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il ritratto del conte

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il ritratto del conte
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Pier Massimo Prosio
IL RITRATTO DEL CONTE
commedia in quattro atti
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- Personaggi -
Vittorio Alfieri
contessa Luisa d’Albany
il pittore Fabre
il servo Elia
Annina
conte Balbo
marchesa di Priè
barone San Martino
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ATTO PRIMO
(Un vasto salone arredato con eleganza un po’ fredda con finestre che
danno sulla via e sul Lungarno. Sulla mensola del camino alcuni busti
di gesso. Sulla destra in fondo un cavalletto di pittore e una tela
coperta da un panno. Ad una finestra socchiusa sta ritto rivolto verso
la strada Vittorio Alfieri, magrissimo, tutto vestito di nero,
cinquant’anni mal portati, Dalla strada arrivano voci di passanti,
grida di venditori, canti. E’ mattino).
Scena prima
Alfieri. (alzando un braccio come recitasse e con lo sguardo ispirato
e torvo) Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto oggi non sorge il
sole... (si interrompe, ha un gesto di stizza, china il capo come per
riflettere, e poi riprende a recitare ma con diversa intonazione, con
tono più vibrante e caricato) Bell’alba è questa. In sanguinoso
ammanto oggi non sorge il sole; un dì felice... (si interrompe di nuovo,
chiude violentemente la finestra, butta via il libro che teneva in mano)
Al diavolo! (si avvia verso il tavolo, si siede, rimane immobile e cupo
per un momento) Elia! (a voce più alta) Elia..! (a voce sempre più alta
e irritata) Eliaaa...!
Scena seconda (Alfieri e il servo Elia)
Elia. (entrando dalla porta interna) Comandi, signor Conte.
Alfieri. Ma si può sapere dove ti vai a cacciare che quando ho
bisogno di te non ci sei mai?
El. Ca scusa, sor Cont, ma l’avia ciamame la Contëssa përchè...
Alf. (battendo un violento pugno sul tavolo) Parla italiano, cialtrone!
Quante volte te lo devo dire che hai da parlare in italiano? Non sei più
nel tuo borgo di zoticoni per biascicare ancora quel ridicolo dialetto!
Qui siamo a Firenze, la culla della lingua italiana, la patria di Dante e
di Machiavelli, capisci? tutti hanno sulle labbra la purissima favella
toscana, e tu continui ad appestarmi con quel barbaro gergo.
El. (impassibile, solo con un leggero inchino) Volevo dirle, signor
Conte, che la Contessa d’Albany mi ha cercato per darmi degli ordini
per la disposizione della sala e per l’accoglienza degli ospiti per la
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recita di sabato sera. Ci saranno, mi ha detto la signora Contessa,
anche i conti Balbo.
Alf. E bravi, tutti qui ad assistere allo spettacolo di Vittorio Alfieri che
borbotta le sue tragedie. Un bel divertimento davvero! Contenti loro...
Tutti questi piemontesi in esilio qui a Firenze che vengono a trovare il
vecchio poeta connazionale con un’aria di finta venerazione ma in
realtà per curiosare e spettegolare un po’...Non che non ce ne sia
motivo in questa casa, intendiamoci... Ma che seccatura anche gli
amici, anche i conoscenti quando diventi vecchio, tutte queste inutili
chiacchiere, sempre le stesse banalità, le ipocrisie... (man mano che
parla assume un’espressione sempre meno tesa e adirata). Certo, tutta
un’altra cosa quando eravamo giovani a Torino e ci si riuniva nella
mia casa di piazza san Carlo per recitare poesie improvvisate, scene di
commedie, tutto quel che ci veniva in mente. Eh, i vecchi amici..
Falletti di Barolo, Benso, Agostino e Arduino Tana.. Che matto era
Arduino Tana! Quella volta che è riuscito a far venire su per lo
scalone del mio palazzo e ad introdurre nella sala uno splendido
cavallo bianco che doveva essere il premio per chi inventava la poesia
più scollacciata… (diventando sempre più allegro) Bei tempi, eh Elia?
Quando viaggiavo per tutta Europa , da Parigi a Londra, dalla
Germania alla Svezia, dalla Russia alla Spagna, sempre di furia come
avessi il diavolo alle calcagna, sempre cercando e trovando qualcosa
di nuovo, mai stanco mai annoiato mai triste.. Ad ogni città nuovi
cavalli e nuove donne.. Ah,ah! Ti ricordi Elia, quella notte a Madrid
quando pettinandomi mi hai strappato un capello e io dalla rabbia ti ho
tirato sulla testa un candelabro che a momenti ti ammazzavo e poi ti
ho preso a pugni. Ah, ah,! quante te ne ho date, povero Elia.
El. (sottovoce) E quante ne ha prese, signor Conte.
Alf. (bruscamente) Come? ...(poi di nuovo in tono disteso) Eh sì, bei
tempi davvero, sempre di corsa come la terra mi bruciasse sotto i
piedi. Già, ma ero giovane...Anzi, eravamo giovani. Quanti anni hai,
Elia?
El. Uno più di lei, signor Conte
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Alf. Sono tanti, Elia, tanti. E senti Elia, da quanto è che non sei più
andato ad Asti?
El. Da cinque anni, signor conte.
Alf. Oh, io da molto di più, non ricordo nemmeno quando vi sono
stato per l’ultima volta. Chissà se c’è ancora la chiesetta fuori mano,
ove mi portavano a messa alla domenica, con quelle campane che
quando suonavano avevano un suono per le ore e un altro per le mezze
ore. E il palazzo in cui sono nato, mi rammento soltanto di una ampia
sala con il soffitto affrescato con delle figure di ninfe e di
pastori...Adesso che in Piemonte comandano i francesi chissà in che
condizioni sarà la mia vecchia casa, cosa ne avranno fatto quei
selvaggi, l’avranno adattata a caserma? O a stallaggio per i loro
cavalli? Quando ero bambino uno dei nostri stallieri era un vecchio di
Moncalvo che conosceva un’infinità di canzoni. Erano canzoni che
narravano di re e di pastorelle, di cavalieri e di mogli infedeli, di
amori e di guerre, di fughe e di viaggi, di paesi fiabeschi e lontani...Io
e mia sorella siamo andati tante volte nella stalla per sentirlo cantare,
stavamo lì incantati ad ascoltare quelle vecchie leggende. In
particolare ce n’era una che cantava sovente e che mi piaceva più
delle altre. In questi giorni mi è ritornata in mente ma non mi
rammento più i versi. Dovresti ricordartela anche tu, Elia, parlava di
una fanciulla innamorata di un giovane condannato a morte che non
voleva sposare l’uomo che per lei avevano scelto i suoi genitori...
El. Forse sì, signor conte , deve essere quella che incomincia così: “
Al di là di quel bosco abita una bella fanciulla, padre e madre la
vogliono maritare...”
Alf. (di nuovo furioso, battendo un fragoroso pugno sul tavolo) Parla
piemonteis, fabiòc, parla come a l’a mostrate toa mare!
El. (impassibile, con un leggero inchino) “Di là da col bòscage, na
bela fia a j’è, sò pare e soa mare la veulo maridé...”
Alf. Ecco, sì proprio quella... (di nuovo irritato e cupo) Vai via, vai
via... Esce Elia
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(ritorna alla finestra e riprende a recitare i versi del Saul, ma con
tono lento e stanco, quasi triste. Intanto è entrata da una porta
laterale la contessa D’Albany, che assiste per un momento alla scena)
Scena terza (Alfieri, la contessa D’Albany)
D’Alb. Buon giorno, conte.
Alf. (si volta seccato poi va verso di lei, e con un inchino) Contessa...
D’Alb. (si avvicina al tavolo di lavoro di ieri, sfoglia qualche carta)
Vedo che continuate a lavorare alla vostra commedia, deve
interessarvi molto perché è da due giorni che non uscite dalla vostra
camera.
Alf. Sono i privilegi della vecchiaia, contessa, il poter fare ciò che si
vuole senza troppo preoccuparsi di quello che pensano gli altri.
D’Alb. (cambiando di tono, avvicinandosi e mettendosi di fronte ad
Alfieri) Vittorio, via ,voi non siete vecchio. Si direbbe che lo facciate
apposta ad isolarvi, ad essere scorbutico con tutti. Scorbutico,
scortese, anche cattivo con tutti: con tutti, anche con me.
Alf. (con gesto di finta sorpresa) Con voi, contessa?
D’Alb. Sì, con me. Mi trattate freddamente, con distacco, come fossi
un’estranea, anzi, un’intrusa. Se vi siete scordato di tutta la nostra vita
in comune, se ciò che sentivate per me si è estinto nel vostro cuore, se
tutto ciò per voi è passato cancellato finito: ebbene, io non posso certo
costringervi a provare un sentimento che in voi non c’è più. Ma ci
sono, conte, delle convenienze sociali, dei doveri di immagine che le
persone come noi non possono ignorare.
Alf. (ironico) Ah, le convenienze sociali! L’immagine, le apparenze!
Certo certo contessa, tutte cose sacrosante,importantissime, che non
sarò io a trascurare. Ma c’è stato forse nel mio comportamento
qualche atto inconsulto, qualche villania nei vostri confronti ... che so?
Vi ho forse insultata davanti agli altri, vi ho magari in qualche modo
offesa, oppure vi ho rinfacciato vostre colpe,o, se la parola vi pare
troppo grossa, vostre mancanze?
D’Alb. (via via sempre più irritata e gelida) Certo che no, davvero
non so cosa avreste potuto rimproverarmi, se non di avere per voi
abbandonato una corona regale, e comunque...
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Alf. (interrompendola bruscamente) Mi cercavate per qualche motivo,
contessa?
D’Alb. Sì, volevo rammentarvi che il maestro Fabre verrà questa
mattina per il vostro ritratto, dopo molti giorni d’interruzione in cui
non è riuscito a trovarvi. Eccolo, è già qui.
Scena quarta (Alfieri, la D’Albany, il pittore Fabre)
Fab. Contessa, conte, i miei omaggi.
D’Alb. Stavo proprio dicendo adesso al conte Alfieri che siete venuto
per continuare a dipingerne il ritratto.
Alf. Il ritratto, quale ritratto?
D’Alb. (spazientita) Come, quale ritratto? Avete già posato più volte
davanti a Fabre.
Alf. Ah, sì, ora ricordo (si avvicina verso il cavalletto, toglie il panno,
osserva con studiata attenzione spostandosi avanti ed indietro, il
dipinto). Fabre, lei è francese, vero?
Fab. (stupito, guardando in modo interrogativo la D’Albany). Certo,
sono francese, come lei sa bene, signor conte.
Alf. Già, già (sempre osservando un po’ da una parte un po’
dall’altra la tela) Questo è proprio il ritratto di un francese, voglio
dire, non soltanto il pittore ma anche il soggetto raffigurato. Un Alfieri
francese! Questa poi!
Fab. (risentito) Se il signor conte si degnasse di dirmi cos’è che trova
di sconveniente nel suo ritratto...
Alf. Ma proprio così sono ridotto, con questo naso adunco da arpia,
quasi calvo, lo sguardo fisso da ebete... Non mi avete certo lusingato
nel raffigurarmi sulla vostra tela, signor pittore. Anzi, tanto difforme è
il modello dal ritratto che direi che per proseguire l’opera non avete
affatto bisogno che io resti in pena per un’ora davanti a voi come un
mammalucco. Addio, signori (esce)
scena quinta (D’Albany, Fabre)
D’Alb. Perdonatelo, Fabre, ma è diventato intrattabile. Ve l’ho già
detto, si rinchiude in camera sua senza voler vedere nessuno, in mezzo
ai libri e alle sue carte. Sembra che sia alla ricerca di qualcosa, ma non
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so proprio di che cosa, credo non lo sappia neppure lui. Sta scrivendo
una commedia, figuratevi, con l’umore che ha sarei curiosa di leggerla
questa commedia, chissà quanto sarà divertente...E’ una settimana
quasi che non lo vedevo. Chiuso nel suo appartamento non esce
neppure più per mangiare. Grida ad Elia di portargli qualche vivanda,
ma non permette che entri in camera, prende il vassoio e chiude la
porta. Così ormai da diversi giorni. Ieri non ha voluto nemmeno
ricevere i marchesi d’Azeglio, è vero che tutti ormai conoscono le sue
stravaganze... Peccato per il vostro quadro.
Fab. Non preoccupatevi, contessa, so bene che i grandi uomini sono
tutti balzani e strani, e Vittorio Alfieri non è certo diverso dagli altri.
Il ritratto comunque è già ben impostato, e posso ormai portarlo a
termine anche senza aver sott’occhio il modello. Piuttosto, sono
afflitto per voi, contessa, il temperamento malinconico e lunatico di
Alfieri in questi ultimi tempi temo che nuoccia alla vostra salute, alla
vostra serenità... Comunque, non certo alla vostra bellezza. Siete
incantevole come sempre questa mattina, Luisa..
D’Alb. (lasciando che Fabre le prenda la mano, e poi subito
ritraendola) Vi prego... Sapete, io ho una grande considerazione per
l’ingegno, anzi, che dico?, per il genio di Vittorio Alfieri. E ne sono
anche orgogliosa, sì, orgogliosa, perché non avrebbe potuto scrivere
quello che ha scritto, creare ciò che ha creato, senza di me... I posteri
sapranno che l’autore del Saul e della Mirra fu per tutta la sua vita
accompagnato e sorretto da una donna che si chiamava Luisa zu
Stolberg contessa d’Albany. Me lo disse anche una volta, che ero per
lui il sostegno indispensabile per la sua poesia, o qualcosa di simile.
Ma adesso che ritiene di aver compiuta la sua missione di poesia, si
vede che di me non sente più alcun bisogno, anzi si direbbe che io gli
dia fastidio.
Fab. Avete detto che sta scrivendo una commedia?
D’Alb. Già, livido e malevolo com’è figuriamoci se riuscirà a far
ridere qualcuno con la sua commedia
Fab. (accostandosi ancora all’Albany) Ma avrebbe qualcosa ben più
prezioso cui accudire che non le opere letterarie
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D’Alb. Ma lui non è di questa opinione evidentemente. E sapeste,
Fabre, come è triste trascorrere le proprie giornate con una persona
che vi ignora, che pare volervi allontanare da tutto ciò che lo riguarda,
che vi tratta con un’astiosa indifferenza. Io poi che per seguire lui ho
abbandonato un re, dico un re, e che sono ancora così pronta a dare, e
a ricevere, amore.
Fab. Trascurare una donna come voi, Luisa, è peccato che non basta a
risarcire la più grande opera poetica
D’Alb. Siete gentile, voi , Fabre, ma lo sapete, io ho quindici anni più
di voi, voi dite di amarmi, ma tra poco questo po’ di bellezza che mi è
rimasto sarà dissolta, svanita, e sarò una vecchia. Mi amerete anche
allora, Fabre?
Fab. (avvicinandosi ancora, le prende una mano e gliela bacia,
l’Albany lo guarda con indulgenza) Sì, per sempre, ve lo giuro, Luisa,
vi sarò sempre vicino
(Mentre parlano, è tornato indietro, inavvertito dai due, Alfieri, che,
non visto, li vede e ascolta quel che dicono. Si ferma, osserva, fa un
ironico inchino, poi esce di nuovo. L’Albany, sentendo passi e voci,
mette l’indice sulle labbra ad indicare silenzio, si allontana da Fabre,
e va verso la finestra come per osservare di fuori).
(…Cala la tela)
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ATTO SECONDO
(Alcuni giorni dopo, nello stesso salone dell’atto primo. Una giovane
ragazza si aggira per la stanza. Vestita all’ultima moda - 1802 - porta
un amplissimo cappello a fiori con due lunghi nastri legati sotto la
gola. Osserva i busti di gesso disposti sulla mensola, ne prende in
mano uno come per valutarne il peso, poi lo rimette con cautela al
suo posto; si ferma incuriosita davanti ad un quadro raffigurante una
scena di Roma antica; spulcia i volumi disposti sul tavolo; infine va
verso la finestra, apre il battente e, alzandosi sulla punta dei piedi,
sbircia sulla via e sul fiume. Entra Elia.)
scena seconda (Annina, Elia)
El. (rimane alcuni secondi in silenzio ad osservare i movimenti della
ragazza) Madamigella, il conte la prega di attenderlo perché in questo
momento è impegnato.
Ann. Oh, dite pure di fare con comodo, tanto non ho fretta
El. (sottovoce) Bontà sua!
Ann. (dirigendosi verso la mensola ed indicando uno dei busti) E’
quello il conte Alfieri?
El. No, madamigella, quello è il poeta Omero.
Ann. (indicando un altro busto collocato sulla mensola) Quell’altro?
El. No, quello è Dante Alighieri.
Ann. Meno male, perché ha un viso che non mi piace affatto, con quel
naso che sembra un gufo e quella ridicola berretta tirata sulle orecchie.
El. I busti, in genere, madamigella, si eseguono di uomini famosi già
defunti.
Ann. E i quadri invece possono farsi anche dei vivi?
El. (stupito) Come dite?
Ann. (indicando il quadro incompiuto di Alfieri ed avvicinandosi ad
esso) Perché scommetto che invece questo è proprio lui, il conte
Alfieri. Ho indovinato?
El. Avete indovinato, madamigella.
Ann. Ne ero sicura. Anche se in questo ritratto c’è qualcosa che non
va.
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El. Qualcosa che non va?
Ann. Sì, non so bene cosa, ma sono sicura che Vittorio Alfieri è tutto
diverso.
El. Diverso? e perché dovrebbe essere diverso?
Ann. Sì, diverso, non so, meno rigido, più allegro...più più...ecco, più
giovane.
El. Più allegro? Più giovane? E come fate, di grazia, a sapere che il
conte Alfieri ha un aspetto più allegro e più giovane di quello del
quadro se non lo avete mai visto?
Ann. (si allontana dal quadro, e dalla finestra socchiusa osserva il
passeggio sul Lungarno) E gli piace stare a Firenze?
El. (si avvicina per dirle qualche cosa, ma, udendo dei passi, va verso
la porta) Ecco il signor conte che viene.
Scena seconda (Alfieri, Elia, Annina)
Alf. (entra a capo chino dirigendosi verso il tavolo, senza accorgersi
della ragazza, apre un libro, lo sfoglia, rimane assorto sulle pagine
aperte, poi voltandosi verso la finestra si accorge della ragazza) E voi
chi siete, cosa volete, chi vi ha fatto entrare?
El. E’ la madamigella che viene dal Piemonte di cui le ho detto poco
fa.
Alf. (alzando la voce, furente) Ma quale madamigella, ma quale
Piemonte! Ma possibile che non abbia nemmeno più il diritto di stare
tranquillo in casa mia, di ricevere chi mi pare e piace, e cioè nessuno?
Quante volte te l’ho detto che non voglio, capisci, non voglio essere
disturbato (va a passo rapido verso la porta d’ingresso, ne strappa un
cartone incollato all’esterno, lo porge ad Elia) Leggi.
El. Ma signor conte...
Alf. Leggi, ti dico, leggi.
El. (legge il cartello datogli da Alfieri) “Vittorio Alfieri non essendo
persona pubblica, e supponendosi di poter essere almeno padrone di sé
in casa sua, fa noto a chiunque cercasse di lui, ch’egli non riceve mai
né le persone, né ambasciate, né involti, né lettere di quelli che non
conosce, e da chi non dipende”.
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Alf. Oh, finalmente! E allora, è inutile questo avvertimento se poi tu
fai entrare a tuo piacimento ogni tipo di sconosciuti.
El. La signorina è la figlia del cavaliere Roberto Piossasco ,e mi ha
detto che suo padre ha scritto al signor conte della sua venuta e che
quindi era attesa.
Alf. (che al sentire il nome di Roberto Piossasco si è calmato e ha
guardato con interesse la ragazza) La figlia di Roberto... E perché
non me l’hai detto subito imbecille? (rivolto alla ragazza) E perché
non l’avete detto subito voi? Non siete mica muta?
Ann. (coprendosi la bocca con la mano come per nascondere il riso)
Muta, no, per grazia di Dio... Ma l’avevo detto io!
Alf. Che cosa avevate detto?
Ann. Che voi non eravate così vecchio come vi rappresenta quel
quadro.
Alf. E come facevate a saperlo prima di avermi visto?
Ann. Ma perché non può diventar vecchio chi ha scritto quello che
avete scritto voi, la gioventù che circola nelle vostre opere, nei vostri
personaggi non può aver abbandonato l’autore, deve ancora e per
sempre scorrere nelle vostre vene, riscaldarvi il cuore... O è meglio
dire i precordi ?
Alf. I precordi? Ma dite come volete! Ma quindi voi le avete lette le
mie tragedie?
Ann. Se le ho lette? Ma le so a memoria. Non ci credete? Allora ve lo
dimostro (togliendosi il cappello e prendendo una posa oratoria)
Vediamo, ecco: Ottavia, atto quinto: “Tu Nerone, i miei detti ultimi
ascolta. Credimi, or giungo al fatal punto in cui cessa il timor né il
simular più giova...”
Alf. Basta, basta, per favore, le mie tragedie le conosco meglio di voi,
non ho bisogno di sentirmele recitare. Ma sedetevi,per favore, non
state sempre in piedi. (rivolto ad Elia) E tu va (Elia esce)
scena terza (Alfieri, Annina)
Alf. Così, voi siete la figlia di Roberto Piossasco
Ann. La figlia di Roberto Piossasco, signor Conte.
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Alf. E venite da Torino.
Ann. Da Torino, signor Conte.
Alf. (irritato) Per favore non ripetete sempre quello che dico... Torino,
ma che bella città sarà diventata dopo che è stata annessa alla Francia,
alla grande Nazione Francese (ride con scherno). Torino francese!
Oltre a sopprimere i conventi e a prendersela con le suore ed i preti e
ad abbattere i monumenti cos’altro fanno a Torino i francesi? Ma
come fa vostro padre, che da giovane vedeva i francesi come il fumo
negli occhi, come fa a vivere in mezzo a tutto quel gallume che c’è a
Torino?...Beh, ma non parliamo di politica... Voi che cosa siete venuta
a fare a Firenze?
Ann. (un po’ imbarazzata) Penso che nella lettera che mio padre vi ha
inviato, vi abbia spiegato le ragioni del mio viaggio sin qui.
Alf. (brusco) Sentite, madamigella, io sono molto occupato, e non
posso certo ricordare tutto ciò che mi scrivono i miei corrispondenti,
se volete essere quindi così cortese da illustrarmi brevemente in che
cosa io possa esservi utile.
Ann. (non riesce a trattenersi dal ridere)
Alf. E cosa c’è da ridere?
Ann. Scusate, signor Conte, ma siete così buffo quando v’irritate.
Diventate rosso sino alla radice dei capelli, ma è un colore che si
sposa alla perfezione con il vostro abito nero.
Alf. Sapete che in tutta la mia vita, non mi pare che qualcuno mi abbia
mai definito “buffo”? (mettendosi più comodo sulla sedia la guarda
fisso). Dunque, mi stavate dicendo, ah sì... Parlavamo del motivo della
vostra venuta a Firenze e della vostra visita.
Ann. (con gli occhi bassi) Mio padre ha pensato che era ora che io
girassi un po’ per l’Italia. Sapete, io non mi sono mai allontanata da
Torino, e amo molto l’arte, io disegno e frequento la scuola del
Pecheux, e mi è stato detto che per migliorare la mia tecnica avrei
dovuto vedere e copiare quadri e sculture di grandi artisti che si
trovano in Firenze. E mio padre, confidando nella vostra vecchia
amicizia, ha pensato che avreste per un po’ di tempo potuto ospitarmi
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presso di voi.. Anche perché io sono una vostra grande ammiratrice e
ho letto tutte le vostre tragedie...
Alf. Sì, sì, questo me lo avete già detto… (cammina sempre
guardando la ragazza, squadrandola) Quindi, voi sareste venuta da
Torino sino a Firenze per studiare l’arte e per vedere i capolavori di
Giotto e di Michelangelo...
Ann. (con un po’ di imbarazzo) anche per questo certo.
Alf. Non solo per questo quindi.
Ann. Beh, anche perché avevo piacere di allontanarmi un po’ da
Torino
Alf. E perché mai?
Ann. Voi sapete, Torino è una città pettegola si parla e si sparla di
tutto. Per farla breve e per non rubarvi del tempo prezioso, ho rotto il
fidanzamento, e poiché come potete immaginare, data la notorietà
della mia famiglia, questo fatto ha provocato in città chiacchiere e
commenti a non finire, mio padre per togliermi un po’ da questo
ambiente soffocante, e per risparmiarmi l’onta di maldicenze ha
pensato di mandarmi via per un po’ di tempo. Anche se, vi assicuro,
mi sento scevra d’infamia, e d’alcun delitto non rea perché non ho mai
smarrito le prische orme di virtù verace.
Alf. Virtù verace? Scevra d’infamia? Ma come parlate?
Ann. Ma come i personaggi delle vostre tragedie!
Alf. Ma volete capirlo che qui non siamo sul palcoscenico e che noi
due non siamo i personaggi di una tragedia? Non crederete mica che
io usi quell’assurdo linguaggio quando chiamo il mio servo per farmi
lustrare gli stivali o sono dal mio barbiere? ...Allora: come mai avete
litigato con il vostro fidanzato?
Ann. Ma, sapete, era molto geloso, stava via per lungo tempo e non
voleva che io mettessi piede fuori casa.
Alf. E voi invece...
Ann. Capirete, io in quelle lunghe sue assenze mi sentivo sola e mi
annoiavo a morte... e allora...
Alf. Ho capito, ho capito... E’ così avete pensato bene di allontanarvi
per un po’ da Torino e trasferirvi qui a Firenze. (si alza e cammina su
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e giù sempre osservandola pensoso. Annina lo sbircia tra il curioso ed
il preoccupato. A un certo punto si ferma come se fosse stato colpito
da un’idea improvvisa) A voi piace recitare mi pare di capire,
Madamigella... Come avete detto che vi chiamate?
Ann. Non ve l’ho detto: Annina.
Alf. Dunque, Annina, voi sareste propensa a recitare una mia
tragedia?
Ann. Oh sì, tanto, è sempre stato il mio sogno poter impersonare la
parte di una eroina dei vostri drammi. Per esempio Mirra, “Deh! Non
mi torre ad esso, o dammi tosto a morte...”
Alf. Sì, va bene, va bene... Sì, si può fare. Cosa ne direste, Annina, di
rimanere un po’ qui con noi, aspettando che nel vostro paese le acque
si calmino, e magari potreste anche darmi una mano nei miei lavori e
forse anche recitare insieme a me. Già (ridacchia tra sé) potremmo
anche recitare insieme in uno di quei sabati sera quando tutti vengono
qui da noi... Il palazzo è grande, vi faccio preparare una stanza tutta
per voi.
Ann. (alzandosi gioiosa) Veramente signor conte? Oh come sono
felice, ve ne sarò per sempre riconoscente.
Alf. Bene! Elia! (entra Elia)
scena quarta (Elia, Alfieri, Annina)
Alf. Prepara la camera al secondo piano, quella con la tappezzeria blu.
Da stasera la signorina sta qui con noi, e quella camera sarà a sua
disposizione. Accompagnala intanto. (Annina si inchina, poi insieme
ad Elia si avvia verso la porta. Ma prima che siano usciti, Alfieri è
come colto da un improvviso pensiero).
Alf. Ah, Annina, dimenticavo.
Ann. Signor Conte?
Alf. Quanti anni avete?
Ann. Ventitré per servirla, signor Conte.
Alf. Grazie, andate pure. (escono Elia e Annina)
scena sesta (Alfieri)
Alf. (va verso la finestra e si ferma) Ventitré anni: trenta rotondi meno
di me. Già, già (tamburella sul davanzale mentre cala la tela).
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(…Cala la tela)
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ATTO TERZO
(in una camera del medesimo palazzo alcuni giorni dopo)
scena prima
(Alfieri e Annina stanno provando l’Antigone, lui seduto al tavolo , lei
in piedi con la schiena appoggiata alla finestra)
Alf. Qui dovete apparire più aggressiva, anzi cattiva. Riuscite ad
essere cattiva, Annina?
Ann. Qualche volta mi è riuscito (riprende a recitare con calore,
Alfieri la guarda interessato)
Alf. Dite, cosa trovate nelle mie tragedie che vi entusiasma tanto?
Ann. Cosa trovo, conte? Trovo la forza, la forza di chi non si arrende
davanti al misero destino dell’uomo, di chi anela a liberarsi dalle
catene che porta sin dalla nascita per salire in alto, su nel cielo
azzurro, tra le nubi candide. Ecco, a leggere le vostre tragedie mi pare
di sollevarmi da questo basso mondo e volare lassù in mezzo alle
nubi. Mi fanno scordare le vostre tragedie ogni ipocrisia ogni
meschinità ogni stanchezza...
Alf. Danno il caso invece che io mi senta stanco e vecchio!
Alf. Voi vecchio? Via, non fatemi ridere, basta guardarvi per rendesi
conto che non è vero.
Alf. Ah sì?
Ann. Sì. Ed è per questo che appena ho visto quel vostro ritratto nel
salone, ho avvertito subito, senza avervi conosciuto prima, che era
sbagliato, che il pittore non aveva capito niente di voi, che era
insomma un’immagine falsa. Non aveva colto il vostro animo, il senso
della vostra gloria. Scommetto che quel pittore non ha mai letto le
vostre tragedie.
Alf. La gloria, dite voi, la gloria. Ma io darei tutta la mia cosiddetta
gloria, tutto ciò che ho scritto per poter ritornare ad essere come ero
trent’anni fa, come siete voi oggi, giovane e gaia. Purché tornasse a
scorrermi nelle vene il fuoco della mia gioventù. Ma cosa volete che
mi importi in fondo di questi omaggi, di queste adulazioni, di questi
riconoscimenti. Cosa volete che me ne faccia di diventare membro di
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questa o quella accademia? Quando ogni mattino è un’alba grigia,
coperta di nebbia, e quando la nebbia va via, sempre lo stesso
immutato spettacolo, mai alcunché di nuovo, di imprevisto, di gioioso.
E la certezza che sarà sempre così, sempre sino a che...Ma perché vi
dico queste cose? A voi cosa importano? La differenza tra me e voi,
tra la mia vita e la vostra è esattamente quella che c’è tra i colori dei
nostri vestiti.
Ann. Il nero vi sta benissimo.
Alf. Appunto, un abito da lutto. Se si sapesse come le medesime cose
appaiono tutte differenti viste da giovane e da vecchio
Ann. (avvicinandosi ad Alfieri) “ Oh,! Quanto in rimirar le umane
cose, diverso ha giovinezza il guardo dalla canuta età!”
Alf. (seccato) Volete smetterla di citare i miei versi?...Vedete, quando
ero giovane, mi ripromettevo di raggiungere due traguardi. Il primo
era quello di diventare un grande poeta.
Ann. E lo siete diventato!
Alf. Così dicono. Ma quale delusione!
Ann. Delusione? Volete dire che siete deluso di ciò che avete scritto?
Alf. Si è sempre delusi di ciò che si scrive. I miei personaggi non
riescono mai a esprimere quel che io vorrei, tra il creatore e le sue
opere, tra me ed i personaggi delle mie tragedie si frappone un solco
invalicabile, un’impossibilità di coincidere, cosicché mi lasciano
invariabilmente insoddisfatto, scontento. E poi pur se non ci fosse
questo ostacolo: che senso ha la poesia? Che senso ha creare anche
personaggi ed opere immortali, quando poi noi dobbiamo invecchiare
e morire e scomparire? Sono forse riuscito con la mia poesia a non
invecchiare? Riuscirò a non morire?
Ann. E il secondo traguardo?
Alf. (un po’ distratto) Quale traguardo?
Ann. Avete detto che oltre a diventar un grande poeta da giovane
c’era anche qualcos’altro che bramavate raggiungere.
Alf. (di malavoglia) Ho detto così? Beh, non so proprio a cosa volessi
riferirmi. (rimane per un po’ assorto, poi fa un gesto come per
scacciare un pensiero molesto)
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Ann. (va verso un comò ove sono disposte varie carte, modelli in
argilla di cavalli, alcuni ritratti. Annina prende un cammeo con un
ritratto di donna, lo osserva con interesse)
Ann. E’ quella dama londinese per cui vi siete battuto a duello anche
se avevate un braccio fasciato?
Alf. E voi come fate a saperlo?
Ann. (ridendo) Via, signor Conte, ma voi volete che a Torino non si
conoscano le vostre avventure, oltre che le vostre tragedie beninteso!
Sapete che a Torino si parla di voi con ammirazione profonda, anzi
con venerazione per il vostro genio poetico, ma anche con qualcosa
che più che rispetto direi timore, se non addirittura paura? Persino
quel pallone gonfiato del governatore francese, Jourdan, una volta
discorrendo con mio padre, come lui vi ha nominato si è quasi messo
sull’attenti, figuratevi! Sì, si direbbe che voi facciate un po’ di paura a
tutti.
Alf. Faccio paura anche a voi?
Ann. (sta un po’ in silenzio, come riflettendo) Sì, un po’ mi fate paura.
Ma è forse per questo che... (si interrompe e lo osserva) E’ vero che
una volta i vostri capelli erano rossi come il fuoco?
Alf. Ah, già, dimenticavo che adesso sono quasi calvo. Sì, erano rossi
i miei capelli. Perché mi fate questa domanda?
Ann. Ne ero sicura. Uno come voi non può che avere i capelli rossi.
Alf. Mi interrogate sempre di quando ero giovane, e cioè tutto diverso
da come sono oggi. Sapete quanti anni ho?
Ann. Certo che lo so, avete un anno meno di mio padre, me lo ha
detto lui.
Alf. Appunto, potreste essere mia figlia.
Ann. Sarà, ma sta di fatto che non lo sono.
Alf. E anche questo è vero.
Ann. L’avete amata molto?
Alf. Chi?
Ann. La moglie del lord inglese.
Alf. (brusco) Basta, parliamo d’altro. Ma non mi avete ancora chiarito
perché avete rotto il vostro fidanzamento.
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Ann. Ve l’ho detto che il mio fidanzato era gelosissimo, senza,
credetemi, che ve ne fosse alcun motivo. Figuratevi che a Carnevale
mi ha fatto una scenata perché mi ha trovata abbracciata sul divano
con un suo amico, che era il barone di Valdieri...
Alf. Beh, mi pare un giusto motivo per essere geloso.
Ann. Ma no, cosa volete, a Carnevale uno beve un po’ di barolo, i
fumi del vino, la testa che ti gira, ma vi assicuro che il mattino dopo
non ricordavo neppure che faccia avesse il barone di Valdieri.
Alf. (guardandola fisso) Già.
Ann. Non siete d’accordo? Non vi pare sia assurdo annullare un
fidanzamento per una sciocchezza del genere? Ditemi voi! Ma voi
sareste così sciocco da rompere la vostra relazione con la contessa se
la vedeste per una volta soltanto abbracciata con un uomo, per
esempio con quel pittore che le sta sempre dietro, Frab..Fabre, come si
chiama?
Alf. Come, come? (prima diventa rosso in viso dalla collera, poi
incomincia a ridacchiare, ride sempre più forte). Ah, ma allora lo
sanno proprio tutti!
Ann. Come dite?
Alf. Nulla, nulla. Ma sì, penso proprio che abbiate ragione voi,
Annina. (guardandola con attenzione) Siete davvero deliziosa con
quell’abito.
Ann. (guardandolo fisso in volto, sorrident) Bontà vostra, signor
Conte.
Alf. Bene, adesso riprendiamo a recitare. Dicevo che in questo passo
dovete mostrarvi non sottomessa anzi decisa. Emone vi ama e
vorrebbe sposarvi ma voi, Antigone, non potere accettare l’amore del
figlio del tiranno distruttore della vostra famiglia: (Alfieri recita un
brano della tragedia Antigone nella parte di Emone) “ E che? Sì
cruda contro a te stessa e contro a me sarai?”
Ann. (nella parte di Antigone gli risponde) “...Emon, no ‘l posso..A
me crudel non sono: Figlia d’Edippo io sono. Di te duolmi; ma
pure...” (continuano a recitare la tragedia sempre più infervorandosi,
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sino alla fine della scena, quando vengono a trovarsi vicinissimi, viso
contro viso. Alfieri la stringe e la bacia)
Alf. Per oggi le prove di recitazione sono terminate. Andiamo a
prenderci un po’ di riposo
Ann. (ridendo e facendo un leggero inchino) Agli ordini, signor
Conte.
(escono Alfieri e Annina)
scena seconda
(Alfieri solo nel suo studio, seduto alla scrivania mentre sta
scrivendo. Di continuo si interrompe , posa la penna, guarda alla
finestra, riprende a scrivere)
Alf. Una volta, quando mi balenava alla fantasia l’argomento di una
tragedia, era come fossi invasato da un nume che mi dettava quel che
dovevo scrivere, non pensavo più ad altro, come il mondo più non
esistesse, e le battute e le scene e gli atti scivolavano via rapidi e felici
l’uno dopo l’altro sino alla conclusione. Quando ho scritto
l’Agamennone sono arrivato all’ultima scena quasi senza
accorgermene. Ispirazione la chiamano...Ma dovrebbero dire calore,
vigore, allegria... Ecco la parola giusta: allegria. Proprio quello che mi
ci vorrebbe per portare a termine questa stupida commedia. Le parole
sembra mi debbano essere tirate fuori dalle viscere, con le pinze, tanto
faccio fatica a scriverle. Buttar tutto via... Eppure se non scrivo...
(riprende la penna in mano e si china sul foglio. Si sente bussare alla
porta). Cosa c’è?
Elia (dall’esterno dell’uscio) La contessa mi prega di chiederle se
vuole venire a cena.
Alf. No, dille che non vengo. (si sentono i passi di Elia che si
allontana) .Ma perché non mi lasciano in pace? (butta la penna sul
tavolo, si alza, va verso la finestra, apre, si affaccia) Che giorno è
oggi, martedì, mercoledì? Sono tutti uguali ormai. Dovrebbe essere un
mercoledì, il giorno in cui Fabre viene per farmi il ritratto. Uhm...
Fabre... Ma sì, così lo lascio un po’ solo con la contessa... Chi lo
direbbe che una volta ero geloso, gelosissimo delle mie donne? Già,
ma anche per essere gelosi bisogna essere giovani. Come a Londra,
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tanti anni fa, un duello nel parco di San Giacomo ho affrontato per una
donna che poi, quando io ero distante, andava a letto con il suo
stalliere. Ma forse, anche allora io mi ero accorto di tutto e facevo
finta di non sapere. Perché lei era molto bella, certo, e io volevo
illudermi. Ma guardando da qui e adesso, da questa desolata sponda
grigia in cui mi trovo oggi a quei giorni ho la sensazione di vedere
svolgersi davanti ai miei occhi una avvincente opera teatrale, bella
come forse io non sono mai riuscito a scriverne, di cui ero autore,
protagonista, spettatore. Quel duello con il lord suo marito... Il parco
verdissimo con il sole che tramontava là in fondo e mi accecava la
vista e il vento che mi portava il profumo dei tigli, lui impettito come
una marionetta col cappello a tricorno e la lunga blusa verde coi
bottoni dorati, io con un braccio fasciato al collo che menavo fendenti
a più non posso...E questo mentre lei magari in quel momento se la
spassava con lo stalliere...Che tempi... Tempo di passioni, di amore, di
tragedie quello, tempo di commedia e di ridicolo questo. O magari
forse è il contrario, allora era commedia, adesso c’è la tragedia. Ah,
ah! Se sfidassi a duello Fabre, lui così compito e stirato... Ah,ah! In
guardia cavalier Fabre, alle armi, fellone, l’onore macchiato si può
lavare soltanto con il sangue, sul filo di queste spade decideremo di
chi sarà la contessa... Ah, ah, ah! Eh, no davvero, non potrei più
scrivere una tragedia oggi, se ci provassi che cosa ridicola ne verrebbe
fuori... (guarda dalla finestra, è il tramonto) Tutto è diverso da come
era una volta, diverso e meno bello. Anche il tramonto, anche il sole,
le nuvole, il cielo. Era forse un così sciocco ed insipido tramonto
come questo quando cavalcavo per le colline di Torino in quelle sere
di primavera, attraversando i boschi e le forre sino a Superga e sul
fondo dietro le montagne ancora bianche di neve calava un sole
fiammante maestoso regale... altro che questo penosissimo solicino in
questo smorto celuccio (da fuori si sente un canto di voce femminile.
Rimane ad ascoltare) La musica, la musica... Come mi scaldava il
cuore la musica. Potrei dire che ho scritto quasi tutte le mie tragedie
ascoltando musica. La prima volta che a Torino sono entrato nel teatro
del Re, accompagnato da un mio zio, come l’orchestra incominciò a
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suonare le prime note quella melodia così mi avvinse che ne rimasi
affascinato sino alla fine. Chissà che opera era, ricordo solo che si
trattava della storia di una regina che moriva avvelenata e la cantante
veniva in scena in un abito lunghissimo e sfavillante di ori, era
bellissima quella soprano tanto che tra la bellezza di lei e quella della
musica alla fine dell’opera me ne ero innamorato. Tutta la notte non
riuscii a chiudere occhio, quella sublime musica era penetrata in me
come una fatata pozione. (Sta ad ascoltare il canto che prosegue, poi
di colpo chiude la finestra) Ma che voce sgraziata! Che musica
insipida! (torna a sedersi alla scrivania) Da un po’ di tempo a questa
parte mi tornano in mente episodi lontani, insignificanti, ma chissà
perché non riesco a cacciarli dalla memoria. Il fatto è che incomincio
ad amare i miei ricordi più di quel che sarebbe opportuno. Segno
indubbio, anche questo, di vecchiaia. Sono parole, suoni, volti, gesti...
improvvisi ed imprevisti come un lampo e tenaci come una cantilena.
Quando andavo a trovare mia sorella Giulia che era al monastero di
Santa Croce a Torino, passavo davanti all’altar maggiore e mi
fermavo al coro delle monache. Qui nell’oscurità della cappella e
mentre attendevo che mia sorella si affacciasse alla grata, diventavano
a poco a poco visibili le forme di un grande affresco che risaltava nel
buio come una macchia chiara. Era una grande pittura sacra che non
ho mai più rivisto con Cristo e gli apostoli in primo piano ed una folla
accalcata sullo sfondo. Ma quel che mi attraeva nel dipinto era il viso
di una fanciulletta dall’espressione più che seria, afflitta, come fosse
sul punto di scoppiare in lacrime. Mi pareva che guardasse proprio me
e che mi chiedesse comprensione e aiuto, anzi amicizia e affetto.
Stavo lì a lungo ad osservare quel volto di fanciulla implorante, e così
ne rimanevo turbato e rabbioso per la mia impotenza nell’aiutarla, che
una volta scoppiai io a piangere, con singhiozzi e lamenti irrefrenabili
tanto che una monaca accorse in ansia per vedere cosa era successo.
Sapevo piangere, un tempo, ma sapevo anche ridere, sapevo amare, e
odiare... Ma adesso... Non ho neppure più voglia di incollerirmi, di
diventar furioso, non ne vale più la pena. Una cupezza smorta e
rassegnata, ringhiosa e imbelle, ecco qual è il mio atteggiamento
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odierno di fronte al mondo. Da quand’è che non ho più amato pianto
riso? E voglio far ridere gli altri con una commedia? Ma che incanto
quel viso di fanciulletta là nel coro di Santa Croce! Forse... (si sente
bussare) Cosa c’è di nuovo?
El. (fuori dalla porta) Perdoni signor Conte ma è arrivato il cavalier
Fabre e chiede se vuole posare per il ritratto.
Alf. No, digli che ho un lavoro urgente da finire... Questa casa è
popolosissima, gente che va gente che viene, non si può stare in pace
neanche chiudendosi nella propria stanza. E pensare che una volta
dovevo farmi legare alla sedia per non uscire di casa! (si alza, va
davanti allo specchio, si guarda) Povero Fabre, forse non ha tutti i
torti, sono proprio così come mi ha dipinto nel suo ritratto: stempiato,
pelle gialla, occhi acquosi, naso lungo, pallido: “Pallido in volto più
che un re sul trono” dicevo in un mio sonetto: ma l’aspetto del re
proprio non mi pare di averlo. Magari un re spodestato, un re senza
reame, non certo un tiranno come quelli che ho rappresentato nelle
mie tragedie. Chissà se tra cento duecento anni coloro che leggeranno
le mie opere potranno immaginarsi che il ruggente Vittorio Alfieri fu
un uomo malinconico che chiuso in una stanzetta si lasciava
conquistare dalla nostalgia come una donnetta. Chissà se… (bussano
alla porta) Cosa c’è ancora? Ho detto che non ho bisogno di nulla.
Ann. (spinge la porta e entra nella camera) Sono io, posso entrare?
Alf. Siete già entrata, perché me lo domandate? Cosa volete? Le prove
di recitazione per oggi le abbiamo concluse mi pare.
Ann. Come siete brusco conte. Non vi fa piacere la mia presenza?
Alf. No, non mi fa piacere.
Ann. Conte, non preoccupatevi, io non mi stupisco, conosco bene il
vostro temperamento.
Alf. Ah sì? Meno male... Qui tutti sembrano sapere tutto su Vittorio
Alfieri, quali sono i suoi pensieri ed i suoi desideri, e perché si
comporta così e dice queste cose e qual è il suo carattere ed il suo
animo, ed i suoi gusti a tavola e le sue preferenze politiche. Un uomo
pubblico sono diventato, sottoposto agli sguardi indiscreti di tutti, alle
curiosità dei pettegoli, alle elucubrazioni dei perditempo. E neppure
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rinchiudermi nella mia camera basta a proteggermi da questa
dannazione. E voi, sentiamo, anche voi pretendete di sapere tutto su
Vittorio Alfieri. vero?
Ann. Beh, proprio tutto no! Però, ve l’ho già detto! Innanzitutto io so
a memoria le vostre tragedie, e poi vi ripeto che a Torino, anche se è
da tanto che non vi mettete piede sono ancora molti quelli che vi
hanno conosciuto e che si ricordano di voi. Figuratevi che una sera in
un palazzo di un nobile ho ascoltato una vecchia dama che in un
crocchio di persone raccontava di quando andavate a fare la serenata
alla vostra bella in piazza San Carlo con una chitarra, ma la sera dopo
sempre sotto la sua finestra la insultavate a squarciagola. (si mette a
ridere)
Alf. E adesso perché ridete?
Ann. Perché mi chiedo cosa potevate dire quando eravate tanto
furioso a quella signora.
Alf. (guardandola) I tratti del vostro volto mutano del tutto quando
ridete.
Ann. Non è questa una caratteristica degli attori?
Alf. Non solo degli attori in verità.
Ann. Sì, ho sempre avuto una grande capacità di passare da una
espressione lieta ad una triste e viceversa. Per esempio dovessi
recitare per la morte di Sofonisba: “Deh! Va: fuor lo strascina... Te’n
prego e me lascia morir qual debbe d’Asdrubal figlia entro al romano
campo”
Alf. Ma volete smetterla di citare di continuo i miei versi? Ve l’ho già
detto che le mie tragedie io le conosco meglio di voi. E poi ad
ascoltarli mi fanno sentire ancora di più l’abisso tra il Vittorio Alfieri
di una volta e quello di oggi. Ed allora, visto che pretendete di
conoscermi tanto bene sapete dirmi perché sono così scontento,
scontento di tutto, della mia opera e della mia vita, di questa casa e di
questa dannata commedia che mi sforzo di concludere?
Ann. Certo che lo so.
Alf. Ah, davvero!
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Ann. (si avvicina ad Alfieri) Perché voi vi intestardite nel ritornare al
vostro passato, continuate a far degli assurdi paragoni tra quello che
siete stato e quello che siete ora; invece di guardarvi attorno e di
accettare ciò che oggi vi circonda, che non è più ciò che avevate un
tempo ma che importa? Anche voi non siete più quel che eravate un
tempo. Per esempio prima scrivevate tragedie adesso commedie, una
volta giravate il mondo sempre di corsa, con i vostri cavalli e ... le
vostre donne, adesso siete qui in questo palazzotto in riva all’Arno.
Alf. Ebbene? Andate avanti
Ann. Perché pensate che scrivere una commedia sia cosa meno degna
di scrivere una tragedia? Perché pensate che se una volta avete avuto
come amanti donne illustri, milady, contesse.. avete corso avventure
tempestose, adesso invece...
Alf. Adesso invece?
Ann. Insomma, conte Alfieri, guardatevi attorno, e prendete quello
che la vita vi offre oggi, smettete di rimpiangere ciò che già vi ha dato
ieri. Siete proprio sicuro che ciò che oggi avete a portata di mano sia
così disprezzabile? La commedia che state scrivendo è certo una cosa
bella e...
Alf. (che è stato ad ascoltarla con attenzione crescente la interrompe)
E… anche voi siete una cosa bella Annina, vero? (la attira verso di
se) Eccome! Sapete, è strano, ma anch’io ho l’impressione di
conoscervi da tanto tempo, di avervi già vista da qualche parte.
Ann. Somiglierò forse a qualcune delle donne che avete avuto.
Alf. No, siete abbastanza bella da non aver bisogno di assomigliare a
nessuno. Ma forse avete proprio ragione voi . Basta almanaccare,basta
perdersi nel passato, in ciò che è stato e non è più. Sapete che penso
che riuscirò a finire la commedia?
Ann. Volete che vi lasci solo per scrivere?
Alf. Ma neppure per sogno! Anzi, ora mi appresto a leggervela e
voglio che mi diate il vostro giudizio. Qui ve ne dovete stare e guai se
andate via!
Ann. Non ci penso nemmeno (ridono entrambi) Conte, sapete, che
anche voi quando ridete cambiate completamente espressione?
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Alf. Ah sì? E come sono quando rido?
Ann. Siete più... più giovane ecco.
Alf. Davvero? (ridono ancora stringendosi mentre cala la tela)
scena terza (Elia nel salone)
Ël cont, a l’è diventà ancora pi mat ‘d lòn ca l’era da giovo. La
contëssa a fa la gelosa për fesse mej consolé dal pitor. Fabre fa la cort
a la contëssa come se chila a l’aveissa vint ane, a l’è sempre ‘n cà e da
sì sicur c’as bogia pi nen. La tòta ‘d Turin (fa un gesto espressivo con
la mano) lassoma perde, mej nen parlene. Tuti c’a rio, c’a crio, ca
ruso, ca coro. Che gabia ‘d mat! Che gabia ‘d mat!
Scena quarta
Fab. (tra se, guardando il ritratto di Alfieri) Mi spiace caro conte, ma
voi oggi, siete proprio così, e come volete che vi dipingessi, come
quando avevate vent’anni? Elia dov’è il conte?
El. Nella sua camera con la signorina per le recite
Fab. (tra se) Questa ragazza capitata qui chissà perché da Torino è
riuscita a portare un vero scompiglio in questa casa. Il conte sembra
pensare solo più a lei, è sempre nel suo studio per provare le recite: la
D’Albany a volte si atteggia a gran dama offesa, a volte scoppia di
bile e quando la incontra pare voglia fulminarla con gli occhi. Ma lei,
la ragazza, indifferente e compunta, con il solito sorriso modesto sulle
labbra sembra non far alcun caso delle occhiatacce della contessa. Un
inchino a regola d’arte e poi via nella sua stanza, o, più volentieri,
nella stanza del conte. Però, il conte... rabbioso e misantropo quanto
si vuole ma quando si tratta di far compagnia ad una bella e
disponibile ventenne non si tira indietro! E lo credo bene,
graziosissima e direi non troppo difficile, e poi giovane...Certo, il
conte Alfieri ha altro da fare che posare per il mio ritratto. La contessa
invece appare da un po’ di tempo di pessimo umore, ma so io come
fare per consolarla. (entra la d’Albany)
D’Alb. Elia, sabato alla recita, saranno presenti dieci ospiti o forse
dodici. Prepara le sedie e sta attento per i rinfreschi. Dov’è il Conte?
El. E’ nella sua camera con la signorina. (esce Elia)
Fab. Contessa, vi riverisco
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D’Alb. (di soprassalto) Fabre, non vi avevo visto. Chiudete
quell’uscio per favore.
Fab. Vedo che anche oggi il conte Alfieri non è rimasto per la posa
del ritratto. (l’Albany rimane muta) L’ho intravisto l’altro giorno, mi è
parso in ottima forma, spedito e diritto, l’avrei detto, l’avrei detto, di
buon umore (l'Albany continua a tener voltato il viso e a non parlare.
Fabre si avvicina alla tela) Beh, comunque ormai ho solo più da
ritoccare qua e là, una sfumatura dell’incarnato, qualche riflesso
dell’abito, posso anche fare a meno della sua presenza.
D’Alb. (come risvegliandosi da un torpore) Sì, penso dovrete fare
proprio a meno della sua presenza.
Fab. (sedendosi accanto e prendendole la mano) Luisa, cosa avete?
Siete immersa in tristi pensieri.
D’Alb. Tristi pensieri, amico mio? (silenzio di entrambi)
Fab. Ho saputo che il prossimo sabato il conte vuole rappresentare
Antigone
D’Alb. Già.
Ne sono lieto, perché siete bravissima nella parte della protagonista.
D’Alb. Non sarò io a recitare ma quella giovane venuta da Torino.
Fab. (con stupore un po’ forzato) Come? Non sarete voi a fare
Antigone?
D’Alb. (un po’ spazientita) No, non sarò io. Ho chiesto io al conte di
volermi dispensare perché è da un po’ di tempo che mi sento molto
stanca. Ed al mio posto reciterà madamigella Piossasco, sembra che
sia una brava attrice. (si sentono le voci di Alfieri e Annina)
scena quinta (Albany, Fabre, Alfieri, Annina)
Fab. (rivolto alla d’Albany) Cosa vi avevo detto contessa, che il conte
Alfieri non si sarebbe scordato di quest’ultima posa per il suo ritratto.
Alf. Il ritratto, ah già, il ritratto (va verso il cavalletto, guarda
perplesso) Sapete Fabre, penso che Annina...che madamigella abbia
proprio ragione
Fab. E che cosa dice madamigella del vostro ritratto? Non è di suo
gusto?
Ann. Certo, mi piacciono i colori, e anche la disposizione...ma..
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Fab. Ma?
Ann. Ma l’espressione non è quella giusta.
Fab. Ah no?, e perchè di grazia?
Ann. Perché il conte quando sorride non ha questa piega un po’
beffarda del viso, e poi gli occhi, vedete signor pittore, gli occhi nel
vostro ritratto non hanno quel..
D’Alb. Ma voi, madamigella, il conte l’avete visto sovente sorridere?
Alf. (interrompendo brusco) Comunque, sorriso o non sorriso, mi pare
che il ritratto sia ormai finito, no? Dovrò ancora posare?
Fab. Si tranquillizzi signor conte, ho bisogno solamente più di una
seduta per cogliere meglio una angolatura, e poi la lascerò in pace, il
ritratto sarà suo. Sperando naturalmente che sia di suo gradimento, di
gradimento suo e della signorina.
Ann. Non si preoccupi di me, signor pittore, io non sono certo
un’intenditrice di pittura, erano soltanto mie impressioni, ecco tutto.
D’Alb. Non siate così modesta, madamigella, sono certa che il conte
Alfieri fa gran caso del vostro giudizio. (entra Elia che consegna un
biglietto alla contessa D’Albany, che lo legge) I marchesi d’Azeglio
fanno sapere che ci saranno anche loro sabato sera. E così siamo in
dieci...A proposito signor Conte, a che punto sono le prove?
Madamigella si dimostra una brava attrice? E’ entrata nella parte di
Antigone?
Alf. Le prove, rassicuratevi contessa, procedono benissimo, ma
siccome voi sapete quanto io tenga alla perfezione delle mie recite,
voi permettete che vi dedichiamo ancora un po’ di tempo per rendere
la rappresentazione curata nei minimi particolari. (escono Alfieri e
Annina).
Scena sesta (Fabre, l’Albany)
D’Alb. (si alza nervosa, cammina in su è giù, prende e rimette sul
tavolo dei ninnoli, sposta sulla mensola un orologio, poi si volta di
scatto) Ma voi ritenete possibile che io soffra un simile affronto! Che
una ragazzina sfrontata si installi a casa mia, che la giri in lungo ed in
largo da padrona, che diventi la confidente di Vittorio Alfieri, che
reciti al mio posto con lui. E tutti se ne sono ormai accorti, ieri è
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venuta a farmi visita quella malalingua della marchesa Priè, le
brillavano gli occhi di malizia quando mi ha chiesto notizie della
ragazza. Vi rendete conto Fabre che io Luisa Carolina Emanuella zu
Stolberg contessa d’Albany, io figlia di principi e sposa (pur se
infelice) di un re; io che sono stata la compagna la musa ispiratrice di
uno dei più grandi uomini del nostro tempo; io... essere così insultata
schernita svillaneggiata in casa mia da una sgualdrinella che a Torino
ne ha fatte più di Bertoldo in Francia, che è passata da un letto
all’altro, che...
Fab. Via, Luisa, calmatevi.
D’Alb. Calmarmi? Ma come volete che possa rimanere calma di
fronte ad una situazione simile? Di fronte a questo scandalo? Ecco,
cos’è, uno scandalo, uno scandalo vi dico. Io che ho frequentato la
migliore società d’Europa, da tutti stimata e rispettata, io che non ho
mai dato adito in tutta la mia vita al più piccolo appunto, alla più
piccola malignità nei miei confronti (Fabre annuisce compunto)... Che
una ragazzina impudente e ignorante, neppure tanto bella a parer
mio... A voi sembra bella Fabre?
Fab. Bella ? Mah... non direi proprio... E’ molto giovane.
D’Alb. Questo lo so, ma non vi ho chiesto di parlarmi della sua età,
ma se vi pare o no bella.
Fab. Decisamente no, la bocca troppo larga, i tratti irregolari...
D’Alb. Io non riesco a comprendere come un animo eletto quale
Vittorio Alfieri, soprattutto con l’umore misantropo ed insofferente
che gli è sopravvenuto, possa sopportare una simile mediocre insulsa
ragazza.
Fab. Già, è davvero una cosa incomprensibile.
D’Alb. Capite, Fabre, dopo una vita spesa in dedizione del suo genio,
della sua persona, che umiliazione vedermi trattata così.
Fab. (le bacia la mano) Via, adesso calmatevi, non potete mettervi
sullo stesso piano, voi, con una sciocca ragazzina.
D’Alb. Sciocca, dite? Ho l’impressione che sia furba e scaltrissima
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Fab. (si alza per salutare ed uscire) Ora vi lascio, toglietevi queste
malinconie dalla testa, calmatevi e siate lieta. Domani sera voglio
rivedere di nuovo il vostro incomparabile sorriso. A presto.
Scena settima
(la D’Albany rimane sola nel salone, entra da una porta laterale
Annina, silenziosa come per non essere notata, cercando qualcosa. Su
un comò vede una spilla, la prende, fa per uscire)
D’Alb. Non andate via così di furia signorina, date almeno
un’occhiata alla disposizione della sala. In fin dei conti il prossimo
sabato sarete voi la stella della serata.
Ann. (si blocca mentre stava per uscire, poi si volta verso la
D’Albany facendole un profondo inchino) Signora contessa, la
riverisco.
D’Alb. (avvicinandosi ad Annina) Penso che sarete ben contenta di
recitare una tragedia di Vittorio Alfieri. So che siete un’ammiratrice,
una competente ammiratrice delle sue opere.
Ann. E’ vero, è per me una grande soddisfazione poter recitare in una
sua tragedia.
D’Alb. Mi dicono che siete molto brava come attrice. Curioso, perché
a quel che so quando eravate a Torino vi occupavate di tutt’altro che
di teatro.
Ann. Quando al Carignano rappresentano un lavoro di Vittorio
Alfieri, non me la lascio scappare.
D’Alb. E’ stata quindi per voi una bella occasione poter conoscere di
persona l’autore di quelle opere che tanto amate.
Ann. Davvero una fortunata occasione.
D’Alb. E adesso che siete qui, mi auguro che ci farete l’onore ed il
piacere di fermarvi ancora per un po’ di tempo
Ann. La signora contessa è molto buona. In effetti penso che rimarrò
perlomeno sino a quando il conte Alfieri non avrà finito di dettarmi la
sua commedia.
D’Alb. Ah, quindi voi siete a conoscenza della commedia che sta
scrivendo. Un segno di privilegio da parte del conte nei vostri
confronti, sapete che non l’ha fatta leggere a nessuno?
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Ann. Davvero? Peccato perché mi pare molto riuscita. Divertente,
allegra.
D’Alb. Divertente, allegra? Davvero? E chi l’avrebbe mai detto?
Evidentemente il conte ha di voi una grande considerazione per
mettervi al corrente di un lavoro che ha tenuto segreto a tutti.
Ann. Il conte in effetti è molto cortese nei miei confronti.
D’Alb. Già, a volte mi domando come avete fatto a conquistare la sua
simpatia in così poco tempo.
Ann. Lo crederà la signora contessa?: a volte me lo domando anch’io.
D’Alb. E il vostro fidanzato a Torino non sarà inquieto e scontento di
una vostra così lunga assenza? Perché so che voi siete fidanzata vero?
Ann. Lo ero... ma queste sono cose che non possono certo interessare
la signora contessa.
D’Alb. Ah così non siete più fidanzata? Ma come mi dispiace. Certo
per una persona tanto sensibile e timida come dovete essere voi sarà
stata davvero una sgradevole esperienza quella di rompere il
fidanzamento così davanti a tutti, chissà quanti commenti avrà
provocato la cosa, la gente si sa ama immischiarsi nei fatti degli altri.
Ma comunque, una avvenente e giovane e ricca fanciulla come voi
non avrà certo difficoltà a trovare un altro fidanzato. Sono sicura che a
Torino sono molti gli spasimanti che avete lasciato che ardono dal
desiderio di rivedervi.
Ann. Sì, qualcuno ci sarà, ma penso che dovranno aspettare per un bel
po’. Sto così bene qui.
D’Alb. (cambiando tono, seria in volto) Vedete signorina, voi siete
molto giovane, e può darsi che non vi rendiate completamente conto
di certe cose. Noi... voglio dire io e il conte Alfieri, siamo persone
molto note, Alfieri è uno degli italiani più conosciuti al mondo, tutti
gli occhi sono rivolti verso di lui, anche gli occhi dei maligni, che ci
sono sempre.
Ann. Lo so lo so signora contessa, purtroppo l’ho sperimentato di
persona a Torino, quanta gente sia malevola e cattiva.
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D’Alb. Certo, certo. Voi ammetterete che non è bene per nessuno dare
occasione a commenti ironici, a voci di biasimo, tanto più quando si
tratta di persona famosa quale Vittorio Alfieri.
Ann. Sono perfettamente d’accordo con voi signora contessa.
D’Alb. Ne sono lieta. Ora, voi capite che una giovane...e bella ragazza
che passi lunghe ore rinchiusa in una camera con un uomo, qualche
diceria la può provocare.
Ann. Se vi riferite agli incontri tra me e il conte Alfieri, sapere bene
che sono dovuti alle prove per la recita.
D’Alb. Lo so, lo so... Ma nonostante ciò vi renderete conto anche voi
che è una situazione assai delicata che come dicevo prima può dare lo
spunto a varie chiacchiere
Ann. E perché mai signora contessa? Che male c’è? Anche voi state
sempre sola con il pittore Fabre senza che ciò provochi le osservazioni
di alcuno.
D’Alb. (trattenendosi ma con rabbia) Vi faccio notare, madamigella,
che il cavalier Fabre è un vecchio amico di questa casa.
Ann. Non mi pare molto vecchio.
D’Alb. (sempre più irritata) Mentre voi siete capitata qui da pochi
giorni...anche se vi siete subito ambientata molto bene, direi.
Ann. Ringraziando tutti, devo dire che è proprio così.
(si sente la voce di Alfieri che chiama) E’ il conte che mi chiama per
continuare le prove. Scusate ma non posso farlo aspettare, voi mi
comprendete. Riverisco signora contessa. (Annina esce dalla stanza
mentre la D’Albany muta ed immobile la segue con lo sguardo)
(…Cala la tela)
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ATTO QUARTO
(Il locale del primo atto ma addobbato e predisposto per una
rappresentazione teatrale. Una decina di sedie allineate, davanti ad
un piccolo palco nascosto da una tenda a mo’ di sipario)
scena prima (entrano Prospero Balbo, il barone di San Martino, la
marchesa Priè)
Marchesa di Priè. Dopo la torre della città cosa vogliono ancora
distruggere quei barbari? Il palazzo di Madama? Il Duomo?
Prospero Balbo. Spero davvero che non arrivino a tanto. Certo però
che tutti i bastioni li hanno rasi al suolo. Me l’hanno scritto l’altro
giorno da Torino.
Barone di San Martino. Che impudenza quel Jourdan! Dire che
Torino è sempre stata una città francese, e che quindi venendo a far
parte della Repubblica Francese è solo tornata alle origini.
Bal. Cosa volete, è l’arroganza del vincitore, di chi si sente forte, e
può permettersi di travisare i fatti, di mentire senza tema di essere
smentito.
Priè. Vi assicuro che quando sento queste notizie dalla mia povera
Torino, inorridisco, mi viene la pelle d’oca. E pur mi hanno riferito
che quando poche settimane fa al nostro caro glorioso Regio (teatro
nazionale lo chiamano adesso!) Jourdan ha letto il decreto di
Napoleone annunciante l’annessione del Piemonte alla Francia, non
finivano più di applaudire.
San Mar. E lo credo bene! Era tutta gente che dai francesi ha ottenuto
favori e impieghi e prebende. Ma io vorrei capire come possono
uomini quali Valperga di Caluso o Galeani Napione rimanere in una
città in mano allo straniero. Su questo sono d’accordo con il conte
Alfieri, non mi riuscirebbe di vivere in mezzo a tutto quel francesume.
Bal. Non so se è meglio fare come facciamo noi, lasciare la nostra
città, la nostra patria in mano ai francesi, e stare qui ad aspettare gli
eventi.
San Mar. E cos’altro mai potremmo fare?
(entra di fretta la contessa D’Albany)
D’Alb. S’accomodino signori, cercavo il conte Alfieri. (esce subito)
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San Mar. Da un po’ di tempo a questa parte, la contessa D’Albany
pare preoccupata, tesa...
Priè. Lo credo bene. (la guardano incuriositi avvicinandosi a lei)
San Mar. La marchesa sembra sapere cose che noi non sappiamo.
Bal. Già, se volesse farcene edotti.
Priè. (dopo essere stata per un po’ in silenzio) Signori, non mi direte
che non vi siete accorti di quella giovane ragazza che da un po’ di
tempo abita in questo palazzo.
San Mar. Sì, l’ho notata l’altro giorno, passando e guardando in alto
ho visto una bella fanciulla dai lunghi capelli bruni affacciata alla
finestra.
Bal. Posso dirvi che è la figlia del cavaliere di Piossasco, che è venuta
a Firenze da Torino per motivi che non conosco.
Priè. Si vede, conte Balbo che per tanto tempo avete fatto il
diplomatico. Magari i motivi per cui è venuta via da Torino li
sappiamo, ma questo non ha importanza. Quello che conta è che da
quando la giovane torinese (molto bella, sono d’accordo con il barone
San Martino) si è installata qui, Vittorio Alfieri è cambiato da così a
così, sembra un altro. Me ne sono accorta giovedì scorso, quando ho
fatto visita alla contessa, e mentre parlavamo nel salotto, ho sentito
due voci, una di donna e una di uomo, che discorrevano allegre, e ad
un certo punto ho udito una specie di ululato, qualcosa di simile ad
una tosse sempre più forte, sempre più forte, lì per lì’ non ho capito
cos’era, poi mi son resa conto che era il conte Alfieri che rideva. Sì
signori, rideva, rideva , tanto da farci restare lì imbarazzate, io, e
soprattutto la contessa D’Albany. Capite, Vittorio Alfieri rideva,
rideva come un matto.
Bal. (sorridendo divertito) Scusate marchesa, ma che il conte Alfieri,
se non proprio matto, un po’ stravagante lo fosse, l’abbiamo sempre
saputo mi pare.
Priè. Ma no, qui non si tratta delle solite eccentricità, di quella
bizzarria e di quelle cupezze e degli improvvisi scoppi di gaiezza che
gli conosciamo. Era qualcosa di diverso, ho avuto l’impressione che a
ridere fosse non lui ma un altro, un altro Vittorio Alfieri. Comunque,
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vi stavo dicendo, ho visto la D’Albany impazientirsi sempre di più
mentre di là continuavano a ridere ed a parlare ad a alta voce. “ Il
conte lavora sempre alla sua commedia?” ho detto così tanto per dire.
“Sì, penso di sì” mi ha risposto imbarazzata la contessa, e quindi non
ho proseguito il discorso perché ho capito che l’irritava.
San Mar. Certo mi pare piuttosto strano che questa sera ad
impersonare la protagonista non sia la contessa d’Albany. Non è mai
successo se non sbaglio in queste recite del sabato sera.
Priè. Non sbagliate, non sbagliate affatto barone.
Bal. Secondo voi allora, marchesa, tra il conte e la giovane torinese si
sarebbe instaurata, come dire? una simpatia?
Priè. “Simpatia” conte Balbo, è un’altra parola da diplomatico che
solo voi potevate usare. Comunque, non sarebbe l’unica “simpatia”
che è fiorita in questo palazzo, vero? Ancora l’altro giorno ho sentito
che...
(entrano la D’Albany e Fabre)
D’Alb. Prendano posto, signori, tra poco lo spettacolo va ad
incominciare.
(gli invitati spettatori prendono tutti posto nel salone, si siedono
davanti al sipario, il sipario si alza, e si vedono Alfieri e Annina che si
avanzano sulla scena e recitano).
Scena seconda.
(lo stesso locale dopo la rappresentazione. Sono state tolte le sedie,
Elia gira per il salone servendo bevande e dolci, tutti gli invitati, la
D’Albany, Fabre, Alfieri, Annina, sparsi qua e là in piccoli crocchi
che si formano e si sciolgono)
Priè. (parlando al barone San Mar.) Avete notato come Alfieri
guardava la ragazza mentre recitavano? A un certo punto si sono
avvicinati e lui le ha sussurrato sottovoce qualcosa. Cosa ne dite? Vi
pare che Creonte debba guardare con quegli occhi Antigone?
San Mar. Forse no: ma una Antigone così bella voi l’avete mai vista?
Bal. (ad Alfieri). Proprio così, caro conte, Napoleone ha firmato un
decreto in cui ordina a tutti i sudditi del Re di Sardegna che sono fuori
del Piemonte di tornare immediatamente in patria.
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Alf. Napoleone pensa evidentemente che tutti i piemontesi siano suoi
servi e quindi come servi a loro si rivolge. Non me ne stupisco. Mi
stupisco invece che ci siano dei miei connazionali che gli diano retta.
Bal. E voi, madamigella Piossasco, avete intenzione di fermarvi a
Firenze ancora per molto?
Ann. Non so, forse una decina di giorni, se il conte sarà così gentile
da volermi ancora ospitare.
Priè. Penso che su questo non ci siano dubbi, dopo la vostra
bellissima recita di questa sera. Non credevo che foste una così
eccellente attrice.
Ann. Tutto merito del conte, E’ lui che mi ha insegnato la parte così
bene.
Priè. Le lezioni quindi vi sono state utili?
Ann. Molto. Il conte Alfieri è un maestro impareggiabile.
Priè. (al barone San Mar sottovoce) Che viso scuro ha la D’ Albany.
Durante tutta la recita è rimasta impettita e rigida come una statua.
Alla fine, se ho visto bene, lì per lì non ha neanche applaudito, poi,
per non dare nell’occhio, ha battuto di malavoglia le mani. La cosa più
divertente è che Fabre fino a quando non ha visto lei battere le mani,
anch’egli non ha applaudito, ma era lì fermo e tutto imbarazzato,
poveretto. Oh, ecco, adesso Fabre sta parlando all’orecchio della
contessa. Chissà che cosa le sta dicendo?
San Mar. Cosa volete che le dica? La starà consolando, lui è così
bravo in queste cose.
Fab. L’Antigone quale voi, Luisa, la recitavate, con quella cadenza
quel portamento, quei passaggi di tono...
D’Alb. Sembrate l’unico in questa sala a non essere entusiasta della
recita di madamigella Piossasco. Avete sentito quanti battimani?
Fab. Applausi di cortesia, ovviamente, Si vedeva subito che non si è
immedesimata nella parte, un’interpretazione troppo caricata, priva di
naturalezza...
D’Alb. Voi lo pensate, Fabre?
Alf. (ad Annina) Siete stata davvero brava.
Ann. (sorridendo e guardandolo). Bontà vostra signor conte.
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Alf. Dovrete però proseguire le prove di recitazione, voglio che vi
perfezionate sempre più.
Ann. Non chiedo di meglio signor Conte.
(Passano tutti a due o più per volta davanti al ritratto di Alfieri e
commentano)
San Mar. Mi pare ben fatto, la rassomiglianza è quasi perfetta,
l’espressione è azzeccata.
Priè. Sì, ma c’è qualcosa che non mi convince
San Mar. Cos’è che non vi convince, marchesa?
Priè. Bè, sembra un personaggio delle sue tragedie che stia per fare
una concione, non è naturale, manca qualcosa, è troppo compassato,
troppo serio, troppo vecchio, ecco. Guardatelo adesso che parla con la
giovane torinese: non vedete come gli brillano gli occhi e come ha le
guancie infocate, spira letizia da tutti i pori.
Fab. Vedete Luisa, ho voluto dare quell’incarnato cereo per
sottolineare il pallore che è così tipico di Alfieri, giocando sul
contrasto con l’abito nero.
D’Alb. In realtà, mi pare che il conte Alfieri sia perlomeno da un po’
di tempo più colorito, più allegro di come l’avete dipinto. Guardatelo
solo adesso con che gaiezza parla con quella...con quella ragazza.
Alf. Così, questo sarebbe il mio ritratto. Cosa ne dite?
Ann. Che non vi somiglia affatto, ve lo ripeto. Voi siete tutto diverso,
più giovane...
Alf. (ridendo) Sì avete ragione voi, io sono proprio più giovane!
(Alfieri continua a ridere sempre più di gusto attirando l’attenzione
degli altri)
Priè. Guardate come ride il conte Alfieri!
San Mar. Sembra di ottimo umore.
Fab. Si direbbe che il mio quadro lo diverta un mondo.
D’Alb. Già.
(si allontanano tutti dal salone, si sente ancora la risata di Alfieri.
Rimane soltanto Elia che rimette a posto le sedie)
El. A l’è ‘l cont c’a rid...A l’ai divlo mi, ‘mbele sì a son tuti mat... a
son tuti mat.
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(…Cala la tela)
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