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“Il presente dirige il passato come un direttore d`orchestra i suoi
Chiara Marasco
“Il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi
suonatori”. Le avventure della memoria nelle pagine dell’ultimo Svevo
In una lettera a Svevo datata 30 gennaio 1924, James Joyce definisce La coscienza di Zeno
“il Suo miglior libro” e confessa di essere rimasto colpito, fra l’altro, dal “trattamento del tempo nel
romanzo” (Maier 1965 cur., 29). Tale commento doveva lasciare una traccia in Svevo che, dopo il
successo inaspettato, decide di ascoltare i “fantasmi” che, come racconta in una lettera a Montale,
lo seccano ogni giorno per riportarlo alla scrittura, ma “il difficile a 65 anni non è di cominciare ma
di finire”(Svevo 1966, 790). Come ha sempre fatto, lo scrittore triestino tende a riflettere sui
problemi dell’età che sta vivendo ecco perché i grandi protagonisti delle sue opere hanno l’età
dell’autore all’epoca della loro composizione: così le numerose pagine che vanno a confluire in
quella sorta di opera aperta che è l’ultima produzione sveviana (che comprende racconti, pagine
sparse, commedie, progetti incompiuti come il quarto romanzo) hanno come protagonista la figura
del senex che ora, nell’ultima stagione della vita, “ai margini di una società votata al culto giovanile
dell’efficienza e della produttività”, si affida al sentimento del tempo e della memoria (Bondi 1996,
259).
Protagonista dell’ultima produzione sveviana è, infatti, la “vecchiaia selvaggia”, una
dimensione che, come quella infantile, è “fuori dall’età” perché “dispensata dalle convenzioni che
l’esistenza sovrappone ad ogni originalità” (Magris 1985, xxxiv), più adatta a cogliere la fluida
superficie della vita, ad accettare il carattere ermeneutico del divenire. Il vegliardo prova a truffare
madre natura, prima con un’operazione di ringiovanimento, poi con un’avventura erotica, per poi
rendersi conto di essere fuori posto e che quella che prima sembrava fosse la vita “era invece una
specie di morte” (Svevo 2004c, 765). Rassegnato alla propria debolezza ontologica e consapevole
della mancanza di un senso ultimo dell’esistenza, ha bisogno ora del raccoglimento per conciliare il
tempo misto della vita con i tempi puri della grammatica. L’esito di questa sintesi, che non può più
essere quella conclusa del romanzo, sarà il frammento, unica forma aperta della scrittura.
Tutti i vegliardi fanno passare l’ultimo anelito di vita attraverso la scrittura: anche le cose non
raccontate attraverso i silenzi della pagina, le omissioni e gli spazi vuoti assumono un significato,
sottratti ad ogni disordine: “Il tempo vi è cristallizzato e lo si ritrova se si sa aprire la pagina che
occorre. Come in un orario ferroviario” (Svevo 2004a, 1227).
Nelle Continuazioni Zeno definisce il tempo la sua “specialità”, tanto da arrivare a
teorizzarne una sorta di grammatica: già nella Coscienza il tempo “non è quella cosa impensabile
che non s’arresta mai” (ivi, 635), può percorrere all’indietro i labirinti del passato, ma non è mai
veramente il tempo vissuto, ma solo una costruzione incompleta, parziale. Attraverso la scrittura il
tempo varca i confini della memoria (Lepschy 1984), impedisce la dimenticanza e sottrae i ricordi
all’ ”automatismo della percezione” (cfr. Palmieri 2004, p.1649).
La nozione di tempo, però, non rimane immutata nei vari frammenti: dal tempo ultimo delle
Confessioni del vegliardo si passa al lunghissimo presente de Il mio ozio. Il tempo ultimo del
romanzo diventa anche il frutto della costante e duplice attività sveviana, quella di romanziere e
quella di scrittore teatrale. Il teatro, attraverso La rigenerazione, consegna allo scrittore l’estrema
trama possibile per un nuovo romanzo. Protagonista della commedia è Giovanni Chierici
pseudonimo e alter ego di Zeno Cosini con cui condivide la sensazione spiacevole di aver perso il
proprio ruolo in famiglia e di non essere adeguatamente rispettato. Chierici è un personaggio
esemplare, uno straordinario vegliardo apparentemente apatico, ma in realtà desideroso ancora di
recuperare la perduta giovinezza. È distratto, autore di costanti lapsus e motti di spirito e
naturalmente, come il suo illustre predecessore, formidabile bugiardo. Curiosa è la sua incapacità di
ricordare i nomi, sicché la mancata revisione onomastica nel testo si intreccia con le incertezze e le
amnesie del protagonista. Si proclama strenuo difensore della propria moralità almeno fino a
quando la sua ribellione si traduce in volontà di trasgressione erotica. La fantomatica operazione di
ringiovanimento, alla quale pensa di essersi sottoposto gli permette di staccarsi dal tempo presente e
di abbandonarsi al pensiero della giovinezza, al sogno della memoria, a provare effetti simili a
quelli prodotti dalla madeleine proustiana. Abbandonandosi alla rapsodia dei ricordi che gli
permettono di “rivivere” la sua gioventù sente la vita ribaltarsi mentre ritorna ai suoi esordi.
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L’immagine estemporanea di una donna del passato, Margherita/Pauletta , donna-simbolo del
rinnovato desiderio, si trasferisce nelle fattezze della domestica e raggiungibile Rita/Renata grazie
alla quale Giovanni pensa di provare l’efficacia dell’operazione, chiamandola a collaborare alla sua
“opera igienica” (Svevo 2004c, 730). Bacia la ragazza, ma la sua trasgressione ha il volto effimero
della derisione. Nella commedia il tempo è scandito dai sogni che rappresentano il “momento
privilegiato dell’autocoscienza” del personaggio (cfr. Blazina 1985). Proprio la dimensione onirica
svela la verità (alètheia) e sancisce definitivamente il ritorno alla moralità e la rinuncia all’amore.
Se in alcuni racconti di questi ultimi anni, Svevo fa passare l’esistenza dei suoi personaggi
attraverso il sogno, nelle pagine che più si avvicinano alla costellazione delle Continuazioni, Svevo
sperimenta e teorizza il suo particolare sentimento del tempo.
Nell’ultima officina sveviana il tema della memoria diventa imprescindibile. La memoria
non è mai per i personaggi sveviani un archivio immutabile di ricordi, che, invece, possono essere
sottoposti ad una serie di mutamenti: la memoria è una funzione creativa che elabora i dati registrati
in maniera diversa a seconda della situazione personale, del contesto, del tempo trascorso tra
registrazione e rievocazione. Ricordare il proprio passato significa per il vegliardo guardarsi allo
specchio e vedersi con gli occhi della mente, ma soprattutto dell’immaginazione: ecco che i ricordi
del passato si trasformano in avventure valide se filtrate e convertite in segni dalla memoria. È
quello che accade a Giovanni Chierici, ma anche allo Zeno vegliardo traditi, nello sforzo del
ricordare, da una memoria creatrice e ingannatrice che trasforma in simulacri i fantasmi del passato.
Il vegliardo si abbandona ai ricordi: la sua è una memoria assolutamente volontaria e imperfetta che
trascura i dettagli, che fatica a ritrovare momenti che pur avranno avuto la loro importanza, come
capita al vecchio protagonista del racconto autobiografico, L’avvenire dei ricordi, forse il più
emblematico racconto incompiuto di questi ultimi anni.
Roberto Erlis lascia penetrare, nel racconto del passato, riflessioni significative sul processo
della memoria: il passato è troppo lontano per essere ritrovato, lo scorrere del tempo genera una
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costante perdita di precisione e nitidezza del ricordo stesso . Cerca di ricostruire il lungo viaggio
compiuto da ragazzo per recarsi al collegio di Segnitz, ma si accorge che “il ricordo lontano non
conosce tanta esattezza” (Svevo, 2004b, 432) e che finisce per ritrovare non la “la propria infanzia,
ma i diversi momenti della sua vita nei quali egli l’ha ricordata e ha ripensato a questi ricordi,
fatalmente variandoli” (Magris, 1985, xxii). Eppure fra tanti ricordi riemerge l’immagine di “un
ragazzotto un po’ zoppo”, il facchino del collegio che mai più avrebbe rivisto. Ma a volte basta un
suono, un rumore, per ricordare qualcos’altro: “Fortunata l’ora che può essere individuata da un
particolare qualunque anche se non poté avere importanza alcuna” (Svevo 2004b, 436). La memoria
mostra di essere una straordinaria “forza attiva” capace di “muoversi nel tempo come gli
avvenimenti stessi”: “quel delizioso lavorio” permette quindi al protagonista di rivivere “proprio le
persone e le cose”, ricercando nel mare dei ricordi “poche e piccole isole emergenti” come quelle
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La stessa avventura capita a Giovanni, il protagonista di Vino generoso dove però il nostalgico recupero del
passato si traduce nella tentazione di “riappropriarsi di ciò che è represso e di ciò che è dimenticato: un’esigenza vitale,
ma insieme un’angosciosa tentazione, un pericolo che può condurre alla morte e da cui bisogna difendersi” (cfr.
Amoretti, 1979, 87)
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La verità, altro tema topico dell’opera sveviana, è qui intesa nell’accezione originaria di “manifestazione”e
“svelatezza”: la parola a-lètheia, secondo Heidegger, indica ciò che esce dall’oblio (lèthe) rivelandosi, dopo essere stato
nascosto (Heidegger, 1997).
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Il tema del ricordo fa pensare a uno studio sulle disfunzioni della memoria, forse conosciuto da Svevo, Le
Maladies de la mémoire di Ribot (1881). A tal proposito cfr. le note di Clotilde Bertoni al racconto L’avvenire dei
ricordi (Svevo, 2004b).
più laceranti, piene di “luce e dolore” (ivi, 438), che hanno segnato il distacco dai genitori. Ed ecco
che il “passato si abbatte sul presente, è la memoria stessa, il presente del passato è la memoria”
Cfr. Cavaglion 2000, 179).
Roberto Erlis è il protagonista anche de La morte, scritta presumibilmente fra il 1923 e il
1925, un altro racconto incompiuto, almeno formalmente, ma che è perfettamente concluso, perché,
a differenza dei testi che ad esso seguiranno, sembra finalmente chiudere il cerchio infinito della
vita. È un personaggio apparentemente pacificato che serenamente, fra le proprie mura domestiche,
ripensa, insieme alla moglie, ai ricordi del passato, che, dice “è sempre nuovo: Come la vita procede
esso si muta perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate nell’oblio mentre altre
scompaiono perché oramai poco importanti. Il presente dirige il passato come un direttore
d’orchestra i suoi suonatori” (Svevo 2004b, 412). Ad un certo punto però irrompe improvvisa,
inaspettata la morte (e qui la morte non è la conseguenza di un comportamento trasgressivo, come
nella Novella del buon vecchio e della bella fanciulla), evento che aveva sempre occupato i suoi
pensieri poiché in fondo la sua vita era stata una preparazione alla morte. L’agonia del protagonista
è descritta analiticamente, come se nel racconto – mette in evidenza Mario Lavagetto (Svevo 200ab,
xxv)- il narratore abbia iniettato dosi massicce di annina, il siero che il dottor Menghi, in un antico
racconto, aveva inventato per rendere più intensa la vita, accelerandone, però, al tempo stesso, la
morte. Il testo rappresenta un momento di esemplare riflessione sul precipitare del tempo, sulla
ineluttabilità morte, sui suoi effetti, sull’orrore: l’esame di coscienza e il pentimento dovuto alla
colpa si traduce forse in avvicinamento ad una dimensione trascendentale.
Nelle Continuazioni la morte sarà sempre implicitamente presente, evocata, temuta, ma alla fine
rimossa. Ci troviamo di fronte ad una narrazione in cui la linearità temporale lascia il posto alla
memoria e (Robbe-Grillet 1963) il tempo diviene soggettivo, non progressivo, e i piani e le distanze
si mescolano e si intrecciano tra passato e presente. Rileggendo nel presente il proprio passato il
vecchio Zeno Cosini sceglie gli avvenimenti da raccontare, li organizza e li manipola, dà loro una
coerenza che è tale solo alla luce del presente; la conoscenza allora non sembra darsi nell’attualità
dello spazio e del tempo, ma nel ricordo che però non restituisce mai la verità del passato. In un
appunto del 1928, Svevo sostiene che “un avvenimento è sempre grezzo, disordinato, stonato” e che
il “ricordo corregge. Tutto esso fa dolcemente fondere” (Svevo 2004b, 772). I suoni i rumori che
hanno accompagnato determinati eventi nel passato si fondono, si compenetrano con le sensazioni e
le emozioni del presente attraverso quel fenomeno fisico chiamato da Bergson “endosmosi” (2002,
71). Solo la memoria allora è in grado di dare senso agli eventi, disegnandone l’ordine e i nessi
creando una “quarta dimensione dello spazio”, un “tempo omogeneo” in cui tutto o quasi può essere
ritrovato. Per Bergson però la coscienza è durata, ogni istante dipende anche dal passato, e la
continuità è nella natura stessa dell’anima (la coscienza è energia creatrice); per Svevo, è il
presente a svelare il passato, la coscienza è discontinuità e incertezza e consapevolezza di questa
discontinuità e si colloca agli antipodi di ogni slancio vitale. Il tempo per Svevo è inoltre reso
uniforme dal calendario e dalle lancette dell’orologio, contrariamente a Bergson che invece
considera il tempo fisico, a differenza di quello interiore, frammentato, disordinato, costituito da
dimensioni diverse modellate sui tempi verbali.
Zeno vegliardo, a cui Svevo presta la voce, guardando indietro al suo passato e al futuro che sta
vivendo, si sente fuori del tempo, in un tempo ultimo, non grammaticale, acronico, in cui può e
deve continuare a scrivere. In quello che è probabilmente il primo abbozzo del romanzo, Le
confessioni del vegliardo, Zeno riprende le carte in mano, quelle in cui ha descritto parte della sua
vita accorgendosi che “non è la più importante. Si fece la più importante” perché è stata fissata:
“Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse, ma colui che descrissi” (Svevo 2004b, 116). Ciò che
la scrittura non ha cristallizzato è dunque irrimediabilmente perduto. In queste righe, mentre Zeno
prova a ritrovare il filo del racconto, risuona il concetto dell’individuo che costruisce se stesso
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nell’atto di raccontarsi : l’identità nasce nel linguaggio e nella dialettica tra presente e passato, un
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Svevo mette in moto un dispositivo narrativo che sembra anticipare alcuni costrutti cardine della psicologia
passato mai definitivo, ma ridisegnato e corretto continuamente da una sentimento che muta col
tempo, privata di ogni aspirazione di verità. La vita scritta non può corrispondere mai alla vita vera,
ma si rappresenta “più seria di quanto non sia. La vita stessa è diluita e perciò offuscata da troppe
cose che nella sua descrizione non vengono menzionate […] raccontandola, la vita si idealizza”
(Svevo 2004a, 1227-1228). È la consapevolezza alla quale arriva lo stesso Svevo che rinuncia alla
scrittura diaristica dei primi abbozzi del romanzo: il vecchio Zeno non sa più cosa scrivere, le sue
memorie si sono trasformate in fotogrammi di vita quotidiana (cfr. Amoretti 1979, 78), in una
specie di album di famiglia nel quale lui finisce per essere un semplice comprimario; questa
impasse narrativa, già profetizzata da Debenedetti, che, però, bisogna ricordare conosceva solo una
parte dei frammenti (il cosiddetto Vecchione), viene superata con un nuovo esordio nel quale Svevo
programmaticamente cede alla tentazione proustiana. Le Continuazioni possono essere considerate
l’atto finale, la chiusura ciclica della Coscienza, così come Il tempo ritrovato doveva esserlo della
Recherche, un’opera indefinitamente aperta (Marasco 2010).
Svevo si era affrettato a leggere Proust nel 1925 dopo che Larbaud gli aveva fatto notare la sua
vicinanza all’autore della Recherche. Anche la scelta del termine “vegliardo”, apparso già negli
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appunti per la Conferenza su James Joyce , sembra prelevato dalla sfilata di decrepiti vegliardi
nella matinée Guermantes del Tempo ritrovato:
Nel Tempo ritrovato, a conclusione di Alla ricerca del tempo perduto, Proust mostra
come sprofondando in se stesso, l’io salva ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente
perduto […]. L’oblio strappa alla corrente della vita frammenti di realtà allo stato puro e
li consegna alla dimensione inconsapevole della memoria in quanto ricordi sepolti,
dimenticati. Quando essi riaffiorano alla memoria (che da inconsapevole si fa
consapevole e da involontaria volontaria) ciò che si credeva finito nel nulla è di colpo
ritrovato. E lo è con un valore aggiunto […]. Infatti il passato ritorna a noi in una luce di
eternità che ce lo rende quanto mai prezioso. In quella luce non solo il passato è sottratto
alla caducità, ma noi con esso (Givone 2001, 388-389).
Proust, scrive Auerbach, cerca il ricordo, “affidandosi sí alla propria coscienza, ma non a
quella del momento presente, bensì alla coscienza del ricordo”; la “coscienza revocatrice” “vede in
prospettiva i propri strati passati, con il loro contenuto, confrontandoli continuamente fra di loro,
liberandoli dalla loro successione cronologica esteriore come pure dal significato più stretto legato
al presente” ( Auerbach 2000, 326).
“Solo pochi scrittori sono ricorsi con tanta coerenza al riflettersi della coscienza e alla
stratificazione dei tempi” (ivi, 329), al procedimento di “dare rilievo al contrasto tra sentimento
interiore del tempo e occasioni esterne, per il quale il lettore è portato a svalutare i fatti ed a
comprendere che la vera realtà è quella della coscienza” (Maxia 1965, 111) fra questi: Proust,
Virginia Wolf - e , certamente, riteniamo - anche Svevo. Nelle sue ultime pagine Svevo va alla
ricerca di un piano narrativo “nuovo”, dominato da ciò che lui stesso definisce tempo “misto” e che
corrisponde alla sintesi “del passato, del presente, e dell’avvenire” (Maxia 1965, 107). E che altro
non è, ritiene Maxia, che “il tempo- durata dei narratori del flusso di coscienza” (ivi, 118).
La coscienza corregge il passato che può diventare “sempre nuovo” in base alle esigenze del
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presente . Il passato, però in Svevo, non è quello perduto e ritrovato da Proust, ma creazione
dell’immaginazione e della scrittura che cerca di fissare, cristallizzare la vita. La memoria, infatti,
narrativa, soprattutto il narrativismo di cui Jerome Bruner è uno dei massimi rappresentanti (cfr. Bruner, 1988).
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“Se a questo mondo non ci fossero dei vegliardi sarebbe impossibile d’immaginare che dalla faccia rosea del
bambino esprimente una vita ancora quasi informe, possa evolversi quella cartapecora cura ch’è la pallida faccia del
vegliardo, tutta linee tratte dalla vita nel lungo tempo uno dopo l’altra, senza riguardo all’armonia”(Svevo, 2004c, 941) .
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Il tema del tempo e del ricordo attraversa tutta la produzione sveviana, già dal primo racconto, L’assassinio di via
Belpoggio. In Una vita il primo incontro fra Alfonso e Francesca permette al narratore di mostrare le distorsioni della
memoria: “Egli viveva solo, sognando dolorosamente il suo paese, e, a forza di pensarci, trasformandolo. La signorina
parlandone rettificava il suo ricordo e gli sembrava gliene desse una novella impressione”(Svevo, 2004a, 34).
non può ricostruire il passato, perduto per sempre, ma può provare a ricostruire, interpretare “ciò
che si è inabissato nell’oscurità dell’oblio”, creare una nuova realtà che si sostituisce alla realtà
fenomenica, diventando l’unica possibile, perché fissata dalla scrittura” (cfr. Raimondi 2008, 250).
Per Proust il ricordo è intoccabile, non può essere mutato, per Svevo, afferma Langella:
il ricordo non ha invece altro significato al di fuori di quello che via via gli viene
attribuito nel corso del tempo. La memoria sveviana non ha rispetto per la verità
effettuale dei vissuti, non si sente tenuta a riprodurli fedelmente, agisce piuttosto come un
prisma che altera e associa i ricordi, li fa scorrere nel tempo, li incrocia, li sovrappone, li
ordina secondo i suoi criteri, che sono poi quelli dettati dalla conoscenza” (1992, 184).
Il tempo è rivissuto attraverso il filtro opaco della scrittura e ciò impedisce la reale restituzione del
passato: il viaggio a ritroso della memoria diventa ennesima mise en récit della parola.
È soprattutto nelle pagine iniziali di Prefazione che Svevo chiarisce la sua interpretazione
della teoria del tempo filtrata da Proust: l’epifania di una “fanciulla giovanissima” acquista agli
occhi del vecchio Zeno il valore di un’avventura simbolica, quasi sacra. È uno scherzo della
memoria, un revenant, frutto della memoria involontaria, in realtà una sorta di lapsus che tradisce
un desiderio erotico del vegliardo: Zeno si lamenta di non sapersi muovere “abbastanza sicuro nel
tempo” quando, in automobile con Augusta, saluta una “bella fanciulla” riconoscendo in lei
un’immagine lieta del passato, la figlia del vecchio Dondi, suscitando l’ilarità della moglie che
bruscamente interrompe i suoi sogni facendogli notare che la Dondi era ormai vecchia quanto loro.
Per Zeno l’evento si trasforma, nell’acquisita consapevolezza di essere diventato vecchio e che
“tutti i miei contemporanei son vecchi. Anche quelli ch’io non vidi invecchiare e anche quelli che
restarono celati e non fecero mai parlare di sé, non sorvegliati da alcuno, ogni giorno pur
invecchiarono”. Il vegliardo è costretto a nascondere “quel lampo di gioventù” e ridere della sua
stoltezza con Augusta consapevole delle “devastazioni” che il tempo compie “con ordine sicuro e
crudele”: “Io stesso ricordo meglio le avventure della mia giovinezza che l’aspetto e il sentimento
suo. In certi istanti insensati mi pare essa ritorni e debbo correre allo specchio per mettermi a posto
nel tempo”. Solo “per un istante insensato” Zeno (che si sente non vecchio, ma arrugginito),
dunque, ringiovanisce e sente di poter di nuovo “afferrare, di tenere, di lottare”, ma poi si interroga
sulla sua incapacità nel passato di cogliere “quel fiore raro”, quel momento unico di cui solo ora che
si è allontanato da quel lontano presente si rende conto. Alla stessa maniera, dunque, non è più
possibile riprodurre la vita che “è fluida, è e diviene”, senza lasciarsi fuorviare dalle impressioni
immediate, bisogna piuttosto chiudersi nella propria stanza per “guardare e analizzare il presente
nella sua luce incomparabile. E raggiungere anche quella parte del passato che ancora non svanì non
per serbarne memoria”, ma per raccogliersi (Svevo 2004a, 1221-1226).
La seduzione proustiana non dura a lungo e, già nelle pagine della Prefazione, Svevo
enuncia l’ennesimo assioma sul tema della memoria: “Può essere che il tempo non esista assicurano
i filosofi, ma esistono certamente i recipienti che lo contengono e sono quasi perfettamente chiusi.
Spandono solo poche gocce l’uno nell’altro” (ivi, 1231). “Ogni sforzo per trasferirsi da un tempo e
l’altro” sarebbe dunque vano. (Langella 1992 p. 187). La forbice fra passato e presente sembra
definitivamente chiusa: dopo aver ceduto alla memoria involontaria, Svevo rinuncia alla coesistenza
fra passato e presente per vivere nel tempo ultimo del raccoglimento. Si tratta dell’ultima fioca
protesta del vegliardo che, prima di rassegnarsi definitivamente al silenzio, ha ancora bisogno di
guardare indietro al passato: “Chi può togliermi il diritto di parlare, gridare e protestare? Tanto più
che la protesta è la via più breve alla rassegnazione” (Svevo 2004a, 1234). In effetti il vegliardo
sembra aver trovato il suo equilibrio, forse ha terminato la sua ricerca, non ha più neanche bisogno
di sognare “perché ha abolito definitivamente ogni senso di colpa esaurendo nella scrittura ogni
possibile ribellione alla sua situazione senile” (Luti 1995, 210-211).
Nella sottrazione dell’orizzonte del futuro, di fronte, come dice all’esperienza della
“mutilazione per cui la vita perdette quello che non ebbe mai, il futuro”, il vegliardo si dedicherà
alla “ripetizione” della vita: alla ripresa e correzione del proprio passato e del proprio presente.
La stessa ciclicità delle Continuazioni rimanda ad un eterno ripetersi di nomi, personaggi,
trame, situazioni, come se quella storia non debba finire, ma al massimo possa offrire nuove
soluzioni, nuove chiavi di lettura, nuove interpretazioni all’interno del grande laboratorio
romanzesco che è l’opera sveviana: un lungo e complesso romanzo di formazione e deformazione
attraverso cui i protagonisti si ripetono e si trasformano e di cui Zeno vegliardo appare l’ultimo
approdo.
Negli scritti su Joyce viene analizzata la trasformazione del vecchio in vegliardo che porta
“indelebili sulla faccia i segni della vita che ha vissuto, interpretabili a piacere come ‘cicatrici’ e
come ‘caricature’ ” (Contini 1980, 26).
L’ipotetico quarto romanzo di Svevo cancella e riscrive continuamente se stesso, attraverso
un meccanismo che lo stesso autore spiega, parafrasando un testo di Joyce: “Nello stesso modo
come il nostro corpo è fatto e disfatto giorno per giorno per il lavoro di una spola che aggiunge o
leva i fili che lo compongono, così l’artista distrugge e ricostruisce ogni giorno la propria
immagine” (Svevo 2004c, 920).
Per sottrarsi indefinitamente al confronto con la vita e con la morte il vegliardo si abbandona alla
contemplazione e al raccoglimento, affidando l’avvenire dei ricordi, ciò che Bachelard definisce
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suggestivamente rêverie (2008) , a “quel grande universo che è la pagina bianca” e che nell’opera
sveviana appare infinita e inconclusa come la vita.
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Svevo I.
1966 Epistolario, a cura di B. Maier, Milano, dall’Oglio.
2004a Tutte le opere, Romanzi e «Continuazioni», a cura di N. Palmieri e F. Vittorini,
Milano,“Meridiani”Mondadori.
2004b Racconti e scritti autobiografici, a cura di C. Bertoni, Milano, “Meridiani”
Mondadori.
2004c Teatro e Saggi, a cura di Federico Bertoni, Milano, “Meridiani” Mondadori.
Verbaro C.
1997 Italo Svevo, Soveria Mannelli, Rubbettino.
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