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Divieto Di testimonianza eD utilizzo Delle Dichiarazioni Di terzi nel
Fabiola Del Torchio*
Divieto di testimonianza ed utilizzo delle
dichiarazioni di terzi nel processo tributario
Sommario: 1. Il divieto di testimonianza – 2. Le dichiarazioni di terzi – 3. Il valore probatorio delle dichiarazioni formatesi in sede extra – processuale – 4. Limiti alla produzione
in giudizio da parte del ricorrente di dichiarazioni raccolte al di fuori del processo
Com’è noto, l’articolo 7 del D.Lgs. 546, descrivendo i poteri istruttori del
giudice tributario, esclude la testimonianza dal novero delle prove su cui si può
basare il convincimento della commissione.
Le conseguenze di tale divieto saranno affrontate, nelle pagine seguenti, da
due diversi punti di vista: da un lato, si cercherà di valutare la compatibilità
di detta esclusione con il principio del giusto processo, anche alla luce dei più
recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria, e, dall’altro, si soppeserà il rapporto tra una siffatta disposizione e la possibilità, o la preclusione, di
produrre in giudizio eventuali dichiarazioni trasfuse in forma documentale fuori
dall’ambito processuale.
1. Il divieto di testimonianza
L’articolo 7 già richiamato, al comma 4, introduce inequivocabilmente il divieto dell’utilizzo della prova testimoniale nel processo tributario; la disposizione
ricalca quanto già contenuto nell’articolo 35 del DPR 633 così come novellato
con la riforma del 1981 tanto che è stato definita da parte della dottrina come
“un residuato storico che resiste all’usura del tempo”1.
Le ragioni del divieto sono state individuate sia nella natura essenzialmente
cartolare e documentale del processo tributario, che nell’esigenza di celerità dello stesso sia, e soprattutto, nella “sfiducia” nei confronti dei possibili testimoni
che, in quanto essi stessi contribuenti, potrebbero essere influenzati nelle loro
dichiarazioni da una sorta di favore nei confronti della parte privata piuttosto
che dell’amministrazione, e, a tal proposito si è parlato di “dubbia attendibilità
del teste, anch’egli spesso indirettamente interessato come contribuente”2 e di prova
“addomesticabile” da parte del contribuente3.
Numerose le critiche di altri autori, ed anche numerose le istanze di legittimità sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale (tutte però disattese): segnalo,
per i primi, l’osservazione per cui “il rischio della falsa testimonianza del diritto
(*) Università degli Studi di Milano
1 P.Russo, Sul divieto di prova testimoniale nel processo tributario in Rassegna tributaria n.
2/2000
2 G.Gaffuri, Lezioni di diritto tributario, Parte generale – Cedam 1989
3 C.Consolo, Gli istituti della procedura civile ed il giudice tributario. Corso di perfezionamento
scientifico e di alta formazione per magistrati tributari. Università Milano Intervento del 4.3.2008
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tributario non sia maggiore che in altri processi: basti far cenno a quello penale.
Anzi, la cancellazione del divieto servirebbe, emblematicamente, a cancellare dall’ordinamento l’ombra di quella omertà contro il fisco che è da ritenersi storicamente
superata”4, mentre ricordo, per le seconde, l’istanza di rimessione della Commissione di primo grado di Milano già nel 1982, quella della Commissione secondo
grado di La Spezia nel novembre 1988, e quelle della Commissione Provinciale
di Chieti nell’aprile 1998 e nel febbraio 19995.
La Corte Costituzionale ha sempre rigettato tutte le istanze, ritenendo infondate le eccezioni sollevate, sottolineando la discrezionalità del legislatore nella
scelta delle regole processuali in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli processi6, di recente anche con l’ordinanza n. 375 del 2 dicembre 2004.
Estremamente interessante sul punto la sentenza della Corte Costituzionale
del 21 gennaio 2000 n. 187 che oltre al tema del divieto di testimonianza affronta anche quello correlato, e su cui ci soffermeremo più oltre, dell’ammissibilità
delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario.
In sintesi, i Giudici costituzionali hanno ritenuto infondata la questione della
legittimità costituzionale del divieto posto dall’articolo 7 poiché lo stesso “trova,
nella specie, una sua non irragionevole giustificazione da un lato nella “spiccata
specificità” del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata sia alla configurazione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto
del giudizio, dall’altro nella circostanza … che il processo tributario è ancora, specie
sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale”.
La decisione si fonda tuttavia su una tautologia, che emerge evidente quando la Corte legittima il divieto della prova testimoniale nel processo tributario
affermando che tale limite non è un vizio di legittimità costituzionale, ma solo la conseguenza della scelta, fatta in questo processo, dei limiti ai mezzi di
prova8.
Numerose critiche al divieto posto dall’articolo 7 sono emerse dopo la riforma costituzionale del 1999 (Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2) che
ha novellato l’articolo 111 della Carta Costituzionale, poiché si ritiene indispensabile applicare i principi del giusto processo (formula di origine anglosassone,
due process of law) anche al processo tributario, che dovrebbe essere celebrato
offrendo la massima garanzia di difesa e nel pieno contraddittorio delle parti,
4 E. De Mita, Un processo tributario senza paura delle prove, in Il Sole 24 Ore 26 luglio 1998
5 Commissione di primo grado di Milano, ordinanza 7.5.1982 in G.U. 32 del 1.2.1984; Commissione di secondo grado di La Spezia, ordinanza 30.11.1988 in G.U. 33 del 22.8.1990; Commissione
provinciale di Chieti 17.4.1998 in Comm. Trib. 1998 II pag. 555; Commissione provinciale di Chieti
5.2.1999 in Il fisco 1999 pag. 5652.
Si veda anche Commissione provinciale di Brescia 29.5.1997 in Il fisco 1997 pag. 13343, , Commissione provinciale di Torino 4.5.1998 in Comm.trib. 1998 II pag 565.
6 Per maggior approfondimento degli interventi della Corte Costituzionale si vedano le decisioni
n. 16 del 28.1.1986 in Dir.proc.Amm. 1988 pag.84, n. 506 del 10.12.1987, n. 76 del 23.2.1989, ordinanza n. 6 del 10.1.1991 tutte richiamate in Bollettino tributario n. 4 del 2001 pag. 245 e segg., n.
328 del 8.7.1992 in Diritto e pratica trib. 1998 pag. 1345, n. 249 del 3.7.1998 in Giur.Cost. 1988 pag.
2020 e n. 18 del 21.1.2000.
7 Per autorevoli commenti alla sentenza si segnala la sua pubblicazione in Bollettino tributario
n. 4 2000 pag. 313 con nota di B.Aiudi, ed Rassegna tributaria n. 2 del 2000 pag. 557 con nota di
P.Russo.
8 E. De Mita, Diritto tributario e Corte Costituzionale: una giurisprudenza “necessitata”. In i cinquant’anni della Corte Costituzionale. Diritto Tributario, Roma 2006.
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non diversamente dal processo civile o penale. Come autorevolmente sostenuto,
per adeguare il processo tributario alle regole del giusto processo dovrebbe cadere
il divieto delle prove per testi, per violazione degli articolo 24 e 111 della Costituzione, o comunque per irragionevolezza; “riesce infatti difficile capire … la ragione
per cui, nell’accertamento di un fatto indicato in un processo verbale, il giudice
penale possa ascoltare la viva voce del verbalizzante, ed invece, il giudice tributario,
chiamato ad accertare il medesimo fatto, debba limitarsi alla lettura delle carte”9.
Ritengo, che, nonostante i limiti ed i rischi della prova testimoniale, in particolare quelli sull’attendibilità dei testimoni e sulla libertà del giudice nel valutarne le dichiarazioni (eventuali abusi nell’utilizzo dell’istituto potrebbero comunque
essere scongiurati attraverso il controllo di rilevanza ed ammissibilità delle prove
allegate già previsto dal codice di procedura civile), sia innegabile come la sua
introduzione nel processo tributario potrebbe essere salutata come un “apporto
di civiltà giuridica”10, che il legislatore dovrebbe attentamente valutare, mentre il
mantenimento dell’esclusione dal processo tributario del mezzo istruttorio orale
potrebbe rappresentare “un vulnus al principio di effettività e pienezza della tutela
giurisdizionale suscettibile di creare sospetti di illegittimità costituzionale ed anche
rilievi di incompatibilità comunitaria della stessa”11.
L’eliminazione del divieto presupporrebbe, ovviamente, una riforma della attuali regole processuali, eventualmente con l’introduzione di una fase istruttoria
monocratica; il collegio potrebbe, durante l’udienza, ammettere la prova, formulare i capitoli da sottoporre al testimone e delegare un giudice all’istruttoria,
esaurita la quale il processo potrebbe riprendere nella sua fase collegiale.
Ulteriori spunti di riflessione debbono essere tratti anche dall’orientamento
della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: attuale e fondamentale, in tal senso, la decisione n. 73053 del 23 novembre 2006 sul caso
Jussilia contro Finlandia12.
Sappiamo che l’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’Uomo dispone che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata
equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi
… sulla fondatezza di ogni accusa penale fornmulata nei suoi confronti”:
mentre fino ai primi anni 2000 la Corte Europea aveva escluso la ricondu9 F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario in Rassegna tributaria n. 1/2006. In senso
diametralmente opposto a quanto riportato nel testo, si veda C. Glendi, Prova testimoniale, principio dispositivo, onere della prova e oggetto del processo tributario in GT Rivista di Giurisprudenza
tributaria n. 9 / 2007 secondo il quale “la sancita in operatività della prova testimoniale come prova
legale tipica, a ben vedere, non costituisce una limitazione dei poteri istruttori del giudice tributario ma,
al contrario, ne valorizza il libero convincimento, disancorandolo da tutte le circoscrizioni della prova
legale tipica che, oltretutto, contrariamente a quanto si continua a predicare, non sono affatto in armonia con i valori del giusto processo”.
10 C. Lamberti, La prova testimoniale nel giudizio tributario in GT Rivista di Giurisprudenza
tributaria n. 5 / 2005
11 M. Scuffi, Parificazione del ruolo del processo tributario rispetto agli altri giudizi: proposte
legislative, in Atti II Congresso Nazionale AMT – Lecce 21/23 maggio 2004
12 trattasi, in breve, di contestate omissioni nella tenuta della contabilità di un piccolo imprenditore, da cui è scaturito il recupero dell’imposta evasa con le relative maggiorazioni. Il contribuente,
per poter contrastare l’accertamento, chiedeva la discussione in pubblica udienza per poter chiamare
a testimoniare sia i funzionari dell’amministrazione che avevano effettuato le ispezioni, sia il proprio
consulente fiscale.
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cibilità, tout court, del processo tributario a tale principio (per tutti si veda il
caso Ferrazzini – Italia, deciso con sentenza n. 44795/98 pronunciata il 12 luglio
2001 che ha escluso dall’ambito di applicazione dell’articolo 6 i procedimenti
tributari, ricadendo la materia fiscale nel nocciolo duro delle prerogative del potere di imperio, predominando la natura pubblica del rapporto tra contribuente
e collettività), con il caso Jussilia la Corte ha sancito l’applicabilità del principio
del giusto processo anche a quello tributario se, oltre al recupero dell’imposta, il
contenzioso verte sull’irrogazione di sanzioni che vanno oltre la finalità di recupero – no quindi per il recupero di sole imposte ed interessi che non avrebbero
natura punitiva ma solo di ripristino della situazione corretta – .
Ancora, mentre con orientamento precedente la Corte dava rilievo all’entità
delle sanzioni ed alla loro finalità punitiva, (nel 1987 caso Bendenoun – Francia
si è ammessa la natura penale della sanzione quantificata in 422 mila franchi
per il ricorrente e 570 mila franchi per la sua società13, non così nel 2000 caso
Morel – Francia ove la sovrattassa del 10%, pari a 678 e, viene ritenuta non
rilevante poiché non punitiva), con Jussilia la quantificazione perde di rilievo,
basta lo scopo punitivo, “penale” in senso lato14.
Dall’articolo 6 la Corte fa derivare per ogni persona il diritto ad un giusto
processo con i poteri più pieni di difesa: nei casi in cui dal divieto di prova
testimoniale nel processo tributario deriva un limite oggettivo alla difesa, allora
tale divieto (e quindi la regola processuale) comporta un’evidente violazione del
giusto processo, e non può, pertanto, essere applicato.
Secondo la massima della sentenza, infatti, “l’assenza di pubblica udienza o il
divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio
del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile”.
Fondamentale indicazione viene fornita dalla Corte con la sentenza Jussilia:
in conformità con le regole del giusto processo, l’ammissione delle prove testimoniali nell’ambito del processo tributario è doverosa quando si configura come
indispensabile per il corretto esercizio del diritto di difesa15.
Pur non esendo il caso in questione originato da una controversia nazionale
(come invece il caso Ferrazzini) la presa di posizione della Corte di Strasburgo
dovrebbe divenire “faro illuminante” anche per il giudice italiano: la testimonianza, se da un lato potrebbe essere scarsamente rilevante per tutta una serie
di controversie, dall’altro potrebbe rilevarsi indispensabile, e come tale dovrebbe
essere ammessa, per altra serie di controversie tributarie.
A titolo esemplificativo, penso, per la prima ipotesi, alle controversie in tema
di tributi locali ed ICI, ove la documentazione catastale od altre prove documentali – atti cessione, residenza ecc. – possono sicuramente ritenersi esaustive, ma
diversamente, per tutti i casi di ricostruzione sintetica del reddito, per le cause
di giustificazione di scostamento da studi di settore ed altre problematiche legate all’accertamento del reddito in capo alle persone fisiche, la testimonianza
potrebbe rivelarsi l’unico possibile strumento di difesa per il contribuente.
13 pari, rispettivamente, a 64 ed 86 mila euro
14 la sanzione applicata è pari, infatti, a soli 1836 marchi finlandesi, pari a circa 308 euro.
15 nella specie, l’esito è stato contrario alle istanze del ricorrente, poiché la Corte ha ritenuto che
la sua difesa avrebbe potuto essere comunque sviluppata anche senza l’ammissione di prove orali, ma
il ragionamento non perde di alcuna validità, se pur applicato a contrario.
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Ed allora, in tutti queesti casi, proprio nel rispetto dell’articolo 111 della Costituzione e sulla scorta del sentiero tracciato dalla Corte Europea, anche avanti
al giudice tributario dovrebbe essere ammessa la prova testimoniale.
In altri termini, la sentenza Jussilia seppure non offre una risposta definitiva
nel senso dell’incompatibilità del divieto di testimonianza con le norme della
Convenzione, tuttavia, se correttamente interpretata, non può non offrire nuovi
spunti di riflessione per una diversa lettura dell’articolo 7 del D.lgs. 546 da parte
dei Giudici nazionali.
In tal senso, con la recente sentenza 21233 del 18 maggio 2006 i giudici della
Cassazione hanno applicato principio paragonabile a quello espresso dalla CEDU,
ammettendo la prova testimoniale nel caso di furto della documentazione.
Il contribuente, si legge nella massima, impossibilitato ad esibire, a seguito di
furto subito, i documenti contabili di cui è obbligatoria la conservazione non è
esonerato dall’onere di provare la sussistenza dei crediti esposti in dichiarazione, ma è – in forza del dettato dell’articolo 2724 n. 3 c.p.c. – autorizzato alla
deduzione di prova testimoniale.
2. Le dichiarazioni di terzi
La necessità di garantire l’equality of arms tra le parti del processo si manifesta in maniera ancor più evidente quando al diniego delle istanze della parte
privata si aggiunge, per contro, la possibilità per l’ente impositore di veicolare,
seppur surrettiziamente, all’interno del processo dichiarazioni orali raccolte nella
fase dell’istruttoria amministrativa.
Anche questo aspetto riveste una particolare attualità, vista la prassi ormai
consolidata degli uffici di porre alla base dei propri accertamenti le risultanze
di atti, quali ad esempio i verbali della Guardia di Finanza, che contengono dichiarazioni rese da soggetti diversi dalla parte cui l’accertamento è rivolto; dette dichiarazioni sono legittimamente raccolte nell’ambito dell’attività istruttoria
primaria (in materia di accertamento delle imposte sul reddito, ad esempio, si
vedano le disposizioni del DPR 600), ove i poteri di indagine si sviluppano con
la raccolta di dati e notizie e di richieste di informazioni e chiarimenti.
Tramite i suddetti poteri di indagine, dunque, si acquisiscono elementi documentali ma anche elementi fondati sulla narrazione di fatti a cura di una
persona fisica.
Quali sono le differenze tra queste dichiarazioni e le testimonianze?
Secondo l’insegnamento dei processualisti civili, la testimonianza è definita
come “la narrazione che fa una persona di fatti a lei noti per darne conoscenza
ad altri, con la funzione di rappresentare un fatto passato e renderlo presente alla
mente di chi ascolta”16; in senso stretto la legge che regola il processo considera
testimonianza solo l’affermazione orale fatta da un terzo, e cioè da una persona
estranea al giudizio, chiamata ad esporre al giudice ciò che conosce in relazione
a fatti che possono essere rilevanti ai fini della decisione.
Gli articoli 244 e seguenti del codice di procedura civile regolano in modo
dettagliato le modalità per la deduzione e l’ammissione della prova testimoniale,
16 E.T.Liebman, Manuale di diritto processuale civile II, Giuffrè 1981
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e per la sua assunzione nel processo; per quanto qui interessa si ricorda l’articolo
253 c.p.c. a mente del quale “il giudice interroga il testimone sui fatti intorno ai
quali è chiamato a deporre”, rivolgendogli d‘ufficio o su istanza di parte “tutte le
domande che ritiene utili a chiarire i fatti”: il testimone, sotto giuramento, dovrà
a rispondere ai quesiti sottoposti dal giudice.
Le dichiarazioni dei terzi, seppur caratterizzate dai medesimi elementi oggettivi – dichiarazione orale – e soggettivi – fatti narrati da persona diversa dalla
parte processuale – della testimonianza, sono invece rese al di fuori e prima del
processo; potremmo definirle quali delle “libere espressioni” acquisite senza alcun
controllo, senza alcuna delle formalità di rito previste per la testimonianza.
Entrambe le dichiarazioni sono dichiarazioni di scienza di un soggetto, ma
le dichiarazioni di terzo sono rese ad un soggetto che non è super partes come il giudice che interroga il testimone, ma è un soggetto diverso, ad esempio
un funzionario dell’ufficio che opera nell’ambito della potestà istruttoria, od un
militare della Guardia di Finanza nell‘ambito dei poteri di ispezioni e verifiche
(in questi ultimi casi, secondo il disposto dell’articolo 2700 del codice civile, la
veridicità del verbale riguarda la provenienza delle dichiarazioni e dei fatti che
il verbalizzante attesta avvenuti in sua presenza, ma non la veridicità del contenuto della dichiarazione).
Mancando ogni ritualità relativa al momento dell’assunzione della dichiarazione ed essendo comunque il soggetto verbalizzante, seppur indirettamente,
“parziale” rispetto alla questione, alcuni dubbi possono legittimamente sorgere
in ordine alla modalità di presentazione delle domande al soggetto chiamato a
riferire ed ai possibili, seppur involontari, stralci nella trasfusione della dichiarazione nella forma scritta.
Alcuni autori hanno, a proposito, introdotto il concetto di prova paratestimoniale, evidenziando l’elemento comune di ordine contenutistico, risolvendosi
sia la testimonianza che la dichiarazione di terzo in dichiarazioni di scienza 17,
mentre altri hanno osservato che se le dichiarazioni raccolte in sede istruttoria
(con forma documentale ma sostanza testimoniale) vengono ammesse in giudizio, la loro acquisizione comporta, in via surrettizia, l’acquisizione anche del
loro contenuto testimoniale18.
Dopo aver individuato gli elementi comuni e le differenze tra testimonianza
e dichiarazione di terzo, emergono allora tre ordini di problemi, tra loro evidentemente correlati:
*Il divieto di cui all’articolo 7 riguarda solo le testimonianze in senso stretto
o riguarda anche le dichiarazioni di terzo?
** Se invece tali dichiarazioni possono trovare spazio nel processo, qual è il
valore probatorio a queste attribuibile?
ed infine
***la facoltà di introdurre dichiarazioni raccolte al di fuori del processo è prevista anche per il contribuente, o, comunque, quali strumenti difensivi può
17 P.Russo, Sul divieto della prova testimoniale in Rassegna tributaria n. 2 2000 pag. 574.
18 G.Moschetti, L’utilizzo delle dichiarazioni di terzo, tra fonte non utilizzabile nel processo tributario e mezzo atipico di prova. Problemi connessi e di carattere generale. In Diritto e pratica tributaria 1999 II pag. 17.
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utilizzare il contribuente per contrastare il contenuto delle dichiarazioni introdotte dalla parte pubblica?
Ritengo di tralasciare i numerosi interventi della dottrina sul tema, soffermandomi invece sui contributi offerti dalla giurisprudenza.
Relativamente al primo quesito, la giurisprudenza di merito meno recente non
è univoca: troviamo sentenze in cui i giudici hanno inteso il divieto di testimonianza come divieto di assumere qualunque dichiarazione orale resa da terzi, ed
altre che invece ammettono l’ingresso di tali dichiarazioni nel processo.
Per il primo orientamento, ricordo Commissione regionale del Veneto del
10.11.1997 n. 60, Commissione regionale di Milano del 10.7.1998 n. 118 e Commissione provinciale di Palermo del 28.4.199919: secondo i giudici, “nel processo
tributario, ove è negata qualsiasi rilevanza alla prova testimoniale, le dichiarazioni
rese dalle persone fisiche non possono in alcun modo entrare nelle valutazioni del
giudice”.
A favore, invece, dell’utilizzo delle dichiarazioni in esame, tra le altre, Commissione di secondo grado di Treviso 9.7.1987 n. 748, Commissione secondo
grado di Matera 28.3.1989 n. 969, Commissione provinciale di Brescia 11.6.1998
n. 227, Commissione regionale Basilicata 29.4.1999 n. 89 e 11.1.2000 n. 324, ed
ancora Commissione regionale Toscana del 26.2.2000 n. 16420: nei casi in esame
i giudici hanno ammesso l’utilizzo delle dichiarazioni di terzi, definendole “prove
certe ed evidenti dei fatti ascritti al contribuente”, giustificando questa “certezza
di veridicità” con la circostanza che le dichiarazioni “sono rese in contraddittorio
con i verbalizzanti della Guardia di Finanza”.
I giudici della Corte di Cassazione, già all’inizio degli anni ’90, hanno espresso
parere favorevole all’ammissione della dichiarazione di terzo, specificando però
che deve esserci “un legame tra il soggetto che rende la dichiarazione ed il soggetto accertato” (Cassazione 19.1.1990 n. 316 – nel caso specifico le dichiarazioni
poste alla base dell’accertamento di maggior reddito erano state riportate da una
commessa dell’impresa e confermate dalle risultanze di un quaderno rinvenuto
nei locali dell’impresa medesima–)21.
Più di recente lo stesso orientamento è stato confermato con la sentenza n.
14774 del 15.11.200022 dove viene ribadito che il divieto esplicito dell’articolo 7 è
da riferirsi solo alla testimonianza in senso stretto, e che ciò non implica il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese nella fase amministrativa dell’accertamento.
Anche i giudici della Corte Costituzionale, con la sentenza 18 del 2000 già
citata, si sono favorevolmente espressi sul tema, sottolineando che proprio dalla
differenza tra testimonianza e dichiarazione di terzo – resa al di fuori e prima
del processo –, si può far discendere la possibilità di utilizzo nel processo delle
dichiarazioni eventualmente raccolte dall’amministrazione.
19 Rispettivamente in Diritto e pratica tributaria II parte 1999 con nota di Moschetti, in Diritto
e pratica tributaria II parte 2001 con nota di Corrado, e in Il fisco 1999 pag 9485.
20 Rispettivamente in Bollettino tributario d’informazioni 1987 pag 1639; in Bollettino tributario
d’informazioni 1990 pag 775; in Diritto e pratica tributaria II parte 1999 pag 8 ; in Corriere tributario
1999 pag. 1033; in Codici della riforma tributaria Big Ipsoa ed in Bollettino tributario d’informazioni
2000 pag 1428.
21 In Corriere tributario 1990 n. 14.
22 In Bollettino tributario d’informazioni 2001 n. 20.
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3. Il valore probatorio delle dichiarazioni formatesi in sede extra-processuale
Dall’inizio degli anni 2000, quindi, non paiono più porsi dubbi sull’ammissibilità dell’ingresso delle dichiarazioni di terzo nel processo tributario, così come decisamente affermato, tra le altre, da Cassazione 25 marzo 2002 n. 426923,
dove i giudici non si pongono nemmeno più il dubbio circa l’utilizzabilità delle
dichiarazioni raccolte dalla Guardia di Finanza, considerando ormai “scontata”
la risposta affermativa al quesito, ma si interrogano invece solo sulla loro portata probatoria.
Ed è proprio su questo interrogativo che, allora, pare opportuno soffermarsi:
“qual è il valore probatorio che accompagna tali dichiarazioni?” Risposta molto
precisa viene offerta dagli stessi giudici della Corte Costituzionale che – sempre
con la sentenza 18 ricordata – hanno ritenuto che le dichiarazioni di terzo non
possano godere di piena efficacia probatoria, ma meramente indiziaria: possono
concorrere a formare il convincimento del giudice ma non sono idonee a costituire, da sole, il suo convincimento.
La Corte Costituzionale, quindi, se da un lato accetta un mezzo di prova orale
potenzialmente meno affidabile rispetto alla testimonianza, dall’altro, quasi per
una sorta di “compensazione”, gli attribuisce una minor efficacia probatoria.
Ricordo, brevemente, le principali differenze tra “prove” ed “indizi”: mentre
le prove (che possono essere precostituite – esempio documenti – o costiuende
– esempio testimonianza –) rappresentano il mezzo che serve a dare la conoscenza di un fatto ed a convincere il giudice, gli indizi rappresentano dei fatti
secondari che consentono di risalire ad un fatto principale – ignoto – in virtù
di un nesso di interferenza logico.
Alcuni autori hanno escluso che le dichiarazioni di terzo possano essere considerate indizi, introducendo il concetto di “argomento di prova”24, mentre nello
stesso senso della Corte Costituzionale si sono espressi anche diversi giudici di
merito, a detta dei quali le dichiarazioni in esame “non possono assurgere al
rango di mezzo probatorio, ma costituiscono solo elementi indizianti che devono
necessariamente essere supportati da altri elementi univoci per poter dimostrare la
legittimità dell‘atto amministrativo” (Commissione regionale Emilia Romagna del
9.6.1999 n. 40), con la conseguenza che “l‘accertamento basato esclusivamente
sulle dichiarazioni del terzo (nel caso di specie il rappresentante legale della società
indagata) deve essere dichiarato infondato in quanto le suddette dichiarazioni non
risultano integrate da elementi di prova”. (Commissione regionale Lombardia del
24.8.2000 n. 260)25.
Anche la Cassazione ha ormai da tempo sostenuto il valore puramente indiziario delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio; per tutte ricordo
Cassazione 22.12.1999 n. 316 e 15.11.2000 n. 14774: nel caso specifico l’esistenza
di ricavi non contabilizzati era stata desunta da una dichiarazione di un socio e
dagli appunti forniti da un ex dipendente. Secondo i giudici tali dati avrebbero
23 In Bollettino tributario d’informazioni 2002 n. 22
24 P. Russo, Sul divieto di prova testimoniale cit.
25 rispettivamente in Bollettino tributario 2001 pag. 65 e Rivista dir.trib.2000 pag. 451. Nello
stesso senso si veda anche la Commissione regionale Umbria 24.10.2000 n. 562 in Bollettino tributario 2001 pag. 70.
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avuto solo valore indiziario, ma poiché la documentazione non era stata disconosciuta, si è ritenuto che le notizie contenute fossero veritieri. Ed ancora, Cassazione 5.11.2003 n. 16583 dove si è attribuita efficacia indiziaria alla dichiarazione
del socio relativa alle percentuali delle prestazioni fatturate per sponsorizzazione
ad altra società, e Cassazione 2.11.2005 n. 21268 relativa al tema di operazioni
fittizie rilevate dalla dichiarazione orale rilasciata dal titolare della ditta.
Il principio fissato dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione, e cioè la
valenza probatoria ridotta a quella del semplice indizio, se dal punto di vista
concettuale e teorico è senz’altro chiaro, lascia tuttavia ampio margine alla discrezionalità applicativa dei singoli giudici di merito.
Spesso i giudici delle commissioni provinciali e regionali chiamati a decidere
in ordine ad un singolo ricorso, hanno difficoltà nel tracciare una linea di demarcazione netta e precisa – come invece imporrebbe la teoria processualistica
– tra prova ed indizio.
Il convincimento del giudice non potrebbe, come abbiamo già detto, basarsi
su un semplice indizio che andrebbe invece supportato da altri elementi ed altre prove: nonostante ciò, nella pratica, si rilevano sentenze che si basano solo
sul contenuto delle dichiarazioni di terzi poste dall’amministrazione a base del
proprio atto.
Spesso l’indagine dei giudici si sofferma sulla posizione soggettiva della persona da cui proviene la dichiarazione: se questa è ritenuta, per vari elementi,
“attendibile”, allora questi basano il loro convincimento solo sul contenuto della
dichiarazione resa, anche se alla stessa continua ad essere attribuito – in teoria,
come si legge spesso nelle motivazioni delle sentenze – valore indiziario.
Emblematiche, in tal senso, alcune decisioni della soppressa Commissione
Centrale, dove si è ritenuto legittimo l’utilizzo della dichiarazione di terzo “qualora le informazioni provengono da persone ben informate dei fatti, non aventi
interessi particolari a voler pregiudicare la posizione dell‘altra parte”26.
4. Limiti alla produzione in giudizio di dichiarazioni da parte del ricorrente
Ultimo problema che resta da affrontare, è quello dell’individuazione degli
strumenti di tutela offerti al contribuente onde garantire la parità delle armi
processuali.
In altri termini, se si ammette, come abbiamo illustrato, l’ingresso nel processo di dichiarazioni di terzi a supporto della posizione della pubblica amministrazione, allora anche al contribuente, si dice, dovrebbe essere data la possibilità di introdurre nel processo delle dichiarazioni rese da terzi a sostegno
delle proprie ragioni.
Sempre muovendo dall’esame della giurisprudenza, segnalo come i giudici
della Corte Costituzionale, a conclusione dell’iter logico seguito nella motivazione
della sentenza n. 18 più volte ricordata, hanno affermato che il contribuente può,
nell’esercizio del proprio diritto di difesa, “contestare la veridicità delle dichiara26 Commissione Centrale 8.6.1990 n. 4454 dove si ritiene legittimo l’utilizzo della dichiarazione del
titolare di una ditta in relazione al volume d’affari del suo rappresentante: poiché la stessa potrebbe
recargli un danno, per ciò solo la si considera attendibile.
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Fabiola Del Torchio
zioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale. Allorchè ciò
avvenga il giudice” continua la sentenza n. 18, “potrà e dovrà far uso degli ampi
poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell‘articolo 7 D.Lgs 546 del 1992,
rinnovando ed eventualmente integrando – secondo le indicazioni delle parti e con
garanzia di imparzialità – l‘attività istruttoria svolta dall’ ufficio”.
Il contribuente, quindi, potrebbe chiedere al giudice di espletare un’istruttoria
supplementare, e, nel caso di inerzia da parte della commissione, le ragioni del
mancato esercizio di tale potere – dovere sarebbero soggette al normale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione della sentenza.
Anche relativamente a questo tema la giurisprudenza meno recente non è univoca, ma negli ultimi anni, forse proprio seguito in al preciso indirizzo offerto
dalla Corte Costituzionale e, come vedremo oltre, dalla Cassazione, i giudici delle
commissioni sembrano orientati ad ammettere la possibilità anche per il contribuente di esibire al giudice dichiarazioni di terzi a sostegno delle proprie tesi.
Pur senza sottovalutare le difficoltà che il contribuente potrebbe incontrare
per ottenere delle dichiarazioni scritte di terzi (a differenza di quanto accade per
la Guardia di Finanza o la pubblica amministrazione a cui i terzi, nell’ambito
delle indagini svolte, hanno l’obbligo di rispondere) nelle sentenze più recenti si
è ammesso il valore probatorio – sempre con valenza di indizio – delle dichiarazioni prodotte dal contribuente.
Per la giurisprudenza più risalente pronunciatasi in senso negativo si ricordano le sentenze della Commissione Regionale della Basilicata n. 212 del 5.7.1999
(chiamata a valutare la validità di una dichiarazione sostitutiva rilasciata dalla
suocera del contribuente relativa all’assunzione delle spese della casa di abitazione di quest’ultimo) secondo cui di nessuna tutela potrebbe godere l’atto notorio,
nemmeno al livello di presunzione, poiché lo stesso non potrebbe essere assunto
come fatto noto da cui procedere per la conoscenza del fatto ignoto.
Anche la Cassazione, con decisione n. 8336 del 20.6.200027 ha inizialmente
attribuito alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio solo “attitudine certificativa
in sede amministrativa”, ma nessuna “valenza in sede processuale” (nella specie
si trattava di dichiarazione relativa ad un rapporto di convivenza tra l’accertato
ed altro soggetto) e, nello stesso senso, anche Cassazione n. 10981 del 2001, e
n. 18856 del 200428.
Attualmente i giudici, come anticipato, appaiono sempre più spesso orientati
nel senso di ammettere la produzione in giudizio di dichiarazioni sostitutive di
atto notorio, scritti non dissimili da quelli verbalizzati dall’amministrazione.
Si è così ammesso l’utilizzo di tali dichiarazioni per sostenere le argomentazioni del contribuente ad esempio in tema di acquisto di beni immobili, dove è
stata riconosciuto valore alla dichiarazione dei genitori in merito alla provenienza del denaro utilizzato (Commissione regionale di Milano 29.11.2000 n. 223) ed
agli aiuti economici ottenuti dal contribuente per il mantenimento dell’immobile
stesso (Commissione regionale dell‘Umbria 24.10.2000 n. 562)29.
Anche la Cassazione si è spesso pronunciata per l’utilizzabilità nel giudi27 In I quattro codici della riforma tributaria Big Ipsoa, come pure la sentenza della Commissione della Basilicata citata nel testo.
28 In I quattro codici della riforma tributaria Big Ipsoa.
29 Entrambe in Bollettino tributario d’informazione 2001 pag. 1259 e 69.
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zio tributario dell’atto notorio prodotto dal contribuente, proprio per garantire
l’effettività del suo diritto di difesa e la parità delle armi delle parti; oltre alla
decisione n. 4269 del 25 marzo 2002, già citata, che proprio richiama il principio del giusto processo di cui all’articolo 111 della Costituzione, ricordo Cassazione 22.4.2003 n. 6407 che, in tema di accertamento bancario, ha ammesso
la produzione di atto notorio con dichiarazione di un parente del contribuente
accertato, o ancora, le più recenti Cassazione 13.11.2006 n. 24200 e Cassazione
16.5.2007 n. 11221.
Segnalo, tuttavia, un “ripensamento” dei Supremi Giudici che, con sentenza n.
703 del 15.1.2007, si sono discostati da questo orientamento, affermando che la
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà avrebbe attitudine solamente certificativa, priva di ogni efficacia in sede giurisdizionale, trovando il suo ingresso nel
processo “ostacolo invalicabile” nel divieto di cui all’articolo 7 del D.Lgs.546. 30
Ancor più recente, tuttavia, a conferma della corrente ormai prevalente, Cassazione 21.4.2008 n. 10261 che in modo puntuale e preciso ribadisce che, cosi
come le dichiarazioni raccolte dai verificatori “non hanno natura di prova testimoniale bensì di meri indizi … utilizzabili per la formazione del convincimento
del giudice di merito” così al contribuente è assicurato un pieno diritto di difesa,
poiché anch’egli “può produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in
sede extra – processuali con il medesimo valore probatorio”, nel pieno rispetto del
principio del giusto processo costituzionalmente garantito.
30 Tutte le sentenze della Corte di Cassazione citate sono riportate in In I quattro codici della
riforma tributaria Big Ipsoa.
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