti parossistici, come quelli che probabilmente lui, non senza tremore, riusciva in certi momenti a esperire. Un esempio emblematico di questa acutissima suscettibilità cromatica, usata per esprimere stati interiori estremi, è il dipinto Il Caffè di notte (1888), in cui il pittore crea un effetto allucinato della scena attraverso il forte e inquietante contrasto tra i colori complementari - rosso e verde - delle pareti, dei tavoli e della superficie del biliardo. La corposità del colore presente un po‘ in tutto il quadro serve a ricreare una scena realistica, come a dire che quelle emozioni così intense rappresentate dai colori accesi sono una realtà concreta, viva, possibile. La realtà che il pittore voleva descrivere era quella dei Caffè, posti dove secondo lui un uomo poteva rovinarsi, diventare pazzo, perfino commettere dei crimini. E forse anche per la prospettiva non proprio convenzionale del dipinto si ha quasi l‘impressione di poter entrare nella scena e di essere travolti da quell‘ondeggiamento percettivo ed emotivo reso magnificamente anche tramite il giallo vibrante delle lampade. L‘utilizzo poco convenzionale del colore per esprimere stati d‘animo estremi ed una visione non convenzionale della realtà è visibile anche in alcuni ritratti; ne ricordo 74 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 uno tra i tanti che potrebbero essere presi ad esempio: il Ritratto di Camille Roulin (1888). In questo dipinto, l‘accostamento verde-rosso e gialloblu genera un effetto di rafforzamento reciproco esagerato (contrasto che nelle riproduzioni che ho avuto modo di analizzare è sempre ben lontano dall‘originale, capace invece di suscitare un‘emozione di viva sorpresa quando vi si posano gli occhi per la prima volta); questo effetto, unito alle brevi pennellate che ricordano la tecnica impressionista, lascia addosso a chi guarda la sensazione di una straordinaria energia che effonde dalla figura del ragazzino, probabilmente corrispondente all‘energia che Van Gogh sentiva crescere dentro di sé alla visione di quel soggetto. Ecco come egli, da un certo momento in poi, riuscì a concepire il ritratto, secondo quella reinterpretazione assolutamente soggettiva del dato reale: Vorrei fare un ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni, che lavora come l‘usignolo canta, perché è questa la sua natura. Quest‘uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l‘amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, il più fedelmente possibile per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così; per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli arrivando ai toni arancione, ai giallo cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l‘infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere. Questa semplice combinazione, la testa bionda illuminata da questo blu sontuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell‘azzurro profondo (ivi, p. 288, corsivo mio). Il colore diventa cosí l‘elemento che permette a Van Gogh di realizzare la sua visione della realtà, di permettergli di piegarla alle sue esigenze e tensioni interiori. Tuttavia, probabilmente era nel confronto con la natura che Van Gogh riusciva a dare il meglio di sé. Dinnanzi alla 75 Lichtung. Luci natura, come abbiamo detto, egli si ritrovava, riusciva a calmarsi. Comincio ad essere così abituato a rimanere seduto direttamente davanti alla natura che riesco a lasciare libera la mia sensibilità personale molto di più rispetto all‘inizio; mi gira meno la testa, e a volte mi sento più me stesso proprio quando sono davanti alla natura (Lettere ad Anthon Van Rappard, Einaudi, p. 224; corsivo dell‘autore). […] Non è il linguaggio dei pittori ma quello della natura che bisogna ascoltare. Il sentimento che suscitano le cose stesse, la realtà infine, è più importante dei sentimenti che suscitano i dipinti (Lettere a Theo, p. 153). La natura era una sorta di madre a cui egli riusciva a tornare per ritemprarsi dopo i momenti di sconvolgimento emotivo o le crisi depressive. Ad essa si abbandonava e da quel contatto spesso ne usciva più fiducioso, più creativo, seppur solo: Mi sono lasciato impregnare dall‘aria delle colline e dei frutteti. La mia ambizione si limita a qualche zolla di terra, al grano che germoglia. Un uliveto, un cipresso… (Lettera a E. Bernard, p. 641). Che altro si può fare, pensando a qualsiasi cosa di cui non si capisca la ragione, se non guardare i campi di grano? […] Io ho bisogno di vedere i campi di grano e difficilmente potrei sopravvivere a lungo in una città. (Lettera a Willemien, p. 612). Questo amore per la natura, questa propensione ad un rapporto diretto ed intenso con lei si evincono dalle dettagliate e delicate descrizioni di paesaggi che lo avevano ispirato e dal desiderio di creare materialmente sulla tela quella realtà così esteticamente preziosa che era riuscito a cogliere di volta in volta. L‘impressione che spesso lasciano nel lettore certi suoi resoconti (oltre che, ovviamente, molti suoi dipinti) è che egli volesse quasi far sorgere concretamente dalla tela quella realtà che 76 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 percepiva tanto intensamente ― direi quasi eroticamente ― e l‘unico modo che aveva per fare ciò era, più che la forma della rappresentazione, il colore, nelle sue componenti cromatiche e materiche. Mi ha colpito con quanta solidità quei piccoli tronchi fossero radicati al suolo. Iniziai a dipingerli col pennello, ma le pennellate vi si perdevano. Così le radici e i tronchi li strizzai fuori dal tubetto e li modellai un poco col pennello. Sì, ora che stanno lì, sorgono dal suolo, profondamente radicati in esso (Lettera a Theo, p. 160, corsivo mio). […] Ultimamente, mentre dipingevo, ho sentito una certa potenza coloristica che si andava risvegliando in me, più forte e diversa da quella sentita finora.[…] ho cercato spesso di lavorare in una maniera meno arida; ma ora che una certa debolezza mi impedisce di lavorare nel solito modo, sembra che potrebbe aiutarmi più che ostacolarmi; ora che mi lascio andare un po‘ e guardo un po‘ più di traverso le ciglia anziché fissare intensamente e analizzare la struttura delle cose, sono direttamente portato a vedere le cose più come macchie di colore in contrasto reciproco tra loro (ivi, p. 197, corsivo mio). L‘allentamento dei nessi strutturali delle cose e l‘aggiramento del modo convenzionale di rappresentarle e perfino di percepirle, dovuto forse anche allo stato di debilitazione fisica in cui egli si trovava spesso a lavorare per le precarie condizioni economiche, facilitarono da un certo momento in poi il sorgere di una nuova concezione della rappresentazione. Del resto per lui i dolori e l‘angoscia vera della creazione artistica avevano inizio solo quando si abbandonava l‘ambito della descrizione, cioè l‘aderenza convenzionale al soggetto rappresentato. Questa concezione prevedeva dunque un superamento della forma a favore di un uso soggettivo non solo dei colori ma anche del pennello, un utilizzo che fosse funzionale ad esprimere qualcosa del mondo interno del pittore che nella realtà non c‘era. 77 Lichtung. Luci Il pennello in quanto prolungamento della corporeità dell‘artista doveva trasmettere qualcosa di lui, ad esempio delle sue emozioni dinnanzi alla realtà rappresentata, ma anche qualcosa di essenziale della realtà stessa ― potremmo dire in nuce ― contribuendo, assieme al carattere materico del colore, ad un‘emersione più viva del soggetto dalla tela. Attraverso le pennellate ora lievi e veloci, ora ruvide, ora vorticose, Van Gogh voleva rappresentare il dinamismo e la vitalità sempre in fermento dell‘esistenza che riusciva a percepire tanto intensamente soprattutto dinnanzi alla natura, il suo soggetto preferito. E riusciva talmente bene in ciò che dinnanzi a Campo di grano con allodola (1887) si può quasi sentire il vento uscire dalla tela, il lieve fruscio del grano che ondeggia, la sua fragranza, e una profonda sensazione di solitudine e di pace. L‘effetto è ottenuto grazie alle delicate e precise variazioni cromatiche e all‘uso del pennello; pennellate veloci prevalentemente verso un‘unica direzione ― sia per dipingere il cielo con le nubi, sia per dipingere il grano verde ― che generano un effetto estremamente dinamico e armonico al tempo stesso. La tecnica fu per lui un modo per arrivare meglio allo scopo finale della ricerca artistica ― la scoperta e la definizione dell‘autenticità di ogni artista ― e non il fine principale da raggiungere per potersi definire un artista vero. La tecnica doveva sottostare a quella che lui definiva espressione dell‘artista, e se in qualche modo poteva essere d‘intralcio al raggiungimento di quello scopo era meglio abbandonarla. La tecnica poteva offrire i mezzi per esprimere la propria sensibilità estetica, ma tali mezzi dovevano essere usati in modo essenziale e parsimonioso affinché non nascondessero l‘artista. Il rischio era altrimenti che questi avrebbe potuto soffocare la propria originalità e l‘autentica portata del proprio messaggio. D‘altronde per Van Gogh l‘arte doveva essere azione ispirata: Nella vita come nel disegno bisogna a volte agire con rapidità e decisione, prendere a fare una cosa con energia e disegnare i contorni con la rapidità di un lampo. E bisogna essere tanto compresi nella cosa che in breve tempo si traccia sulla carta 78 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 o sulla tela ciò che prima non c‘era e in un modo che uno non sa bene come sia riuscito ad imprimerlo (corsivo mio, ndr). Non c‘è posto per la riflessione o le controversie nell‘azione in sé. L‘agire velocemente è una funzione dell‘uomo e bisogna passarne di ogni sorta prima di essere in grado di farlo. Il nocchiero a volte riesce a servirsi della tempesta per poter portare avanti la nave, anziché lasciarla affondare (ivi, p. 136). […]è l‘emozione e la sincerità del senso della natura che ci conducono, e queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgerci del lavoro, e talvolta le pennellate vengono giù una dopo l‘altra - e i rapporti di colori - come le parole in un discorso […] (ivi, p. 279). Certo, agli altri Van Gogh doveva apparire come un uomo piuttosto strano; preso com‘era dalla sua arte, dalla sua passione, dalla noncuranza per le convenzioni sociali (prima tra tutte la cura di sé). Ancora giovane pareva già da tempo vecchio e trasandato. Difficilmente tollerava le imposizioni che derivano da attività regolamentate gerarchicamente, come difficilmente sopportava le costrizioni nel seguire un metodo che soffocasse la libertà di esplorare e di creare secondo le proprie esigenze. Ciò lo portò ad abbandonare diversi lavori e percorsi di studio accademici e a incrinare dei rapporti di amicizia con altri artisti. Di queste sue inclinazioni egli non fece mai mistero: In un certo senso sono lieto di non aver imparato a dipingere, perché in tal caso potrei aver imparato a trascurare un effetto come questo (gli effetti cromatici e materici, ndr). […] ma trovo che nel mio lavoro c‘è in fondo un‘eco di quello che mi ha colpito. Vedo che la natura mi ha detto qualcosa, mi ha rivolto la parola e che io l‘ho trascritta. […] e non si tratta del linguaggio addomesticato o convenzionale, che è oggetto di studio, derivato dalla maniera o da un metodo (ivi, p. 160). […] A volte mi è difficile rinunciare ad un‘amicizia, ma se dovessi entrare in uno studio 79 Lichtung. Luci per essere costretto a pensare e parlare di cose senza alcuna importanza, a evitare qualunque cosa seria e a non esprimere i miei veri sentimenti sull‘arte, ciò mi renderebbe più malinconico che se dovessi starne lontano del tutto. Proprio perché mi piacerebbe trovare e conservare un‘amicizia vera, mi è difficile adattarmi a un‘amicizia convenzionale (ivi, p. 171). Di certo da questo ed altri passi già citati si può notare un certo assolutismo di vedute ed una tendenza a idealizzare i rapporti di amicizia tra gli esseri umani; come pure si può arguire una scarsa tolleranza alle critiche da parte delle persone a lui più vicine, specie se rivolte al suo continuo sforzo verso il raggiungimento dell‘autenticità nel modo di essere uomo e pittore. Il bisogno di sostegno emotivo e di approvazione dalle persone con cui stabiliva legami significativi e l‘impulsività nelle reazioni che seguivano sistematicamente alla frustrazione di quei bisogni giocarono un ruolo importante nel compromettere molte rapporti nel corso della sua esistenza. Del resto ciò è coerente con il suo percorso di crescita, segnato dalla pressione di un ambiente familiare bigotto che si ostinava a non capire ― e forse non poteva ― le urgenze di verità e di autenticità che caratterizzarono fin da giovanissimo il Nostro. Van Gogh poté sopravvivere, non solo materialmente ma forse anche psichicamente, solo grazie al costante e amorevole finanziamento del fratello Theo, l‘unico che gli rimase affettivamente vicino per tutta la vita. Nonostante quell‘aiuto, egli viveva comunque tra mille difficoltà perché buona parte del denaro era usato per acquistare il materiale per dipingere; e dipingendo moltissimo, era costretto a lesinare sul cibo, i vestiti, e altri minimi confort. Come si può pensare di vivere di sola arte, di nutrirsi e di vivere quotidianamente di sola arte, si chiederebbero le persone assennate? Il fatto è che per Van Gogh la pittura non era solo un‘attività artistica; essa era la vita stessa, la vita come a lui si manifestava e il modo migliore per comunicare col mondo. Egli amava lasciarsi trapassare dalla vita, passando intere giornate all‘aria aperta, passeggiando per chilometri 80 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 immerso nella natura; si lasciava impressionare dalla visione di un volto o dalla contemplazione di un paesaggio e sentiva poi il bisogno di trasmettere ogni impressione, ogni sentimento, ogni movimento interiore che da tali visioni derivavano attraverso il suo pennello. I movimenti forti, ruvidi e tormentati di esso, i colori che usava erano le vibrazioni fisiche ed emotive che lo scontro con la realtà generava in lui. Egli era in un modo nuovo, ingenuamente e totalmente, un trasmettitore della potenza e del dinamismo della vita, delle sue pulsazioni e della sua bellezza violenta. Tuttavia, nonostante certi estremismi e stranezze, dalle sue lettere si può scorgere una lucidità, una consequenzialità logica nei ragionamenti, una finezza di analisi interiore, una consapevolezza delle proprie difficoltà caratteriali, un trasporto emotivo ed un interesse per l‘altro, che non sono tipici di un quadro di deterioramento psicotico. Furono piuttosto, a mio parere, le penose condizioni di deprivazione materiale in cui visse per tanti anni (scarsa alimentazione, fumo e uso di alcool, preoccupazioni quotidiane di sopravvivenza), la continua sottovalutazione dei suoi ideali puri di amicizia o di amore, e soprattutto l‘indifferenza verso la sua arte ― la strada privilegiata e per lui più autentica di espressione ― a debilitarlo moralmente e psichicamente, ad isolarlo sempre più dal resto della comunità e, conseguentemente, ad accentuare ancora di più la sua sensibilità fuori dal comune ed i suoi nodi caratteriali più critici evidenti fin dalla giovinezza (una propensione all‘impulsività, una certa visione idealizzata dei rapporti interpersonali, una fragilità narcisistica che lo inclinava alla depressione). La salute psichica non è una condizione data a priori e tendenzialmente stabile garantita da una favorevole dotazione genetica o da alcune buone esperienze educative dell‘infanzia. Questi elementi certo svolgono un ruolo molto importante nel favorirne la comparsa e nel mantenerla più a lungo nel tempo, ma non saranno mai in grado di spiegare da soli la complessità di un essere umano e della sua vicenda esistenziale. Ognuno di noi si muove piuttosto lungo un continuum di equilibrio psichico nel corso della propria esistenza e su di esso 81 Lichtung. Luci influiranno in senso positivo o negativo anche le condizioni di vita materiali e le risposte che l‘ambiente familiare o sociale in senso ampio sapranno dare a determinati bisogni personali, sia consapevoli che inconsci, propri di uno specifico individuo durante le diverse fasi evolutive della sua vita. Nessuno può garantire per la propria salute mentale essenzialmente sulla base del proprio passato; altri fattori incidono, e c‘è sempre un punto di rottura che può essere oltrepassato a causa dell‘impatto di eventi traumatici o di condizioni di vita oggettivamente molti difficili da tollerare per la psiche del singolo. Le condizioni materiali precarie, la scarsa cura di sé, la mancata accettazione di molti e l‘isolamento in cui Van Gogh si trovò a vivere per lunghi anni probabilmente acuirono le sue fragilità e alterarono progressivamente il suo equilibrio; tale condizione lo portò a uscire sempre più spesso dal consesso umano coi suoi accessi psichici, ma anche ad incrementare ulteriormente la sua già profondissima sensibilità umana ed estetico/percettiva fino a limiti intollerabili. Vincent Van Gogh è una figura troppo articolata per poterla definire tramite certe categorie che la psichiatria tradizionale ha usato nei suoi confronti: schizofrenico, epilettico, maniaco-depresso. Fu un uomo veramente altruista, che non seppe mai colpevolizzare gli altri per le proprie sventure, preferendo di gran lunga scagliarsi invece contro sé stesso, anche violentemente, specie quando si trovava isolato dal resto della comunità, impossibilitato a quello scambio umano ed artistico per lui tanto necessario. Affetto da un‘abnorme sensibilità nei confronti della realtà sentiva di essere, ed effettivamente era, un uomo le cui ―porte della percezione‖ furono sempre molto più aperte rispetto alle persone comuni e probabilmente anche rispetto a tanti altri artisti; tale apertura favoriva l‘ingresso di un‘eccessiva quantità di realtà cui egli in certi momenti non riusciva a resistere e che lo portava ad una condizione esistenziale parossistica che potremmo definire anomala. L‘arte era l‘unico aspetto della vita e l‘unico strumento col quale egli riusciva a liberarsi da questo eccessivo ingresso di realtà, trovando un modo per elaborarla e 82 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 comunicarcela così come lui la percepiva. I contrasti cromatici, le continue sovrapposizioni delle tinte pure, gli addensamenti di colore, le sue pennellate così tortuose e dinamiche non sono altro che ciò che in certi momenti egli, esasperato e immerso nella solitudine, riusciva a percepire e che cercava strenuamente di condividere per allentare la tensione e l‘estasi, trattandosi di stati interiori che rischiavano di fargli letteralmente scoppiare il cuore. La sua pittura densa e materica era il simbolo della consistenza della vita, della densità di significato e di bellezza che egli vi percepiva e di un desiderio quasi carnale di radicamento in essa; i colori così netti e decisi rappresentavano la sua capacità di commuoversi estaticamente dinnanzi alla realtà, di risuonare di luce di fronte al suo continuo spettacolo; infine i movimenti del pennello così forti e coraggiosi, a volte ruvidi, simboleggiavano il continuo evolversi della vita, il suo fluire ininterrotto che finisce per travolgere chi riesce ad immergersi nella sua contemplazione. Gli accessi di Van Gogh, a mio avviso, furono proprio causati da un‘incapacità di contenere in certi momenti questa sua mobilità interiore, questo pieno di vita che solo l‘arte gli permise di esprimere ma che gli uomini che lo circondavano, purtroppo per lui, non riuscirono a comprendere appieno, rimanendo perlopiù abbastanza indifferenti a quel tentativo di comunicazione, o disprezzando la sua persona. La sua produzione pittorica, specie quella dell‘ultimo periodo, fu l‘estremo tentativo di reagire alla propria solitudine alzando, per così dire, il volume della propria voce interiore. Si spinse nel Sud della Francia per trovare ispirazione, o meglio «per vedere un‘altra luce, per vedere questo sole più forte». Egli, immalinconitosi molto negli ultimi anni, sempre più stanco e debilitato fisicamente, sempre più disilluso relativamente al destino dei propri quadri e dell‘arte in generale, ma pur sempre innamorato della vita ― «mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita» ― ci regalò i suoi più grandi capolavori, dipinti di un‘originalità cromatica e tecnica assoluta. 83 Lichtung. Luci Come in passato Van Gogh aveva più volte cercato di sconfiggere la depressione e la solitudine rendendosi utile agli altri, mettendosi evangelicamente al servizio degli altri (dei poveri, degli sfruttati, degli emarginati), così, in seguito, egli usò la sua arte per mettersi al servizio di tutta l‘umanità, per donare e condividere la sua ricchezza interiore cosí potentemente sbocciata, specie con l‘acuirsi della sua sofferenza e della sua solitudine. Ciò che lo prostrò definitivamente negli ultimi anni della sua vita fu soprattutto la consapevolezza lucida della cecità del mondo dinnanzi al massacrante lavoro di molti artisti, la difficoltà dell‘arte di farsi ascoltare, di poter essere apprezzata e riconosciuta, soprattutto se proponeva coraggiosamente una sensibilità nuova; infine, la miseria, l‘isolamento, l‘abbattimento cui spesso era destinato l‘artista, in molti casi impossibilitato anche solo a sopravvivere del suo lavoro. E i vistosi riconoscimenti che alcuni pittori ottenevano solo molto tempo dopo la loro morte, dopo essere vissuti in condizioni di povertà assoluta, non erano per lui che ulteriori schiaffi della società in faccia alla nobiltà dell‘intento artistico, movimenti di pochi utili solo a speculare economicamente su dei capolavori senza che da ciò potesse poi trarne qualche beneficio chi l‘arte la praticava umilmente giorno per giorno, senza che le persone comuni, o i poveri, potessero poi accedere più facilmente alla conoscenza dell‘operato degli artisti, esserne istruiti e goderne. In uno dei suoi ultimi accessi Van Gogh cercò di ingerire alcuni colori. Al di là dell‘alterazione psichica da cui può evidentemente sorgere questo gesto, non è forse possibile vedervi anche la drammatizzazione parossistica di uno dei principali scopi della sua vita, quella di comprendere così a fondo i colori della realtà da appropriarsene, fino a divenire colore lui stesso? Quello di identificarsi definitivamente con la potenza espressiva e coloristica dell‘arte cosí come lui la intendeva? E proprio sulla base di queste dinamiche e di un potente simbolismo di fondo mi piace leggere il suo gesto estremo che per me non fu un tentativo di suicidio convinto, generato dall‘odio verso la vita e verso sé stesso, nutrito da una perdita di interesse per gli aspetti piacevoli o 84 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 gratificanti dell‘esistenza. Forse egli cercò di colpire e di sedare quel cuore che a volte più che pulsare scoppiava letteralmente di vita dinnanzi alla grandezza delle cose; un turbinio di sensazioni che solo attraverso l‘arte poteva adeguatamente rappresentare e significare, in un cammino di esplorazione sempre più estrema del colore e di sé stesso. Un percorso, un‘evoluzione umana e artistica che non era riuscito a condividere veramente con nessuno come invece avrebbe fortemente voluto. Ho appena mandato a Theo una dozzina di disegni di tele a cui sto lavorando, mentre per il resto la mia esistenza è vacua come quando, a 12 anni, ero in collegio senza imparare niente di niente. Un sacco di pittori che di certo non farebbero le mie 12 tele né in 2 né in 12 mesi stanno in città o in campagna, considerati artisti e persone intelligenti. […] Tra artisti non sappiamo più cosa dirci, non sappiamo se riderne o piangerne, e non facendo né l‘una né l‘altra cosa, beh, ci riteniamo soddisfatti quando abbiamo un po‘ di colore e di tela, che a volte ci mancano, e possiamo almeno lavorare. Ma qualunque idea di vita regolare, qualunque idea di risvegliare in noi o in altri pensieri o sensazioni dolci, tutto ciò deve necessariamente sembrarci pura utopia. Cosí, benché l‘Angelus di Millet sia stato pagato oltre mezzo milione di franchi non credere che più anime percepiranno ciò che c‘era nell‘anima di Millet. Oppure che borghesi o operai cominceranno a mettersi in casa, per esempio, la litografia di quell‘Angelus. Non credere che perciò i pittori che lavorano ancora in Bretagna tra i contadini ne ricaveranno più sostegno, meno miseria nera come quella in cui è sempre vissuto Millet, né soprattutto più coraggio. Spesso, purtroppo, ci mancano il fiato e la fede. Però se vogliamo lavorare dobbiamo assoggettarci sia alla tenace crudeltà dei tempi sia al nostro isolamento, a volte difficile da sopportare quanto l‘esilio. Ma di fronte a noi, dopo gli anni così relativamente perduti, stanno la povertà, la malattia, la vecchiaia, la follia, e sempre l‘esilio. […] Che altro si può fare, pensando a qualsiasi cosa di cui non si capisca la ragione, se non guardare i campi di grano? Non dobbiamo forse, per lo 85 Lichtung. Luci meno, rassegnarci a crescere senza poterci muovere, come una pianta, rispetto a ciò che talvolta la nostra immaginazione desidera, e ad essere falciati quando saremo maturi come il grano? (Lettera a Willemien, pp. 610-612, corsivo mio). 86 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Deleuze e Guattari: la letteratura minore nell‘argot di Céline di Maurizio Montanari Una letteratura minore non è la letteratura d'una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore. G. Deleuze e F. Guattari, Franz Kafka, per una letteratura minore Lettini postumi. Quella tentazione da evitare Jacques Lacan esaminò a fondo la vita e le opere di James Joyce, enucleando dai suoi scritti quell‘elemento, la scrittura, capace di sostenere un soggetto in difetto della metafora paterna, e pertanto legato ad una precarietà dell‘essere più esposta ai venti della vita. Lo chiamò sinthomo, ponedolo al di la del sintomo guaribile, inaugurando una feconda prospettiva clinica grazie alla quale fu possibile isolare, una per una, soggetto per soggetto, quelle ‗doti‘ personali ( artistiche, espressive, letterarie ) le quali fungono da strumento non organico di supplenza e di sostegno. Al di la del giudizio artistico. In altre parole, una medicina con la quale operare una sorta di guarigione permanente di uno stato precario sottostante. Nel film ―Fuga da Alcatraz‖ il cattivo direttore del penitenziario fa portare via la tavolozza dei colori ed i pennelli al detenuto Chester Dalton ‗Doc‘, che aveva fatto della pittura il punto di tenuta di una insostenibile vita da ergastolano. E lui, si mozza le dita. Se da un lato questo ha permesso agli analisti una sorta di ‗innovazione‘ nel trattamento clinico di tanti individui, potendo isolare l‘elemento curativo da loro stessi fabbricato aiutandoli nel renderlo più maneggiabile, dall‘altro ha inaugurato una 87 Lichtung. Luci moda piuttosto arida: stilare diagnosi ex post dell'autore (defuntissimo) attraverso una lettura , rigorosamente a posteriori, clinica e scarnificata, delle sue opere. Questo passa per una grottesca ricostruzione di ‗setting‘ virtuali nei quali l'artista diventa immaginario ‗paziente‘ e si sdraia sul lettino ad uso della celebrità di chi sforna il libro. Il tutto senza considerare che si diventa 'paziente' solo se c'è una sofferenza che richiede. Questo è ciò che non va fatto. Letteratura e testimonianza Questa grottesca modalità vale massimamente per gli scrittori. Deleuze e Guattari sostengono che Kafka e la sua scrittura senza Edipo e senza la Lettera al Padre, siano di difficile collocazione, ma puntano decisamente il dito sull'eccessiva stratificazione clinica e analitica di ogni suo gesto, di ogni sua movenza. Scrivono: ―Noi crediamo soltanto a una politica di Kafka, che non è né immaginaria né simbolica. Crediamo a una o più macchine di Kafka, che non sono né struttura né fantasma‖43. L‘eccesso di lettura dell‘invenzione personale di ciascuno, sia esso un letterato o meno, la uccide. Nevrotico o psicotico, insomma, chissenefrega. Un esempio di ciò lo troviamo nel modo col quale Albert Camus, ma soprattutto Louis Ferdinand Céline, hanno utilizzato la scrittura per supplire ad una divisione originaria, un esilio interiore che si è protratto per tutta la vita. Si pensi a quanto Camus si presterebbe a questa lettura ‗clinicizzata‘, in particolare il suo Jacques del Primo uomo. Privo di padre, assoggettato ad un femminile violento, sadico, e capriccioso. Viene salvato da ―un padre‖, il professore, che interviene e pone un interdetto 43 G. Deleuze e F. Guattari. Franz Kafka, per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet. 2010. Tutte le citazioni di D. e G. qua contenute, provengono da questo testo. 88 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 tra lui e la nonna, aprendo al giovane la strada degli studi che lo renderà Albert Camus. Se solo questo fosse, nulla resterebbe delle atmosfere torride di separazione e solitudine descritte ne La peste e Lo straniero. Algerino vestito da francese, Parigino con nostalgia dell'Africa. Una scissione ab origine, una rottura mai rimarginata , un senso della separazione scritto nella pelle che lo porta a riflettere sulla solitudine dell‘esiliato. ―Si può essere felice e solitario?‖ , o ancora : ―Chi pensa alle loro solitudini?‖ scrive, mentre la peste divide in due la città, mariti da mogli, fratelli da sorelle. Camus non poteva non sostenere, sino alla fine, una riconciliazione tra la Francia occupante e l‘Algeria, divenuta preda di estremismi. Nella sua ultima produzione (raccolta negli scritti politici ―Mi rivolto dunque sono‖) assiste impotente al conflitto tra una nazione che deve essere liberata da un invasore feroce, ma al contempo epurata dalla violenza integralista che ripudiava in toto. E per questo scrive articoli, rilascia interviste. Piega il suo francese colto alla comprensione di fatti di attualità. Nel suo scrivere le due anime, sempre conviventi di Camus, non possono che condurlo ad una equidistanza propria di chi possiede un anima scissa tra due appartenenze, egualmente forti ed egualmente incisive. Egli dunque non può che ricucire, per tutta la vita e nel corso di tanti suoi racconti, le sponde di due terre entrambe native. Molto più forte è stata la tentazione di ridurre l‘opera, specie quella finale, di Louis Ferdinand Céline al canto rabbioso di un vecchio isolato preda di un declino paranoico condito da invettive deliranti. Quando Deleuze e Guattari parlano di ‗letteratura minore‘ non intendono una letteratura di una lingua minore, ma ―quello che una minoranza fa di una lingua maggiore‖. Più di tutti il dr Destouches incarnò questo spirito di riterritorializzazione delle parole, desideroso di forgiare una lingua nuova, 89 Lichtung. Luci inappartenente e volutamente non omogenea, un argot per sfrondare un francese ritenuto ormai vecchio ed inutile, inadatto a descrivere il declino di una guerra e di una nazione. Decorato per i suoi meriti nella prima guerra mondiale, seguirà un declino legato alle sue scelte, alla scrittura dei Pamphlet, al suo antisemitismo. La sua inappartenenza radicale, sia al regime di Vichy che alla Francia Repubblicana, l‘esilio, e la condanna per ―indegnità nazionale‖ sono la lente attraverso la quale leggere la trasformazione del suo argot, che da nuovo strumento di lettura la realtà, muta in veicolo di odio puro verso tutto quel mondo che gli negherà sino alla fine il riconoscimento letterario ed umano. ―Di grande, di rivoluzionario, non c‘è che il minore. Odiate ogni letteratura da padroni‖ scrivono Deleuze e Guattari. Ecco dunque la forza della lingua di Céline, portatrice di un messaggio senza compiacimenti, lontana da lusinghe. Scritta per testimoniare e non per apparire. ―Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, sognano una cosa sola: assumere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i proprio servizi come lingua di stato‖ ricordano D. e G. . Questo è l‘argot di Céline. Uno strumento per superare il francese, ―una vecchia lingua, decrepita, disseccata dagli accademici e dai gesuiti (...) che non riesce a prendere dentro di se né la realtà, né la verità (….)‖44. La penna di Céline dunque come potente strumento per sfrondare gli abbellimenti inutili, una lingua nuova per narrare due guerre ed i suoi sopravvissuti, per smascherare ogni orpello manieristico dei suoi concittadini riducendoli a due o tre movimenti, violenti, bassi e prevedibili. Un linguaggio per inquadrare la tragicità di un secolo sul quale Destouches, da buon medico che aveva visto centinaia di poveri sofferenti, non poteva tacere. D. e G scrivono che: ―il secondo carattere delle letterature minori consiste nel 44 P. Badellino, Louis Ferdinad Céline in foto, Effepi, 2012. 90 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 fatto che in esse tutto è politica. Nelle ‗grandi‘ letterature, invece, il fatto individuale (familiare, coniugale, ecc.) tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali, mentre il contesto sociale serve solo da contorno e sfondo‖. L‘argot è infatti una neo lingua utile a narrare il mondo che il protagonista di Matrix ha la dannazione di vedere: le orrende macerie fumanti dietro il plastico e fasullo rivestimento che il sistema opera per gabbare i suoi abitanti. Come sostiene Paolo Badellino: ―l‘argot è una lingua che: ripesca nel diabolico calderone le parole una ad una, quasi con le pinze, acquistando via via sicurezza, esattamente come accade allo psicoanalista che si fa via via più sicuro man mano che il paziente gli fornisce nuovi elementi‖.45 Finita la guerra, attraversata la Germania distrutta, patito l‘esilio a Sigmaringen, arriva l‘isolamento. La sua condanna a morte letteraria da parte dell‘intellighenzia francese che lo vuole ignobile e dimenticato. È a quel punto che il suo argot muta in una ―lingua dell‘odio che ti stende secco il lettore… l‘annichilisce!.... Una lingua che non si fa con un glossario, ma con le immagini dell‘odio‖46. Sprezzante verso la sua Francia ingrata, un tempo amata sino a sprofondare nei deliri di arianesimo e purezza del popolo francese, da reietto sceglie una sepoltura da vivo. Chiuso in un esilio volontario dentro al ventre della nazione, incombe su di essa con la sua invettiva. Il dr Destouches perde ogni possibile Patria, ed il suo francese compie un ultima trasformazione, divenendo solo un arma per colpire e uno strumento per sopravvivere. Colpire in modo sordo e trasversale la schiera dei suoi nemici, ormai talmente fitta da costituire un assedio invincibile, anche per la sua parola. Guadagnare un anticipo per comprare la 45 46 Ibidem. Arts, febbraio 1957 91 Lichtung. Luci lavatrice.47 ―Ciò che Céline ha fatto del francese‖ ― ribadiscono D. e G, ―seguendo un'altra linea, l‘esclamativo spinto all‘estremo. L‘evoluzione sintattica di Céline: dal Voyage a Mort à crédit, poi da Mort à crédit sino a Guignol‘s band I ― dopo, Céline non ebbe più niente da dire, a parte le sue disgrazie, non ebbe cioè più voglia di scrivere, aveva solo bisogno di soldi. E vanno sempre a finire così le linee di fuga del linguaggio: il silenzio, l‘interrotto, l'interminabile, o peggio. Ma che creazione folle intanto, che macchina di scrittura! Tutti lodavano ancora Céline per il Voyage quando lui era già molto più avanti, in Mort à crédit, poi nel prodigioso Guignol‘s Band,in cui la lingua aveva ormai solo intensità‖. Leggendo in filigrana Da un Castello all‘altro si ha a che fare con una scrittura che pare aver perso ogni possibile speranza di riscatto, di riabilitazione. Parole che non trovano più la forza di fare sosta in quella pietà e passioni che solo uno stolto non può non scorgere nel Viaggio al termine della notte48. Si tratta di una raffica ad 47 D. Ciò forse vuoi dire che scrivere è un bisogno. R. Sì, ma per colpa della lavatrice. La moglie pensa: “Una lavatrice, una che funziona, costa 200.000 mila franchi…” Lei ci pensa e, dato che è femmina, mica lo dice che ci pensa. Il marito, lui, sa scrivere, articoli qua e là… Lei pensa sempre alla lavatrice. E un bel giorno davanti alla vetrina gli fa: “Guarda, è uscita l’ultima Sagan, se ne parla tanto. Quante che ci guadagna a copia? 20%. Ah, 100 franchi a libro)?” Pensa sempre alla famosa lavatrice, lei!… Egli fa, a lui: “Senti, tu non potresti?… − Oh, io, no, lo sai bene − Oh, ma sì che lo potresti fare un romanzo uguale. È mica così straordinario, l’ho letto”. Allora, via! Ecco che ne arriva un altro, di romanzo! Spedito a Gallimard… Ogni anno zavorra di quattrocento romanzi, il Gallimard. Li butta nella Senna! Nessuno che se li fila! Valgono su per giù come tutti gli altri, ma non escono… Una lotteria! Intervista a L.-F. Céline, di Madeleine Chapsal, http://lf-celine.blogspot.it/ 48 “Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l'amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti (...) 92 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 alzo zero, contro tutto e tutti, l‘ultima bomba a rancore esplosa consapevole che nulla e nessuno mai gli ridarà il posto agognato. Come ben scrive Francesco Biamonti : ―ce l‘ha con tutti, in definitiva: con Sartre, con Aragon, con Vailland che aveva giurato di ucciderlo, con Elsa Triolet, con Claudel, con Montherlant... I suoi nemici sono dappertutto, dalla Costa Azzurra alla Scandinavia, nelle case editrici, nel bunker di Berlino‖. È lo stesso Céline che lo confessa : ―I nazisti mi detestano al pari dei socialisti, e i comunisti anche, senza contare Henri de Régnier o Comoedia. Si intendono tutti quando si tratta di sputarmi addosso. Tutto è permesso tranne che dubitare dell‘Uomo. Allora non c‘è più niente da ridere. Ho fatto la prova. Ma io me ne frego, di tutti. Non chiedo nulla a nessuno‖49. Nel 1945 appare su ―Le Temps Modernes‖ uno scritto di Jean-Paul Sartre dal titolo Ritratto di un antisemita. L‘obiettivo de l‘autore de La Nausea è Louis Ferdinad Céline, il Bardamu di Viaggio al termine della notte, tacciato di collaborazionismo e di simpatie filonaziste. La deriva antisemita di Celiné sancita dalla sua produzione (Bagatelles pour un massacre, 1937, L‘École des cadavres, 1938 e Les Beaux draps, 1941) non è mai stata messa in discussione dai suoi cultori e tantomeno dai suoi detrattori. Nell‘Aprile del 1945 viene spiccato da un tribunale francese un mandato di cattura per Céline accusato di ‗tradimento‘. Al netto di questa verità, Céline non fu mai organico al regime di Vichy, e nemmeno all‘establishment nazista. Tra il 1941 e il 1944 pubblicò infatti un articolo, venticinque lettere, e tre interviste. La se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America”. 49 Céline a Elie Faure, 1934. 93 Lichtung. Luci sua inappartenenza strutturale si evince dal fatto che alcune delle sue opere vennero ostacolate sia dal Governo di Vichy che dai tedeschi. Questo non gli eviterà di essere messo all‘indice, allorquando iniziarono le epurazioni dei ‗collaborazionisti‘ che avevano, a vario titolo, sostenuto il governo di Vichy. Furono 40.000 i francesi messi all‘indice, alcuni dei quali condannati a morte. Il ―Conseil National des écrivains‖ fu l‘organo deputato a stilare un elenco dei libri impubblicabili perché scritti da intellettuali compromessi con il regime. La voce di Sartre fu assai determinante nel volere la messa al bando di Céline, desiderando che Destouches venisse ignorato al suo ritorno in patria. Nel 1947 dopo aver appreso della pubblicazione del testo di Sartre (che recava le parole: «Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché era pagato») prende carta e penna e scrive A l‘agité du Bocal, violento e dissacrante pamphlet rivolto contro Sartre, nel quale, tra le altre cose mette in luce cosa nasconda la veemenza delle accuse rivolte contro di lui: Sartre, il censore, il resistente, aveva avuto la possibilità di mettere in scena una sua opera teatrale Les Mouches in piena occupazione al teatro cittadino, con presenza di militari tedeschi. La frase «Il fallait bien vivre» pronunciata da Simone de Beauvoir, compagna di Sartre, segna un periodo ben stigmatizzato da Frederic Spotts nel suo libro The Shameful Peace: How French Artists & Intellectuals Survived the Nazi Occupation. In questo testo troviamo le parole di Sartre e della compagna ―Un sottile veleno corrose le nostre migliori intenzioni» (Sartre); «Al principio ebbi un solo pensiero, non fare la fine del topo» (de Beauvoir). Picasso che continuò a lavorare sotto l‘occupazione nazista disse:«Passivamente, non cedo al terrore e alla forza, ma non è coraggio, è inerzia‖. Quanto a Matisse, lamenta Spotts, ―nel suo rifugio di Vence non avvertì nemmeno il problema morale della Resistenza‖. 94 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Jean Paul Sartre, il più forte dito puntato contro gli scrittori collaborazionisti, non riuscì a nascondere allo spirito di Céline le sue pecche. Sartre, che prese posizione a favore di Israele al momento della creazione dello Stato ebraico (si veda: Riflessioni sulla questione ebraica del 1946), puntando il dito contro l'antisemitismo, si accomoda volentieri sulla cattedra parigina di Henri Dreyfus-Le Foyer, professore ebreo allontanato dall‘insegnamento a causa della politica antisemita di Vichy. La de Beauvoir (la paladina del femminismo ante litteram) dirottava sul letto del ‗Cobra‘ (nominativo col quale chiamava Sartre) le studentesse più accondiscendenti, oltre a lavorare per la radio nazionale francese controllata dai tedeschi. Ecco allora, lettere di odio. Lingua per colpire e smascherare le oscene verità: ―Tenia (...) e filosofo, per giunta… fa un po‘ di tutto… Sembra che, in bicicletta, abbia anche liberato Parigi. (…) Voi avete avuto comunque il vostro piccolo successo al ―Sarha‖, sotto lo stivale, con le vostre Mouches‖. Ancora: ―Elenchi? Elenchi? A quando quello integrale, nominativo, di tutti quelli che hanno guadagnato qualcosa con i tedeschi? Eccolo il vero elenco dei collaboratori‖50. Ultima torsione del suo francese, parole violente usate per strappare quel velo di ipocrisia che lo condanna all‘oblio, in tempo di vincitori e vinti. Il curatore del blog http://lf-celine.blogspot.it/, Andrea Lombardi, sostiene che: ―Oltre la prima rivoluzione dell‘argot, Louis Ferdinand Céline supererà l‘impasse creativa dopo Morte a credito con l'ancor più straordinaria creazione della ‗petite musique‘, la scrittura emozionale, dei puntini di sospensione e esclamativi per tentare di replicare pause, enfasi e ritmo del parlato ‗tridimensionale‘ trasferendolo con uno sforzo stilistico immane nel ‗bidimensionale‘ del segno sulla pagina. ‗Rivoulzione‘, quest'ultima, che LFC 50 L.-F. Céline, À l’agité du bocal. In «La lettre de Céline sur Sartre et l’existentialisme», 1 48. 95 Lichtung. Luci stesso definirà sempre di gran lunga superiore a quella da lui fatta con argot/Viaggio. Il passaggio da Viaggio/argot alla Trilogia/ ‗petite musique‘ ha il suo ponte proprio nello stile dei ‗famigerati‘ pamphlet, che risultano cosí affatto opere minori dal punto di vista stilistico‖. La sua eredità letteraria, sepolta a Medoun nella tomba col vascello, è ingombrante. Inappartenente, indocile, libera e refrattaria a qualsiasi ereditiero che abbia provato nel corso degli anni a farla propria. La sua ultima produzione è un pacco di lettere da un esilio volontario, una maledizione verso tutto ciò che gli stava attorno. Gonfia di una disperazione non addomesticabile, resta come un monito, una cicatrice mai richiusa e sanguinante , a ricordare come solo una letteratura alta , fatta cioè del medesimo impasto pulsionale del suo autore, lontana da inchini o salamelecchi col potere, sia degna di tal nome. Il primo Luglio 1961 Céline muore. Muore in una solitudine colma di rancore e un deserto rotto solo dalla moglie Lucette e dal gatto Bebert. Muore per come è sempre stato, un parvenu della letteratura. Muore mandando ―al diavolo libri e tirature! M‘è capitato di scrivere quel che mi passava per la testa, però io non voglio essere altro che un semplice medico di benlieue‖51. Muore solitario ma, a differenza di Camus, per nulla felice. Il suo argot muore con lui. Tanto materiale ancora, oltre a quello che ho utilizzato, lo si trova su http://lf-celine.blogspot.it/, curato da Andrea Lombardi. 51 Intervista a Semaine du Monde, 23 Luglio 1954. 96 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Adorno, Fortini/Gryphius, Alciati di Giacomo Conserva Gli scritti sociologici di Adorno A Th.W. Adorno è stato molte volte rimproverato lo stile (oltre il contenuto): per obscurum ad obscurius ― non solo analisi complicate, concetti non autoevidenti, un idiosincrasico modo di argomentare ― ma anche un lessico spesso desueto, frasi aggrovigliate, giochi di parole. Brecht parlava di mandarini cinesi, di albergo sull‘orlo dell‘abisso: il tutto infatti si univa ― pur nel deciso antinazismo ― ad una presa di distanza da tutti gli schieramenti in lotta nel periodo delle guerre civili e delle guerre mondiali. Naturalmente, p.e. Fortini riconosceva non solo una prefigurazione da parte della Teoria Critica dei problemi della società tardocapitalistica, ma anche una omologia possibile fra lo stile ed il contenuto: l‘aspirazione ad una liberazione da realizzarsi non solo a livello utopico (o tanto meno da delegare a istanze autoritarie e differire sine die) ma anche qui ed ora ― nel discorso, nella scrittura (nel comportamento); è del resto nota per esempio l‘affinità fra una figura come Walter Benjamin (strettamente associato ad Adorno) e la mistica. Bene: posto tutto questo, fare i conti con gli scritti sociologici empirici di Adorno è un‘esperienza del tutto imprevista e imprevedibile: studi condotti in gruppo, sulla base di una ricca messe di interviste e dati, oltre che di una profonda successiva elaborazione; e ― fra le altre cose ― di una chiarezza cristallina. Le tecniche propagandistiche di Martin Luther (un predicatore americano di estrema destra degli anni ‘30), la mentalità autoritaria (un colossale 97 Lichtung. Luci progetto collettivo degli anni ‘40, cui collaborò, redigendo infine materialmente parecchi dei capitoli), colpa e difesa (sulla elaborazione ― o rifiuto di elaborazione ― dell‘esperienza del nazismo nella Germania del primo dopoguerra), le stelle sulla terra (analisi della colonna astrologica di un quotidiano USA). Forse il mondo è più complicato di quanto ce lo raffiguriamo. C‘è stato chi (Habermas) ha pensato di liquidare Adorno e Horkheimer come discepoli di Nietzsche (la fonte di tutti i mali), portatori di un irrazionalismo di fondo immaturo e pericoloso. Più banalmente, li si può semplicemente considerare passati, superati, andati. Quindici anni dopo il crollo dell‘URSS, e dopo pure il dispiegarsi della barbarie del Nuovo Ordine Mondiale, si può forse dire qualcosa di positivo sulla saggezza delle loro impostazioni politiche. E gli scritti sociologici insegnano che l‘aspirazione a un Altro (cfr. Dialettica negativa) non necessariamente vuole dire non sapere o non volere fare i conti con la realtà. Th.W. Adorno, Soziologische Schriften, II (1,2)‘, Suhrkamp Verlag, 2003. T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004 (1966). J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, 2003 (1985). F. Fortini, Il passaggio della gioia, pp. 274-280, ‗Saggi ed epigrammi‘, Mondatori, 2003 [è del ‘67; prima sui Quaderni Piacentini, poi in ‗Verifica dei poteri‘]. Fortini, Gryphius Vai via, getrübtes jahr: un verso di Fortini: da ―anno ‘64‖, in ‗Ospite ingrato‘ e poi, credo, nell‘Oscar di Poesie scelte. 98 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 L‘anno sessantaquattro 1. Correvo in auto la luminosissima Brianza e foglie rotolavano pulite nella danza d‘aceri e tigli brune e gialle precipitose tra cementi d‘officine piccole e stecchi di rose robinie color volpe campings semidivelti i tavoli dei bar ristoranti capovolti le piume d‘un coniglio nella palta di sangue impresso e fisso sull‘asfalto le operaiette dei turni affollate allo spaccio e lassù nel turchino prealpino di ghiaccio la notizia che l‘anno finiva. 2. Va‘ via, getrübtes Jahr, va‘ via mit deinen Schmerzen. Stanotte affili Bórea le trombe delle feste. Battano gli impiantiti di dancings e di casolari le impiegate tenui e le dure comari. E anche la ubriaca magra dei muratori che tra spini di siepe scuote a sfida i colori del viso decorato di nero bianco e rosso e la gonna che striano erba e creta di fosso anche lei calchi e stritoli l‘annata sotto il tacco quando dai poli sibili di radio la distacchino e dormire nel grigio che viene.‖ Lessi questo testo nel ‘74 ― una figlia appena nata, caos nella mia mente e nella mia vita. Quanto erano martellanti le parole, eletto il lessico, improbabili e indispensabili gli accostamenti; quanto plumbeo, dopo la foga dei periodi, il tocco di campana dei versi conclusivi delle due strofe. In mezzo, inatteso e immotivato, lo stacco dell‘inizio della seconda strofa: alcune misteriose parole 99 Lichtung. Luci tedesche ― un richiamo a una dizione ‗sublime‘, dichiaratamente barocca (―affili Borea la tromba delle feste‖); mille migliaia di anni luce lontano dallo squallore accatastato del paesaggio e delle scene evocate, e dalla brutalità della disperata conclusione (mentre scrivo queste righe, mi viene in mente. ‗no future no future no future‘). Le parole tedesche venivano da Gryphius, scoprii da qualche parte: il poeta tedesco del ‘600, delle devastazioni della Guerra dei 30 Anni ― l‘eroe di Walter Benjamin nel suo saggio sull‘origine del dramma tedesco (saggio posto sotto la costellazione della malinconia e della rovina ― e, quindi, di una paradossale messianica attesa). Qualche mese fa, in un sito internet (la rivoluzione tecnico-scientifica!) dedicato a ad Andreas Greif, autonominatosi Gryphius, ho trovato la poesia. Una emozione molto forte, naturalmente. E una scoperta, pure. Fortini, dalla sua posizione di rivoluzionario calvinista, di moralista aspro, dice: Vai via, anno affannato; vai via con i tuoi dolori. E la poesia si conclude con il nulla che avvolge e inghiotte l‘individuo (come il neocapitalismo stava avvolgendo il mondo di Fortini allora). Gryphius dice qualcosa d‘altro: Fine dell‘anno 1648 Vattene via, anno affannato! Vattene via con i miei dolori! Vattene via con la mia angoscia ed ammassata pena! Porta via tutti questi cadaveri! Tempo costretto, passa e porta via con te il peso di questo cuore. Signore, cui la nostra esistenza è come un chiacchierio e uno scherzo, non cade via il mio tempo come fusa neve? Lascia allora, mentre il mio sole è ancora al mezzogiorno, 100 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 che io non scompaia come una candela che si è esaurita. Signore, ci sono stati abbastanza colpa, angoscia e sofferenza a sufficienza sono state sopportate, concedi adesso un poco di tregua, che io possa fare i conti con me stesso. Concedi che questo pugno d‘anni lieto li viva prima della mia tomba. Non rifiutarmi il tuo dono d‘amore. La differenza da Fortini è abissale: (intanto c‘è da dire che il riferimento ai cadaveri è del tutto puntuale: altrove egli parla di trincee, città in rovina, fortini, macchine d‘assedio, campagne devastate, corpi fatti a pezzi) ― de me fabula narratur [si parla di me] ― sono corresponsabile, non solo giudice o vittima. E la speranza riguarda me, non solo gli altri (il proletariato, i dannati della terra, chi vogliamo). Forse c‘è una lezione in tutto questo. F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a c. di L. Lenzini, Mondadori 2003, p. 971 http://www.lehrer.uni-karlsruhe.de/~za874/homepage/gryphius.htm A. Gryphius, ‗Dramen‘, Deutscher Klassiker Verlag, 1991 (con vastissimo commento). The Sex Pistols, ―God save the Queen‖, Virgin, 1977. Andrea Alciati Il Libro degli emblemi di Andrea Alciati (1531, poi innumerevoli altre edizioni e traduzioni) fu un libro fondamentale; lo stile, i temi, i motivi furono alla base della fioritura enorme di opere di emblemi e imprese che caratterizzarono la civiltà europea nella seconda metà del 101 Lichtung. Luci ‘500 e nel ‘600. Un titolo ― un‘immagine ― un commento (o narrazione): il tutto al servizio di una visione allegorica del mondo che Benjamin è stato fra i primi ad indagare; un mondo ossessionato dalla caducità e dalla vanità di ogni gloria e gioia terrena. Ma in Alciati (che fu un eminente giurista e docente, e operò fra il ducato di Milano, la Francia, la Germania, e di nuovo l‘Italia, a quel punto saldamente dominata dagli Asburgo) il quadro è molto diverso: pace, equilibrio, misura; i mali del mondo esistono, vengono visti e analizzati ― ma ragione e speranza permettono di guardarli per quello che sono, nel loro venire avanti e nel loro scomparire. Le immagini (aggiunte a posteriori) sono paesaggi rinascimentali, scene mitologiche, exempla ― con un verismo tranquillo (e duro, a volte) che non sarebbe durato molto. La lingua è il latino degli scritti dotti del Rinascimento ― piena però di un eloquio basso e tecnicismi, con un fermo aggancio al mondo effettuale. Dagli epigrammi greci (che Alciati collaborò a tradurre in una edizione inizio ‘500 della Antologia Palatina) viene desunta la capacità di riassumere in pochi tratti i dettagli di una situazione interpersonale e di una storia, e di collocarla in un mondo ben preciso (Quest‘albero, questa curva del sentiero, questa pietra, questa montagna). L‘enorme erudizione classica che sta a monte è non un peso ma, come negli Adagia di Erasmo (suo contemporaneo), uno strumento lieve e preciso per scandagliare gli eventi. Tutto ciò appunto non era destinato a durare (il traduttore di Erasmo in francese venne condannato al rogo a metà del ‘500). Ben altro tono venne assunto dalle culture in lotta al tempo delle guerre di religione e della guerra dei 30 anni (per non parlare della conquista delle Americhe). ―Con i suoi lutti, con i suoi danni/ la guerra è tanto tempo che c‘è‖. 102 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Pure, un po‘ di quella serenità dura. Andrea Alciati, A book of emblems. – The Emblematum Liber in Latin and English, a c. di John F. Moffitt, Mc Farland, 2004. Walter Benjamin, Il drama barocco tedesco, Einaudi. 1980 (1928). Albrecht Schöne, Emblematik und Drama im Zeitalter des Barock, Beck, 1993 (1a ed. 1964). Erasmo da Rotterdam, Adagia, Salerno, 2002 (scelta parziale, con il testo a fronte). http://www.mun.ca/alciato/index.html http://www.ces.arts.gla.ac.uk/html/AHRBProject.htm Emblema CLXXVIII (177 nell‘edizione di Moffitt) Ex bello pax Dopo la guerra, la pace Ecco un elmo, portato un tempo da un intrepido soldato, e spesso cosparso del sangue dei nemici. Adesso che c‘è la pace, ha permesso alle api di usarlo come alveare, e i favi producono dolce miele. Che le armi 103 Lichtung. Luci rimangano da parte; che sia lecito iniziare la guerra solo quando non si possono altrimenti godere le arti della pace. 104 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Wittgenstein: un monologo* di Sonia Caporossi ad Emilio Garroni Descrivi l‘aroma del caffè. L. Wittgenstein Quaderno privato. Da non pubblicare, a rischio di sembrare matto, o quantomeno, retrivo. Appunto disordinato, numerato alla rinfusa. Giorno: corrente. Rilettura: passata. Lettori posteri presunti: il minor numero possibile. Titolo del paragrafo, se occorre un titolo. Inutilità di una metafisica che graverà per sempre sulle nostre teste. Sto meditando in questi giorni sull‘essenza metafisica del linguaggio. In definitiva, sulla sua connaturata ontologia. Tautòs lògos. L‘essenza definitoria interna alla struttura stessa del linguaggio, qualsiasi linguaggio, che nasce per forza di cose, come conseguenza, quando ad un significante come immagine acustica facciamo corrispondere storicamente e quindi, arbitrariamente, un determinato significato o valore concettuale. Occorre cominciare a buttar giù qualche paradossale contraddizione. Bene, diamoci pure da fare, cercando di evitare, il più possibile, citazioni dall‘Isagoge di Porfirio. Aristotele proprio non posso sopportarlo. *** 105 Lichtung. Luci Paragrafo Primo. La metafisica del linguaggio PREMESSA CONCETTUALE, IN FORMA DI POSTULATO A) È ontologicamente impossibile parlare della metafisica fuori da termini, canoni e confini metafisici. Perché? È come indagare le motivazioni private e personali che un cane ha di mordersi, ogni giorno un po‘, la coda. Non possiamo sapere fino in fondo perché lo fa; possiamo, al massimo, analizzare come lo fa. Nel momento stesso in cui indaghiamo il motivo per cui un cane si morde la coda, non stiamo facendo altro, in definitiva, che applicare il nostro sistema di riferimento mentale etologico ai parametri di comportamento di un individuo vivente che non pensa e non ragiona come noi. Pur tuttavia, la necessità dello scoprire il perché è ciò che ci spinge in quanto umani. E l‘operazione in sé è quantomeno pretenziosa. Proposizione 1 Tutto il linguaggio è metafisico. E questa è una bella crassa, grassa, giuliva oca tautologica. È come dire: Dio è Dio. Dio è divino. Dio è se stesso. Usciremo mai fuori, noi poveri esseri umani, dalla necessità psicologica del tì estìn? Non credo sia possibile. Il tì estìn ci domina. Socrate continua pedissequamente a penetrarci fra i lombi con la mollezza della mente che si traveste da forzuta energheia. La carne dell‘orrore tautologico. L‘orrore, l‘orrore del colonnello Kurtz applicato alla pretesa filosofica di sapere. L‘orrore intrinseco e umano, troppo umano del linguaggio. 106 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Lo stesso orrore che è in Dio. L‘orrore stesso che è Dio. Prendiamo come esempio l‘assunto medievale: aliquid stat pro aliquo. Nel rinviarsi incessante dei segni, nell‘ondeggiare mellifluo del linguaggio in seno al senso, nasce in noi la possibilità della comunicazione. Niente di più confortante della possibilità di potersi capire a vicenda. E allora, mi si dirà, dove sta l‘orrore in tutto questo? Se in definitiva, nell‘uso quotidiano e comunitario delle definizioni, ci capiamo a vicenda? È un po‘ come quando Derrida parlava di decostruzione come di una specie di movimento che la filosofia compie intorno ed ai margini della metafisica, non potendosi mai pienamente sbarazzare di essa. E poi gli storici della filosofia, per questo suo atteggiamento analitico – critico terroristico (da buon algerino!), hanno shiftato il termine da ―decostruzione‖ a ―decostruzionismo‖ (caro, vecchio Paul De Man!), facendolo ricadere in pieno in quella metafisica dalla quale pure per tutta la vita aveva tentato di divincolarsi, nonostante affermasse la totale impossibilità di riuscirci in pieno. Derrida è decostruzionista. X è y. Dio è se stesso, solo cambiato di segno. E allora? La metafisica forse non sta tanto, come voleva Derrida, nella metafora? Non è questo il punto. È vero che nella metafora ci sta la poesia. È vero che la metafisica appare invece come la prosa del pensiero, come la baldanza della definizione che pretende di dire, di sapere, e lascia agli altri il mero fare. Come la presunzione del ―che cos‘è‖. Come l‘orrore di una copula sodomitica e socratica che esige un suo corrispettivo in moneta sonante, nella parte nominale ben recitata da tutti noi, che siamo gli attori. Attori di atti inconsulti del linguaggio. 107 Lichtung. Luci Atti unici? Sì, secondo la saussuriana parole, eppure universalmente comunicabili. Non facciamo che recitare una sceneggiatura linguistica monocorde fondata sul nostro proclitico copulare indefesso, eppure ci capiamo gli uni con gli altri. Ci intendiamo, in quel ―che cos‘è‖, nell‘ ―x è y‖, nelle miriadi di risposte multiple al ―tí estín‖, nell‘istanza metafisica stessa del linguaggio. Alla metafisica non si sfugge. È come la morte. Anzi, di più. Poi è arrivata una frotta di filosofi strutturalisti a rompere le uova nel paniere del Sistema, in pieno Novecento, una flotta da Invincibile Armata a rivoltare l‘Ottocento come un guanto, come un condom al contrario che rende sterile chi non l‘indossa, a incappucciarci di critiche al sistema metafisico, utilizzando (consapevolmente?) di esso lo stesso identico linguaggio metacorporale. Una sorta di critica metafisica essa stessa, astratta perché astraente, che non esulava dal Sistema proprio in quanto ne svolgeva la critica, la critica della critica della critica della et cetera; che poteva pure tacciarsi di essere antimetafisica, ma per quello stesso ―essere‖ pur definibile in qualche cosa, in qualche modo, certo oltre la metafisica non era. Come cristo tutto questo sia stato possibile, e soprattutto come sia potuto essere passibile di movimenti adeptici e di consensi, io non lo so. Il tempo è prezioso: non intendo scoprirlo. Ma che cos‘è il tempo? Mio grande, mio dolce, mio docile Agostino…Perché mai hai sentito l‘intima necessità di domandartelo? 108 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Proposizione 2 Ogni singola parola è un‘astrazione che rimanda a qualcos‘altro, in un cortocircuito metafisico di senso e significato. Quando? Dove? Perché? ―Il segno è infatti una cosa che, oltre all‘aspetto sensibile con cui si presenta, porta a pensare qualcosa di altro a partire da sé.‖ (Agostino, De doctrina christiana I.1.1). Il dualismo di senso e significato oggi sostituisce dicotomie di una metafisicità ben più manifesta, e che un tempo si travestivano da Dio e Diavolo, da bene e male. Occorre andare al di la del bene e del male. Sì. Ma quando? Dove? Perché? E soprattutto: come? Fra senso e significato, non c‘è una pura e semplice relazione di uguaglianza, ma neanche una pura e semplice relazione di inferenza. Non univoca, almeno. E non preferenziale. Un segno rimanda non ad un altro segno, ma ad altri segni. A volte, a molti altri. Praticamente, rinvia ad un sano: ―non mi ci raccapezzo‖. Ecco perché è sempre esistita la metafisica. Seppure consista bellamente in una presa in giro con cui il linguaggio deride se stesso (con cui il linguaggio di Derrida derida se stesso!), ci sembra di raccapezzarci in essa. Appare sbrogliarci dalle secche del pensiero, del linguaggio. Si manifesta come una volontà superiore di ordine rispetto all‘ineffabilità del sentire, rispetto all‘inesprimibilità dell‘aroma del caffè, che mai e poi mai riuscirò a definire se non in qualche modo. Ovvero poeticamente, come a dire: esteticamente. Ma essa serve davvero ai nostri scopi? Proposizione 3 La metafisica è fallace. 109 Lichtung. Luci Non è difficile, dal criticismo in poi, affermare la fallacità della metafisica, ovvero l‘essenza eterea del linguaggio, nebulosa, gravida di umori e febbri sospese e tracciate dalla linea del mercurio temporale del vivo pensiero. Per gli antimetafisici, che non sanno di essere ultrametafisici, la metafisica sbaglia perché possiede un‘istanza definitoria astraente, la quale afferma postulando a priori ciò che andrebbe verificato a posteriori. Ah, la métaphysique! Bisogna proprio prenderla a martellate in pieno viso; bisognerebbe, nevvero?, filosofare col martello. Ma è come dire che la metafisica sbaglia, perché è metafisica. E non c‘è qualcosa di sbagliato in questa stessa proposizione? Proposizione 4 L‘assunto dello strutturalismo è, parafrasando l‘incipit de Il Ritratto di Dorian Gray: tutta la metafisica, come l‘arte, è perfettamente inutile. Non serve a nulla, non serve nulla. Non serve a nulla in quanto le categorie kantiane, una volta assorbite nell‘intelletto, esauriscono la loro funzione costitutiva del pensiero per diventare semplici strumenti nelle mani del soggetto pensante ― pensato. Non serve nulla, perché la metafisica ―lascia tutto cosí com‘è‖, un po‘ come la filosofia secondo le mie Ricerche Filosofiche. Non a caso, per secoli, la filosofia si è identificata esclusivamente con la metafisica, con sommo gaudio di Platone ed Aristotele, della Padristica occidentale, di Spinoza e di Leibniz, del pensiero comune cosí com‘è pensato. Non serve nulla, perché in realtà non si mette al servizio di niente e di nessuno: è lì, nel non luogo metafisico, nell‘iperuranio della pretenziosità calata dietro il sipario della scienza, nei retroscena di velluto rosso della Loggia 110 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Nera di Lynch, che non cerca e non trova vie d‘uscita dalla dannazione dell‘attrazione sensibile del male, dal proprio autocratico isolamento. Essa non tenta di correggere il proprio atteggiamento astrattamente definitorio, là dove un tentativo di definizione del reale in termini di linguaggio non è più possibile, a meno di incaponirsi nell‘assurda pretesa pseudoscientifica di voler definire il necessario attraverso il contingente, l‘assoluto attraverso il relativo, e non (questo sì!) tentare anche solo di cogliere l‘astratto nel concreto. Secondo lo strutturalismo, la metafisica non serve, perché è sbagliata. Ed è sbagliata, perché non serve. Ma anche l‘arte è perfettamente inutile, come sosteneva giustamente Oscar Wilde. Dov‘è che l‘arte sbaglia? Proposizione 5 Intendere è come un cogliere di colpo. Questo ―cogliere di colpo‖, su cui mi dibatto da anni nelle mie solitarie austriache meditazioni, prive del galateo intellettuale di Oxford, è possibile proprio perché rimanda ad una dimensione estetica di significato in base alla quale nulla, dico nulla è definitorio: neanche questa stessa frase. Ma ha luogo una tale dimensione quando si trapassa nel campo dell‘espressione linguistica? Finché sento, tutto è bene. Quando cerco di esprimere in forma di linguaggio ciò che sento, attraverso l‘istanza definitoria, lí comincia il campo di dominio della metafisica. Ma allora, se il linguaggio è metafisico per sua stessa interna costituzione, che cosa non lo è? Il mio intendere non lo è. Non lo è e continua a non esserlo nemmeno mentre parlo. Quanto io sento, io sono, senza l‘intimo bisogno di una y a predicato. La 111 Lichtung. Luci parola è un sovrappiù al mio sentire. La parola è espressione della sensazione e del sentimento. Io sento, quindi intendo. Ma che cosa succede quando cerco disperatamente di tradurre in parole le immagini interiori di questo mio privatissimo sentire? Che strumenti devo utilizzare per poterlo anche soltanto esprimere in qualche modo? Occorre volgersi allo strumento privilegiato della poesia, ciò in cui si insinua insidiosamente la metafisica stessa del linguaggio. Io debbo parlare per metafore. E debbo farlo proprio per farmi capire dagli altri. Il linguaggio personale è perpetua parole. È inesauribile poesia in forma di rosa. Pier Paolo, aiutami. Che cosa intendevi dirmi? Proposizione 6 La definizione è nel linguaggio ciò che Dio è nella teologia: il simbolo delle modalità di funzionamento di un tipo di pensiero, di un particolare sistema di riferimento mentale. Il verbo essere, copula nell‘analisi logica, per sua natura sembra subire le peggiori storture quando viene usato in gergo filosofico, nelle istanze definitorie, in quanto racchiude in sé il germe stesso, nosoforo e malsano in quanto tale, della forma logica della definizione: ―x è y‖. Eppure, questo è il modo peculiare che noi tutti abbiamo di parlare. È la natura stessa del linguaggio! Dov‘è che sbagliamo? Non potremmo esprimerci nei nostri sentimenti, nelle nostre emozioni, impressioni, sensazioni, in un linguaggio diverso da quello che già possediamo. Ce ne dobbiamo fare una colpa? Dio mio, sono un porcospino, in quanto tale mi rotolo spesso, e rotolarsi sporca, e rotolandomi mi rendo 112 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 impuro. Dov‘è che sbaglio, se sono un porcospino? Dov‘è che sbaglio, se mi rendo impuro? Proposizione 7 Quale è la forma logica del cogliere di colpo in senso estetico? Essa, semplicemente, non esiste. Si potrebbe dire anzi che non possiede neanche una forma, se la sua ―forma‖ è estetica. Se è tale, infatti, è anche in continuo mutamento agli occhi della mente e della percezione sensoriale; si presenta come un ―intreccio di somiglianze e di differenze‖. Un insieme di Cantor del pensiero? Non mi sembra proprio. Piuttosto: una ghirlanda variopinta del sentimento. Poesia in forma di rosa. Poesia metaforica a getto continuo, in fluida mobilità. Petali e petali rossi di sentimento mi sbocciano nel cuore ad ogni primavera del pensiero. La primigenia istanza del capirsi passa attraverso tutto questo. E tale è anche e soprattutto la funzione storica dell‘arte. Proposizione 8 X non è tanto y quanto a,b,c,d,e…Dove a,b,c,d,e…sono connessi con x riguardo un diffuso fondo di senso comune, solidale con l‘oggetto per quanto riguarda il concetto di sé: il mutamento della varietà riconoscibile. Qui ―mutamento‖ non significa necessariamente ―metamorfosi in continua evoluzione‖ alla maniera di Eraclito e, in parte, di Hegel. Può anche solo significare un impuro manifestarsi eterogeneo di elementi (che non sia un coacervo indistinto, bensì recuperabile in una pur vaga parvenza di forma logico – razionale a base estetica), di cui uno differisce dall‘altro ma è simile ad un terzo che 113 Lichtung. Luci ha elementi in comune con il secondo il quale è solidale con un quarto che non ha niente a che fare con gli altri due e così via, come le parentele trasversali di una famiglia ricolma di figliolanze imbastardite e prive di ideali ariani. Le parole sono come cugini di primo, secondo, terzo, quarto grado. A volte neanche si conoscono a vicenda, eppure si rimandano l‘una con l‘altra, perché hanno lo stesso sangue, perché sono solidali riguardo le sensazioni, e quindi i concetti, di sé e degli altri. Infatti, a rimandarsi le une con le altre, prima di tutto, sono le sensazioni dei senzienti. Le parole, per dirla in breve, sono un campo fecondo in cui crescono folte le spighe della solidarietà. Proposizione 9 La metafisica è superata non solo perché, insomma, inutile nel senso sopra descritto, ma anche paradossalmente proprio perché non se ne può fare a meno. Non se ne è mai potuto prescindere, per Dio! Non ce ne libereremo mai. Questo è il punto. La poniamo come problema ogni singolo giorno della nostra esistenza, perché essa è ovunque e sempre. Impossibile disfarsene. È nella natura stessa del linguaggio. E nel momento in cui parliamo, la riduciamo a oggetto di riflessione, la possediamo, la facciamo nostra, la superiamo nei suoi presunti legacci impedenti: essa non è più un problema, bensì, semplicemente, il nostro modo di esprimerci. Riflettiamo ad esempio sul concetto di sublime, del quale darei questa metafisicissima ed intrinsecamente tautologica definizione: il sublime è l‘impensato o ciò che non è stato ancora pensato. Ma per il fatto stesso che esiste un termine che lo determina, un nome che lo denomina, il sublime è già stato pur pensato in qualche modo! Dunque esiste un termine metafisico, perché 114 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 astratto ed astraente, per indicare un pensato che in quanto già pensato in qualche modo, non può fare a meno di essere continuamente pensato e ripensato, appunto in qualche modo; di conseguenza, esiste almeno nel pensiero che lo pensa, nel pensatore che pensa quel pensiero, nel pensatoio del pensatore, sospeso in una cesta con i discepoli stesi a terra a percepire il contatto con le proprie sensazioni. Il nostro personale phrontistèrion da esseri semplicemente umani non è mai monadico, com‘è invece il pensatoio di Dio. Anzi, è sempre interconnesso da miriadi di relazioni multiple intersecantesi all‘infinito, nel comune fondo di conoscenze ed esperienze dell‘umanità. Dio è Dio. L‘uomo è l‘uomo. X continuerà sempre ad essere y. Proposizione 10 Un concetto metafisico, una volta pensato, è ineliminabile dal pensiero che pensa nel qui ed ora del pensiero stesso. Ma del resto, può esistere un pensiero che non pensi solo ed esclusivamente hinc et nunc? Solo Dio è eterno e fuori del tempo. Ma Dio pensa? È questo un problema esemplare che ci riguarda? Sì: homo sum, ultrahumanum nihil a me alienum puto. Ed è un problema che possiamo risolvere in modo definitivo? No. Ma proprio per questo, a ben vedere, il noumeno kantiano non è un impedimento alla conoscenza, perché possiamo provarci almeno in modo definitorio; ovvero, direbbe Kant, in modo metafisico. Ma se metafisico è per sua stessa natura il linguaggio, dunque, tenteremo ogni volta di risolvere problemi come questo in modo contemporaneamente anche teoretico, oltre che pratico, 115 Lichtung. Luci in virtù dei nostri stessi strumenti linguistici e di pensiero, ed a partire dal fondo comune di senso estetico in cui siamo immersi a testa china. Un tentativo definitorio di parlarne può essere il seguente. Se anche Dio pensasse, penserebbe in modo diverso dal nostro. In ambedue i casi, sia che pensi o che non pensi, come facciamo a saperlo? Tutto ciò che ci rimane, per ora, è un‘affermazione in forma di domanda. Ma non è forse anche questa, ben lungi dall‘epokè, una forma di conoscenza? E se ci scrivessi sopra un poema, che forma di conoscenza sarebbe? La più metafisica. La più perfetta e sublime. Una poesia. Proposizione 11 La metafisica del linguaggio sopravvive benissimo sul filo del rasoio di un paradosso metaforico inestinguibile. Il paradosso consiste nel fatto che la metafisica, nonostante la sua inutilità vada a braccetto con la sua eterna sussistenza nell‘universo mentale, viene superata continuamente nel momento stesso in cui viene messa in questione: proprio quando viene problematizzata, non è più un problema. Io ne parlo, e nell‘attimo in cui lo faccio, la posseggo in tutte le sue molteplici accezioni. Io ne parlo, e nel momento esatto in cui mi esprimo, ci sono in mezzo, mi ci calo, è cosa mia, rientra nel mio personale ma universalmente comunicabile orizzonte di senso. Io sono un uomo metafisico che si dibatte sorridendo e pieno di speranze nella fluida metamorfosi del tropo. Io detengo in me la possibilità di comunicare con il mio prossimo, all‘interno e sulla soglia dell‘immenso campo semantico di ogni possibile semiosfera. E da 116 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 quella soglia io osservo ciò che c‘è oltre, ciò che c‘è dopo, disegno il volto di Dio a mia immagine e somiglianza. Niente e nessuno può fermarmi. Io raccolgo in me, in un florilegio cornucopico metaforico, tutta l‘incessante poesia, possibile ed impossibile, del linguaggio. Io racchiudo in me le infinite possibilità estetiche e logiche della metafisica. Il diavolo se la porti, la posseggo metafisicamente nella sua totalità! Proposizione 12 Non esiste nulla di cui non si possa parlare. Non esiste nulla di cui si debba tacere. C‘è forse un limite espressivo alla poesia? No. Che la prosa si adegui, se può. Ma la prosa già lo fa, da millenni. Non c‘è trucco, non c‘è inganno. La metafora è il fondamento del nostro modo di sentire, di pensare, di parlare. Ci ho pensato, pensato infinite volte. La metafisica è il prose poem del pensiero. La sua istanza, io lo so, è metaforica. In questo aveva ragione Derrida. Solo che non c‘è il minimo problema in tutto questo. Solo che la metafisica non la si può decostruire, a meno di un tentativo di suicidio fisico ed intellettuale. Perché essa è la natura del nostro stesso pensiero – linguaggio. Quindi Derrida aveva, anche, torto. Quanta poesia c‘è nella prosa? Quanto orrore cosmico dell‘intelletto risiede nelle grandiose possibilità del sentimento? Quanta poesia ipnoterapeutica c‘è nella filosofia? *** Appunto disordinato, numerato alla rinfusa. Scritto per puro caso. Con il filo di sangue che macchia ogni giorno il mio rasoio di Occam. 117 Lichtung. Luci Giorno: corrente. Rilettura: infinite volte, e con sfumature metaforiche sempre diverse. Le sfumature le ha operate il barbiere di Occam. Come la zigrinatura obliqua della capocchia di uno spillo, come la tonsura circoscritta di un chierico vagante, un circolo di senso e significato mi vortica danzando nel cervello. La soluzione più giusta è sempre quella più semplice. Così si risolvono davvero i problemi: scoprendo che non ce ne sono mai stati. Lettori posteri presunti: il maggior numero possibile. Perché è bene che quanto di ovvio vi sia in queste pagine venga rimuginato. Perché è bene che se ne parli. Perché è nell‘ovvio che c‘è davvero la meraviglia. [Il presente testo è già stato pubblicato in Nazione Indiana il 26 giugno 2013] 118 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Il concetto di concetto: suggestioni sul senso del dire di Fabio Ciriachi Antefatto La mail di Giacomo Conserva circa il prossimo numero di Kasparhauser ― ricevuta il 7/11/2014 alle 13,38 ― cosí esordisce: ―Il tutto dovrebbe avere a che fare con il senso dell‘arte. della bellezza etc etc‖. Sarà per quel senso in grassetto, percepito come un perentorio ordine visivo, ma non riesco a dare peso ai complementi di specificazione che lo seguono, e la mia ipotesi di lavoro è attratta in modo irresistibile ed esclusivo da quella sola potente parola-cardine. Di ―senso‖ il vocabolario Treccani on line dà sei definizioni, suddivise a loro volta in diciassette specifiche dove sono citati Petrarca, Dante, Foscolo, Tasso, Parini, Alfieri, Leopardi, Calvino; un ―testo‖ lungo e circostanziato che, quand‘anche non aggiungesse nulla di nuovo a quanto già si crede di conoscere in materia, suggerisco di leggere per intero cosí da favorire, a mo‘ di rito condiviso, una degustazione il più possibile neutra dei materiali che seguono: talmente frammentari ed eterogenei — nell‘intento di favorire, per suggestione, possibili discorsi altri — da prestarsi alla sconvenienza di letture acide o basiche. Sènso s. m. [lat. sēnsus -us, der. Di sentire «percepire», part. pass. sensus]. 1. a. La facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o interni (affine quindi a sensibilità): gli animali sono dotati di senso; ahi troppo tardi, E nella sera dell‘umane cose, 119 Lichtung. Luci Acquista oggi chi nasce il moto e il s. (Leopardi); in questo sign., è raro il plur.: i miserandi avanzi che Natura Con veci eterne a sensi altri destina (Foscolo), ad altre forme di sensibilità. b. Più comunem., ciascuna delle distinte funzioni per cui l‘organismo vivente raccoglie gli stimoli provenienti dal mondo esterno e dai suoi stessi organi e, previa opportuna trasformazione, li trasmette al sistema nervoso centrale, informandone o no la coscienza. Nel linguaggio com., i cinque s., la vista, l‘udito, il gusto, il tatto, l‘odorato, che corrispondono, meno il tatto e con l‘aggiunta della funzione vestibolare, ai s. specifici della fisiologia, così denominati per il particolare grado di differenziazione del substrato anatomico e delle funzioni, che ne giustifica la contrapposizione ai s. somatici, i quali comprendono le varie forme della sensibilità generale e i cui recettori sono sparsi per l‘intero organismo. Organi di senso (dove senso ha il sign. più ampio definito prima) sono gli strumenti periferici della funzione sensitiva (organi di s. generale) o sensoriale (organi di s. specifico, cioè occhio, orecchio, vestibolo, mucosa olfattiva e mucosa gustativa); usualmente, per organi di senso, o assol. sensi, s‘intendono per lo più questi ultimi: percepire, conoscere, apprendere attraverso i s., per mezzo dei s.; le cose che cadono sotto i s., le cose concrete, visibili e tangibili; un errore dei s., l‘illusione dei s. (che più propriam. sono errori o illusioni della mente nel giudicare ciò che i sensi percepiscono, trasmettono). Trasposizione dei s., presunto fenomeno parapsicologico molto raro consistente in un apparente spostamento di facoltà percettive (per es., «vedere» con la nuca) in soggetti isterici gravi, sonnambuli, ecc. In passato, è stato denominato sesto s. un ipotetico senso nascosto, globalmente capace di percepire per vie extranormali, e spec. funzionante in sensitivi e chiaroveggenti; l‘espressione è rimasta nell‘uso com. con valore generico e approssimativo, per indicare capacità di previsione o d‘intuizione particolarmente sviluppate. c. Sempre al plur., l‘esercizio della facoltà di sentire, l‘attività degli organi di senso: avere, perdere l‘uso dei s.; 120 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 quindi, la coscienza di sé stesso e dei proprî atti, in locuzioni come perdere, riacquistare i s., meno com. tornare in sensi, e sim., che indicano la perdita o il riacquisto della coscienza in seguito a svenimento. d. Come simbolo della vita fisica: A questa tanto picciola vigilia D‘i nostri s. ch‘è del rimanente (Dante), a questo breve spazio di vita che ancora ci rimane; spec. in contrapp. alla vita spirituale: la maggior parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli (Dante). In partic., i s., gli appetiti fisici, soprattutto la lussuria e la gola: Regnano i s., e la ragion è morta (Petrarca); con più diretto riferimento alla sensualità: i piaceri dei s. o del s.; i peccati del s.; mortificare, castigare i s., e sim. 2. estens. a. Coscienza, consapevolezza in genere: Ma io, forse già polvere Che senso altro non serba Fuor che di te... (Parini); o la percezione e coscienza di fatti interni: s. intimo (o interno), espressione della filosofia e della psicologia, usata per designare l‘avvertimento di sé e dei proprî stati interiori, in contrapp. Al s. esterno, come percezione delle realtà sensibili collocate al di fuori della propria persona fisica; per ils. Fondamentale (sinon. Di sentimento fondamentale), v. sentimento, n. 2 e. b. L‘avvertimento di sensazioni interne, di natura fisica o, talora, psichica, spec. se non ben definite: avvertire un s. di fame; provare un s. di benessere, di malessere, di stanchezza, di pesantezza alla testa, di languore allo stomaco, d‘amaro in bocca, ecc. 3. a. In altri casi, indica più espressamente uno stato d‘animo, una sensazione, un atteggiamento psichico: sentiva dentro di sé come un s. di vuoto; la sua partenza ha lasciato in tutti noi un s. di rimpianto; provare un s. di tristezza, d‘amarezza, di sconforto, ecc. Molto com. nell‘uso fam. l‘espressione fare senso, di cosa che produce una impressione forte e non gradevole (simile a 121 Lichtung. Luci disgusto o ripugnanza) o un turbamento psichico in genere: vedergli perdere tutto quel sangue mi faceva senso; spettacoli di miseria che fanno senso. b. Spesso, sinon. Di sentimento (ma con qualcosa di più indefinito): quando mi fia... ogni altro senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano (Leopardi); specificando il tipo e il contenuto del sentimento: alle sue parole, provai un s. di vergogna; tacque per un s. di dignità, per un s. di pudore. Anche di sentimenti rivolti ad altri: lo guardava con un s. di pietà; provava per lui un s. di gratitudine (o di rancore, d‘odio, d‘invidia, d‘avversione); celeste è questa Corrispondenza d‘amorosi sensi, Celeste dote è degli umani (Foscolo). In frasi d‘ossequio, spec. nella chiusa delle lettere, anche l‘espressione del sentimento (sempre al plur.): gradisca i s. della mia devozione; con i s. della mia più profonda stima, ecc. In altri casi, al plur. (letter.), di sentimenti elevati: uomo, donna di alti s.; Spirerò nobil sensi a‘ rozzi petti (T. Tasso); Liberi s. a rio servaggio in seno Lieve a trovar non è (Alfieri). c. La capacità di sentire, in quanto presuppone un discernimento tra il reale e l‘irreale, tra il bene e il male, tra il bello e il brutto, tra il conveniente e lo sconveniente, ecc.: avere molto sviluppato il s. morale; essere privo di s. della giustizia; essere scarso di s. critico; essere assolutamente privo di s. umoristico, del s. del ridicolo; possedere, coltivare, offendere il s. del bello, il s. estetico; avere, non avere il s. della decenza, della misura, dell‘equilibrio (spirituale); essere privo di s. pratico, della capacità di discernere l‘opportunità nei fatti della vita pratica. Dottrina del s. morale, teoria filosofica svolta dai moralisti inglesi del Settecento, secondo cui la coscienza umana possiede una capacità innata, quasi istintiva e infallibile, di distinguere il bene dal male e di provare piacere per le azioni buone altrui e proprie, senza alcun riferimento a vantaggi ulteriori. d. Capacità discretiva e insieme intuizione indica anche nelle espressioni avere, perdere il s. dell‘orientamento; significa invece capacità naturale d‘intendere le cose, di 122 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 apprezzarle nel loro giusto valore, di giudicare rettamente nelle due locuz. buon s.(v. buonsenso) e s. comune (v. la voce). 4. Il contenuto e il valore significativo di un elemento linguistico; è sostanzialmente sinon. Di significato anche se alcune scuole linguistiche distinguono il senso, più generale e comprensivo e quindi più mutevole nei diversi contesti, dal significato, più specifico e costante, e altre scuole usano i due termini nel rapporto opposto. In partic.: a. Di singole parole o locuzioni: spiegare, intendere, discutere il s. d‘un vocabolo; s. proprio, figurato, traslato, metaforico; in questo passo il termine è usato in s. estensivo; in s. ampio, nel pieno s. della parola; usare, interpretare una parola nel s. deteriore. b. Di frasi, costrutti, discorsi, il concetto in essi racchiuso, ciò che la frase o altro vuol significare in quel particolare contesto: maestro, il s. lor m‘è duro (Dante, delle parole scritte sopra la porta dell‘inferno); parole che hanno un s. riposto, recondito, profondo, piene d‘un s. misterioso; il s. del verso è chiaro, oscuro, ambiguo; capire, intendere, afferrare, cogliere il s. della frase; interpretare in altro s., dare un altro s. alle parole di qualcuno; esporre, riassumere in breve il s. d‘un discorso. Anche riferito a interi libri (soprattutto nell‘esegesi della Bibbia): interpretare il testo biblico secondo i varî s., e, specificando, nel s. letterale, tipico, anagogico, allegorico, morale, ecc. (v. anche ermeneutica). c. Locuzioni: leggere a senso, facendo intendere, con le necessarie pause e col tono della voce, il senso di ciò che si legge; sapere, ripetere a senso qualcosa, conoscerne o ripeterne il contenuto con parole proprie, non testualmente e non a memoria; tradurre a senso, preoccupandosi di rendere il significato generale, anziché tradurre alla lettera parola per parola. Costruzione a senso (lat. constructio ad sensum), in sintassi, l‘incongruenza 123 Lichtung. Luci grammaticale dell‘accordo di un sostantivo singolare con un verbo plurale, o viceversa (questo tipo di sintagma, detto in greco κατὰ σύνεσιν o κατὰ σύνθεσιν, è anche indicato con l‘espressione sinesi del numero). Doppio senso, duplice interpretazione a cui una parola o una frase si presta, e la frase stessa che si presta a questa duplice interpretazione (spec. quando uno dei due significati abbia carattere malizioso o osceno): storiella a doppio s.; conversazione piena di doppî sensi. d. Contenuto logico, contenuto d‘idee sostanzialmente valido (in questa accezione si usa solo al sing.): cerca di dire cose che abbiano senso (o che abbiano un s. comune, con lo stesso sign.); per lo più in frasi negative: parole, frasi, discorsi senza s., privi di s., vuoti di senso; non c‘è senso in quello che dici. Con sign. più ampio, anche riferito ad azioni e comportamenti: ciò che fai non ha senso, non ha giustificazione, è illogico, inopportuno, inutile, assurdo; e similmente: un mio intervento ora non avrebbe senso; una protesta da parte vostra sarebbe senza senso. V. anche nonsenso. Riferito a grandi avvenimenti e processi, la percezione della loro importanza, della loro portata, o della loro particolare natura: avere, intendere il s. della storia, degli eventi (o di un evento);il s. della vanità della storia umana che l‘aveva colto poco prima in cortile, lo riprese (I. Calvino). 5. Usi estens. e fig., che si sviluppano dalla prec. accezione: a. Ai sensi, a senso, conforme a, secondo quanto è disposto da, in frasi del linguaggio forense e burocr.: ai sensi dell‘art. 97 della legge...; a senso di legge, a senso o ai sensi del regolamento, ecc. b. In un certo s., sotto un certo aspetto, per qualche rispetto: in un certo s. hai ragione tu; questo è vero, ma soltanto in un certo senso. 124 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 c. Equivale più o meno a modo in alcune frasi tipiche, come: gli puoi scrivere in questo s.; m‘ha risposto in questo s.; soprattutto quando ci sia un‘alternativa, una doppia possibilità: rispondere in s. affermativo, in s. negativo, affermativamente o negativamente; io consiglierei di fare in questo s. piuttosto che nell‘altro; comunque vadano le cose, nell‘un s. o nell‘altro, per noi va sempre male; la questione si è risolta nel s. migliore, nel s. più favorevole, nel s. più vantaggioso per noi. 6. Orientazione, direzione secondo la quale si effettua un movimento; più precisam., in matematica, su una retta o un arco di curva AB, distinzione tra due modi di percorso, uno da A a B, l‘altro da B ad A (sinon. Di verso): io ero diretto nel s. opposto al suo; s (o verso) di rotazione (s. orario, s. antiorario); s. positivo, s. negativo; s. di percorrenza di una curva; nel s. della lunghezza, della larghezza, della diagonale; lo esaminava attentamente girandolo e rigirandolo in tutti i sensi. In usi estens. o fig.: il s. del pelo, della stoffa (meglio il verso); andare nel s. del progresso. Nella circolazione stradale (per calco del fr. sens), il verso che può o non può essere seguito dai veicoli, nelle locuz. s. unico, dove i veicoli possono circolare soltanto in un verso e non nel verso opposto; s. vietato, nel quale i veicoli non possono immettersi; s. obbligatorio, quello indicato come il solo nel quale un veicolo possa proseguire la sua marcia, escludendo al suo conducente ogni altra possibilità di scelta (nelle segnalazioni stradali il s. vietato è indicato da un cartello circolare rosso, attraversato orizzontalmente da una striscia bianca; il s. obbligatorio è indicato da un cartello pure circolare di colore azzurro, con una freccia bianca rivolta verso l‘alto, o a destra o a sinistra a seconda della direzione che si prescrive debba essere tenuta; si usano anche frecce a due direzioni, come pure cartelli rettangolari con freccia bianca in campo azzurro, sulla quale è la scritta indicativa). Materiali 125 Lichtung. Luci Primo — Due mie poesie degli anni Ottanta, inedite in volume e uscite sul numero 6 di ―Night Italia‖ nel 2011, così recitano: Confusione 1 (a Marcel Proust) Un giorno ho puntato la macchina fotografica sul mio passato ho messo a fuoco all‘infinito e ho scattato. Era una ricerca del tempo perduto e così per non perdere altro tempo ho subito portato il rullino a sviluppare. Ma è venuto tutto nero. Sembra che il pasticcio sia a monte. La fonte di tutto sarebbe una mia apertura alla vita finita poi male. Aprendomi, infatti, io così sensibile avevo preso luce; da allora il mio passato è chimicamente alterato contiene ma non mostra; le sue foto, tutte nere, sono il tempo non ritrovato il buio presente. Confusione 2 Dice un proverbio: ―Il gioco è bello quando dura poco‖. Come crederci se sto giusto vivendo il contrario? Un lungo gioco totale con una persona che non voglio nominare. Grazie a questa esperienza posso invece affermare ―se credi ai proverbi 126 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 non sai cosa perdi‖. Anche se non permetterò mai che la frase ―se credi ai proverbi non sai cosa perdi‖ diventi anch‘essa un proverbio perché ciò che è vero una volta non è detto che sia vero sempre anche se, proprio per questo, una volta può essere vero che ―ciò che è vero una volta non è detto che sia vero sempre‖ e altre volte no quindi altre volte ciò che è vero una volta è vero anche sempre. Ne consegue che a certi proverbi è il caso di credere e ad altri no. E nessuno può dire a quali, come e perché, nessuno per fortuna ne sa niente. Secondo ― In una poesia tratta dalla mia terza raccolta, Pastorizia (Empirìa, 2011), si legge quanto segue: Empirismo Un ferro tondo tutto quanto torto non dà forse un‘idea di debolezza smentita solo quando nel toccarlo se ne constata tutta la durezza? Era così contorto quel tondino che dava l‘impressione, convincente, che fosse molto facile piegarlo e la fatica non costasse niente. Ma prova a torcerlo se ti riesce soltanto con le mani come sembra possibile vedendo quanto è torto. Col ferro l‘apparenza conta niente. Con cosa invece l‘apparenza regge? Con tutto quanto non si può toccare, 127 Lichtung. Luci col pensiero è più facile ingannare il tatto invece ha un senso e ci protegge. Terzo ― L‘editoriale di Le Monde del 9 agosto 2014, dal titolo ―Khmer rouges, un verdict frustrant‖, cosí si conclude : ―…Enfin cette tragédie est aussi liée au contexte international de l‘époque. Les Etats-Unis, en procédant à des bombardements aussi secrets qu‘aveugles sur le Cambodge au temps de la guerre du Vietnam, ont sans nul doute contribué à la radicalisation de la guérilla «rouge». Puis, en raison de leur condamnation de l‘invasion du Cambodge par le Vietnam, alors allié de l‘URSS, et des impératifs de la guerre froide, les pays occidentaux et d‘autres continuèrent, pendant des années après 1979, à reconnaitre l‘opposition en exil, dont les Khmers rouges. Fermant les yeux sur leurs crimes passés, l‘ONU continua à reconnaitre ses dirigeants, qui occupèrent les sièges du Cambodge aux Nations unies. En ce sens, nombreux sont les acteurs qui ne se sont pas retrouvés assis, à Phnom Penh, sur les bancs des accusés‖. Quarto ― Il 18 agosto 2014, col titolo ―Segnali‖, nel mio diario bretone annoto quanto segue : ―I radi accessi a internet e alla stampa mi consentono comunque di registrare due belle notizie: i diecimila di Tel Aviv che manifestano contro la politica di aggressione militare del governo Nethaniau a Gaza; e l‘olandese che restituisce la medaglia di ―giusto‖ ricevuta per aver salvato un bambino ebreo durante l‘ultima guerra. Sono questi i segnali che servono per andare, credibilmente, verso una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese, perché marcano una decisa presa di distanza dai fautori della violenza. Non credo occorrano sottili alchimie politiche per convenire sulla impraticabilità della soluzione armata; vuoi per il divario fra le forze in campo, vuoi perché alla mia coscienza — ma anche a quella condivisa, immagino — repelle una soluzione che passi attraverso lo sterminio di uno dei due contendenti. È certo che, finora, questa politica di sterminio sia stata condotta in particolare da Israele; e poco contano le 128 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 obiezioni dei filoisraeliani secondo i quali se Hamas avesse avuto a disposizione armi più raffinate si sarebbe macchiata di crimini identici se non peggiori. Nei fatti, le forze armate israeliane massacrano i civili palestinesi, e non il contrario. Nei fatti, coloni israeliani occupano illegalmente territori da cui i palestinesi sono scacciati. Nei fatti la striscia di Gaza è una grande prigione a cielo aperto verso la quale è chiara l‘intenzione israeliana di strangolarne in tutti i modi economia e vivibilità al fine, evidente, di provocare l‘esodo in massa della sua popolazione così da avere spazio per nuove colonie. È altrettanto certo, mi sembra, che nel perpetrare questa sua politica di massacri, Israele abbia un grande alleato in Hamas, che gli fornisce alibi facilmente spendibili nelle varie informazioni acquiescenti cui non serve altro che qualche maldestro razzo palestinese per continuare a mostrare Israele nei panni di vittima costretta a difendersi; con buona pace di chi ha una coscienza che si può mettere a tacere con poco. Questa breve nota non vuole, né potrebbe, essere esaustiva di nulla, in merito a un problema che si trascina dalla nascita stessa dello stato di Israele e che fa i conti, in particolare ora, con le catastrofiche politiche occidentali in ambito mediorientale. È immune, quindi, da ogni rilievo che miri a dimostrare ragione o torto di questi o di quelli in base a precise citazioni o a puntuali excursus storici con tanto di nomi e date a riprova di, a dimostrazione che, eccetera. Qualunque sia la genesi di quanto accade oggi, i fatti, nella loro cruda sostanza, sono chiari e visibili. Da una parte c‘è un ―gigante‖ a livello economico, tecnologico, diplomatico, militare (atomica compresa). Dall‘altra una popolazione civile che, fosse anche per le cattive politiche dei suoi governanti, subisce da decenni abusi, privazioni, massacri ricorrenti, ghettizzazioni: in una parola, una lenta condanna all‘estinzione. La comunità internazionale non può non farsi carico della cosa e sforzarsi, nei modi che saranno ritenuti migliori, di risolverla fiancheggiando, con autorevolezza, le parti in causa nel corso di trattative alle quali nessuno potrà sottrarsi fino al raggiungimento di una soluzione condivisa. Certo, non sarà facile fermare le violenze; il 129 Lichtung. Luci rapimento e l‘uccisione dei tre giovani israeliani, che ha dato il via all‘ultima carneficina, lo sta a dimostrare. È molto più facile appiccare il fuoco che spegnerlo. Ma è lì che dovrà misurarsi la capacità dei governi, delle diplomazie, dell‘opinione pubblica, di tutti noi che abbiamo a cuore il popolo palestinese, di gestire e trattare con nervi saldi la faccenda (non che le altre vittime innocenti non meritino la nostra attenzione e cura, ma la sorte peggiore, ancora adesso, incombe soprattutto sui palestinesi). Non illudiamoci: uccideranno ancora, gli uni e gli altri, perché vi sono interessi nelle parti in gioco cui conviene il conflitto perenne. Ma se ci si dimostrerà capaci di non rispondere al sangue col sangue, anche l‘omicidio strumentale si rivelerà inutile e cesserà. Isolare i guerrafondai e appoggiare in tutti i modi chi spinge nella direzione della giustizia; mantenendo questa rotta, se lo sforzo sarà continuo e ampiamente condiviso, la pace conseguirà come un fenomeno naturale. Per aver espresso, in altre sedi, opinioni simili a quelle di questa nota sono stato tacciato, da alcuni compagni, di ―equidistante‖, di ―filoisraeliano‖, di stare ―dall‘altra parte della barricata‖; e, da filoisraeliani (ebrei e non), di ―antisemitismo‖. Entrambi questi estremi, che si confutano a vicenda lasciando sospeso e improbabile un giudizio che voglia essere fondatamente univoco, la dicono lunga sulle posizioni non pacifiche né concilianti degli accusatori: faccio distinguo poco ortodossi, e dai compagni vengo sospettato di trescare con la parte avversa, mentre per i filoisraeliani continuo a essere antisemita e basta (anche l‘ONU delle risoluzione contro i nuovi insediamenti lo sarebbe, a sentire i più esagitati tra loro); e poiché ciascun fautore delle due parti coinvolte sente di avere sacrosanti motivi per essere nel giusto, vive come sconfitta qualunque traccia di cedimento, fosse anche espressa in termini di analisi un po‘ meno scontata di quella che gravita nell‘ambito della soluzione bellica. Come si fa a voler aiutare la pace e a non essere in grado di vedere che senza uno sforzo per uscire dalla logica della contrapposizione frontale si torna al drammatico stallo di ora? Se non proveremo, tutti, a rinunciare a una quota tollerabile delle nostre più legittime 130 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 ragioni sarà difficile pervenire a una soluzione praticabile e duratura. Certo, per riuscire davvero in questa impresa sarebbe fondamentale un‘analisi spietata e pubblica che individui, con sempre maggiore precisione (quindi senza la scorciatoia della propaganda) quali sono i governi e i gruppi di potere cui conviene, e perché, un conflitto perenne. Potrebbe derivarne una sorta di grande dialogo collettivo sempre più circostanziato e preciso, grazie ai nuovi contributi, che non lascerebbe spazio, decantati degli inevitabili tentativi di inquinamento, a nascondimenti, elusioni, trucchi, come una ―Wikipedia della verità‖ costruita con l‘appassionata decisione dei più di farla finita coi fabbricanti di morte. Quinto ― Tra settembre e ottobre 2014, sulla mia bacheca di facebook pubblico questi due post: ―Il concetto di «orizzonte» può essere alterato da un semplice torcicollo; il concetto di «visuale», da un piccolo grano di polvere nell‘occhio. Ma a correre più pericoli è il concetto di «concetto», con quella contrazione lessicale che rischia di lasciare lontano il suo trarre origine da «concepito», così adatto a ricordare, invece, quanto ogni concetto sia figlio (come noi) di una dualità che rende parziale la nostra sola partecipazione, ed errato il crederla bastevole. Andiamo a cercare, dunque, per ogni concetto che facciamo nostro, l‘altro che assieme a noi l'ha messo al mondo, l'interlocutore sconosciuto col quale, senza saperlo, ragioniamo‖. ―Pensare filosoficamente non è andare a caccia di visioni del mondo con un armamentario sapienziale raffinato e potente, ma spogliarsi via via proprio di ogni armamentario per diventare — da inoffensivi — il più possibile capaci di accogliere le ricchezze dell‘insolito che potrebbero non stare necessariamente nei ristretti obiettivi di un progetto (anche ambizioso) ma lì dove alla nostra intelligenza — fattasi inerme e recettiva — di colpo è consentito accedere. Il pensiero filosofico, quindi, non si attiverebbe con «io cerco» ma con «io mi metto in condizione di essere trovato»". 131 Lichtung. Luci Sesto ― Su Repubblica on line del 7 novembre 2014 leggo la seguente notizia: ―Città del Messico ― Sono stati uccisi da sicari del gruppo di narcotrafficanti Guerreros Unidos i 43 studenti scomparsi lo scorso 26 settembre da Iguala, nello stato messicano di Guerrero. E i loro corpi sono stati dati alle fiamme. Il procuratore generale federale, Jesus Murillo Karam, ha reso noto che tre uomini arrestati nei giorni scorsi nell'ambito dell'inchiesta hanno confessato di essere gli esecutori della strage. «Sono conscio dell'enorme dolore che può arrecare questa notizia», ha detto Murillo aggiungendo che i tre ― tutti appartenenti al gruppo narco Guerreros Unidos ― hanno raccontato di aver preso in consegna i ragazzi, fermati dalla polizia municipale di Iguala, e di averli portati nella vicina località di Cocula. Circa 15 sarebbero morti per asfissia prima di arrivare alla discarica dove sarebbero stati uccisi gli altri. «I detenuti hanno detto che hanno gettato i corpi nella parte bassa della discarica, dove li hanno bruciati. Hanno fatto turni di guardia per assicurarsi che il fuoco bruciasse per ore, versandoci sopra combustibile, pneumatici e altri oggetti», ha riferito il procuratore, sottolineando che alcuni studenti erano «ancora vivi quando è stato dato loro fuoco». Le fiamme hanno bruciato tutta la notte e il calore sprigionato era tale che i sicari hanno dovuto aspettare la sera del 27 settembre per rimuovere le ceneri, spezzare i resti delle ossa e versarli in buste nere di plastica per la spazzatura, che hanno poi gettato nel vicino fiume San Juan, dove sono state ritrovate da sommozzatori della polizia. Murillo ha aggiunto che lo stato dei poveri resti degli studenti rende difficile l'identificazione e che saranno inviati a un laboratorio specializzato in Austria per analizzare le tracce di Dna. Gli studenti, tutti sui 20 anni, erano stati arrestati da agenti corrotti e consegnati ai membri del potente cartello del narcotraffico locale. La polizia, nei giorni scorsi, aveva arrestato l'ex sindaco di Iguala, Josè Luis Abarca, e sua moglie con l'accusa di aver ordinato l'omicidio dei giovani colpevoli di aver organizzato una contestazione durante un 132 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 suo comizio. Ancora latitante il responsabile della sicurezza pubblica dell'ex primo cittadino‖. Settimo ― Se anche tentassi un recupero in extremis di temi più direttamente relativi al ―senso dell‘arte e della bellezza‖ non riuscirei a nascondere in modo credibile il mio niente da dire in proposito. Ho vaghi ricordi di una loro ―poetica‖ trattazione nell‘ordine alfabetico dei Sillabari di Goffredo Parise, ma non posso verificare, ché i libri sono a Roma e io, ora, vivo a Bruxelles. Né sento di rifugiarmi nella bellezza del Parc de Woluwé coi suoi laghetti di folaghe e cigni, col pieno sole di oggi, così raro qui dove Jacques Brel ha potuto scrivere versi memorabili come: ―Avec un ciel si gris qu´un canal s´est pendu / Avec un ciel si gris qu´il faut lui pardonner‖. E al dunque fungono solo da appoggi per la resistenza, i pochi libri portati da Roma che sorvegliano, accanto al pc, il lavoro di scrittura: i racconti di Witold Gombrowicz, Bacacay, Mammifero italiano, di Giorgio Manganelli, il Manuale di Epitteto con la traduzione di Giacomo Leopardi, Ognuno incatenato alla sua ora, della poeta di etnia Jenish Mariella Mehr. Sulla pagina luminosa del display una storia in corso, fra le tante possibili, registra quanto segue: «Il peso che lo schiaccia, però, non riguarda in modo generico gli altri; non sottoscriverebbe mai, lui, ―l‘enfer, c‘est les autres‖, troppo teatrale e fredda, come pena, per sentirsene rappresentato, troppo generica e connessa a tempi ormai lontani e quasi fortunati, a misurarli col dolore di adesso, no, lui sa fin troppo bene che il ‗suo‘ inferno in realtà sono i ‗suoi‘ altri, i mediocri e così a lui somiglianti altri che è riuscito a convogliare, col massimo degli sforzi, accanto all‘intero corso della sua vita, e dio solo sa quanto avrebbe desiderato, invece, la presenza di qualche figura ammirevole, e grande, e luminosa, anche, a dargli lustro, una figura a lui rivolta e con lui in palese contatto e intima condivisione, che per sola virtù di somiglianza, per minima adiacenza d‘ombre, fosse riuscita a farlo apparire, agli occhi del mondo, meno miserabile e fallito di quanto ormai sa di essere; e in un modo, teme, definitivo». 133 Lichtung. Luci La finzione salva dalla realtà, sempre, ma tende a prosciugare chi la agisce senza l‘uso accorto della distanza. Ridotto al minimo, mi congedo col solo memento che sono capace di opporre a questi tempi di carneficina: ―seminare gentilezza‖. 134 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Brutti filosofi di Stefano Scrima La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei. A. Camus, L‘uomo in rivolta. Socrate, padre della filosofia occidentale, era clamorosamente brutto. Così brutto che accanto alla sua sapienza negativa gli storici tenevano con particolare enfasi a ricordare questa sua qualità di satiro paonazzo, quasi come se le due cose non potessero viaggiare separate. In effetti Alessandro Magno era astuto, non saggio, e bellissimo, o quantomeno affascinante, mentre il suo maestro Aristotele aveva gli occhi piccoli e troppo vicini. La bruttezza pare un viatico per la riflessione, non c‘è dubbio, per quanto banale possa risultare questa verità. Mi viene in mente Leopardi. Ma è anche vero che se tutti gli uomini brutti fossero saggi per necessità, il mondo non sarebbe il porcile che è. Lasciamo dunque la parola ad un brutto illustre: [Essere brutto] mi ha reso consapevole del fatto che il mio aspetto era un ostacolo da superare. E penso che mi aiutò almeno in un modo, poiché notavo che chi si riteneva bello si accontentava del mondo cosí com‘era. I belli tutt‘al più erano riformisti. Ciò mi ha richiesto un impegno maggiore soprattutto nei miei rapporti con le donne: imparare a parlare bene, diventare – per così dire – un buon intellettuale e affascinante. Il che ha prodotto conseguenze buone e cattive. 52 52 J. Gerassi, Talking with Sartre, Yale University 2009; tr. it. Parlando con Sartre, il Saggiatore, Milano 2011, p. 76. 135 Lichtung. Luci Gira e rigira gli uomini vivono per piacere alle donne, un‘altra verità incontestabile. Sartre lo sa, e ammette di aver sviluppato le sue qualità speculative e riflessive proprio grazie al suo strabismo. E cosa fondamentale: notava che «chi si riteneva ― e qui la sfumatura necessiterebbe un approfondimento ― bello si accontentava del mondo cosí com‘era». Certo, che importa ai belli di cambiare le cose? Loro stanno bene così. Sono i brutti i frustrati che riflettono sul loro peccato originale ― i brutti Paolo, Agostino e Tommaso ci hanno fatto vedere come ― e che si inventano possibili mondi diversi. Un altro pazzo, non proprio bello, lancia il sasso e nasconde la mano: Analizzare la relazione che Sartre ha intrattenuto intellettualmente e filosoficamente con Camus e prendere in considerazione il fascino dell‘uno e la bruttezza dell‘altro (come lo stesso autore di Parole ha confessato), non spiegherebbe sicuramente tutto, ma non sarebbe privo d‘un certo interesse. 53 Onfray è convinto che Sartre fosse invidioso di Camus perché era bello (e quindi stupido?). È qualcosa di plausibile, perché no? La vita e i rapporti umani sono fatti, prima che di ragione, di chimica. Fatto sta che Camus, bello, filosofava. Che scandalo. E tra l‘altro, proprio come dice Sartre ― stando alle prime opere dell‘algerino ― il mondo a lui andava proprio bene così com‘era: non bisogna sperare, anzi si deve accettare l‘assurdo. Poi con gli anni, forse con la vecchiaia portatrice 53 M. Onfray, L’Ordre libertaire. La vie philosophique d’Albert Camus, Flammarion, Paris 2012; trad. it. L’ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus, Ponte alle Grazie, Milano 2013, p. 440. 136 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 di decadenza e bruttezza, le cose cambieranno anche per lui. Camus, bello, giovane, sulla spiaggia, attraverso il personaggio di Patrice del romanzo incompiuto La morte felice accordava i battiti del suo sangue alla violenta pulsazione del sole delle due e, sprofondato tra gli odoro selvaggi e i concerti degli insetti sonnolenti, guardava il cielo passare dal bianco all‘azzurro puro e poi subito svaporare fino al verde e riversare la sua dolcezza e la sua tenerezza sulle rovine ancora calde. […] Non riusciva a immaginare eternità né felicità sovrumana fuori dalla curva delle giornate. La felicità era umana e l‘eternità quotidiana. Tutto stava nel sapersi umiliare, nel coordinare il proprio cuore al ritmo delle giornate invece di piegare il loro alla curva della nostra speranza. 54 Sta così bene con se stesso che non ha senso, per lui, sperare in niente di meglio. E invece Sartre alla stessa età, già brutto, era anche già nauseato. Di se stesso. Il caso ha anche voluto che al loro aspetto fosse assegnato un involucro adeguato: il grigio entroterra francese a Sartre e l‘assolata Algeria a Camus, metafore del disagio e dell‘appagamento. In realtà Onfray dice che se la presero tutti con Camus perché era un povero bambino algerino e non un borghese snob, uno che non poteva aver ricevuto la stessa educazione ― come se aver letto i libri di Hegel cambiasse veramente qualcosa dall‘averne letto i riassunti o dal non averli letti affatto. Ma molto più probabilmente, dico io (ma anche Onfray è d‘accordo), perché era bello e malgrado ciò filosofava. E per giunta filosofava glorificando questa nostra vita misera trascorsa a 54 A. Camus, La mort heureuse (1936-1938, pubblicato postumo nel 1971), Gallimard, Paris 1971; tr. it. di G. Bogliolo, a cura di J. Sarocchi, La morte felice, 1ª ed., BUR, Milano 1975, p. 110. 137 Lichtung. Luci trasportare massi su per le rupi più alte, per poi, totalmente impotenti, vederli ricadere nel nulla. L‘ho già detto, poi le cose per Camus sono cambiate. E tuttavia il bel filosofo aveva mutuato questo suo sentire dalle riflessioni di un altro filosofo ― brutto! ―, un certo Nietzsche. E adesso come la mettiamo? 138 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 Gli autori Marco Baldino. Bellano (Lc) 1955. Autore di saggi e articoli sul tema della località filosofica e sul problema dell‘accesso al pensiero. Nel 1990 ha fondato la rivista italiana di geofilosofia «Tellus», che ha diretto fino al 2001. È curatore e coautore dei volumi: Geofilosofia (Lyasis, 1996); Sul liberalismo (Labos, 2000); Per una filosofia free-lance (Labos, 2001). Ha tradotto scritti di Martin Heidegger, Georges Bataille, Gilles Deleuze e Stéphane Mosès. È autore del volume Margini e paraggi. La filosofia dell‘ultimo Novecento (Aracne, 2012). Nel 2013, per la rivista spagnola Debats, ha pubblicato il saggio: ―Ernst Jünger. Por una teorìa del bandolerismo‖. Attualmente è coeditor della la rivista online Kasparhauser. Francesca Brencio (Spoleto, Italia – 1976) PhD in Filosofia e Scienze Umane, è Adjunct Fellow nella School of Humanities and Communication Arts della University of Western Sydney (Australia). Attualmente è Visiting Researcher alla AlbertLudwigs Universität in Freiburg (Germania) sotto la supervisione del Prof. Dr. Dr. Andrzej Wiercinski. Dal 2000 al 2007 ha collaborato con la cattedra di Estetica dell'Università degli Studi di Perugia, lavorando a fianco della professoressa Anna Giannatiempo Quinzio, dal 2003 al 2005 è stata socio fondatore della Scuola Umbra di Counseling Filosofico, affiliata alla SICOF di Torino, e docente nella stessa struttura per il medesimo periodo di tempo. Nel 2001 ha ricevuto la Menzione Speciale per la miglior tesi di laurea all‘interno del Premio di Filosofia bandito dal Collegio Siciliano di Filosofia e dall‘Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli; nel 2006 ha ricevuto il medesimo riconoscimento per la tesi di dottorato. Studiosa di Martin Heidegger, negli ultimi anni i suoi lavori si sono concentrati sul rapporto tra il pensiero di Heidegger e l‘idealismo tedesco, con particolare attenzione al posto occupato da Hegel nella speculazione heideggeriana. Di recente, il suo campo di ricerca si è spostato sulla relazione fra l‘analitica esistenziale heideggeriana con la psicologia e con la psichiatria, partendo dalla centralità della nozione di negatività. Accanto all‘impegno strettamente accademico si ricordano le 139 Lichtung. Luci pubblicazioni nel campo delle arti visive e dell‘estetica d‘avanguardia. È membro della Internationale Hegel Gesellschaft in Berlin, della Sociedad Española de Estudios sobre Hegel, della Sociedad Iberoamericana de Estudios Heideggerianos, dell‘International Institute for Hermeneutics e della Nordic Society for Phenomenology, del RIPA (Réseau International de Psychanalyse Appliquée) e di PIPOL (Programme International de Psychanalyse Appliquée d‘Orientation Lacanienne). Dal 2011 è collaboratrice di Libera Parola ─ Centro di Psicanalisi Applicata e membro dei C.Ps.A (Consultori di Psicoanalisi Applicata). Dal 2014 è membro della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale. Tra le sue opere, oltre ad un notevole numero di saggi pubblicati in riviste italiane e straniere, le monografie in italiano La negatività in Heidegger e Hegel (2010, Aracne), Scritti su Heidegger (2013, Aracne). In lingua inglese si segnalano: ―Care and beingin-the world: Heidegger‘s philosophy and its implications for psychiatry‖, in European Psychiatry. The journal of the European Psychiatry associations, vol. 29, Supplement 1, 2014; ―Foundation and poetry. Heidegger as a reader of Hölderlin‖, in Studia Philosophiae Christianae, 1 (2014), pp. 181-200; ―Life and negativity. The inner Teleology in Hegel‘s philosophy of Nature‖, in Revista Opinião Filosófica, vol. 5, n. 1, 2014, p. 5468; ―The nocturnal point of the contraction‖. Hegel and melancholia, in D. Skorzewski and A. Wiercinski (eds.), Melancholia: The Disease of the Soul (Lublin: KUL, 2014); ―World, time and anxiety. Heidegger‘s existential analytic and psychiatr‖, in Folia Medic‖, special issue on the XVIth International Conference on Philosophy, Psychiatry and Psychology (forthcoming 2015); ―Heidegger and Binswanger: just a misunderstanding?‖, in The Humanistic Psychologist (forthcoming 2015). Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è docente, musicista, musicologa, scrittrice, poetessa, critico letterario, artista digitale; si occupa inoltre attivamente di estetica filosofica e filosofia del linguaggio, ultimamente nell‗ottica di una ridiscussione metodologica del costruttivismo. Si è laureata in lettere con lode a Roma nel 2000 con Silvana Cirillo presso la cattedra di Walter Pedullà con una tesi dal titolo Il miracolo e la crisi: la letteratura italiana negli anni del Boom economico (1955/1965) e successivamente in 140 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 filosofia nel 2005, sempre con lode, avendo studiato estetica con Emilio Garroni e filosofia teoretica con Mario Reale, con una tesi dal titolo La concezione del Romanticismo nell‘estetica e nella critica di Benedetto Croce. Come compositrice e polistrumentista ha militato in vari gruppi di musica rock sperimentale. Ha partecipato con i Wellen alla colonna sonora di Blue(s) (1997), cortometraggio di Domenico Liggeri. Suona il basso elettrico nel gruppo di art – psychedelic rock Void Generator, con i quali ha all‗attivo Phantom Hell And Soar Angelic (Phonosphera Records 2010), Collision EP (Phonosphera Records 2011), recensiti e distribuiti ampiamente all‗estero, e la partecipazione a due compilation, Fuori dal Centro (Fluido Distribuzioni, ITA 1999) e Riot On Sunset 25 (272 Records, USA 2011). Ha collaborato per diversi anni alla rivista Musikbox in qualità di saggista specializzata in krautrock e musica cosmica tedesca. Suoi contributi di critica letteraria, storiografica e filosofica, poesie e prose, sono apparsi su Musikbox, Verde, MareNero, Scrittori Precari, Fallacie Logiche, Storia & Storici, Poetarum Silva, WSF, Neobar, Il Giardino Dei Poeti, Idee/Inoltre, In Realtà La Poesia, Atelier, Cadillac, Nazione Indiana, Kasparhauser, Filosofia In Movimento, Italian Studies in Southern Africa, Dialettica & Filosofia . È stata direttore e caporedattore del sito aperiodico Terra Di Poiesis, la cui esperienza è ormai chiusa. Attualmente dirige il blog Critica Impura all‗interno del quale, oltre all‗impegno redazionale e scrittorio, pubblica le proprie fotografie ed elaborazioni di computer art. A quattro mani con Antonella Pierangeli, a gennaio 2013 ha pubblicato per Web ― Press Edizioni Digitali l‗ebook Un anno di Critica Impura. Ha realizzato a maggio del 2013 il video di digital art Parole Salve, associato a Cose Salve, happening artistico per ricordare il terremoto dell‗Emilia patrocinato dal Comune di Reggio Emilia. Nel 2014, nell‗ordine, ha pubblicato un nuovo album con i Void Generator (Supersound, Phonosphera Records), un volume di monologhi fra i letterario ed il filosofico, intitolato Opus Metachronicum (Corrimano Edizioni, Palermo) la curatela antologica Poeti della lontananza insieme ad Antonella Pierangeli (Marco Saya Editore, Milano).Vive e lavora nei pressi di Roma. Fabio Ciriachi: poeta e narratore. Con la silloge ―Dissidenze‖, in 7 poeti del premio Montale (All‘insegna del pesce d‘oro, 1991) è tra i vincitori del Premio Montale 1990 sezione inediti. Ha pubblicato racconti: «Solo per somiglianza» in La mia città senza grazia, antologia del Premio Anna Maria Ortese 2004 (Empiria, 141 Lichtung. Luci 2005), «Un poeta all‘inferno» in Renault 4 – Scrittori a Roma prima della morte di Moro (Avagliano, 2007). Le raccolte di poesia L‘arte di chiamare con un filo di voce (Empiria, 1999), Il giardino urbano (Empiria, 2003), Pastorizia (Empiria, 2011). La raccolta di racconti Azzurro-cielo e verde-pistacchio (Edimond, 2008). I romanzi Soprassotto (Palomar, 2008), L‘eroe del giorno (Gaffi, 2010, premio Passioni), Le condizioni della luce (Gaffi, 2013). Ha tradotto dal francese l‘opera di David Mus Qu‘alors on ne se souviendra plus de la mer Rouge (Ragage/Empiria, 2005). Ha recensito libri per la Repubblica, il Manifesto, l‘Unità. Giacomo Conserva: analista, psichiatra, psicoterapeuta, essere umano. Sono nato nel 1948. A 16 anni per un anno a Chicago (e poi molti viaggi). Ho diretto l‘SPDC di Parma, e un CSM. Ho collaborato a Erba Voglio, Waves, A/traverso (prima e seconda serie), Poliscritture; nel 78/79 Radio Area a Parma. Due matrimoni; due figli. 5 anni di analisi dall‘‘80. Condirettore di ―Kasparhauser‖. Ho un blog multilingue, ―Oltre la società psichiatrica avanzata‖ [http://gconse.blogspot.it]; sono fra l‘altro membro dei gruppi Facebook ―Contro la riapertura dei manicomi‖ e ―Filosofia e nuovi sentieri‖, ―Bateson Deleuze Foucault‖, ―L‘ordine del discorso‖. Ho curato e tradotto ―Poesie‖ di William Blake (Newton Compton, 1976, 4 ristampe – l‘ultima rivista e anche in kindle). Nel 1990 ―Derive metropolitane‖ (libr. A/traverso). Mi sono negli ultimi anni fra l‘altro occupato di Ellen West, Marguerite Pantaine Anzieu, Louis Wolfson, Schreber, e di parecchie altre cose e persone. Nel 2004 ―Un approccio alle emozioni‖ e ―Nel Regno dell‘Ansia‖, anni dopo entrambe pubblicati sul mio blog; 20102011: ―Sartre, la psicanalisi esistenziale e l‘antipsichiatria‖, sul sito di Poliscritture; 2013 (aprile-maggio) 6 installments su ―La nausea‖ sul blog. Ho scritto parecchie poesie e songs, tradotto testi di Auden, Acker, George, Delany etc. Conosco inglese francese tedesco spagnolo portoghese latino greco antico, e un po‘ di russo. Ho fatto il disc-jockey. Giuseppe Crivella si occupa di fenomenologia, estetica e filosofia delle immagini. Si è laureato con una tesi su Georges Didi-Huberman dal titolo "Per inane soluta. Didi-Huberman e le eterotopie dell'immagine". Attualmente è PhD in filosofia 142 Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica Anno 3, Numero 10 teoretica presso l'Università degli Studi di Perugia, con un progetto di ricerca dedicato a Husserl, dal titolo "Verso le matrici antepredicative della fenomenologia trascendentale". Suoi articoli sono apparsi su Kasparhauser. È possibile trovare buona parte dei suoi scritti presso il sito academia. edu. Maurizio Montanari: psicoterapeuta – psicoanalista, fondatore e responsabile del centro di Psicoanalisi applicata LiberaParola (www.liberaparola.eu). Membro della Eurofederazione di psicoanalisi; collaboratore del Centro depressioni e disturbi dell‘umore di Modena; consulente e membro del Comitato scientifico nazionale LDAP, Lega Italiana contro i Disturbi d‘ansia, da Agorafobia e da attacchi di Panico; docente per corsi di formazione medici presso Scuole Regionale in formazione specifica in medicina generale; autore de Il posto del panico, il tempo dell‘angoscia. Collabora con la rivista http://www.psychiatryonline.it. Ha collaborato con alcune cattedre Universitarie (Psicologia dinamica, Medicina). Vive e lavora tra Modena e la Lunigiana. Accudisce Ginevra, nata da poco. È sempre intento a migliorare il suo tempo in maratona. Marco Nicastro (Caltagirone 1979) vive e lavora a Padova. È psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico; si occupa, nello specifico, di adolescenza e età adulta. Ha pubblicato la raccolta di versi Trasparenze (Oèdipus edizioni, 2013) e, in ambito clinico, Pensieri psicoanalitici (Arpanet edizione, 2013). Stefano Scrima è redattore della rivista filosofica ―Diogene Magazine‖ e direttore della collana ―I Quaderni di Diogene‖ per le Edizioni del Giardino dei Pensieri. Ha scritto Esistere Forte. Ha senso esistere? Camus, Sartre e Gide dicono che…, Edizioni del Giardino dei Pensieri, Bologna 2013; Sum, ergo cogito. La ―Fame rabbiosa di essere‖ di Miguel de Unamuno, in Paolo Vincieri (a cura di), Sull'identità personale, d.u.press, Bologna 2013; e curato Il mito di Prometeo. Il lavoro che c'è, il lavoro che manca, Edizioni del Giardino dei Pensieri, Bologna 2013 e il Dizionario della filosofia greca, Edizioni del Giardino dei Pensieri, Bologna 2012. 143