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Prima di diventare grande Truman Capote scrisse

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Prima di diventare grande Truman Capote scrisse
DIREPUBBLICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016 NUMERO 584
ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO PER “LA REPUBBLICA”
Cult
La copertina. I guerriglieri dell’editoria
Straparlando. Mimmo Jodice: “Fermo il tempo”
I tabù del mondo. Se passa lo straniero
Prima di diventare grande Truman Capote
scrisse dei brevi racconti. Solo ora ritrovati
e per la prima volta pubblicati. Eccone uno
Il piccolo
Truman
TRUMAN CAPOTE
A
VEVO OTTO ANNI la prima volta che vidi Miss Belle Rankin.
Era un giorno caldissimo di agosto. Il sole declinava nel
cielo listato di scarlatto, e il calore si alzava secco e vibrante dalla terra.
Seduto sui gradini della veranda davanti a casa, guardavo una negra che si stava avvicinando e mi chiedevo come facesse a
portare sulla testa un fagotto così enorme di biancheria da lavare. Lei
si fermò, e per tutta risposta al mio saluto scoppiò in una risata: il riso
cupo e strascicato dei negri. Fu allora che Miss Belle venne avanti a
passo lento dalla parte opposta della strada. La lavandaia la vide e, come se si fosse improvvisamente spaventata, si interruppe a metà di
una frase e in fretta ripartì per la sua destinazione. Guardai a lungo e
con grande attenzione quella sconosciuta di passaggio capace di provocare un comportamento così strano. Era piccola e tutta vestita di nero, coperta e striata di polvere: sembrava incredibilmente vecchia e
rugosa. Ciocche di radi capelli grigi le attraversavano la fronte, zuppe
di sudore. Camminava a testa bassa guardando il marciapiede non lastricato, quasi come se stesse cercando qualcosa che aveva perduto.
La seguiva un vecchio cane nero e rossiccio, procedendo senza meta
sulle tracce della sua padrona.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN ARTICOLO DI IRENE BIGNARDI
L’attualità. La Grecia vota per Aristotele I luoghi. Oggi Gabo ritorna a Cartagena Spettacoli. Amore, il più bel film scritto da Suso
Cecchi d’Amico Next. La storia si fa (anche) con il Dna L’incontro. Giorgio Ferrara: “Non sopporto gli artisti dal baffo moscio”
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
26
La copertina. Il piccolo Truman
Miss Belle Rankin era soltanto una vecchia pazza
o almeno così la dipingevano i suoi concittadini
nel profondo sud degli Stati Uniti d’America
I
<SEGUE DALLA COPERTINA
TRUMAN CAPOTE
N SEGUITO LA VIDI MOLTE VOLTE, ma quella prima visione, molto simile a
IL LIBRO
“DOVE COMINCIA
IL MONDO.
I PRIMI RACCONTI”
DI TRUMAN CAPOTE
(TRADUZIONE
DI VINCENZO
MANTOVANI,
GARZANTI,
163 PAGINE,
18 EURO),
DI CUI FA PARTE
ANCHE
IL RACCONTO
CHE QUI
ANTICIPIAMO,
“MISS BELLE
RANKIN”,
SARÀ IN LIBRERIA
DA GIOVEDÌ
26 MAGGIO
un sogno, rimarrà per sempre la più nitida: Miss Belle che camminava
silenziosamente per la strada, alzando con i piedi nuvolette di polvere
rossa prima di sparire tra le ombre del crepuscolo.
Alcuni anni dopo, nel drugstore d’angolo del signor Joab, stavo bevendo avidamente uno dei suoi speciali frappè. Ero seduto a un’estremità del banco, e all’altro capo c’erano due dei bulli più noti della città
e uno sconosciuto. Lo sconosciuto aveva un’aria assai più rispettabile
della gente che di solito bazzicava il locale di Joab. Ma era quello che
stava dicendo con una voce bassa e rauca che attirò la mia attenzione.
«Ragazzi, conoscete qualcuno da queste parti che abbia qualche
bella pianta di camelie da vendere? Ne sto cercando qualcuna per una
donna della costa orientale che sta costruendosi una casa a Natchez». I due ragazzi si scambiarono un’occhiata, e poi uno di essi, che era grasso con gli occhi enormi
e si divertiva un mondo a stuzzicarmi, disse: «Be’, Mister, sa cosa le dico? L’unica
persona che conosco da queste parti che ne ha di favolose è una vecchia tipa molto
strana, Miss Belle Rankin: abita mezzo miglio fuori città, in una casa bella stravagante. È una casa vecchia e in rovina, costruita un po’ prima della guerra civile.
Stravagante è dire poco; comunque, se quello che sta cercando sono le camelie, lei
ha le più belle che io abbia mai visto».
«Sì», disse con voce acuta l’altro, che era biondo e foruncoloso e sosteneva il ruolo di spalla del ciccione. «Gliele dovrebbe vendere. Da quello che sento, sta morendo di fame laggiù: ha solo un vecchio negro che vive con lei e zappa tra le erbacce
del pezzo di terra che chiamano giardino. Accidenti, ho sentito che l’altro giorno è
entrata al Jitney Jungle market e girava tra i banchi raccogliendo verdura andata
a male che si è fatta regalare da Olie Peterson. La strega più strana che abbia mai
visto: all’ombra le daresti anche cent’anni. I negri ne hanno una paura folle…».
Ma lo sconosciuto interruppe il torrente di informazioni del ragazzo e chiese:
«Bene, allora, credete che possa vendere?».
«Certo», disse il ciccione, col sorrisetto di chi la sa lunga.
L’uomo li ringraziò e si avviò all’uscita, poi si voltò di colpo e disse: «Ragazzi, vi
andrebbe di accompagnarmi e farmi vedere dov’è? Poi vi riporto io in città».
I due fannulloni acconsentirono. Erano tipetti sempre ansiosi di farsi vedere a
bordo di un’auto, specie con estranei, perché così davano l’impressione di avere
delle conoscenze; e, comunque, c’era sempre il premio delle inevitabili sigarette.
Fu circa una settimana dopo, quando tornai da Joab, che venni a sapere
com’era andata a finire. Il ciccione lo stava raccontando con grande fervore a un
uditorio formato da Joab e da me. Più forte parlava e più drammatico diventava.
«Io dico che quella vecchia strega dovrebbe essere cacciata dalla città. È matta
da legare. Prima di tutto, quando scendiamo dalla macchina cerca di mandarci
via. Poi ci sguinzaglia alle calcagna quello strano cane che ha. Scommetto che la
bestia è più vecchia di lei. Be’, comunque, quel bastardo ha cercato di strapparmi
striature perlacee nel cielo. Fuori faceva freddo e l’aria ferma era attraversata da
raffiche intermittenti di un vento famelico che mordeva i rami grigi e spogli dei
grandi alberi intorno alle rovine di quello che un tempo era stata la maestosa “Rose Lawn”, dove viveva Miss Rankin. La camera era fredda quando si svegliò, e lunghe lacrime di ghiaccio pendevano dalle grondaie del tetto. Mentre si guardava intorno in quel grigiore fu scossa da qualche brivido. Con uno sforzo scivolò da sotto
l’allegro mosaico colorato della trapunta. Inginocchiandosi davanti al caminetto,
accese i rami secchi raccolti da Len il giorno prima. La sua manina, rattrappita e
gialla, lottò con il fiammifero e la ruvida superficie del blocco di calcare. Dopo un
po’ i rami presero fuoco; si sentì lo scoppiettìo del legno e il fruscìo delle fiamme
saltellanti, simile a un tintinnìo di ossa. Lei restò un momento davanti alla vampa
per scaldarsi, poi si spostò con passo incerto verso la catinella gelata. Quando ebbe finito di vestirsi, andò alla finestra. Cominciava a nevicare, la neve rada e acquosa che cade negli inverni del sud. Si scioglieva appena toccava terra, ma Miss
Belle, pensando alla lunga camminata che avrebbe dovuto fare quel giorno per andare in città a procurarsi qualcosa da mangiare, si sentì girare un po’ la testa. Poi
rimase a bocca aperta perché vide, sotto di lei, che le camelie stavano sbocciando;
erano più belle di come le avesse mai viste. I vividi petali rossi erano gelati e immobili.
Una volta, a quanto poteva ricordare, negli anni in cui Lillie era una bambina,
ne aveva raccolti cesti interi, riempiendo della loro sottile fragranza le grandi
stanze vuote di Rose Lawn; e Lillie le rubava e le regalava ai piccoli negri. Come si
era arrabbiata! Ma ora il ricordo le strappò un sorriso. Erano passati almeno dodici
anni dall’ultima volta che aveva visto Lillie. Povera Lillie, ormai è una vecchia anche lei. Avevo appena diciannove anni quando è nata, ed ero giovane e carina. Jed
diceva che ero la più bella ragazza che avesse conosciuto… ma è successo tanto
tempo fa. Non ricordo esattamente quando ho cominciato a essere così. Non ricordo quando sono diventata povera, quando ho cominciato a invecchiare. Immagino che sia successo dopo la partenza di Jed… chissà che fine ha fatto. Mi disse che
ero brutta, che ero uno straccio, e prese e se ne andò, lasciandomi sola con Lillie…
E Lillie era una poco di buono, una poco di buono… Si portò le mani al viso. Le faceva ancora male ricordare, eppure quasi ogni giorno tornava con la mente a queste
stesse cose, che certe volte la facevano infuriare; e allora urlava come una matta,
come quando era arrivato quell’uomo con i due balordi che sghignazzavano, l’uomo che voleva comprare le camelie; non le avrebbe mai vendute, mai. Ma quell’uomo le faceva paura; aveva paura che gliele rubasse; e lei cosa poteva fare? La gente le avrebbe riso dietro. Ed era per questo che aveva inveito contro di loro; per
questo li odiava, tutti quanti.
Len entrò nella stanza. Era un negro piccolo, vecchio e curvo, con una cicatrice
sulla fronte. «Miss Belle?» chiese con una voce asmatica. «Voleva andare in città?
Io non lo farei se fossi in lei, Miss Belle. C’è un bruttissimo tempo oggi, là fuori».
Quando parlava, gli usciva dalla bocca una nuvoletta di vapore che sembrava fumo, disperdendosi nell’aria fredda.
«Sì, Len, oggi devo andare in città. Uscirò tra poco; voglio essere di ritorno prima che faccia buio». Fuori, il fumo del vecchio camino si alzava in lente volute e rimaneva sospeso sopra la casa come una nebbia azzurrina, come
se fosse gelato: prima che arrivasse una pungente folata di vento a
portarlo via.
Era buio pesto quando Miss Belle affrontò la salita che portava
verso casa. La notte calava molto in fretta durante l’inverno. Quel
giorno arrivò così bruscamente che dapprincipio le fece paura.
Non ci fu il rosso del tramonto, ma solo il grigio perla del cielo che a
poco a poco diventava nerissimo. Nevicava ancora, e la strada era
gelida e fangosa. Il vento era più forte e si udivano gli schiocchi dei
rami secchi. Lei avanzava curva sotto il peso di un grosso paniere.
Era stata una giornata buona. Il signor Johnson le aveva regalato
quasi un terzo di un prosciutto e il piccolo Olie Peterson un mucchio di verdura ormai invendibile. Non avrebbe dovuto tornare in città per almeno due settimane.
Quando fu davanti alla casa si fermò un momento per riprender fiato, lasciando che il paniere scivolasse a terra. Poi, raggiunto il confine del terreno, cominciò
a cogliere alcune camelie che erano grandi come rose; se ne premette una sul viso,
ma non ne sentì il tocco. Ne raccolse una bracciata e tornò indietro fino al paniere,
quando a un tratto le sembrò di aver udito una voce. Si fermò per ascoltare, ma a
risponderle c’era solo il vento.
Si accorse che stava scivolando, ma non poté impedirlo; tese le braccia nel buio
per sorreggersi, ma intorno a lei c’era soltanto il vuoto. Provò a chiedere aiuto, ma
dalla gola non le uscì alcun suono. Si sentiva sommergere da grandi onde di vuoto;
scene fuggevoli le passavano davanti agli occhi. La sua vita, del tutto inutile, una
rapida apparizione di Lillie, di Jed, e una nitida immagine di sua madre con un bastone lungo e sottile.
Il mistero
delle
camelie
con i denti un pezzo di polpaccio, così ho dovuto mollargli un calcio in bocca… e lei
comincia a urlare come una sirena. Finalmente il vecchio negro riesce a calmarla
quanto basta perché si possa rivolgerle la parola. Il signor Ferguson, questo è il nome del forestiero, le ha spiegato che voleva comprare i suoi fiori, sapete, quelle
vecchie piante di camelie. Lei risponde che non ne vuol sapere; per di più, non venderebbe una sola delle sue piante perché di tutte le cose che ha sono quelle che le
piacciono di più. Ora, aspettate che vi dica il resto: il signor Ferguson le ha offerto
duecento dollari per una sola di quelle piante. Avete capito bene: duecento dollari!
La vecchia capra gli ha detto di levarsi dai piedi: così, quando abbiamo visto che
non c’era niente da fare, siamo andati via. Anche il signor Ferguson era molto deluso; contava di tornare con le piante. Ha detto che siamo stati le persone più gentili che abbia mai incontrato». Si piegò all’indietro e tirò un profondo respiro, sfinito dal resoconto. «Maledizione», disse, «che se ne fa di quelle vecchie piante, quando potrebbe venderle a duecento svanziche l’una? Non sono mica bruscolini».
Quando uscii dal locale di Joab, pensai a Miss Belle. Mi ero fatto spesso delle domande su di lei. Sembrava troppo vecchia per essere ancora al mondo: essere così
vecchi doveva essere terribile. Non riuscivo a capire perché tenesse tanto alle camelie. Erano bellissime, ma se era così povera… Be’, io ero giovane, lei era molto
vecchia e le restava poco da vivere. Ero così giovane che non pensavo mai che sarei diventato vecchio anch’io, che anch’io avrei potuto morire.
Era il primo febbraio. Il giorno era spuntato plumbeo e coperto, con bianche
Ricordo che era un freddo giorno d’inverno quando zia Jenny mi portò alla vecchia casa in rovina dove abitava Miss Belle. Miss Belle era morta durante la notte:
l’aveva trovata un vecchio di colore che viveva là con lei. Quasi tutti, dalla città,
stavano andando a dare un’occhiata. Non l’avevano ancora mossa perché il coroner non aveva dato il permesso. Così la vedemmo appena morta. Era la prima volta che vedevo un morto e non la dimenticherò mai.
Giaceva nel cortile accanto alle sue piante di camelie. Le si erano spianate tutte
le rughe sul viso, e i fiori vivaci erano sparpagliati tutt’intorno.
Sembrava piccolissima e veramente giovane. Aveva qualche fiocco di neve sui
capelli e uno di quei fiori era schiacciato contro la sua guancia. Era, pensai, una delle cose più belle che avessi mai visto.
Tutti dicevano che era molto triste eccetera, e io lo trovai piuttosto strano, perché erano gli stessi che ridevano e si burlavano di lei.
Be’, Miss Belle Rankin era di sicuro un tipo strano, e probabilmente anche un
po’ tocca, ma aveva davvero un aspetto adorabile in quella fredda mattina di febbraio, con quel fiore premuto sulla guancia e là distesa, così immobile e silenziosa.
Da Dove comincia il mondo. Titolo originale: The Early Stories of Truman Capote
© 2015 by The Truman Capote Literary Trust. Published by arrangement
with Penguin Random House LLC and Roberto Santachiara Literary Agency
(Traduzione di Vincenzo Mantovani) © 2016, Garzanti S.r.l., Milano
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
27
I turbamenti
di un elfo
adolescente
D
ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO PER “LA REPUBBLICA”
IRENE BIGNARDI
I TRUMAN CAPOTE, l’autore
di “Altre voci, altre
stanze”, de “L’arpa
d’erba”, di “A sangue
freddo”, di “Colazione da
Tiffany”, vista la notorietà e il talento
per l’autopromozione del personaggio,
si sa quasi tutto. E ci sono schiere di non
lettori che conoscono il profilo dello
scrittore per via della notorietà che gli
hanno garantito il cinema, con
“Colazione da Tiffany”, la cronaca nera,
con “A sangue freddo”, il gossip, con
“Preghiere esaudite”, il libro di ricordi
del bel mondo che gli costò, a lui,
ambizioso divino mondano, alcune
amicizie importanti cui teneva molto.
E mentre i filologi capotiani, a
trent’anni dalla morte (Capote è
scomparso nel 1984 a cinquantanove
anni) sono ancora al lavoro cercando le
parti mai ritrovate dell’incompiuto e
urticante ”Preghiere esaudite”;
mentre, in occasione della scomparsa
della sua amica (pochissimo mondana)
Harper Lee, l’autrice de “Il buio oltre la
siepe”, cercano ancora di scoprire i
confini delle rispettive influenze, e cioè
di chi ha fatto cosa ai tempi di “A
sangue freddo”; mentre il cinema lo
ricorda, compaiono in stampa quelli
che il grande pubblico considererà
delle scoperte, i filologi studieranno
avidi, i suoi ammiratori vedranno come
la prova di un genio precoce e naturale,
che tale fu fin da ragazzino, quando
Truman Capote era triste, infelice,
sballottato qua e là, bello nella sua
strana maniera da elfo, a disagio nel
suo ruolo sessuale e già pieno di talento.
Ma è eticamente corretto (se l’etica
ha qualcosa a che fare con la narrativa,
o viceversa) proporre al mondo delle
lettere, dei testi, che l’autore non ha
ritenuto opportuno far conoscere? O è
solo un gusto maligno? O un modo per
guadagnare sulla fama consolidata di
un autore?
Le quattordici storie inedite di
Truman Capote, che escono a giorni
anche in Italia presso Garzanti sotto il
titolo “Dove comincia il mondo”, sono
state trovate due anni fa dall’editore
Peter Haag alla New York Public
Library mentre cercava i capitoli
mancanti di “Preghiere esaudite”.
Alcune erano state pubblicate sul
giornalino della high school di Capote.
Quattro lo scorso anno da “Die Zeit”.
Nessuna, e questo turba non poco i
filologi, è datata, anche se tutte
provengono sicuramente da un Capote
adolescente (ma la non datazione non
facilita certo una visione corretta del
giovane scrittore). Alcuni racconti sono
stati accolti con diffidenza (è il caso di
“Terrore nella palude”, visto come una
imitazione di Tom Sawyer). Altri, come
“Miss Belle Rankin”, il piccolo, aspro e
tenero racconto dall’America profonda
che vi proponiamo oggi in queste
pagine, come la rivelazione di un
talento che già lascia il segno. Un bel
racconto, a partire dal nome di lei
(Belle, come le “southern belles”), dal
classico incipit, dalla storia vista dal
narratore /testimone...
E bravo il piccolo Truman che
diventerà il grande Capote.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
28
L’attualità. Tragedie greche
A ventiquattro secoli dalla nascita, a Salonicco si celebra
il grande filosofo sia per aggrapparsi a un glorioso
passato che per illuminare un catastrofico presente
Magari partendo da una sua vecchia lezione:
“Il denaro deve essere un mezzo e non un fine”
A
ETTORE LIVINI
RISTOTELE SPEGNE le candeline
del suo compleanno (sono
2.400, auguri!) e si regala una
festa in agrodolce. Dolce perché il mondo non l’ha dimenticato. Anzi: decine di studiosi,
filosofi e professori in arrivo
da ogni angolo del mondo —
in testa il presidente greco
Prokopis Pavlopoulos — si ritroveranno da domani a Salonicco per una sorta di Woodstock della cultura dedicata tutta al suo lavoro, il primo atto
dell’”anno aristotelico” voluto dall’Unesco. Amaro perché —
come direbbe lui — l’uomo è un animale politico. E la realtà
quotidiana della Grecia — anche a due passi dalla capitale
della Macedonia — è lì a ricordarci che l’utopia di una democrazia “fatta di cittadini liberi e uguali” come la sognava lui è
ancora oggi, a tutti gli effetti, un’utopia: un centinaio di chilometri a nord dalla Torre Bianca ci sono i diecimila migranti
accampati al confine di Idomeni, all’ombra del filo spinato
che ne ha bloccato la fuga da guerra e miseria. E fuori dai saloni che ospiteranno convegni e dibattiti, le vie della città sono
segnate dalle cicatrici della crisi senza fine del paese, uno tsunami che ha bruciato un quarto dell’economia nazionale, lasciato senza lavoro un greco su quattro e diviso l’Europa tra
Nord e Sud, tra falchi del rigore e colombe della solidarietà.
Il filo tra passato e presente, tra le lezioni di Aristotele ad
Alessandro Magno e le trattative con la Troika all’Eurogruppo, è più sottile di quanto si pensi. «Atene è oggi il segno più
macroscopico del pericolo di un’Unione che non è più quella
che si sperava che fosse», ammette Enrico Berti, presidente
onorario dell’Istituto internazionale di filosofia e special guest tricolore al convegno di Salonicco. La Polis ideale immaginata dal filosofo di Stagira — “un mondo dove ognuno deve
partecipare, governando bene quando è al potere per poi poter godere dei benefici dell’essere governato bene dagli altri”, riassume il professore dell’università di Padova — è a modo suo un manifesto ante-litteram dei valori fondativi della
Ue. Valori che per ironia della sorte rischiano oggi di andare
in frantumi proprio sotto il Partenone, in un paese alle corde
travolto da una tragedia moderna dove i debiti, il valore del
denaro e le storture dell’economia di mercato — altri modernissimi temi degli antichi lavori di Aristotele — recitano un
ruolo da primattori. «L’idea che l’Europa si ritrovi a Salonicco
per parlare della cultura delle sue radici e non di Pil è comunque un buon segno» dice soddisfatto Mario Vegetti, uno dei
massimi esperti italiani del pensiero ellenico, autore assieme
a Francesco Ademollo di Incontro con Aristotele (Einaudi).
I tempi, ovviamente, sono cambiati. L’economia globale è
24%
il tasso
di occupazione
in Grecia
-25%
la percentuale
del Pil greco
perso dal 2010
si a breve termine (le elezioni tedesche nel 2018) non vuol fare concessioni e insiste sulle sforbiciate a bilancio e welfare.
Le vecchie categorie, quando sono valide, durano per sempre, aggiornandosi con lo scorrere dei secoli. «Le donne, in
fondo, erano persone ma non cittadini per Aristotele», ricorda Berti. Oggi, per fortuna, non è più cosi, e anche l’idea di Polis ha cambiato pelle: «Duemilaquattrocento anni fa era una
realtà piccola, autosufficiente a se stessa — continua il professore — ora nemmeno gli Stati nazionali sono autosufficienti. Il mondo è interdipendente, il senso di comunità va
ben oltre il limite dei confini. Anche la Ue non è più autosufficiente. Servirebbe una società politica mondiale. Sarebbe un
passo fondamentale e invece si sta tornando indietro, come
dimostra proprio quello che è successo in Grecia».
La strada verso la comunità ideale, insomma, resta lunga,
ma l’influsso dello scienziato macedone nel percorso verso il
traguardo è ben vivo anche oggi, malgrado gli incidenti di
percorso tra Atene e Bruxelles: «C’è un neo-aristotelismo etico e politico diffuso nel pensiero tedesco e anglosassone —
spiega Vegetti — un modello di pensare la politica in senso liberale e non utopistico». Che deve però fare i conti con un pianeta dove il nemico numero uno del filosofo di Stagira — la
crematistica, alias una realtà dove il denaro serve solo ad ammucchiare altro denaro — detta la linea. Ventiquattro secoli
fa sulle sponde dell’Egeo non si scambiavano derivati, non si
scommetteva su future e opzioni e non si affidava il futuro di
un paese — è successo ad Atene ma anche all’Italia — a contratti di ricopertura sui tassi d’interesse. «Aristotele era contrario alla speculazione — aggiunge Vegetti — ottenere moneta grazie alla moneta per lui era una perversione. L’economia dal suo punto di vista era solo l’arte di scambiarsi un surplus di merci: io ho più grano, tu hai più olio, possiamo aiutarci a vicenda. Usando il denaro solo per rendere più semplice
la transazione. Un mezzo e non un fine». Odiava il debito e i
prestiti a interesse, le due armi che hanno messo in ginocchio la Grecia negli ultimi anni d’austerity. Visioni antiquate
da critico ante-litteram del capitalismo, sostiene qualcuno,
come il sogno di un mondo che riconosca a tutti uguali diritti
Cercasi
Aristotele
disperatamente
qualcosa di più complicato dell’unione virtuosa tra Oikos e
Nomos che nel 330 avanti Cristo riassumeva per il filosofo
macedone l’arte di dare regole alla gestione dei beni di casa.
Lo stesso Aristotele (che probabilmente si sarà rivoltato nella tomba) è finito nel tritacarne mediatico della crisi, sbandierato dal quotidiano tedesco Bild tra i 50 motivi — accanto
all’ouzo — per cui i tedeschi devono voler bene ad Atene. Il
valore dei suoi messaggi però non si è appannato. «La sua enfasi sul concetto di autarchia può sembrare antiquata — dice
ad esempio Chris Hann, del Max Plank Institut — ma in realtà non è così. Basta applicare il concetto di Oikos a livelli differenti». E se l’Oikos nel senso di casa è oggi l’Europa «il senso
di identità culturale e di solidarietà sociale nel continente è
una pura ipocrisia — sostiene Hann — visto che il trattamento riservato ai greci nell’era dell’austerità è figlio degli interessi delle istituzioni più della comunità. Un brand da sventolare più che un valore reale». Tradotto nella cronaca di queste ore, è più aristotelico il Fondo monetario internazionale,
che chiede un taglio al debito ellenico per non imporre nuovi
tagli, piuttosto di Bruxelles che per le sue miopie e gli interes-
e uguali doveri. Ma temi che visti attraverso la lente dei fallimenti della turbofinanza senza controlli, regina dei nostri
tempi, riemergeranno nei dibattiti di Salonicco dei prossimi
giorni, con la forza di idee che hanno ancora attualità.
«Aristotele ha gettato le basi per i concetti di democrazia,
cittadinanza e comunità — dice Demetra Sfendoni Mentzou,
responsabile del Centro per gli studi interdisciplinari del filosofo e anima del congresso — oggi più che mai abbiamo bisogno delle sue idee per ridefinire questi valori assieme a quelli
dell’umanità stessa». «L’idea di una società basata sulla conoscenza è la sintesi stessa della sua modernità e sarà la vera sfida del Ventunesimo secolo» conclude Ennio De Bellis dell’università del Salento. «La conoscenza è la vera arma per difendere la democrazia — aggiunge — perché aiuta a distinguere la giustizia dall’oppressione in una società sempre più
complessa, spaziando dalla scienza, ai media fino alla finanza». Parole che in una Grecia dove crisi e austerity ha allargato a dismisura la platea dei poveri e l’ingiustizia sociale sono
d’attualità oggi esattamente come ventiquattro secoli fa.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
29
Dai sillogismi
al computer
sui sentieri
della logica
I
PIERGIORGIO ODIFREDDI
L DESTINO NON È stato
gentile con Aristotele,
perché ha permesso che
metà delle sue opere si
perdesse: purtroppo la
metà leggibile e divulgativa,
scritta nello stile dei dialoghi
platonici.
Le opere divulgative di
Aristotele rimasero per secoli
dei veri best seller, mentre
erano andate perdute quelle
tecniche che furono ritrovate
fortunosamente da Silla molto
dopo. Ripubblicate nel primo
secolo della nostra era, queste
ultime sono le sole che oggi ci
sono rimaste, benché in parte
fossero diventate obsolete già
allora, com’è il destino di ogni
opera tecnica, e benché spesso si
tratti di appunti per le lezioni: a
volte di Aristotele stesso, e a
volte dei suoi studenti.
Le più importanti sono le
opere di logica, che si trovano in
una raccolta di sei libri chiamata
“Organon”, o “Strumento”.
Soprattutto nei due libri degli
“Analitici”, in cui c’è la teoria dei
sillogismi: cioè, le regole che
permettono di derivare una
conclusione da una premessa
maggiore e una premessa
minore, quando si parla di cose
che succedono sempre, quasi
sempre, a volte o mai. Ad
esempio, il famoso sillogismo
“se gli uomini sono sempre
mortali (premessa maggiore), e
Socrate è un uomo (premessa
minore), allora Socrate è
mortale (conclusione)”.
Aristotele considerò i possibili
duecentocinquantasei
sillogismi di questo tipo, e
classificò completamente i
ventiquattro tipi validi.
Fu uno dei primi grandi
teoremi della matematica greca,
analogo alla classificazione di
Teeteto dei cinque solidi
regolari, ma molto più
complesso.
Soltanto nel Seicento Leibniz
si accorse che c’era un metodo
meccanico per controllare,
mediante diagrammi, se un
sillogismo è valido oppure no: da
quella sua intuizione derivò il
sogno di automatizzare il
ragionamento che in tre secoli
ha portato a Gödel e Turing, cioè
nientemeno che all’informatica
e al computer.
311 mld
il debito greco
alla fine
del 2015
200%
la stima
del debito pubblico greco
entro pochi anni
330 mld 1,8 mld
il valore dei prestiti
alla Grecia
da parte di Ue, Fmi, Bce e Esm
il valore del nuovo
pacchetto di austerità
imposto alla Grecia dai creditori
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
30
I luoghi. Tour letterari
E Gabo
tornò
a casa
© ULF ANDERSEN/GAMMA/CONTRASTO
LA MAPPA
LA FONDAZIONE GARCÍA
MÁRQUEZ, DIRETTA DA JAIME
ABELLO E JAIME GARCÍA
MÁRQUEZ HA CREATO
UNA APP PER RIPERCORRERE
I LUOGHI DEL NOBEL:
“LA CARTAGENA DE GABO”.
QUI LO SCRITTORE (1927-2014)
NEL 1991 NELLA CITTÀ
COLOMBIANA
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
1 - L’UNIVERSITÀ
Qui studiò alla facoltà di legge
«...Mi domando ancora come sarebbe stata
la mia vita senza la matita del maestro
Zabala e il cavalletto della censura,
la cui sola esistenza era una sfida creativa.
Ma il censore era sempre più in guardia
di noi per via dei suoi deliri di persecuzione.
Le citazioni dei grandi autori gli sembravano
imboscate sospette...».
da “Vivere per raccontarla” (2002)
2 - LA SEDE DELL’UNIVERSAL
Qui imparò a fare il giornalista
«...Era proprio lì la sede di ‘El Universal’,
davanti all’immenso muro dorato
della chiesa di San Pedro Claver,
il primo santo delle Americhe...
È un vecchio edificio coloniale ricamato
di rattoppi repubblicani e due portoni
e qualche finestra da cui si vedeva
tutto quello che costituiva il giornale...».
da “Vivere per raccontarla” (2002)
3 - L’OSPEDALE MILITARE
Qui intervistò il sopravvissuto
«...Quello che non sapevano
né io né il naufrago mentre cercavamo
di ricostruire minuto a minuto
la sua avventura, era che quell’indagine
spossante ci avrebbe portato in un’altra
avventura che destò molto scalpore
nel Paese, che a lui gli costò gloria e carriera
e che a me poteva costarmi la vita...».
da “Racconto di un naufrago” (1955)
Oggi le ceneri di Gabriel García Márquez
verranno tumulate a Cartagena de Indias,
la città colombiana che più di tutte ispirò
i suoi romanzi. Qui vive ancora il fratello Jaime
Che ci guida tra piazze, aneddoti e palazzi
G
OMERO CIAI
ABITO, SUO FRATELLO JAIME lo ha sempre chiamato così, arrivò la pri-
ma volta a Cartagena de Indias con soltanto quello che aveva addosso. Fuggiva da Bogotà, dove la residenza per studenti nella quale viveva era stata incendiata durante la rivolta successiva all’assassinio
del leader politico liberale, Jorge Eliécer Gaitán. «Bruciò tutto quello
che avevo. I vestiti, i libri, la macchina da scrivere, e anche alcuni racconti che avevo scritto». Negli scontri, tra liberali e conservatori che
in Colombia si ricordano come il “Bogotazo”, ci furono tremila morti.
Era l’aprile del 1948 e Gabriel García Márquez, che aveva ventuno
anni e studiava legge, si rifugiò sulla costa dei Caraibi colombiani,
nell’antica, fantasmagorica, ma ormai decaduta capitale latinoamericana di quello che fu l’Impero spagnolo. La prima notte dormì in prigione. Non trovò l’amico che doveva pagargli una stanza e all’hotel Suiza si rifiutarono di fargli credito. Così, racconta suo fratello Jaime, vagò affamato lungo le mura della città e infine tornò nel parco
Bolivar dove s’accasciò a riposare su una panchina. Ma c’era il coprifuoco, e lo arrestarono. Nei giorni
successivi fu più fortunato. Entrò all’università, trovò il primo impiego come «aiutante giornalista»,
pubblicò il primo articolo e confessò a suo padre che non voleva studiare legge ma fare lo scrittore. Si
narra che l’episodio avvenne sotto la statua dell’indipendenza nel Camellón de los Martires, e che
suo padre, il telegrafista Gabriel Eligio, infuriato sentenziò: «Bene, da oggi mangerai carta».
Nella sua prima giovinezza, Gárcia Marquéz trascorse a Cartagena meno di due anni, fino al dicembre del ‘49, ma la sua relazione con questa città fu così peculiare che i luoghi, le architetture, i personaggi, e le leggende di Cartagena, rivivono in molti dei suoi romanzi. Così non è un caso che questa
sia l’unica città colombiana dove, negli anni Novanta, si fece costruire una casa; che sia quella dove
fondò la sua scuola di giornalismo; quella dove tornava sempre per il suo compleanno (6 marzo); e
quella dove ha voluto, con la cerimonia che si svolgerà oggi nel Claustro dell’Università, che venissero conservate le sue ceneri.
La sede della scuola, la “Fondazione nuovo giornalismo latinoamericano” (Fnpi), sta nella stessa
strada — San Juan de Dios — dove nel 1948 c’era l’Universal, il primo giornale nel quale lavorò. Lo stipendio all’Universal, un foglio d’opposizione strozzato dalla censura dell’epoca, era talmente misero
che spesso, per non pagare la locanda, chiusa l’edizione prima dell’alba, Márquez s’addormentava in
tipografia sui rotoloni di carta per la stampa. Ma qui conobbe un caporedattore, Clemente Zapata,
che sempre ricorderà come decisivo nella sua formazione. Qui lesse Virginia Wolf e William Faulkner. E qui ambienterà quasi tutto il romanzo L’amore ai tempi del colera, che scrisse traendo ispirazione dalla storia dei suoi genitori. A quell’epoca García Márquez girava con un canovaccio — l’aveva
intitolato La casa — del romanzo che diventerà Cent’anni di solitudine: la scena nella quale José Arcadio Buendia conosce il ghiaccio è ispirata a un mercato che, fino al 1978, stava dove oggi a Cartagena c’è il centro delle Convenzioni; il personaggio di Melquíades è ispirato a un mago, Blacaman, che
conobbe nella Plaza de la Aduana; e la casa di piacere della Negra Eufemia — sempre nei Cent’anni
— è sui bordelli di Cartagena che è modellata. E ancora. Il parco Bolivar è il luogo dell’incontro fra i
due protagonisti sotto il Portico degli scrivani; poco più avanti c’è la Cattedrale dove Florentino Ariza
consegna furtivamente la sua prima lettera d’amore a Fermina Daza; oppure il parco Fernandez de
Madrid dove, nel libro, c’è la casa della famiglia di Fermina e dove Florentino la osserva mentre cammina come se fosse “immune alla gravità”.
Ma anche in altri romanzi di García Márquez ci sono luoghi di Cartagena. Ne Il generale nel suo labirinto (1989), c’è la Torre del Reloj con la porta attraverso la quale il libertador Simon Bolivar entra
in città. In Dell’amore e altri demoni, pubblicato nel 1994, il mercato del Portal de los dulces è il luogo
dove inizia la tragedia della protagonista, Sierva Maria, la bambina (morsa dal cane rabbioso) che
verrà condannata dall’Inquisizione a vivere il resto della sua vita in un convento di clausura; monastero che Márquez ambienta in quello che fu il convento di Santa Clara, oggi trasformato in albergo.
La casa del marchese di Baldeoyos, García Márquez la utilizzò invece sia come dimora del padre della
bambina (nel romanzo si chiama marchese di Casalduero) che, ne Il generale nel suo labirinto, come
casa dove si fermerà Bolivar prima di raggiungere Santa Marta. Tra gli aneddoti che ci racconta Jaime Márquez c’è anche quello secondo cui suo fratello Gabo sosteneva che «i portoni di Cartagena
cambiano casa». Questo perché una sera una pittrice sua amica dipinse un Arlecchino sul portone di
casa, ma quando García Márquez tornò a cercarlo con la luce del giorno non lo trovò più.
Gabito lasciò per la prima volta Cartagena de Indias alla fine del 1949. Ma la città, che era stata il
più grande mercato di schiavi delle Americhe, sarebbe diventata qualche anno dopo teatro di un suo
scoop giornalistico. Nel 1955, quando lavorava a El Espectador di Bogotà, tutta la Colombia si emozionò per il naufragio di una lancia della Marina con otto soldati a bordo. Soltanto uno di loro sopravvisse, dieci giorni alla deriva senza acqua né cibo. García Márquez andò a Cartagena per intervistarlo e
scoprì una versione dei fatti molto diversa da quella ufficiale. La raccontò in quattordici reportage
anonimi. Fu, allo stesso tempo, uno straordinario successo giornalistico e l’inizio del suo lungo esilio
dalla Colombia. Prima in Europa, poi in Messico dove il 17 aprile di due anni fa morì. Oggi fa ritorno a
Cartagena, e stavolta non la lascerà più.
31
10 - LA SUA CASA
Qui festeggiava i compleanni
“...Nemmeno nel più delirante dei miei sogni
immaginai che avrei potuto vedere l’edizione
di un milione di copie. Pensare che un
milione di persone avrebbero potuto decidere
di leggere quello che scrivevo nella solitudine
di una stanza, con ventotto lettere
dell’alfabeto e due dita, era una follia...”.
dal discorso tenuto a Cartagena nel 2007
per la milionesima copia di “Cent’anni”
9 - IL PALAZZO CASALDUERO
Qui ambientò molti suoi romanzi
«...Solo due suoi gesti non sembravano
armonizzarsi con questa immagine.
Il primo fu il trasloco in una casa nuova
in un quartiere di nuovi ricchi dal vecchio
palazzo del marchese di Casalduero,
che era stato la dimora familiare
per oltre un secolo...».
da “L’amore ai tempi del colera” (1985)
8 - LA CATTEDRALE
Qui si disquisì del morso di un cane
«...“Qualunque cosa sostengano i medici”
disse, “la rabbia negli umani
suole essere una delle tante scaltrezze
del Nemico”. Il Marchese non capì.
Il vescovo gli fece una spiegazione
così drammatica che sembrò
il preludio di una condanna
al fuoco eterno...».
da “Dell’amore e altri demoni” (1994)
©RIPRODUZIONE RISERVATA
4 - LA TORRE DEL RELOJ
5 - I MARTIRI PER L’INDIPENDENZA
6 - IL PARQUE BOLIVAR
7 - IL PARQUE FERNANDEZ
Qui raccontò gli ultimi mesi di Bolivar
«...L’uno e l’altro non sembravano
essere due ricordi di una stessa vita.
La molto nobile ed eroica città di Cartagena
de Indias, più volte capitale del vicereame
e mille volte cantata come
una delle più belle città del mondo,
non era allora neppure l’ombra
di quanto era stata...».
Qui scrisse di lotta per la libertà
«...Cartagena aveva sopportato nove assedi
militari, per terra e per mare, ed era stata
saccheggiata più volte da corsari e generali.
Tuttavia, nulla l’aveva deteriorata quanto
le lotte di indipendenza, e poi le guerre
tra una fazione e l’altra. Le famiglie ricche
dei tempi dell’oro erano fuggite. Gli antichi
schiavi alla deriva in una libertà inutile...».
Qui Florentino incontrava Fermina
«...Lì si sedevano già a quell’epoca
i calligrafi taciturni con i panciotti di velluto
e le mezze maniche, a scrivere su richiesta
tutta una serie di documenti
a prezzi da poveri: esposti, petizioni,
allegati giuridici, biglietti di congratulazioni
o di condoglianze, letterine d’amore
per qualsiasi età...».
...E qui la aspettava
«...Fermina camminava con una alterigia
naturale, la testa dritta, lo sguardo immobile,
il passo svelto, il naso affilato,
la cartella dei libri stretta fra le braccia
incrociate sul petto,
e un’andatura da cerva che la faceva
sembrare immune alla gravità...».
da “Il generale nel suo labirinto” (1989)
da “Il generale nel suo labirinto” (1989)
da “L’amore ai tempi del colera” (1985)
da “L’amore ai tempi del colera” (1985)
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
32
Spettacoli. Scene da un matrimonio
Di lì a poco scriverà le pagine migliori
del nostro cinema. Ora un libro raccoglie
quelle spedite al marito da un’Italia povera
ma allegra. E sono altrettanto belle
LADRI
DI BICICLETTE
VITTORIO DE SICA
1948
MIRACOLO
A MILANO
VITTORIO DE SICA
1951
BELLISSIMA
LUCHINO VISCONTI
1951
I
NATALIA ASPESI
N QUEL PRIMO DOPOGUERRA, ROMA ERA ACCASCIATA nella miseria ma anche esal-
tata dalla certezza di tornare alla vita e al futuro. L’inverno del 1945 fu gelido,
mancava il riscaldamento nelle case, l’acqua bisognava andarla a prendere in
strada, l’elettricità c’era e non c’era, gli ascensori non funzionavano. Le candele scarseggiavano come tutto, persino la carta per scrivere. Per scaldarsi, Suso
Cecchi d’Amico, come tanti romani, passava molte ore sotto le coperte, abbracciata ai suoi due “picci”, come li chiamava lei, Tommaso detto Masolino di
sei anni e Silvia di cinque. Ogni tanto andavano ai bagni pubblici per potersi lavare con l’acqua calda. Lei aveva trentuno anni, due meno di Fedele d’Amico,
detto Lele, il musicologo che aveva sposato nel 1938: legato alla Sinistra Cristiana, il partito dei cattolici comunisti, era entrato in clandestinità antinazista e antifascista, e con l’evacuazione dei tedeschi e l’arrivo degli alleati a Roma, era tornato a casa in pessima salute, malato di tubercolosi in fase avanzata. Bisognava quindi separarsi ancora: Suso e i bambini ad affrontare con serenità, ironia e persino felicità, la dura quotidianità romana, e Lele lontano, in un sanatorio svizzero, sulle montagne del Cantone dei Grigioni, dove sarebbe rimasto sino alla fine di marzo del 1947. Più di
sedici mesi dolorosi e coraggiosi, in cui il grande amore che legava Suso e Lele si trasformò
in una valanga di lettere: più di trecento, scritte quotidianamente la sera a letto, che lui
conservò per tutta la vita; mentre, precisa Masolino, sino ad oggi quelle di lui non si sono
trovate: Suso le aveva rese introvabili o magari buttate per qualche sua ragione?
Chi come me ha conosciuto quel mito insostituibile del bel cinema italiano negli anni
della sua grandezza, la ricorda maestosa, ironica, spiccia, una gran signora che si nascondeva dietro la gloria dei nostri grandi registi e l’universale venerazione per il cinema italiano di quegli anni,
cui lei aveva donato le parole e spesso anche la storia:
De Sica e Blasetti, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, Prima comunione e Peccato che sia una canaglia,
Visconti e Antonioni, Senso e Il Gattopardo, La signora
senza camelie e Le amiche, Monicelli e Rosi, I soliti
ignoti e Speriamo che sia femmina, La sfida e Salvatore Giuliano. Più di cento film, indimenticabili.
Ora raccolte insieme in un libro da Silvia e Masolino,
con la bella introduzione di Cristina Comencini (che
con sceneggiatura di Suso ha diretto La fine è nota)
quelle lettere ci raccontano di un’altra donna, giovane, molto innamorata, oppressa dai disagi, dalle responsabilità, dalla mancanza di denaro, dalla caccia al
lavoro, eppure solare, spiritosa, generosa. Tutti insieme, i suoi foglietti di carta casuale, fitti di una scrittura
microscopica, diventano un appassionante, commovente diario quotidiano, mai un giorno senza, per riaffermare continuamente l’amore, la nostalgia, il desiderio per il marito: Amore caro, fammi posto accanto a IL LIBRO
te; Voglimi bene cicino adoratissimo; Vorrei succhiar- “SUSO A LELE. LETTERE
ti via le infezioni con la bocca; Ti voglio sempre più be- (DICEMBRE 1945 - MARZO 1947)”
ne, è una mania; Tirati più in qua e facciamo il famo- DI SUSO CECCHI D’AMICO,
so scatolicchio… E poi il racconto delle giornate roma- A CURA DI SILVIA E MASOLINO
ne: la prodezze dei “picci”, la vicinanza degli amici, le D’AMICO (BOMPIANI, 616 PAGINE,
difficoltà di lavoro, la salute di tutti (le malattie dei 22 EURO ), DAL QUALE SONO
bambini, il suo dimagrimento e poi la depressione), la TRATTE LE LETTERE E LE FOTO
morte dell’amico musicista Casella, ma anche dell’a- CHE PUBBLICHIAMO IN QUESTE
mato tassinaro comunista, le prodezze delle domesti- PAGINE, È ORA IN LIBRERIA
che, le galline sul terrazzo, l’emozione del primo uovo
covato sul pianoforte, i “suoceroni”(il padre di Lele, Silvio, era critico e teorico del teatro), i primi scontri politici nel Pci, evidentemente una inarrestabile tradizione, il diffondersi dell’Uomo Qualunque (ora potrebbe
essere il grillismo), i risultati del 2 giugno ‘46.
Insieme, queste lettere sono un grande abbraccio
appassionato, un modo di cancellare le lontananze, di
rendere partecipe della vita romana l’amato lontano e
solo. Le difficoltà di comunicazione allora erano immense: lettere censurate o perdute, telefonate troppo
dispendiose, viaggi oltre che carissimi ancora avventurosi. Ma l’amore di Suso diventava un fiume di parole
che se allora confortavano il Lele malato, oggi ci testimoniano tempi difficili eppure vivi, illuminati dalla
speranza, dalla nuova libertà, dai primi tentativi democratici con da subito minacce di scissioni, dal risveglio
della cultura e della creatività. Tutti poveri, tutti amici, tutti di sinistra, tutti pieni di sogni destinati a realizzarsi. Insieme progettavano lavoro, insieme rincorrevano teatro, concerti, film, tutti giovani, tutti ancora
ignoti, tutti sarebbero diventati qualcuno, il meglio
della nostra cultura non solo di quegli anni. Insieme in
loggione a vedere un Don Giovanni, Suso e Anna Proclemer, Mario Soldati, Ennio Flaiano e Renato Castellani, ospite in casa Nino Rota, a sentire la messa di Alfredo Casella su consiglio di Goffredo Petrassi, in casa a discutere di sceneggiature con Moravia, con Carlo Ponti,
in visita alla galleria di Gasparo del Corso e sua moglie
Irene Brin, un capodanno da Alba de Cespedes, feste
da Guido Piovene e da Flora Volpini, cena tra amici accompagnata da Luchino Visconti. E poi finalmente, dopo tanti lavoretti, cinerubrichette, lezioni di buone maniere alla giovanissima attrice Maria Michi, traduzioni, ecco le prime sceneggiature per Renato Castellani,
Mio figlio professore con Aldo Fabrizi, per Marcello Pagliero Roma città libera con Vittorio De Sica, per Luigi
Zampa Vivere in Pace con Fabrizi e L’onorevole Angelina con Anna Magnani, per Lattuada Il delitto di Giovanni Episcopo con Yvonne Sanson. Poi, ricomposta la
famiglia, tutti gli altri film, spesso capolavori.
Oggi tutto è lontano, eppure così vivo, fresco, in qualche modo invidiabile: ma molte situazioni non sono
cambiate. Scrive arrabbiata Suso il 13 giugno del
1946: «Ma con che gente viviamo? Mi sembra tutto ridotto alla bizza della serva licenziata, che accusa prima di uscire sbattendo la porta, che l’altra serva ruba.
Ma non c’è dunque nessuno che sappia stare un po’ zitto, che abbia un po’ il senso della dignità, della grandiosità di certe responsabilità». Si riferisce a un proclama
dell’ex re, oggi basta seguire la televisione.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Trecento
lettere
d’amore
Suso Cecchi d’Amico
LA SIGNORA
SENZA CAMELIE
MICHELANGELO
ANTONIONI, 1953
I VINTI
MICHELANGELO
ANTONIONI
1953
SENSO
LUCHINO VISCONTI
1954
LE AMICHE
MICHELANGELO
ANTONIONI
1955
LE NOTTI
BIANCHE
LUCHINO VISCONTI
1957
I SOLITI IGNOTI
MARIO MONICELLI
1958
© 2016 BY SUSO CECCHI D’AMICO, MASOLINO D’AMICO, SILVIA D’AMICO - © 2016 RIZZOLI LIBRI SPA / BOMPIANI
I film
LE IMMAGINI
DALL’ALTO IN SENSO ORARIO:
SUSO E LELE NEL 1943;
SILVIA E MASOLINO
CON LA NONNA ELSA
A PIAZZA DI SPAGNA,
8 DICEMBRE 1945;
LA SECONDA LETTERA
AL MARITO,
4 DICEMBRE 1945 (TRASCRITTA
NELLA PAGINA ACCANTO);
SUSO E I FIGLI IN CLINICA
DAL PAPÀ AD AROSA,
AGOSTO 1945;
SUSO E LELE NEI PRIMI ANNI
QUARANTA RITRATTI
DA LEONETTA CECCHI
PIERACCINI, MADRE DI SUSO
ROCCO
E I SUOI FRATELLI
LUCHINO VISCONTI
1960
SALVATORE
GIULIANO
FRANCESCO ROSI
1962
IL GATTOPARDO
LUCHINO VISCONTI
1963
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
33
Aiuto! Aiuto! Fino a tre ore fa
avevi una moglie disoccupata
adesso mi offrono quattro film
tissima varicella vaioloide. Scrivimi, le giornate hanno un altro sapore quando cominciano
con una tua lettera. Mille baci affettuosi
SUSO CECCHI D’AMICO
A
INIZIO DICEMBRE 1945
LUNEDÌ 14
MORE CARO,
non avrò pace finché non arrivi
una lettera che mi spieghi come
sei sistemato. Ti sei accorto che
hai dimenticato di metterti in
valigia le cravatte? Continui a mettere tutti i
golf insieme? Va bene la roba che hai portato? Qua tutto al solito. La Silvia ti ricorda dieci volte al minuto. Ho incominciato con Ditta
a fare le traduzioni per Flaiano. Vediamo un
po’ cosa rende. Certo bisogna ch’io inventi
qualcosa per tirare avanti. Intanto ho smesso di fumare. Son già diversi giorni — e lo registro tra i guadagni. Ho venduto per la pubblicazione La via del tabacco. Bisognerebbe
finissi per capo d’Anno il Jude. E più o meno
avrei sbarcato dicembre e gennaio. Alla peggiore mi darò alla vendita; non ti preoccupare. Ho un sedere come Gianburrasca quando
ne ha buscate. La penultima iniezione che si
ribella. Come avessi una melanzana appiccicata lì. Tutti con me molto gentili e in dovere
di farmi compagnia. Mi dispiace amore mio
che la mia prima lettera sia così affrettata e
casuale. Ti sto sempre vicina coi picci. E sto allegra se ti so allegro. Baci amore caro.
MARTEDÌ 4 DIC.
Amore caro, eccomi ad aprire la serie delle lettere serali scritte sotto le coperte al lume della tua lanternina. Vorrei sapere come passi la
giornata, come ti piace il posto che tutti mi dicono bellissimo, se non ti dà fastidio l’altezza,
se sei in camera da solo. Il tempo è decisamente brutto. Pioggia e tramontana insieme. La
stufa funziona e ci difendiamo bene. Ma penso che sia davvero una buona cosa per te di
trovarti in luoghi meglio attrezzati. La gallina ha fatto il primo uovo. È stato un momento
emozionante. Tutte le sue astuzie puntano
ad andare a scodellartelo sul pianoforte. Forse è un omaggio che ti dedica.
Silvia disperata di non saperti ancora scrivere vuole telegrafarti. Non parla d’altro e la
contenterò povera piccioncina tenera. Ho lavorato tutto il giorno a queste traduzioni di
articoli cinematografici per Flaiano — lavoro
con Ditta. Sono articoli lunghi che bisogna tradurre a gran velocità e in due si fanno presto e
bene. Ma bisognerà vedere al lato pagamenti
che cosa rende e se conviene. Flaiano ha tutte
le intenzioni di aiutarmi e pagarmi per articoli (sempre tutto anonimo) delle cose tagliate e tradotte da vecchi giornali americani. Tanto altre offerte in vista non le ho.
Buona notte amore mio caro — la tua ponci ti pensa continuamente. E i piccioncini son
sempre col papesso sulle labbra. Tua S.
SABATO
Come ti dissi la luce va meglio. In compenso
abbiamo l’acqua un giorno sì e un giorno no.
Il giorno sì non basta che per la mattina. E il
gas soltanto per qualche ora del giorno. Ma io
faccio finta di niente arcidecisa a non prendermela per nulla. Lavoro, me la cavo. Troverai una moglie irriducibilmente indipendente. Ho organizzato bene la mattinata dei picci
che alternano le lezioni della signorina con
quelle mie d’inglese, lettura. Sono contenta
di non averli mandati a scuola. Non ti dico che
ospedale tra i bambini di conoscenza. Marilì
ha dovuto ritirarli tutti e due da scuola con in
bilancio una broncopolmonite (non c’è un filo di riscaldamento nelle scuole) e una brut-
FRATELLO SOLE
SORELLA LUNA
FRANCO ZEFFIRELLI
1972
LUDWIG
LUCHINO VISCONTI
1972
GRUPPO
DI FAMIGLIA
IN UN INTERNO
VISCONTI, 1974
L’INNOCENTE
LUCHINO VISCONTI
1976
CARO MICHELE
MARIO MONICELLI
1976
SPERIAMO
CHE SIA FEMMINA
MARIO MONICELLI
1986
PARENTI
SERPENTI
MARIO MONICELLI
1992
Come stai amore mio caro? Puoi riposare? Ti
senti indolenzito? Ho tanta voglia della tua
voce. Stasera Masolino ha detto “Ho tanta fame. Ma non ho voglia di mangiare. Ho fame
di vedere il babbo”.
Ho bisogno di finire in settimana il Jude e
un altro lavoretto. Torraca mi offre un lavoro
fisso a 10-11mila al mese. Tre ore il pomeriggio. Ma è una faccenda aleatoria come la rivista. Sono indecisa indecisa indecisa. Pare certo che almeno una sceneggiatura va in porto.
LUNEDÌ 3 GIUGNO
Amore caro, moglie disorientata oltre che disoccupata ti dà la buona notte. Sono un po’
preoccupata. Ammesso che riesca a riscuotere il resto del Jude, non arrivo alla fine di giugno. E non ho niente di grosso in vista fino
all’altro film di Castellani che sarà a fine agosto. Ho avuto vaghi accenni (da Ponti e da Zavattini) per un’altra sceneggiatura ma nulla
di concreto. Ho preso l’impegno di un libro.
Sono novelle spiritose e mi diverte di farlo,
ma è difficile e ci metterò molto tempo. Ora
se piove una sceneggiatura siamo a posto.
Ma se non è così non so come fare. Come ti ho
detto non è un momento facile.
MARTEDÌ 18 GIUGNO
Amore mio è fatta. Ti porterò via il prima possibile da costà e se avrai ancora bisogno di
un’aria migliore di questa cercheremo un’aria meno lontana dove io possa venire di continuo, ogni volta (e oh quanto spesso!) che ne
ho bisogno o ne hai bisogno tu. Perché amore
mio a me piace lavorare, sono orgogliosa del
mio lavoro, voglio continuare a portare in porto la baracca, ma ho bisogno di un ricostituente, e il mio ricostituente sei tu.
Ho davvero due vite — una tutta segreta
con te l’altra tutta pratica di mille cose da pensare e risolvere e quando Ponti mi ha fatto la
sua offerta sul soggetto mi è venuto da piangere e non so se era la gioia o per un grande
smarrimento di fronte al nuovo lavoro che pure vedo facile anche se un po’ intenso. Ecco le
condizioni: 100mila per la sceneggiatura e
idea. Altre 100mila se il film si fa. Tu capisci
amore che siamo a posto. A fine agosto-settembre ho l’altro film Castellani. E qualcosa
dell’America ha pure da maturare a parte il libro che voglio fare. Quindi non parliamo mai
più di questioni economiche. Mai più.
VENERDÌ 7
Aiuto! Aiuto! Avevi una moglie quasi disoccupata tre ore fa. Cosa succede ora? Quattro
film insieme mi offrono. Uno con dei francesi,
Gabin attore, sceneggiatori francesi. Uno
con degli americani. La Magnani ha firmato.
È stato dato il via per un altro film con un negro di cui mi ero occupata. Il via per quello del
prete di Tellini. Tutto stasera. Io non so che
scegliere. Come rifiutare. Quali saranno i buoni? Quello che mi pare sicuro è che non rimarremo senza soldi come eravamo sul punto di
restare e pagherò i debituzzi. Buona notte
ponci mio. S.
© 2016 by Suso Cecchi d’Amico,
Masolino d’Amico, Silvia d’Amico.
Published by arrangement
with Agenzia Santachiara
© 2016 Rizzoli Libri SpA / Bompiani
©RIPRODUZIONE RISERVATA
PANNI SPORCHI
MARIO MONICELLI
1999
LE ROSE
DEL DESERTO
MARIO MONICELLI
2006
Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
34
Next. Mappature
D
CARL ZIMMER
COPENAGHEN
A BAMBINO ESKE WILLERSLEV NON VEDEVA L’ORA che arrivasse per lui il momen-
to di andarsene da Gentofte, il piccolo comune in Danimarca nel quale viveva: non appena fosse cresciuto abbastanza, sarebbe partito di gran carriera alla volta delle incontaminate terre artiche. Il suo gemello, Rane, condivideva la sua ossessione: da bambini in vacanza si addentravano nei boschi
per imparare le tecniche di sopravvivenza. Un giorno, i gemelli Willerslev
decisero che la loro prima esplorazione sarebbe stata in Siberia: lì avrebbero preso contatti con il misterioso popolo dei jukaghiri, che si diceva vivessero esclusivamente di alci siberiane. Quando compirono diciott’anni, i due
gemelli onorarono la loro promessa e si trovarono a pagaiare su una canoa
lungo i remoti fiumi siberiani, racconta il dottor Willerslev che oggi ha quarantaquattro anni. Trascorse quattro anni in Siberia a dare la caccia alle alci, a percorrere le distese di tundra desertica, a conoscere i jukaghiri e altri popoli che abitano in quella regione. Quell’esperienza gli lasciò enormi interrogativi su come gli esseri umani si siano disseminati nel pianeta. Ora può finalmente darsi delle risposte.
Willerslev dirige il Centro di geo-genetica dell’università di Copenaghen e studia antichi Dna per ricostruire gli ultimi cinquantamila anni della storia umana. Le sue recenti scoperte hanno enormemente arricchito la nostra comprensione della preistoria, gettando nuova luce sullo sviluppo umano con prove che
non si possono rintracciare in frammenti di terraglia o negli studi delle culture viventi. Ha guidato la prima sequenziazione di successo di un antico genoma umano, quello di un ominide groenlandese vissuto
quattromila anni fa. La sua ricerca su uno scheletro siberiano risalente a ben ventiquattromila anni fa ha
rivelato un insospettato collegamento tra gli europei e i nativi americani. L’impresa scientifica che ha contribuito a realizzare ormai è trasversale e interessa vari ambiti culturali. Nel giugno scorso insieme ai suoi
colleghi ha pubblicato l’intero genoma di uno scheletro di ottomilacinquecento anni fa trovato nello stato
di Washington e noto col nome di “Uomo di Kennewick”, o “l’Antico”, giungendo alla conclusione che l’Uomo di Kennewick era imparentato con i nativi americani di oggi.
Fu durante il loro terzo giorno di viaggio in Siberia, nel 1993, che i fratelli Willerslev incontrarono i jukaghiri. Un anziano, dal corpo ricoperto di cicatrici per aver dato la caccia agli orsi in gioventù, li accompagnò
in uno dei loro villaggi. Quell’incontro era ancora vivo nella sua mente quando, tornato in Danimarca, Willerslev apprese che alcuni scienziati stavano estraendo il Dna da mummie fossili, tecnica che avrebbe potuto aiutare a spiegare la storia di un popolo come quello dei jukaghiri. In Danimarca, però, nessuno era in
grado di fare quel tipo di ricerche, così Willerslev pensò di ricorrere a un piano B: avrebbero potuto svolgere ricerche nei campioni di ghiaccio antico che i climatologi dell’università di Copenaghen avevano riportato dalla Groenlandia. Individuarono così in un pezzo risalente a quattromila anni fa il Dna di cinquantasette specie di funghi, piante, alghe e altri organismi. Dopo aver pubblicato nel 1999 il suo studio sul campione di ghiaccio, Willerslev inviò una richiesta agli scienziati russi e dalla Siberia gli spedirono alcuni pezzi di
permafrost delle stesse dimensioni dei cubetti di zucchero per le sue ricerche sul Dna preistorico. Già nel
primo cubetto esaminato, trovarono un vero e proprio filone d’oro genetico. «Fu incredibile: conteneva
davvero di tutto, tracce genetiche di mammut lanosi, renne, lemmini, bisonti».
di tipo A positivo, e con una predisposizione genetiFin dall’inizio, per Willerslev una delle priorità ca alla calvizie. Cosa più interessante di tutte, l’antiassolute del Centro doveva però essere la ricerca di co groenlandese non era un antenato diretto degli
Dna umano antico. Negli anni Ottanta, i ricercatori inuit: apparteneva a un gruppo diverso, denominadell’università avevano trovato in Groenlandia un to “paleo-eschimese”. Willerslev e i suoi colleghi
ammasso di peli risalente a quattromila anni fa che giunsero così alla conclusione che i paleo-eschimesi
era stato archiviato e dimenticato in uno scantina- dovevano essere emigrati dalla Siberia circa cinto. Willerslev ne estrasse del Dna e usò tecniche effi- quemilacinquecento anni fa e dovevano aver resicaci e nuove per ricostruire il genoma del groenlan- stito tra Canada e Groenlandia fino a estinguersi. I
dese. Quella fu la prima volta che gli scienziati recu- paleo-eschimesi non sono dunque gli antenati degli
perarono un genoma umano antico completo: i peli inuit: li hanno soltanto preceduti e ne sono stati sorisultarono appartenere a un ominide, con sangue stituiti.
“Gli europei e i nativi americani? Sono parenti
L’ho scoperto studiando un ciuffo di capelli”
Lo scienziato danese Eske Willerslev racconta
i suoi viaggi nelle grandi migrazioni dell’umanità
L’uomo
che riscrive
la storia
col Dna
Da allora Willerslev ha pubblicato altri studi che
hanno completamente modificato il nostro modo
di pensare. La specie umana si evolvette sì in Africa
circa ducentomila anni fa. Ma gli scienziati stanno
ancora cercando di appurare con quali modalità gli
esseri umani popolarono poi tutti gli altri continenti. Da molte testimonianze pare che i nativi americani abbiano origini che risalgono a una popolazione proveniente dall’Asia quindicimila anni fa. Alla
ricerca di tracce per individuare quella popolazione, Willerslev ha studiato alcune ossa risalenti a
ventiquattromila anni fa, trovate nel villaggio di
Mal’ta in Siberia orientale. In uno studio preliminare, Maanasa Raghavan, ricercatrice presso il Centro di genetica, aveva scoperto in quei resti alcune
tracce di Dna, solo che i geni sembravano appartenere a un nordico europeo, non a un asiatico orientale. «Ho interrotto quella ricerca pensando che il
reperto fosse stato contaminato», ha detto il dottor
Willerslev. Dopo che quest’ultimo e i suoi colleghi
hanno messo a punto metodi più potenti e raffinati
per analizzare il Dna, Raghavan con i suoi collaboratori è ritornata a studiare il Dna trovato a Mal’ta,
scoprendo che non era contaminato. Si trattava
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la Repubblica
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
LO STUDIOSO
ESKE WILLERSLEV, 44 ANNI,
DIRIGE IL CENTRO DI GEO-GENETICA
DELL’UNIVERSITÀ DI COPENAGHEN
semplicemente di un genoma diverso da qualsiasi
cosa si aspettassero: alcune parti assomigliavano
molto da vicino al Dna di antichi europei, ma la
maggior parte presentava rassomiglianze con quello dei nativi americani. Sembra che il ragazzo di
Mal’ta appartenesse a un’antica popolazione sparpagliatasi in tutta l’Asia ventiquattromila anni fa,
poi entrata in contatto con gli asiatici orientali.
Dall’unione delle due popolazioni nacque una discendenza. Ebbene: i nativi americani sono i discendenti diretti di quei bambini. La popolazione di
Mal’ta non presenta legami di parentela con gli
35
asiatici che vivono oggi in
quella regione, ma prima di
scomparire passò parte del
suo Dna agli europei. Alcune
ricerche hanno poi mostrato
la strada percorsa dai geni
dall’Asia all’Europa. In uno studio pubblicato nel giugno scorso, è stato individuato un Dna simile a quello di Mal’ta in una popolazione nomade dell’Età del bronzo denominata
yamnaya, vissuta tra i 4300 e i 5500 anni fa in quella che è oggi la Russia sud-occidentale e che si diffuse poi in Europa, dove aggiunse il suo genoma al
mix di geni lì preesistente.
Nel 2011, il dottor Willerslev e i suoi colleghi hanno anche pubblicato il primo genoma di un aborigeno australiano e quella ricerca ha dato loro nuovi indizi sulla nostra storia. Le prove archeologiche attestano che gli esseri umani arrivarono in Australia
circa cinquantamila anni fa. Gli scienziati a lungo si
sono chiesti se gli aborigeni oggi presenti sul continente siano i discendenti di quei primi colonizzatori, o siano arrivati in seguito. Willerslev ha notato
una grossa lacuna negli studi precedenti: molti degli aborigeni di oggi hanno infatti qualche parentela con gli europei. E così ha deciso di cercare il genoma puro degli aborigeni, senza tener conto del Dna
europeo. Nel 2010 trovò all’università di Cambridge un campione di peli raccolto in Australia negli
anni Venti e con i suoi colleghi ne ricavò il Dna e ricostruì il genoma del proprietario. Quest’analisi ha rivelato che gli antenati degli aborigeni australiani si
staccarono da altri popoli non africani circa settantamila anni fa, il che conferma l’idea che i primi a
mettere piede in Australia furono gli antenati degli
odierni aborigeni.
Le sue esperienze in Australia hanno anche modificato il modo col quale Wellerslev e i suoi colleghi
studiano il Dna delle popolazioni indigene. Venuto
a sapere nel 2011 che in un ranch in Montana di proprietà di Melvyn e Helen Anzick nel 1968 era stato
trovato lo scheletro di un bambino vissuto 12.700
anni fa, Willerslev contattò la famiglia chiedendo il
permesso di cercare le ossa del cosiddetto “Bambino di Anzick” e riuscendo poi ricavarne il Dna. Sulla
base delle loro ricerche in Groenlandia, avevano
ipotizzato che quel bambino fosse appartenuto a
una popolazione estinta, senza alcun legame con i
nativi americani viventi. Invece il genoma ha dimostrato tutt’altro: il bambino era strettamente imparentato ai nativi americani di oggi.
© 2016 The New York Times
(Traduzione di Anna Bissanti)
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
36
Sapori. On the road
DOMENICA
PROSSIMA
SARÀ POSSIBILE
VISITARE
BEN 750 CANTINE,
DAL PIEMONTE ALLA
SICILIA
NON SOLO
PER ASSAGGIARE
E MAGARI
COMPRARE
MA ANCHE
PER SCOPRIRE
ANGOLI
DI CAMPAGNA MENO
BATTUTI
DAL TURISMO
10
Piemonte
Lombardia
San Fereolo
Borgata Valdibà 59
Dogliani (Cn)
Tel. 0173-742075
Azienda San Cristoforo
Via Villanuova 2
Erbusco (Bs)
Tel. 030-7760482
Un puzzle di boschi
e vigneti tra Dogliani
e Monforte d’Alba,
per un totale di dodici ettari
gestiti con approccio
biodinamico: 45mila
le bottiglie prodotte
cantine
bottiglie
& piatti
In Franciacorta,
Bruno Dotti ha tradotto
la passione per la terra
in piccola produzione
di vini. Dopo trenta mesi
sui lieviti, sboccatura
per il Brut di Chardonney
SAN FEREOLO
Armonico e speziato,
con il roastbeef
BRUT
DI CHARDONNAY
Aperitivo eccellente
Da 17 euro
Da 15 euro
Toscana
Nel 1983, Hideyuki
e Marisa Miyakawa hanno
dato vita in Maremma
a un’azienda bio di vino
e olio, completata
da un agriturismo
pet friendly
Agricola Bulichella
Località Bulichella 131
Suvereto (Li)
Tel. 0565-829892
VERMENTINO
TUSCANIO
Con i crudi di pesce
Il libro
Lo scrittore Giacomo Pilati
ha appena pubblicato
“Morsi d’Italia”, itinerario
sentimentale del gusto. Tra
le tappe imperdibili, l’azienda
Cottanera di Castiglione
di Sicilia, dove assaggiare
il Fatagione, “un Nerello
Mascalese indimenticabile”
Da 11 euro
Campania
Sabino Loffredo ha deciso
di misurarsi sui migliori
vitigni irpini a partire
dal 2000. Dalle uve Fiano,
coltivate a due passi
dalla cantina, un bianco
elegante e minerale
Azienda Vinicola Pietracupa
Via Vadiaperti 17
Montefredane (Av)
Tel. 0825-607418
L’appuntamento
Domenica prossima,
supercena a Monastero
di Astino (Bg), presenti i venti
cuochi stellati della Lombardia
orientale, nominata Regione
europea della gastronomia
2017. Su tutti, il tristellato
“Da Vittorio” , che festeggia
mezzo secolo di attività
FIANO BIANCO
Ideale con spaghetti
alle zucchine
Da 14 euro
“L
LICIA GRANELLO
Sicilia
Giacomo e Gabriella Rallo
hanno creato una delle più
importanti cantine
siciliane, oggi nelle mani
dei figli. Tra i loro vini
più buoni spicca
il delizioso Vigna di Gabri
L’iniziativa
La giornalista fotografa
Barbara Abdeni Massaad
ha curato il libro-progetto
“Soup for Syria”,
coinvolgendo grandi cuochi
di tutto il mondo: ritratti, ricette
e ricavato delle vendite sono
dedicati ai rifugiati del campo
profughi di Bekaa, in Libano
Giri
d’Italia
Donnafugata
Via Lipari 18
Marsala (Tp)
Tel. 0923-724200
VIGNA DI GABRI
Profumato, ideale
col pesce alla brace
Da 12 euro
in aderenti pantaloni di velluto nero e
con una cammisa di tipo mascolino, a righe bianche e rosse, con
le maniche rimboccate. ‘Ho cucinato io. Chissà che è venuto fuori’. Era venuta fuori una cenetta
squisita, condita da un vinello
bianco freschissimo e tradimentoso nella sua apparente innocuità”. Basta una manciata di parole ad Andrea Camilleri (il romanzo è Il tailleur grigio) per trasformare il vino in tentazione estiva e malandrina.
Del resto, con l’estate alle porte, la fruizione del vino cambia modalità e geografia: l’Italia si ridisegna, tra coste e campagne, in base al clima e al tempo delle vacanze.
La scelta di vini diversi — rinfrescanti e beverini — è scontata. Insieme ai cibi
dell’inverno — zuppe, lunghe cotture, comfort food, cibi scaccia-freddo — mandiamo a riposare in cantina i vini loro abbinati: rossi corposi e da meditazione,
bianchi molto strutturati, passiti da grandi formaggi.
Ma la divisione tra bianchi e rossi suona meno scontata da quando il periodo
delle temperature miti si è allungato ed è cresciuta la voglia di vini buoni, non banalmente dissetanti. Un salto di cultura enologica supportato dal moltiplicarsi
di realtà vignaiole sempre più articolate e interessanti, anche da un punto di vista di visibilità sociale.
EI SI ERA FATTA TROVARE
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la Repubblica
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
Friuli Venezia Giulia
Emilia Romagna
Azienda Agricola Radikon
Località Tre Buchi 4
Gorizia
Tel. 0481-32804
Cantina Francesco Bellei&C.
Via Nazionale 130
Loc. Cristo di Sorbara
Bomporto (Mo)
Tel. 059-902009
Ha un secolo di vita l’azienda
familiare
che ha rivoluzionato
il mondo del Lambrusco,
declinandolo con la sapienza
delle bollicine d’autore
Stanko Radikon condivide
con Josko Gravner la palma
di pioniere della viticoltura
naturale in Friuli Venezia
Giulia. Fermentazione
e macerazione lunghissime
per la sua Ribolla
ANCESTRALE
Sa di viola e lamponi
perfetto con i fritti
Da 40 euro
Da 10,50 euro
ILLUSTRAZIONE DI PAULA SIMONETTI
RIBOLLA
Ricca e complessa,
con Formadi frant
Marche
Autore di un piccolo libro
imperdibile “Non è il vino
dell’enologo”,
Corrado Dottori produce
nella sua comunità
bioagricola un Verdicchio
appassionante e iodato
VERDICCHIO
Da sorseggiare
con il brodetto
Da 18 euro
Puglia
Eredità millenaria
di una nobile famiglia
normanna in Salento,
la proprietà di settecento
ettari a conduzione
biologica: formaggi,
conserve, oli e vini
Azienda Duca Carlo Guarini
Largo Frisari 1
Scorrano (Le)
Tel. 0836-460257
NEGRAMARO
CAMPO DI MARE
con zuppa gallipolina
Da 8 euro
Un tempo la fatica e le difficoltà di gestione delle piccole attività alternative
rendevano il rapporto diretto con la clientela altalenante e farraginoso, oggi le
produzioni biologiche, biodinamiche, ecosostenibili, non si nascondono più dietro la scritta in etichetta o al bollino verde della certificazione. Alle loro spalle, infatti, pulsano aziende che sono un modello di nuova agricoltura, pronte a farsi conoscere e vivere a tutto tondo, tra agriturismi, fattorie didattiche e comunità rurali.
A fare la differenza, l’idea che il vino sia sempre più figlio della terra (e meno
degli enologi): un cambiamento figlio delle nuove produzioni naturali, a partire
dai cosiddetti aranciati, da lunghe macerazioni. Per questo, va raccontato dall’inizio, ovvero dalla vigna. Bisogna andare sul posto, guardare, annusare, toccare, ascoltare il racconto: questo cambia la dimensione del bere. Non solo responsabile, come dice la pubblicità, ma anche consapevole, oltre che — giustamente
— godibile.
Secondo l’ultima inchiesta di Wine News, l’enoturismo rappresenta una delle
diversificazioni di investimento più importanti del vino italiano, fondamentale
per aumentare la fidelizzazione degli eno-appassionati. Così, anche l’annuale appuntamento con “Cantine aperte” ha cambiato le sue dinamiche. Si visitano le
cantine non solo per assaggiare e magari comprare, ma finalmente anche per conoscere le realtà agricole, bypassando il marketing turistico importato dai grandi
paesi delle produzioni di massa (Stati Uniti e Australia in primis) e scegliendo di
rapportarsi con chi il vino lo fa davvero. Se il rapporto tra vino e natura vi attrae,
andate sul sito del Movimento Turismo del Vino e organizzate la gita che domenica prossima vi porterà in una delle settecentocinquanta cantine aperte, dal Piemonte alla Sicilia. Andate a conoscere da vicino il lavoro dei vignaioli grandi e piccini: sarete orgogliosi della vostra personalissima selezione di un vino per l’estate.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Sardegna
“Solo uva e zolfo (a volte)”
è il claim di questa piccola
azienda-culto, adagiata
nella campagna di Sassari.
Tra i suoi vini il Renosu
bianco, blend di Vermentino
e Moscato di Sennori
Tenute Dettori
Località: Badde Nigolosu
Sennori (Ss)
Tel. 079-512772
RENOSU BIANCO
Sapido e solare,
con le cozze gratinate
Da 11 euro
Quando
il tappo
vale
la tappa
MAURIZIO CROSETTI
Agriturismo La Distesa
Via Romita 28
Cupramontana (An)
Tel. 0731-781230
Di cantina
in cantina
i vini dell’estate
37
I
L VINO D’ITALIA È UN GIRO di
bicchiere più di plastica che di
cristallo, più caraffa che
decanter, è un alone rosso sulla
tovaglia all’ultimo sorso dopo la
pasta e fagioli. La geografia della
corsa è anche quella delle mille
cantine ma di più del paesaggio, in
questa stagione le viti stanno
preparandosi a reggere il peso
dell’estate che verrà, non ancora
esposte all’offesa della grandine,
assetate di una pioggia tornata forse
a fare il proprio mestiere, persino
troppo generosa. E qui è generoso
anche il vino: assomiglia ai ciclisti,
non se la tira quasi mai perché è lui
che tira e spinge. Roba da trattoria,
non da enoteca. Da cantina sociale, da
consorzio, non da fissati della
barrique.
Si beve la sera e qualche volta lungo
la strada, soprattutto in salita dove
non mancano mai i camper dei tifosi,
le tendopoli degli appassionati che
bivaccano con le damigiane accanto.
Salgono in montagna due o tre giorni
prima dei corridori, mangiano,
bevono anche dalla tanica, offrono. E
forse non saranno vini da gran
premio, ma nessun bicchiere ha più
sapore, più retrogusto d’allegria, di
comunità felice e un po’ ebbra.
Ricapitolando. Non è stata per
niente male, finora, la Falanghina
della signora Nunzia a Benevento, e
ancora meglio il Cirò su quel tavolo a
Catanzaro. Abbiamo, con l’autista
Massimo e il fotografo Andrea (lui
non beve, non vale), ceduto un paio di
volte alla tentazione della mezza
bottiglia, errore da poveracci, che
nessuno vada a dirlo a Gianni Mura.
Ci ha giustamente redarguito
l’ostessa di Danilo a Modena, levando
quella mezza offesa dal tavolo:
«Piuttosto, ragazzi, meglio lo sfuso
nella caraffa. Oppure una bottiglia
vera, intera, se poi non la finite che
male c’è?».
Non staremo qui a parlarvi della
cronometro del Chianti, il vino dentro
la borraccia è ormai un classico:
diciamo che la cena a Gaiole ha avuto
il suo bel perché. L’anno scorso il Giro
sfrecciò da Barbaresco a Barolo, due
anni fa da Treviso a Valdobbiadene e
tra pochi giorni saremo a Novacella,
dove i monaci ci sanno fare con il
Gewurztraminer. Non c’è arrivo
senza un comitato d’accoglienza o
una pro-loco, non c’è angolo di strada
che non ricordi al viandante quanto
sia triste la sosta a base di acqua
minerale. Qui si rivedono i pintoni di
quando eravamo piccoli, quelli chiusi
con la macchinetta e il gommino, e i
bicchieri di vetro spesso e pesante. Ed
è bello poter ordinare ormai quasi
ovunque anche un solo calice, però
come si deve. Sempre si conosce
dell’altro, si prova, si impara. Perché
al Giro saranno anche belle le tappe,
ma i tappi (in sughero) lo sono di più.
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Repubblica Nazionale 2016-05-22
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 22 MAGGIO 2016
38
L’incontro. Ottimisti
‘‘
HO ACCETTATO
SPOLETO
CON LO STESSO
SPIRITO CON CUI
ACCETTAI ANNI FA
DI GUIDARE
L’ISTITUTO ITALIANO
DI CULTURA
A PARIGI. UN LUOGO
DOVE VENIVANO
SOLTANTO ITALIANI
A FAR MERENDA
“Mio padre lavorava all’Unità, mia madre era il capo della segreteria di Togliatti, mio fratello Giuliano ancora non era nato e io venivo
sempre parcheggiato a casa del temutissimo Palmiro che ai miei occhi era solo un vecchio zio”. Famiglia più che militante e infanzia
più che comunista. Alle quali l’uomo che ha risollevato le sorti del
Festival dei Due Mondi di Spoleto, reagì fin da ragazzo “preferendo
i Rolling Stones ai Beatles e l’Accademia di arte drammatica alla facoltà di filosofia”. Risultato? “De- vardamento registico che ha fatto del mio personaggio è talmente forte che non
posso far altro che ripetere esattamente la parte come lui l’ha concepita. È tutta
del suo sacco. Ho accettato proprio perché a chiedermelo è stato il mio maetesto la lagna e non mi piace star farina
stro, colui che mi strappò all’Accademia già al primo anno e mi portò a lavorare
con sé. Sono stato per dieci anni il suo aiuto regista, poi ogni tanto mi metteva in
a fare delle particine, in spettacoli immensi come l’Orlando furioso. Pensi
lì a rimpiangere il passato. In as- scena
che ho avuto l’onore di fare una piccolissima parte accanto a Gassman, quando
Luca mise il scena quel meraviglioso Riccardo III».
Nel 1970, quando Ronconi fu invitato a presentare l’Orlando furioso a New
senza di risorse tocca aguzzare York,
Ferrara partì con la compagnia alla volta della Grande Mela. Fu a bordo di
quel charter che i grandi occhi della prim’attrice, Adriana Asti, allora trentaset(già musa di Visconti e Pasolini e a un passo dalla chiamata di Buñuel per Il
l’ingegno. Solo il presente conta, tenne
fantasma della libertà), affogarono dentro quelli azzurri del ventitrenne aiuto
regista («Ero bello come mio padre all’epoca», scherza). Quando atterrarono era
già più di un flirt, e oggi sono una delle coppie più affiatate del mondo dello spettail resto sono chiacchiere”
colo. Le mostruose, vampiresche dinamiche familiari che entrambi così magi-
Giorgio
Ferrara
GIUSEPPE VIDETTI
I
‘‘
ROMA
NTORNO A PIAZZA DI SPAGNA ROMA È GREMITA DI TURISTI, una fiumana di gente
che sciama verso le piccole arterie pedonali che scendono dal Babuino verso via del Corso. La casa al terzo piano ha infissi robusti, il vociare indistinto
non turba la quiete del vasto, accogliente salone. Il rosso pompeiano delle
pareti rende l’atmosfera più intima e preziosa, con la luce del primo pomeriggio che s’insinua discreta tra le misteriose geometrie di pregiati tappeti anatolici. Giorgio Ferrara, regista e attore, figlio di Maurizio, colonna del Partito comunista, e fratello maggiore di Giuliano, giornalista, conduttore televisivo e politico, è sdraiato sul sofà come un lord d’altri tempi a fare il bilancio di questi otto anni da direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto, un miracolo creato
da Gian Carlo Menotti alla fine degli anni Cinquanta che Rutelli gli mise in mano
come un giocattolo rotto dopo la dissennata gestione di Francis Menotti, il figlio
adottivo che aveva preso le redini del festival dopo la morte del maestro. «Tutti
gli amici mi dicevano, lascia perdere, chi te lo fa fare?», racconta Ferrara. «Io invece ero incuriosito, perché venivo da un’esperienza simile, avevo diretto per quattro anni l’Istituto italiano di cultura a Parigi. Anche lì trovai una situazione disperante, un posto dove venivano soltanto italiani a far merenda. Così pensai di raccontare la nostra cultura ai francesi attraverso lo spettacolo, costruendo all’interno del salone un teatrino del Settecento. Sono ottimista per natura, e con lo stesso spirito affrontai Spoleto. Il primo anno fu faticosissimo, perché il festival era diventato un fantasma. Così mi affidai alla mia agenda: chiamai Robert Wilson e Lu-
È UN PERIODO IN CUI GLI ARTISTI VIVONO CON IL BAFFO
MOSCIO. QUANDO IL LAVORO NON C’È FACCIO MIE
LE PAROLE DI MIA MOGLIE: NESSUNO RIESCE A ESEGUIRE
L’OZIO MERAVIGLIOSAMENTE COME ME. SONO MOLTO
PIÙ BRAVO A NON FARE NULLA CHE A RECITARE
ca Ronconi. La loro ripetuta presenza è stato un traino formidabile». Risultato, da cinquemila presenze il festival si è stabilizzato l’anno scorso su settantamila, recuperando lo smalto
che si pensava avesse perso per sempre.
Ferrara e sua moglie, l’attrice Adriana Asti, che vivono
tra Roma, Parigi e l’Umbria, hanno riaperto l’appartamento nella capitale in occasione delle repliche di Danza Macabra di Strindberg al Teatro Quirino, lo spettacolo teatrale
che Luca Ronconi allestì a Spoleto due anni fa, la sua penultima creatura prima della scomparsa nel febbraio 2015, un
testo insidioso che Ferrara affronta con imprevedibile, potente spavalderia, considerando la sua poca esperienza come attore. «A Ronconi divertiva il fatto che fossi io a farlo, e con le
spalle coperte dal genio ho accettato», racconta. «L’inchia-
stralmente rappresentano in Danza macabra non li hanno mai sfiorati né la differenza d’età è mai stato un gap. «Adriana (la signora Asti è nell’altra stanza ma riservata com’è non ruberebbe mai la scena al marito, ndr) si sente molto più giovane di me. E lo è nello spirito. Io, d’altronde, ho sempre frequentato persone più
grandi, non ho amici della mia età. Abitudinario e sedentario io, asociale lei; si rifiuta categoricamente di seguirmi nelle attività di rappresentanza, ha paura della noia. Dice: sono sicura che quando morirò sarà per noia, quindi non voglio accelerare la fine. Quarantacinque anni insieme son tanti, ma non troppi per un rapporto che non è mai degenerato in routine. La vita coniugale è stata per noi, prima di tutto, un divertimento. La Ginzburg scrisse per Adriana una commedia intitolata Ti ho sposato per allegria (1964; nel 1967 diventò un film con la Vitti e Albertazzi per la regia di Luciano Salce), quella è l’essenza del nostro rapporto. Sono sedotto dall’ottimismo di mia moglie e dal suo buonumore. Ci piace occuparci
delle nostre case, ci piacciono i cani, ci piace condurre una vita molto privata e solitaria. Accanto a una donna così allegra, spiritosa e intelligente non mi è mai
mancata la vita sociale».
Ferrara è cresciuto in una famiglia con forti motivazioni politiche. Le ha schivate tutte in favore dell’arte, fin dalla precoce iscrizione all’Accademia nazionale
d’arte drammatica che pose la parola fine al corso di filosofia che gli aveva consigliato papà, primo presidente comunista della Regione Lazio. «Mia madre era il
capo della segreteria di Togliatti, mio padre lavorava all’Unità, mio fratello Giuliano non era ancora nato, io ero piccolo e venivo parcheggiato sistematicamente
a casa Togliatti, nel quartiere Montesacro, a Roma», racconta. «Palmiro era temutissimo ma io lo consideravo un vecchio zio. Le frequentazioni di mio padre e
mia madre (e più tardi di mio fratello) erano quasi esclusivamente politiche, un
giorno Amendola e l’altro Alicata, Napolitano o Berlinguer. L’intera famiglia si
trasferì a Mosca nei primi anni Sessanta, quando mio padre, all’epoca di Krusciov, fu nominato corrispondente dell’Unità in Russia (Ferrara parla russo fluentemente, ndr). Ma la politica ha appassionato mio fratello più di me, ci voleva
una reazione in famiglia. Io amavo Mick Jagger più dei Beatles, ammiravo Andy
‘‘
RONCONI È STATO IL MIO MAESTRO, PER DIECI
ANNI FUI IL SUO AIUTO REGISTA. MI DIEDE
ANCHE QUALCHE PARTICINA. HO AVUTO
L’ONORE DI FARNE UNA ACCANTO A GASSMAN
IN QUEL SUO MERAVIGLIOSO ‘RICCARDO III’
Warhol e la sua Factory — precocemente intrigato dall’idea del laboratorio» .
Fu Luchino Visconti a mettergli in testa l’idea che avrebbe potuto recitare, anni prima della regia cinematografica del pluripremiato Un cuore semplice
(1977), sceneggiatura di Cesare Zavattini dal racconto di Flaubert, con la Asti in
cima al cast. «Luchino mi diceva sempre, ma no, ma che regista, tu devi fare l’attore. Fui suo aiuto regista in Ludwig e nell’Old Times di Pinter (1973) con Adriana, Valentina Cortese e Umberto Orsini che fece scandalo all’Argentina. Pinter
andò su tutte le furie per quell’allestimento insolito in cui il pubblico fu sistemato
sul palco e gli attori in platea su un ring da pugilato; bloccò lo spettacolo definendolo un musical pornografico».
Ora che Visconti e Pinter e Ronconi se ne sono andati si sente orfano? Anche
lei arranca nel medioevo dell’arte, come qualcuno chiama il nostro tempo? «È
un periodo in cui gli artisti vivono perennemente col baffo moscio. Una lamentazione continua a rimpiangere il passato. Ma è il presente che conta, il resto
sono chiacchiere. Meglio essere ottimisti e soprattutto appassionarsi al proprio lavoro, senza stare a lagnarsi. Bisogna fare come Romeo Castellucci, che quest’anno sarà a Spoleto con due spettacoli: non ci sono risorse? Aguzziamo l’ingegno! Così, con le sue idee geniali ha conquistato
la Francia, dove gli fanno ponti d’oro. Io stesso, per farcela con l’esiguo budget di Spoleto, ho creato produzioni con altri teatri italiani:
con Il Piccolo di Milano, quando c’era Ronconi, con il Teatro Stabile Metastasio di Prato, con il Festival di Ravenna, con il Festival
Internacional de Musica di Cartagena, e ho cominciato a far viaggiare le nostre produzioni come Giorni felici e Danza macabra
— che nel gennaio 2017 debutterà al Théâtre de l’Athénée di Parigi — o la Trilogia Mozart-Da Ponte. Detesto la lagna, e in questo
ho trovato un’alleata formidabile in mia moglie. E quando il lavoro non c’è faccio mie le parole di Adriana: “Nessuno riesce a eseguire l’ozio meravigliosamente come me. Sono molto più brava a non
far nulla che a recitare”».
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