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Prima di diventare grande Truman Capote scrisse
DIREPUBBLICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 NUMERO 584 ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO PER “LA REPUBBLICA” Cult La copertina. I guerriglieri dell’editoria Straparlando. Mimmo Jodice: “Fermo il tempo” I tabù del mondo. Se passa lo straniero Prima di diventare grande Truman Capote scrisse dei brevi racconti. Solo ora ritrovati e per la prima volta pubblicati. Eccone uno Il piccolo Truman TRUMAN CAPOTE A VEVO OTTO ANNI la prima volta che vidi Miss Belle Rankin. Era un giorno caldissimo di agosto. Il sole declinava nel cielo listato di scarlatto, e il calore si alzava secco e vibrante dalla terra. Seduto sui gradini della veranda davanti a casa, guardavo una negra che si stava avvicinando e mi chiedevo come facesse a portare sulla testa un fagotto così enorme di biancheria da lavare. Lei si fermò, e per tutta risposta al mio saluto scoppiò in una risata: il riso cupo e strascicato dei negri. Fu allora che Miss Belle venne avanti a passo lento dalla parte opposta della strada. La lavandaia la vide e, come se si fosse improvvisamente spaventata, si interruppe a metà di una frase e in fretta ripartì per la sua destinazione. Guardai a lungo e con grande attenzione quella sconosciuta di passaggio capace di provocare un comportamento così strano. Era piccola e tutta vestita di nero, coperta e striata di polvere: sembrava incredibilmente vecchia e rugosa. Ciocche di radi capelli grigi le attraversavano la fronte, zuppe di sudore. Camminava a testa bassa guardando il marciapiede non lastricato, quasi come se stesse cercando qualcosa che aveva perduto. La seguiva un vecchio cane nero e rossiccio, procedendo senza meta sulle tracce della sua padrona. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI IRENE BIGNARDI L’attualità. La Grecia vota per Aristotele I luoghi. Oggi Gabo ritorna a Cartagena Spettacoli. Amore, il più bel film scritto da Suso Cecchi d’Amico Next. La storia si fa (anche) con il Dna L’incontro. Giorgio Ferrara: “Non sopporto gli artisti dal baffo moscio” Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 26 La copertina. Il piccolo Truman Miss Belle Rankin era soltanto una vecchia pazza o almeno così la dipingevano i suoi concittadini nel profondo sud degli Stati Uniti d’America I <SEGUE DALLA COPERTINA TRUMAN CAPOTE N SEGUITO LA VIDI MOLTE VOLTE, ma quella prima visione, molto simile a IL LIBRO “DOVE COMINCIA IL MONDO. I PRIMI RACCONTI” DI TRUMAN CAPOTE (TRADUZIONE DI VINCENZO MANTOVANI, GARZANTI, 163 PAGINE, 18 EURO), DI CUI FA PARTE ANCHE IL RACCONTO CHE QUI ANTICIPIAMO, “MISS BELLE RANKIN”, SARÀ IN LIBRERIA DA GIOVEDÌ 26 MAGGIO un sogno, rimarrà per sempre la più nitida: Miss Belle che camminava silenziosamente per la strada, alzando con i piedi nuvolette di polvere rossa prima di sparire tra le ombre del crepuscolo. Alcuni anni dopo, nel drugstore d’angolo del signor Joab, stavo bevendo avidamente uno dei suoi speciali frappè. Ero seduto a un’estremità del banco, e all’altro capo c’erano due dei bulli più noti della città e uno sconosciuto. Lo sconosciuto aveva un’aria assai più rispettabile della gente che di solito bazzicava il locale di Joab. Ma era quello che stava dicendo con una voce bassa e rauca che attirò la mia attenzione. «Ragazzi, conoscete qualcuno da queste parti che abbia qualche bella pianta di camelie da vendere? Ne sto cercando qualcuna per una donna della costa orientale che sta costruendosi una casa a Natchez». I due ragazzi si scambiarono un’occhiata, e poi uno di essi, che era grasso con gli occhi enormi e si divertiva un mondo a stuzzicarmi, disse: «Be’, Mister, sa cosa le dico? L’unica persona che conosco da queste parti che ne ha di favolose è una vecchia tipa molto strana, Miss Belle Rankin: abita mezzo miglio fuori città, in una casa bella stravagante. È una casa vecchia e in rovina, costruita un po’ prima della guerra civile. Stravagante è dire poco; comunque, se quello che sta cercando sono le camelie, lei ha le più belle che io abbia mai visto». «Sì», disse con voce acuta l’altro, che era biondo e foruncoloso e sosteneva il ruolo di spalla del ciccione. «Gliele dovrebbe vendere. Da quello che sento, sta morendo di fame laggiù: ha solo un vecchio negro che vive con lei e zappa tra le erbacce del pezzo di terra che chiamano giardino. Accidenti, ho sentito che l’altro giorno è entrata al Jitney Jungle market e girava tra i banchi raccogliendo verdura andata a male che si è fatta regalare da Olie Peterson. La strega più strana che abbia mai visto: all’ombra le daresti anche cent’anni. I negri ne hanno una paura folle…». Ma lo sconosciuto interruppe il torrente di informazioni del ragazzo e chiese: «Bene, allora, credete che possa vendere?». «Certo», disse il ciccione, col sorrisetto di chi la sa lunga. L’uomo li ringraziò e si avviò all’uscita, poi si voltò di colpo e disse: «Ragazzi, vi andrebbe di accompagnarmi e farmi vedere dov’è? Poi vi riporto io in città». I due fannulloni acconsentirono. Erano tipetti sempre ansiosi di farsi vedere a bordo di un’auto, specie con estranei, perché così davano l’impressione di avere delle conoscenze; e, comunque, c’era sempre il premio delle inevitabili sigarette. Fu circa una settimana dopo, quando tornai da Joab, che venni a sapere com’era andata a finire. Il ciccione lo stava raccontando con grande fervore a un uditorio formato da Joab e da me. Più forte parlava e più drammatico diventava. «Io dico che quella vecchia strega dovrebbe essere cacciata dalla città. È matta da legare. Prima di tutto, quando scendiamo dalla macchina cerca di mandarci via. Poi ci sguinzaglia alle calcagna quello strano cane che ha. Scommetto che la bestia è più vecchia di lei. Be’, comunque, quel bastardo ha cercato di strapparmi striature perlacee nel cielo. Fuori faceva freddo e l’aria ferma era attraversata da raffiche intermittenti di un vento famelico che mordeva i rami grigi e spogli dei grandi alberi intorno alle rovine di quello che un tempo era stata la maestosa “Rose Lawn”, dove viveva Miss Rankin. La camera era fredda quando si svegliò, e lunghe lacrime di ghiaccio pendevano dalle grondaie del tetto. Mentre si guardava intorno in quel grigiore fu scossa da qualche brivido. Con uno sforzo scivolò da sotto l’allegro mosaico colorato della trapunta. Inginocchiandosi davanti al caminetto, accese i rami secchi raccolti da Len il giorno prima. La sua manina, rattrappita e gialla, lottò con il fiammifero e la ruvida superficie del blocco di calcare. Dopo un po’ i rami presero fuoco; si sentì lo scoppiettìo del legno e il fruscìo delle fiamme saltellanti, simile a un tintinnìo di ossa. Lei restò un momento davanti alla vampa per scaldarsi, poi si spostò con passo incerto verso la catinella gelata. Quando ebbe finito di vestirsi, andò alla finestra. Cominciava a nevicare, la neve rada e acquosa che cade negli inverni del sud. Si scioglieva appena toccava terra, ma Miss Belle, pensando alla lunga camminata che avrebbe dovuto fare quel giorno per andare in città a procurarsi qualcosa da mangiare, si sentì girare un po’ la testa. Poi rimase a bocca aperta perché vide, sotto di lei, che le camelie stavano sbocciando; erano più belle di come le avesse mai viste. I vividi petali rossi erano gelati e immobili. Una volta, a quanto poteva ricordare, negli anni in cui Lillie era una bambina, ne aveva raccolti cesti interi, riempiendo della loro sottile fragranza le grandi stanze vuote di Rose Lawn; e Lillie le rubava e le regalava ai piccoli negri. Come si era arrabbiata! Ma ora il ricordo le strappò un sorriso. Erano passati almeno dodici anni dall’ultima volta che aveva visto Lillie. Povera Lillie, ormai è una vecchia anche lei. Avevo appena diciannove anni quando è nata, ed ero giovane e carina. Jed diceva che ero la più bella ragazza che avesse conosciuto… ma è successo tanto tempo fa. Non ricordo esattamente quando ho cominciato a essere così. Non ricordo quando sono diventata povera, quando ho cominciato a invecchiare. Immagino che sia successo dopo la partenza di Jed… chissà che fine ha fatto. Mi disse che ero brutta, che ero uno straccio, e prese e se ne andò, lasciandomi sola con Lillie… E Lillie era una poco di buono, una poco di buono… Si portò le mani al viso. Le faceva ancora male ricordare, eppure quasi ogni giorno tornava con la mente a queste stesse cose, che certe volte la facevano infuriare; e allora urlava come una matta, come quando era arrivato quell’uomo con i due balordi che sghignazzavano, l’uomo che voleva comprare le camelie; non le avrebbe mai vendute, mai. Ma quell’uomo le faceva paura; aveva paura che gliele rubasse; e lei cosa poteva fare? La gente le avrebbe riso dietro. Ed era per questo che aveva inveito contro di loro; per questo li odiava, tutti quanti. Len entrò nella stanza. Era un negro piccolo, vecchio e curvo, con una cicatrice sulla fronte. «Miss Belle?» chiese con una voce asmatica. «Voleva andare in città? Io non lo farei se fossi in lei, Miss Belle. C’è un bruttissimo tempo oggi, là fuori». Quando parlava, gli usciva dalla bocca una nuvoletta di vapore che sembrava fumo, disperdendosi nell’aria fredda. «Sì, Len, oggi devo andare in città. Uscirò tra poco; voglio essere di ritorno prima che faccia buio». Fuori, il fumo del vecchio camino si alzava in lente volute e rimaneva sospeso sopra la casa come una nebbia azzurrina, come se fosse gelato: prima che arrivasse una pungente folata di vento a portarlo via. Era buio pesto quando Miss Belle affrontò la salita che portava verso casa. La notte calava molto in fretta durante l’inverno. Quel giorno arrivò così bruscamente che dapprincipio le fece paura. Non ci fu il rosso del tramonto, ma solo il grigio perla del cielo che a poco a poco diventava nerissimo. Nevicava ancora, e la strada era gelida e fangosa. Il vento era più forte e si udivano gli schiocchi dei rami secchi. Lei avanzava curva sotto il peso di un grosso paniere. Era stata una giornata buona. Il signor Johnson le aveva regalato quasi un terzo di un prosciutto e il piccolo Olie Peterson un mucchio di verdura ormai invendibile. Non avrebbe dovuto tornare in città per almeno due settimane. Quando fu davanti alla casa si fermò un momento per riprender fiato, lasciando che il paniere scivolasse a terra. Poi, raggiunto il confine del terreno, cominciò a cogliere alcune camelie che erano grandi come rose; se ne premette una sul viso, ma non ne sentì il tocco. Ne raccolse una bracciata e tornò indietro fino al paniere, quando a un tratto le sembrò di aver udito una voce. Si fermò per ascoltare, ma a risponderle c’era solo il vento. Si accorse che stava scivolando, ma non poté impedirlo; tese le braccia nel buio per sorreggersi, ma intorno a lei c’era soltanto il vuoto. Provò a chiedere aiuto, ma dalla gola non le uscì alcun suono. Si sentiva sommergere da grandi onde di vuoto; scene fuggevoli le passavano davanti agli occhi. La sua vita, del tutto inutile, una rapida apparizione di Lillie, di Jed, e una nitida immagine di sua madre con un bastone lungo e sottile. Il mistero delle camelie con i denti un pezzo di polpaccio, così ho dovuto mollargli un calcio in bocca… e lei comincia a urlare come una sirena. Finalmente il vecchio negro riesce a calmarla quanto basta perché si possa rivolgerle la parola. Il signor Ferguson, questo è il nome del forestiero, le ha spiegato che voleva comprare i suoi fiori, sapete, quelle vecchie piante di camelie. Lei risponde che non ne vuol sapere; per di più, non venderebbe una sola delle sue piante perché di tutte le cose che ha sono quelle che le piacciono di più. Ora, aspettate che vi dica il resto: il signor Ferguson le ha offerto duecento dollari per una sola di quelle piante. Avete capito bene: duecento dollari! La vecchia capra gli ha detto di levarsi dai piedi: così, quando abbiamo visto che non c’era niente da fare, siamo andati via. Anche il signor Ferguson era molto deluso; contava di tornare con le piante. Ha detto che siamo stati le persone più gentili che abbia mai incontrato». Si piegò all’indietro e tirò un profondo respiro, sfinito dal resoconto. «Maledizione», disse, «che se ne fa di quelle vecchie piante, quando potrebbe venderle a duecento svanziche l’una? Non sono mica bruscolini». Quando uscii dal locale di Joab, pensai a Miss Belle. Mi ero fatto spesso delle domande su di lei. Sembrava troppo vecchia per essere ancora al mondo: essere così vecchi doveva essere terribile. Non riuscivo a capire perché tenesse tanto alle camelie. Erano bellissime, ma se era così povera… Be’, io ero giovane, lei era molto vecchia e le restava poco da vivere. Ero così giovane che non pensavo mai che sarei diventato vecchio anch’io, che anch’io avrei potuto morire. Era il primo febbraio. Il giorno era spuntato plumbeo e coperto, con bianche Ricordo che era un freddo giorno d’inverno quando zia Jenny mi portò alla vecchia casa in rovina dove abitava Miss Belle. Miss Belle era morta durante la notte: l’aveva trovata un vecchio di colore che viveva là con lei. Quasi tutti, dalla città, stavano andando a dare un’occhiata. Non l’avevano ancora mossa perché il coroner non aveva dato il permesso. Così la vedemmo appena morta. Era la prima volta che vedevo un morto e non la dimenticherò mai. Giaceva nel cortile accanto alle sue piante di camelie. Le si erano spianate tutte le rughe sul viso, e i fiori vivaci erano sparpagliati tutt’intorno. Sembrava piccolissima e veramente giovane. Aveva qualche fiocco di neve sui capelli e uno di quei fiori era schiacciato contro la sua guancia. Era, pensai, una delle cose più belle che avessi mai visto. Tutti dicevano che era molto triste eccetera, e io lo trovai piuttosto strano, perché erano gli stessi che ridevano e si burlavano di lei. Be’, Miss Belle Rankin era di sicuro un tipo strano, e probabilmente anche un po’ tocca, ma aveva davvero un aspetto adorabile in quella fredda mattina di febbraio, con quel fiore premuto sulla guancia e là distesa, così immobile e silenziosa. Da Dove comincia il mondo. Titolo originale: The Early Stories of Truman Capote © 2015 by The Truman Capote Literary Trust. Published by arrangement with Penguin Random House LLC and Roberto Santachiara Literary Agency (Traduzione di Vincenzo Mantovani) © 2016, Garzanti S.r.l., Milano ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica DOMENICA 22 MAGGIO 2016 27 I turbamenti di un elfo adolescente D ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO PER “LA REPUBBLICA” IRENE BIGNARDI I TRUMAN CAPOTE, l’autore di “Altre voci, altre stanze”, de “L’arpa d’erba”, di “A sangue freddo”, di “Colazione da Tiffany”, vista la notorietà e il talento per l’autopromozione del personaggio, si sa quasi tutto. E ci sono schiere di non lettori che conoscono il profilo dello scrittore per via della notorietà che gli hanno garantito il cinema, con “Colazione da Tiffany”, la cronaca nera, con “A sangue freddo”, il gossip, con “Preghiere esaudite”, il libro di ricordi del bel mondo che gli costò, a lui, ambizioso divino mondano, alcune amicizie importanti cui teneva molto. E mentre i filologi capotiani, a trent’anni dalla morte (Capote è scomparso nel 1984 a cinquantanove anni) sono ancora al lavoro cercando le parti mai ritrovate dell’incompiuto e urticante ”Preghiere esaudite”; mentre, in occasione della scomparsa della sua amica (pochissimo mondana) Harper Lee, l’autrice de “Il buio oltre la siepe”, cercano ancora di scoprire i confini delle rispettive influenze, e cioè di chi ha fatto cosa ai tempi di “A sangue freddo”; mentre il cinema lo ricorda, compaiono in stampa quelli che il grande pubblico considererà delle scoperte, i filologi studieranno avidi, i suoi ammiratori vedranno come la prova di un genio precoce e naturale, che tale fu fin da ragazzino, quando Truman Capote era triste, infelice, sballottato qua e là, bello nella sua strana maniera da elfo, a disagio nel suo ruolo sessuale e già pieno di talento. Ma è eticamente corretto (se l’etica ha qualcosa a che fare con la narrativa, o viceversa) proporre al mondo delle lettere, dei testi, che l’autore non ha ritenuto opportuno far conoscere? O è solo un gusto maligno? O un modo per guadagnare sulla fama consolidata di un autore? Le quattordici storie inedite di Truman Capote, che escono a giorni anche in Italia presso Garzanti sotto il titolo “Dove comincia il mondo”, sono state trovate due anni fa dall’editore Peter Haag alla New York Public Library mentre cercava i capitoli mancanti di “Preghiere esaudite”. Alcune erano state pubblicate sul giornalino della high school di Capote. Quattro lo scorso anno da “Die Zeit”. Nessuna, e questo turba non poco i filologi, è datata, anche se tutte provengono sicuramente da un Capote adolescente (ma la non datazione non facilita certo una visione corretta del giovane scrittore). Alcuni racconti sono stati accolti con diffidenza (è il caso di “Terrore nella palude”, visto come una imitazione di Tom Sawyer). Altri, come “Miss Belle Rankin”, il piccolo, aspro e tenero racconto dall’America profonda che vi proponiamo oggi in queste pagine, come la rivelazione di un talento che già lascia il segno. Un bel racconto, a partire dal nome di lei (Belle, come le “southern belles”), dal classico incipit, dalla storia vista dal narratore /testimone... E bravo il piccolo Truman che diventerà il grande Capote. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 28 L’attualità. Tragedie greche A ventiquattro secoli dalla nascita, a Salonicco si celebra il grande filosofo sia per aggrapparsi a un glorioso passato che per illuminare un catastrofico presente Magari partendo da una sua vecchia lezione: “Il denaro deve essere un mezzo e non un fine” A ETTORE LIVINI RISTOTELE SPEGNE le candeline del suo compleanno (sono 2.400, auguri!) e si regala una festa in agrodolce. Dolce perché il mondo non l’ha dimenticato. Anzi: decine di studiosi, filosofi e professori in arrivo da ogni angolo del mondo — in testa il presidente greco Prokopis Pavlopoulos — si ritroveranno da domani a Salonicco per una sorta di Woodstock della cultura dedicata tutta al suo lavoro, il primo atto dell’”anno aristotelico” voluto dall’Unesco. Amaro perché — come direbbe lui — l’uomo è un animale politico. E la realtà quotidiana della Grecia — anche a due passi dalla capitale della Macedonia — è lì a ricordarci che l’utopia di una democrazia “fatta di cittadini liberi e uguali” come la sognava lui è ancora oggi, a tutti gli effetti, un’utopia: un centinaio di chilometri a nord dalla Torre Bianca ci sono i diecimila migranti accampati al confine di Idomeni, all’ombra del filo spinato che ne ha bloccato la fuga da guerra e miseria. E fuori dai saloni che ospiteranno convegni e dibattiti, le vie della città sono segnate dalle cicatrici della crisi senza fine del paese, uno tsunami che ha bruciato un quarto dell’economia nazionale, lasciato senza lavoro un greco su quattro e diviso l’Europa tra Nord e Sud, tra falchi del rigore e colombe della solidarietà. Il filo tra passato e presente, tra le lezioni di Aristotele ad Alessandro Magno e le trattative con la Troika all’Eurogruppo, è più sottile di quanto si pensi. «Atene è oggi il segno più macroscopico del pericolo di un’Unione che non è più quella che si sperava che fosse», ammette Enrico Berti, presidente onorario dell’Istituto internazionale di filosofia e special guest tricolore al convegno di Salonicco. La Polis ideale immaginata dal filosofo di Stagira — “un mondo dove ognuno deve partecipare, governando bene quando è al potere per poi poter godere dei benefici dell’essere governato bene dagli altri”, riassume il professore dell’università di Padova — è a modo suo un manifesto ante-litteram dei valori fondativi della Ue. Valori che per ironia della sorte rischiano oggi di andare in frantumi proprio sotto il Partenone, in un paese alle corde travolto da una tragedia moderna dove i debiti, il valore del denaro e le storture dell’economia di mercato — altri modernissimi temi degli antichi lavori di Aristotele — recitano un ruolo da primattori. «L’idea che l’Europa si ritrovi a Salonicco per parlare della cultura delle sue radici e non di Pil è comunque un buon segno» dice soddisfatto Mario Vegetti, uno dei massimi esperti italiani del pensiero ellenico, autore assieme a Francesco Ademollo di Incontro con Aristotele (Einaudi). I tempi, ovviamente, sono cambiati. L’economia globale è 24% il tasso di occupazione in Grecia -25% la percentuale del Pil greco perso dal 2010 si a breve termine (le elezioni tedesche nel 2018) non vuol fare concessioni e insiste sulle sforbiciate a bilancio e welfare. Le vecchie categorie, quando sono valide, durano per sempre, aggiornandosi con lo scorrere dei secoli. «Le donne, in fondo, erano persone ma non cittadini per Aristotele», ricorda Berti. Oggi, per fortuna, non è più cosi, e anche l’idea di Polis ha cambiato pelle: «Duemilaquattrocento anni fa era una realtà piccola, autosufficiente a se stessa — continua il professore — ora nemmeno gli Stati nazionali sono autosufficienti. Il mondo è interdipendente, il senso di comunità va ben oltre il limite dei confini. Anche la Ue non è più autosufficiente. Servirebbe una società politica mondiale. Sarebbe un passo fondamentale e invece si sta tornando indietro, come dimostra proprio quello che è successo in Grecia». La strada verso la comunità ideale, insomma, resta lunga, ma l’influsso dello scienziato macedone nel percorso verso il traguardo è ben vivo anche oggi, malgrado gli incidenti di percorso tra Atene e Bruxelles: «C’è un neo-aristotelismo etico e politico diffuso nel pensiero tedesco e anglosassone — spiega Vegetti — un modello di pensare la politica in senso liberale e non utopistico». Che deve però fare i conti con un pianeta dove il nemico numero uno del filosofo di Stagira — la crematistica, alias una realtà dove il denaro serve solo ad ammucchiare altro denaro — detta la linea. Ventiquattro secoli fa sulle sponde dell’Egeo non si scambiavano derivati, non si scommetteva su future e opzioni e non si affidava il futuro di un paese — è successo ad Atene ma anche all’Italia — a contratti di ricopertura sui tassi d’interesse. «Aristotele era contrario alla speculazione — aggiunge Vegetti — ottenere moneta grazie alla moneta per lui era una perversione. L’economia dal suo punto di vista era solo l’arte di scambiarsi un surplus di merci: io ho più grano, tu hai più olio, possiamo aiutarci a vicenda. Usando il denaro solo per rendere più semplice la transazione. Un mezzo e non un fine». Odiava il debito e i prestiti a interesse, le due armi che hanno messo in ginocchio la Grecia negli ultimi anni d’austerity. Visioni antiquate da critico ante-litteram del capitalismo, sostiene qualcuno, come il sogno di un mondo che riconosca a tutti uguali diritti Cercasi Aristotele disperatamente qualcosa di più complicato dell’unione virtuosa tra Oikos e Nomos che nel 330 avanti Cristo riassumeva per il filosofo macedone l’arte di dare regole alla gestione dei beni di casa. Lo stesso Aristotele (che probabilmente si sarà rivoltato nella tomba) è finito nel tritacarne mediatico della crisi, sbandierato dal quotidiano tedesco Bild tra i 50 motivi — accanto all’ouzo — per cui i tedeschi devono voler bene ad Atene. Il valore dei suoi messaggi però non si è appannato. «La sua enfasi sul concetto di autarchia può sembrare antiquata — dice ad esempio Chris Hann, del Max Plank Institut — ma in realtà non è così. Basta applicare il concetto di Oikos a livelli differenti». E se l’Oikos nel senso di casa è oggi l’Europa «il senso di identità culturale e di solidarietà sociale nel continente è una pura ipocrisia — sostiene Hann — visto che il trattamento riservato ai greci nell’era dell’austerità è figlio degli interessi delle istituzioni più della comunità. Un brand da sventolare più che un valore reale». Tradotto nella cronaca di queste ore, è più aristotelico il Fondo monetario internazionale, che chiede un taglio al debito ellenico per non imporre nuovi tagli, piuttosto di Bruxelles che per le sue miopie e gli interes- e uguali doveri. Ma temi che visti attraverso la lente dei fallimenti della turbofinanza senza controlli, regina dei nostri tempi, riemergeranno nei dibattiti di Salonicco dei prossimi giorni, con la forza di idee che hanno ancora attualità. «Aristotele ha gettato le basi per i concetti di democrazia, cittadinanza e comunità — dice Demetra Sfendoni Mentzou, responsabile del Centro per gli studi interdisciplinari del filosofo e anima del congresso — oggi più che mai abbiamo bisogno delle sue idee per ridefinire questi valori assieme a quelli dell’umanità stessa». «L’idea di una società basata sulla conoscenza è la sintesi stessa della sua modernità e sarà la vera sfida del Ventunesimo secolo» conclude Ennio De Bellis dell’università del Salento. «La conoscenza è la vera arma per difendere la democrazia — aggiunge — perché aiuta a distinguere la giustizia dall’oppressione in una società sempre più complessa, spaziando dalla scienza, ai media fino alla finanza». Parole che in una Grecia dove crisi e austerity ha allargato a dismisura la platea dei poveri e l’ingiustizia sociale sono d’attualità oggi esattamente come ventiquattro secoli fa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica DOMENICA 22 MAGGIO 2016 29 Dai sillogismi al computer sui sentieri della logica I PIERGIORGIO ODIFREDDI L DESTINO NON È stato gentile con Aristotele, perché ha permesso che metà delle sue opere si perdesse: purtroppo la metà leggibile e divulgativa, scritta nello stile dei dialoghi platonici. Le opere divulgative di Aristotele rimasero per secoli dei veri best seller, mentre erano andate perdute quelle tecniche che furono ritrovate fortunosamente da Silla molto dopo. Ripubblicate nel primo secolo della nostra era, queste ultime sono le sole che oggi ci sono rimaste, benché in parte fossero diventate obsolete già allora, com’è il destino di ogni opera tecnica, e benché spesso si tratti di appunti per le lezioni: a volte di Aristotele stesso, e a volte dei suoi studenti. Le più importanti sono le opere di logica, che si trovano in una raccolta di sei libri chiamata “Organon”, o “Strumento”. Soprattutto nei due libri degli “Analitici”, in cui c’è la teoria dei sillogismi: cioè, le regole che permettono di derivare una conclusione da una premessa maggiore e una premessa minore, quando si parla di cose che succedono sempre, quasi sempre, a volte o mai. Ad esempio, il famoso sillogismo “se gli uomini sono sempre mortali (premessa maggiore), e Socrate è un uomo (premessa minore), allora Socrate è mortale (conclusione)”. Aristotele considerò i possibili duecentocinquantasei sillogismi di questo tipo, e classificò completamente i ventiquattro tipi validi. Fu uno dei primi grandi teoremi della matematica greca, analogo alla classificazione di Teeteto dei cinque solidi regolari, ma molto più complesso. Soltanto nel Seicento Leibniz si accorse che c’era un metodo meccanico per controllare, mediante diagrammi, se un sillogismo è valido oppure no: da quella sua intuizione derivò il sogno di automatizzare il ragionamento che in tre secoli ha portato a Gödel e Turing, cioè nientemeno che all’informatica e al computer. 311 mld il debito greco alla fine del 2015 200% la stima del debito pubblico greco entro pochi anni 330 mld 1,8 mld il valore dei prestiti alla Grecia da parte di Ue, Fmi, Bce e Esm il valore del nuovo pacchetto di austerità imposto alla Grecia dai creditori ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 30 I luoghi. Tour letterari E Gabo tornò a casa © ULF ANDERSEN/GAMMA/CONTRASTO LA MAPPA LA FONDAZIONE GARCÍA MÁRQUEZ, DIRETTA DA JAIME ABELLO E JAIME GARCÍA MÁRQUEZ HA CREATO UNA APP PER RIPERCORRERE I LUOGHI DEL NOBEL: “LA CARTAGENA DE GABO”. QUI LO SCRITTORE (1927-2014) NEL 1991 NELLA CITTÀ COLOMBIANA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica DOMENICA 22 MAGGIO 2016 1 - L’UNIVERSITÀ Qui studiò alla facoltà di legge «...Mi domando ancora come sarebbe stata la mia vita senza la matita del maestro Zabala e il cavalletto della censura, la cui sola esistenza era una sfida creativa. Ma il censore era sempre più in guardia di noi per via dei suoi deliri di persecuzione. Le citazioni dei grandi autori gli sembravano imboscate sospette...». da “Vivere per raccontarla” (2002) 2 - LA SEDE DELL’UNIVERSAL Qui imparò a fare il giornalista «...Era proprio lì la sede di ‘El Universal’, davanti all’immenso muro dorato della chiesa di San Pedro Claver, il primo santo delle Americhe... È un vecchio edificio coloniale ricamato di rattoppi repubblicani e due portoni e qualche finestra da cui si vedeva tutto quello che costituiva il giornale...». da “Vivere per raccontarla” (2002) 3 - L’OSPEDALE MILITARE Qui intervistò il sopravvissuto «...Quello che non sapevano né io né il naufrago mentre cercavamo di ricostruire minuto a minuto la sua avventura, era che quell’indagine spossante ci avrebbe portato in un’altra avventura che destò molto scalpore nel Paese, che a lui gli costò gloria e carriera e che a me poteva costarmi la vita...». da “Racconto di un naufrago” (1955) Oggi le ceneri di Gabriel García Márquez verranno tumulate a Cartagena de Indias, la città colombiana che più di tutte ispirò i suoi romanzi. Qui vive ancora il fratello Jaime Che ci guida tra piazze, aneddoti e palazzi G OMERO CIAI ABITO, SUO FRATELLO JAIME lo ha sempre chiamato così, arrivò la pri- ma volta a Cartagena de Indias con soltanto quello che aveva addosso. Fuggiva da Bogotà, dove la residenza per studenti nella quale viveva era stata incendiata durante la rivolta successiva all’assassinio del leader politico liberale, Jorge Eliécer Gaitán. «Bruciò tutto quello che avevo. I vestiti, i libri, la macchina da scrivere, e anche alcuni racconti che avevo scritto». Negli scontri, tra liberali e conservatori che in Colombia si ricordano come il “Bogotazo”, ci furono tremila morti. Era l’aprile del 1948 e Gabriel García Márquez, che aveva ventuno anni e studiava legge, si rifugiò sulla costa dei Caraibi colombiani, nell’antica, fantasmagorica, ma ormai decaduta capitale latinoamericana di quello che fu l’Impero spagnolo. La prima notte dormì in prigione. Non trovò l’amico che doveva pagargli una stanza e all’hotel Suiza si rifiutarono di fargli credito. Così, racconta suo fratello Jaime, vagò affamato lungo le mura della città e infine tornò nel parco Bolivar dove s’accasciò a riposare su una panchina. Ma c’era il coprifuoco, e lo arrestarono. Nei giorni successivi fu più fortunato. Entrò all’università, trovò il primo impiego come «aiutante giornalista», pubblicò il primo articolo e confessò a suo padre che non voleva studiare legge ma fare lo scrittore. Si narra che l’episodio avvenne sotto la statua dell’indipendenza nel Camellón de los Martires, e che suo padre, il telegrafista Gabriel Eligio, infuriato sentenziò: «Bene, da oggi mangerai carta». Nella sua prima giovinezza, Gárcia Marquéz trascorse a Cartagena meno di due anni, fino al dicembre del ‘49, ma la sua relazione con questa città fu così peculiare che i luoghi, le architetture, i personaggi, e le leggende di Cartagena, rivivono in molti dei suoi romanzi. Così non è un caso che questa sia l’unica città colombiana dove, negli anni Novanta, si fece costruire una casa; che sia quella dove fondò la sua scuola di giornalismo; quella dove tornava sempre per il suo compleanno (6 marzo); e quella dove ha voluto, con la cerimonia che si svolgerà oggi nel Claustro dell’Università, che venissero conservate le sue ceneri. La sede della scuola, la “Fondazione nuovo giornalismo latinoamericano” (Fnpi), sta nella stessa strada — San Juan de Dios — dove nel 1948 c’era l’Universal, il primo giornale nel quale lavorò. Lo stipendio all’Universal, un foglio d’opposizione strozzato dalla censura dell’epoca, era talmente misero che spesso, per non pagare la locanda, chiusa l’edizione prima dell’alba, Márquez s’addormentava in tipografia sui rotoloni di carta per la stampa. Ma qui conobbe un caporedattore, Clemente Zapata, che sempre ricorderà come decisivo nella sua formazione. Qui lesse Virginia Wolf e William Faulkner. E qui ambienterà quasi tutto il romanzo L’amore ai tempi del colera, che scrisse traendo ispirazione dalla storia dei suoi genitori. A quell’epoca García Márquez girava con un canovaccio — l’aveva intitolato La casa — del romanzo che diventerà Cent’anni di solitudine: la scena nella quale José Arcadio Buendia conosce il ghiaccio è ispirata a un mercato che, fino al 1978, stava dove oggi a Cartagena c’è il centro delle Convenzioni; il personaggio di Melquíades è ispirato a un mago, Blacaman, che conobbe nella Plaza de la Aduana; e la casa di piacere della Negra Eufemia — sempre nei Cent’anni — è sui bordelli di Cartagena che è modellata. E ancora. Il parco Bolivar è il luogo dell’incontro fra i due protagonisti sotto il Portico degli scrivani; poco più avanti c’è la Cattedrale dove Florentino Ariza consegna furtivamente la sua prima lettera d’amore a Fermina Daza; oppure il parco Fernandez de Madrid dove, nel libro, c’è la casa della famiglia di Fermina e dove Florentino la osserva mentre cammina come se fosse “immune alla gravità”. Ma anche in altri romanzi di García Márquez ci sono luoghi di Cartagena. Ne Il generale nel suo labirinto (1989), c’è la Torre del Reloj con la porta attraverso la quale il libertador Simon Bolivar entra in città. In Dell’amore e altri demoni, pubblicato nel 1994, il mercato del Portal de los dulces è il luogo dove inizia la tragedia della protagonista, Sierva Maria, la bambina (morsa dal cane rabbioso) che verrà condannata dall’Inquisizione a vivere il resto della sua vita in un convento di clausura; monastero che Márquez ambienta in quello che fu il convento di Santa Clara, oggi trasformato in albergo. La casa del marchese di Baldeoyos, García Márquez la utilizzò invece sia come dimora del padre della bambina (nel romanzo si chiama marchese di Casalduero) che, ne Il generale nel suo labirinto, come casa dove si fermerà Bolivar prima di raggiungere Santa Marta. Tra gli aneddoti che ci racconta Jaime Márquez c’è anche quello secondo cui suo fratello Gabo sosteneva che «i portoni di Cartagena cambiano casa». Questo perché una sera una pittrice sua amica dipinse un Arlecchino sul portone di casa, ma quando García Márquez tornò a cercarlo con la luce del giorno non lo trovò più. Gabito lasciò per la prima volta Cartagena de Indias alla fine del 1949. Ma la città, che era stata il più grande mercato di schiavi delle Americhe, sarebbe diventata qualche anno dopo teatro di un suo scoop giornalistico. Nel 1955, quando lavorava a El Espectador di Bogotà, tutta la Colombia si emozionò per il naufragio di una lancia della Marina con otto soldati a bordo. Soltanto uno di loro sopravvisse, dieci giorni alla deriva senza acqua né cibo. García Márquez andò a Cartagena per intervistarlo e scoprì una versione dei fatti molto diversa da quella ufficiale. La raccontò in quattordici reportage anonimi. Fu, allo stesso tempo, uno straordinario successo giornalistico e l’inizio del suo lungo esilio dalla Colombia. Prima in Europa, poi in Messico dove il 17 aprile di due anni fa morì. Oggi fa ritorno a Cartagena, e stavolta non la lascerà più. 31 10 - LA SUA CASA Qui festeggiava i compleanni “...Nemmeno nel più delirante dei miei sogni immaginai che avrei potuto vedere l’edizione di un milione di copie. Pensare che un milione di persone avrebbero potuto decidere di leggere quello che scrivevo nella solitudine di una stanza, con ventotto lettere dell’alfabeto e due dita, era una follia...”. dal discorso tenuto a Cartagena nel 2007 per la milionesima copia di “Cent’anni” 9 - IL PALAZZO CASALDUERO Qui ambientò molti suoi romanzi «...Solo due suoi gesti non sembravano armonizzarsi con questa immagine. Il primo fu il trasloco in una casa nuova in un quartiere di nuovi ricchi dal vecchio palazzo del marchese di Casalduero, che era stato la dimora familiare per oltre un secolo...». da “L’amore ai tempi del colera” (1985) 8 - LA CATTEDRALE Qui si disquisì del morso di un cane «...“Qualunque cosa sostengano i medici” disse, “la rabbia negli umani suole essere una delle tante scaltrezze del Nemico”. Il Marchese non capì. Il vescovo gli fece una spiegazione così drammatica che sembrò il preludio di una condanna al fuoco eterno...». da “Dell’amore e altri demoni” (1994) ©RIPRODUZIONE RISERVATA 4 - LA TORRE DEL RELOJ 5 - I MARTIRI PER L’INDIPENDENZA 6 - IL PARQUE BOLIVAR 7 - IL PARQUE FERNANDEZ Qui raccontò gli ultimi mesi di Bolivar «...L’uno e l’altro non sembravano essere due ricordi di una stessa vita. La molto nobile ed eroica città di Cartagena de Indias, più volte capitale del vicereame e mille volte cantata come una delle più belle città del mondo, non era allora neppure l’ombra di quanto era stata...». Qui scrisse di lotta per la libertà «...Cartagena aveva sopportato nove assedi militari, per terra e per mare, ed era stata saccheggiata più volte da corsari e generali. Tuttavia, nulla l’aveva deteriorata quanto le lotte di indipendenza, e poi le guerre tra una fazione e l’altra. Le famiglie ricche dei tempi dell’oro erano fuggite. Gli antichi schiavi alla deriva in una libertà inutile...». Qui Florentino incontrava Fermina «...Lì si sedevano già a quell’epoca i calligrafi taciturni con i panciotti di velluto e le mezze maniche, a scrivere su richiesta tutta una serie di documenti a prezzi da poveri: esposti, petizioni, allegati giuridici, biglietti di congratulazioni o di condoglianze, letterine d’amore per qualsiasi età...». ...E qui la aspettava «...Fermina camminava con una alterigia naturale, la testa dritta, lo sguardo immobile, il passo svelto, il naso affilato, la cartella dei libri stretta fra le braccia incrociate sul petto, e un’andatura da cerva che la faceva sembrare immune alla gravità...». da “Il generale nel suo labirinto” (1989) da “Il generale nel suo labirinto” (1989) da “L’amore ai tempi del colera” (1985) da “L’amore ai tempi del colera” (1985) Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 32 Spettacoli. Scene da un matrimonio Di lì a poco scriverà le pagine migliori del nostro cinema. Ora un libro raccoglie quelle spedite al marito da un’Italia povera ma allegra. E sono altrettanto belle LADRI DI BICICLETTE VITTORIO DE SICA 1948 MIRACOLO A MILANO VITTORIO DE SICA 1951 BELLISSIMA LUCHINO VISCONTI 1951 I NATALIA ASPESI N QUEL PRIMO DOPOGUERRA, ROMA ERA ACCASCIATA nella miseria ma anche esal- tata dalla certezza di tornare alla vita e al futuro. L’inverno del 1945 fu gelido, mancava il riscaldamento nelle case, l’acqua bisognava andarla a prendere in strada, l’elettricità c’era e non c’era, gli ascensori non funzionavano. Le candele scarseggiavano come tutto, persino la carta per scrivere. Per scaldarsi, Suso Cecchi d’Amico, come tanti romani, passava molte ore sotto le coperte, abbracciata ai suoi due “picci”, come li chiamava lei, Tommaso detto Masolino di sei anni e Silvia di cinque. Ogni tanto andavano ai bagni pubblici per potersi lavare con l’acqua calda. Lei aveva trentuno anni, due meno di Fedele d’Amico, detto Lele, il musicologo che aveva sposato nel 1938: legato alla Sinistra Cristiana, il partito dei cattolici comunisti, era entrato in clandestinità antinazista e antifascista, e con l’evacuazione dei tedeschi e l’arrivo degli alleati a Roma, era tornato a casa in pessima salute, malato di tubercolosi in fase avanzata. Bisognava quindi separarsi ancora: Suso e i bambini ad affrontare con serenità, ironia e persino felicità, la dura quotidianità romana, e Lele lontano, in un sanatorio svizzero, sulle montagne del Cantone dei Grigioni, dove sarebbe rimasto sino alla fine di marzo del 1947. Più di sedici mesi dolorosi e coraggiosi, in cui il grande amore che legava Suso e Lele si trasformò in una valanga di lettere: più di trecento, scritte quotidianamente la sera a letto, che lui conservò per tutta la vita; mentre, precisa Masolino, sino ad oggi quelle di lui non si sono trovate: Suso le aveva rese introvabili o magari buttate per qualche sua ragione? Chi come me ha conosciuto quel mito insostituibile del bel cinema italiano negli anni della sua grandezza, la ricorda maestosa, ironica, spiccia, una gran signora che si nascondeva dietro la gloria dei nostri grandi registi e l’universale venerazione per il cinema italiano di quegli anni, cui lei aveva donato le parole e spesso anche la storia: De Sica e Blasetti, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, Prima comunione e Peccato che sia una canaglia, Visconti e Antonioni, Senso e Il Gattopardo, La signora senza camelie e Le amiche, Monicelli e Rosi, I soliti ignoti e Speriamo che sia femmina, La sfida e Salvatore Giuliano. Più di cento film, indimenticabili. Ora raccolte insieme in un libro da Silvia e Masolino, con la bella introduzione di Cristina Comencini (che con sceneggiatura di Suso ha diretto La fine è nota) quelle lettere ci raccontano di un’altra donna, giovane, molto innamorata, oppressa dai disagi, dalle responsabilità, dalla mancanza di denaro, dalla caccia al lavoro, eppure solare, spiritosa, generosa. Tutti insieme, i suoi foglietti di carta casuale, fitti di una scrittura microscopica, diventano un appassionante, commovente diario quotidiano, mai un giorno senza, per riaffermare continuamente l’amore, la nostalgia, il desiderio per il marito: Amore caro, fammi posto accanto a IL LIBRO te; Voglimi bene cicino adoratissimo; Vorrei succhiar- “SUSO A LELE. LETTERE ti via le infezioni con la bocca; Ti voglio sempre più be- (DICEMBRE 1945 - MARZO 1947)” ne, è una mania; Tirati più in qua e facciamo il famo- DI SUSO CECCHI D’AMICO, so scatolicchio… E poi il racconto delle giornate roma- A CURA DI SILVIA E MASOLINO ne: la prodezze dei “picci”, la vicinanza degli amici, le D’AMICO (BOMPIANI, 616 PAGINE, difficoltà di lavoro, la salute di tutti (le malattie dei 22 EURO ), DAL QUALE SONO bambini, il suo dimagrimento e poi la depressione), la TRATTE LE LETTERE E LE FOTO morte dell’amico musicista Casella, ma anche dell’a- CHE PUBBLICHIAMO IN QUESTE mato tassinaro comunista, le prodezze delle domesti- PAGINE, È ORA IN LIBRERIA che, le galline sul terrazzo, l’emozione del primo uovo covato sul pianoforte, i “suoceroni”(il padre di Lele, Silvio, era critico e teorico del teatro), i primi scontri politici nel Pci, evidentemente una inarrestabile tradizione, il diffondersi dell’Uomo Qualunque (ora potrebbe essere il grillismo), i risultati del 2 giugno ‘46. Insieme, queste lettere sono un grande abbraccio appassionato, un modo di cancellare le lontananze, di rendere partecipe della vita romana l’amato lontano e solo. Le difficoltà di comunicazione allora erano immense: lettere censurate o perdute, telefonate troppo dispendiose, viaggi oltre che carissimi ancora avventurosi. Ma l’amore di Suso diventava un fiume di parole che se allora confortavano il Lele malato, oggi ci testimoniano tempi difficili eppure vivi, illuminati dalla speranza, dalla nuova libertà, dai primi tentativi democratici con da subito minacce di scissioni, dal risveglio della cultura e della creatività. Tutti poveri, tutti amici, tutti di sinistra, tutti pieni di sogni destinati a realizzarsi. Insieme progettavano lavoro, insieme rincorrevano teatro, concerti, film, tutti giovani, tutti ancora ignoti, tutti sarebbero diventati qualcuno, il meglio della nostra cultura non solo di quegli anni. Insieme in loggione a vedere un Don Giovanni, Suso e Anna Proclemer, Mario Soldati, Ennio Flaiano e Renato Castellani, ospite in casa Nino Rota, a sentire la messa di Alfredo Casella su consiglio di Goffredo Petrassi, in casa a discutere di sceneggiature con Moravia, con Carlo Ponti, in visita alla galleria di Gasparo del Corso e sua moglie Irene Brin, un capodanno da Alba de Cespedes, feste da Guido Piovene e da Flora Volpini, cena tra amici accompagnata da Luchino Visconti. E poi finalmente, dopo tanti lavoretti, cinerubrichette, lezioni di buone maniere alla giovanissima attrice Maria Michi, traduzioni, ecco le prime sceneggiature per Renato Castellani, Mio figlio professore con Aldo Fabrizi, per Marcello Pagliero Roma città libera con Vittorio De Sica, per Luigi Zampa Vivere in Pace con Fabrizi e L’onorevole Angelina con Anna Magnani, per Lattuada Il delitto di Giovanni Episcopo con Yvonne Sanson. Poi, ricomposta la famiglia, tutti gli altri film, spesso capolavori. Oggi tutto è lontano, eppure così vivo, fresco, in qualche modo invidiabile: ma molte situazioni non sono cambiate. Scrive arrabbiata Suso il 13 giugno del 1946: «Ma con che gente viviamo? Mi sembra tutto ridotto alla bizza della serva licenziata, che accusa prima di uscire sbattendo la porta, che l’altra serva ruba. Ma non c’è dunque nessuno che sappia stare un po’ zitto, che abbia un po’ il senso della dignità, della grandiosità di certe responsabilità». Si riferisce a un proclama dell’ex re, oggi basta seguire la televisione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Trecento lettere d’amore Suso Cecchi d’Amico LA SIGNORA SENZA CAMELIE MICHELANGELO ANTONIONI, 1953 I VINTI MICHELANGELO ANTONIONI 1953 SENSO LUCHINO VISCONTI 1954 LE AMICHE MICHELANGELO ANTONIONI 1955 LE NOTTI BIANCHE LUCHINO VISCONTI 1957 I SOLITI IGNOTI MARIO MONICELLI 1958 © 2016 BY SUSO CECCHI D’AMICO, MASOLINO D’AMICO, SILVIA D’AMICO - © 2016 RIZZOLI LIBRI SPA / BOMPIANI I film LE IMMAGINI DALL’ALTO IN SENSO ORARIO: SUSO E LELE NEL 1943; SILVIA E MASOLINO CON LA NONNA ELSA A PIAZZA DI SPAGNA, 8 DICEMBRE 1945; LA SECONDA LETTERA AL MARITO, 4 DICEMBRE 1945 (TRASCRITTA NELLA PAGINA ACCANTO); SUSO E I FIGLI IN CLINICA DAL PAPÀ AD AROSA, AGOSTO 1945; SUSO E LELE NEI PRIMI ANNI QUARANTA RITRATTI DA LEONETTA CECCHI PIERACCINI, MADRE DI SUSO ROCCO E I SUOI FRATELLI LUCHINO VISCONTI 1960 SALVATORE GIULIANO FRANCESCO ROSI 1962 IL GATTOPARDO LUCHINO VISCONTI 1963 Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica DOMENICA 22 MAGGIO 2016 33 Aiuto! Aiuto! Fino a tre ore fa avevi una moglie disoccupata adesso mi offrono quattro film tissima varicella vaioloide. Scrivimi, le giornate hanno un altro sapore quando cominciano con una tua lettera. Mille baci affettuosi SUSO CECCHI D’AMICO A INIZIO DICEMBRE 1945 LUNEDÌ 14 MORE CARO, non avrò pace finché non arrivi una lettera che mi spieghi come sei sistemato. Ti sei accorto che hai dimenticato di metterti in valigia le cravatte? Continui a mettere tutti i golf insieme? Va bene la roba che hai portato? Qua tutto al solito. La Silvia ti ricorda dieci volte al minuto. Ho incominciato con Ditta a fare le traduzioni per Flaiano. Vediamo un po’ cosa rende. Certo bisogna ch’io inventi qualcosa per tirare avanti. Intanto ho smesso di fumare. Son già diversi giorni — e lo registro tra i guadagni. Ho venduto per la pubblicazione La via del tabacco. Bisognerebbe finissi per capo d’Anno il Jude. E più o meno avrei sbarcato dicembre e gennaio. Alla peggiore mi darò alla vendita; non ti preoccupare. Ho un sedere come Gianburrasca quando ne ha buscate. La penultima iniezione che si ribella. Come avessi una melanzana appiccicata lì. Tutti con me molto gentili e in dovere di farmi compagnia. Mi dispiace amore mio che la mia prima lettera sia così affrettata e casuale. Ti sto sempre vicina coi picci. E sto allegra se ti so allegro. Baci amore caro. MARTEDÌ 4 DIC. Amore caro, eccomi ad aprire la serie delle lettere serali scritte sotto le coperte al lume della tua lanternina. Vorrei sapere come passi la giornata, come ti piace il posto che tutti mi dicono bellissimo, se non ti dà fastidio l’altezza, se sei in camera da solo. Il tempo è decisamente brutto. Pioggia e tramontana insieme. La stufa funziona e ci difendiamo bene. Ma penso che sia davvero una buona cosa per te di trovarti in luoghi meglio attrezzati. La gallina ha fatto il primo uovo. È stato un momento emozionante. Tutte le sue astuzie puntano ad andare a scodellartelo sul pianoforte. Forse è un omaggio che ti dedica. Silvia disperata di non saperti ancora scrivere vuole telegrafarti. Non parla d’altro e la contenterò povera piccioncina tenera. Ho lavorato tutto il giorno a queste traduzioni di articoli cinematografici per Flaiano — lavoro con Ditta. Sono articoli lunghi che bisogna tradurre a gran velocità e in due si fanno presto e bene. Ma bisognerà vedere al lato pagamenti che cosa rende e se conviene. Flaiano ha tutte le intenzioni di aiutarmi e pagarmi per articoli (sempre tutto anonimo) delle cose tagliate e tradotte da vecchi giornali americani. Tanto altre offerte in vista non le ho. Buona notte amore mio caro — la tua ponci ti pensa continuamente. E i piccioncini son sempre col papesso sulle labbra. Tua S. SABATO Come ti dissi la luce va meglio. In compenso abbiamo l’acqua un giorno sì e un giorno no. Il giorno sì non basta che per la mattina. E il gas soltanto per qualche ora del giorno. Ma io faccio finta di niente arcidecisa a non prendermela per nulla. Lavoro, me la cavo. Troverai una moglie irriducibilmente indipendente. Ho organizzato bene la mattinata dei picci che alternano le lezioni della signorina con quelle mie d’inglese, lettura. Sono contenta di non averli mandati a scuola. Non ti dico che ospedale tra i bambini di conoscenza. Marilì ha dovuto ritirarli tutti e due da scuola con in bilancio una broncopolmonite (non c’è un filo di riscaldamento nelle scuole) e una brut- FRATELLO SOLE SORELLA LUNA FRANCO ZEFFIRELLI 1972 LUDWIG LUCHINO VISCONTI 1972 GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN INTERNO VISCONTI, 1974 L’INNOCENTE LUCHINO VISCONTI 1976 CARO MICHELE MARIO MONICELLI 1976 SPERIAMO CHE SIA FEMMINA MARIO MONICELLI 1986 PARENTI SERPENTI MARIO MONICELLI 1992 Come stai amore mio caro? Puoi riposare? Ti senti indolenzito? Ho tanta voglia della tua voce. Stasera Masolino ha detto “Ho tanta fame. Ma non ho voglia di mangiare. Ho fame di vedere il babbo”. Ho bisogno di finire in settimana il Jude e un altro lavoretto. Torraca mi offre un lavoro fisso a 10-11mila al mese. Tre ore il pomeriggio. Ma è una faccenda aleatoria come la rivista. Sono indecisa indecisa indecisa. Pare certo che almeno una sceneggiatura va in porto. LUNEDÌ 3 GIUGNO Amore caro, moglie disorientata oltre che disoccupata ti dà la buona notte. Sono un po’ preoccupata. Ammesso che riesca a riscuotere il resto del Jude, non arrivo alla fine di giugno. E non ho niente di grosso in vista fino all’altro film di Castellani che sarà a fine agosto. Ho avuto vaghi accenni (da Ponti e da Zavattini) per un’altra sceneggiatura ma nulla di concreto. Ho preso l’impegno di un libro. Sono novelle spiritose e mi diverte di farlo, ma è difficile e ci metterò molto tempo. Ora se piove una sceneggiatura siamo a posto. Ma se non è così non so come fare. Come ti ho detto non è un momento facile. MARTEDÌ 18 GIUGNO Amore mio è fatta. Ti porterò via il prima possibile da costà e se avrai ancora bisogno di un’aria migliore di questa cercheremo un’aria meno lontana dove io possa venire di continuo, ogni volta (e oh quanto spesso!) che ne ho bisogno o ne hai bisogno tu. Perché amore mio a me piace lavorare, sono orgogliosa del mio lavoro, voglio continuare a portare in porto la baracca, ma ho bisogno di un ricostituente, e il mio ricostituente sei tu. Ho davvero due vite — una tutta segreta con te l’altra tutta pratica di mille cose da pensare e risolvere e quando Ponti mi ha fatto la sua offerta sul soggetto mi è venuto da piangere e non so se era la gioia o per un grande smarrimento di fronte al nuovo lavoro che pure vedo facile anche se un po’ intenso. Ecco le condizioni: 100mila per la sceneggiatura e idea. Altre 100mila se il film si fa. Tu capisci amore che siamo a posto. A fine agosto-settembre ho l’altro film Castellani. E qualcosa dell’America ha pure da maturare a parte il libro che voglio fare. Quindi non parliamo mai più di questioni economiche. Mai più. VENERDÌ 7 Aiuto! Aiuto! Avevi una moglie quasi disoccupata tre ore fa. Cosa succede ora? Quattro film insieme mi offrono. Uno con dei francesi, Gabin attore, sceneggiatori francesi. Uno con degli americani. La Magnani ha firmato. È stato dato il via per un altro film con un negro di cui mi ero occupata. Il via per quello del prete di Tellini. Tutto stasera. Io non so che scegliere. Come rifiutare. Quali saranno i buoni? Quello che mi pare sicuro è che non rimarremo senza soldi come eravamo sul punto di restare e pagherò i debituzzi. Buona notte ponci mio. S. © 2016 by Suso Cecchi d’Amico, Masolino d’Amico, Silvia d’Amico. Published by arrangement with Agenzia Santachiara © 2016 Rizzoli Libri SpA / Bompiani ©RIPRODUZIONE RISERVATA PANNI SPORCHI MARIO MONICELLI 1999 LE ROSE DEL DESERTO MARIO MONICELLI 2006 Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 34 Next. Mappature D CARL ZIMMER COPENAGHEN A BAMBINO ESKE WILLERSLEV NON VEDEVA L’ORA che arrivasse per lui il momen- to di andarsene da Gentofte, il piccolo comune in Danimarca nel quale viveva: non appena fosse cresciuto abbastanza, sarebbe partito di gran carriera alla volta delle incontaminate terre artiche. Il suo gemello, Rane, condivideva la sua ossessione: da bambini in vacanza si addentravano nei boschi per imparare le tecniche di sopravvivenza. Un giorno, i gemelli Willerslev decisero che la loro prima esplorazione sarebbe stata in Siberia: lì avrebbero preso contatti con il misterioso popolo dei jukaghiri, che si diceva vivessero esclusivamente di alci siberiane. Quando compirono diciott’anni, i due gemelli onorarono la loro promessa e si trovarono a pagaiare su una canoa lungo i remoti fiumi siberiani, racconta il dottor Willerslev che oggi ha quarantaquattro anni. Trascorse quattro anni in Siberia a dare la caccia alle alci, a percorrere le distese di tundra desertica, a conoscere i jukaghiri e altri popoli che abitano in quella regione. Quell’esperienza gli lasciò enormi interrogativi su come gli esseri umani si siano disseminati nel pianeta. Ora può finalmente darsi delle risposte. Willerslev dirige il Centro di geo-genetica dell’università di Copenaghen e studia antichi Dna per ricostruire gli ultimi cinquantamila anni della storia umana. Le sue recenti scoperte hanno enormemente arricchito la nostra comprensione della preistoria, gettando nuova luce sullo sviluppo umano con prove che non si possono rintracciare in frammenti di terraglia o negli studi delle culture viventi. Ha guidato la prima sequenziazione di successo di un antico genoma umano, quello di un ominide groenlandese vissuto quattromila anni fa. La sua ricerca su uno scheletro siberiano risalente a ben ventiquattromila anni fa ha rivelato un insospettato collegamento tra gli europei e i nativi americani. L’impresa scientifica che ha contribuito a realizzare ormai è trasversale e interessa vari ambiti culturali. Nel giugno scorso insieme ai suoi colleghi ha pubblicato l’intero genoma di uno scheletro di ottomilacinquecento anni fa trovato nello stato di Washington e noto col nome di “Uomo di Kennewick”, o “l’Antico”, giungendo alla conclusione che l’Uomo di Kennewick era imparentato con i nativi americani di oggi. Fu durante il loro terzo giorno di viaggio in Siberia, nel 1993, che i fratelli Willerslev incontrarono i jukaghiri. Un anziano, dal corpo ricoperto di cicatrici per aver dato la caccia agli orsi in gioventù, li accompagnò in uno dei loro villaggi. Quell’incontro era ancora vivo nella sua mente quando, tornato in Danimarca, Willerslev apprese che alcuni scienziati stavano estraendo il Dna da mummie fossili, tecnica che avrebbe potuto aiutare a spiegare la storia di un popolo come quello dei jukaghiri. In Danimarca, però, nessuno era in grado di fare quel tipo di ricerche, così Willerslev pensò di ricorrere a un piano B: avrebbero potuto svolgere ricerche nei campioni di ghiaccio antico che i climatologi dell’università di Copenaghen avevano riportato dalla Groenlandia. Individuarono così in un pezzo risalente a quattromila anni fa il Dna di cinquantasette specie di funghi, piante, alghe e altri organismi. Dopo aver pubblicato nel 1999 il suo studio sul campione di ghiaccio, Willerslev inviò una richiesta agli scienziati russi e dalla Siberia gli spedirono alcuni pezzi di permafrost delle stesse dimensioni dei cubetti di zucchero per le sue ricerche sul Dna preistorico. Già nel primo cubetto esaminato, trovarono un vero e proprio filone d’oro genetico. «Fu incredibile: conteneva davvero di tutto, tracce genetiche di mammut lanosi, renne, lemmini, bisonti». di tipo A positivo, e con una predisposizione genetiFin dall’inizio, per Willerslev una delle priorità ca alla calvizie. Cosa più interessante di tutte, l’antiassolute del Centro doveva però essere la ricerca di co groenlandese non era un antenato diretto degli Dna umano antico. Negli anni Ottanta, i ricercatori inuit: apparteneva a un gruppo diverso, denominadell’università avevano trovato in Groenlandia un to “paleo-eschimese”. Willerslev e i suoi colleghi ammasso di peli risalente a quattromila anni fa che giunsero così alla conclusione che i paleo-eschimesi era stato archiviato e dimenticato in uno scantina- dovevano essere emigrati dalla Siberia circa cinto. Willerslev ne estrasse del Dna e usò tecniche effi- quemilacinquecento anni fa e dovevano aver resicaci e nuove per ricostruire il genoma del groenlan- stito tra Canada e Groenlandia fino a estinguersi. I dese. Quella fu la prima volta che gli scienziati recu- paleo-eschimesi non sono dunque gli antenati degli perarono un genoma umano antico completo: i peli inuit: li hanno soltanto preceduti e ne sono stati sorisultarono appartenere a un ominide, con sangue stituiti. “Gli europei e i nativi americani? Sono parenti L’ho scoperto studiando un ciuffo di capelli” Lo scienziato danese Eske Willerslev racconta i suoi viaggi nelle grandi migrazioni dell’umanità L’uomo che riscrive la storia col Dna Da allora Willerslev ha pubblicato altri studi che hanno completamente modificato il nostro modo di pensare. La specie umana si evolvette sì in Africa circa ducentomila anni fa. Ma gli scienziati stanno ancora cercando di appurare con quali modalità gli esseri umani popolarono poi tutti gli altri continenti. Da molte testimonianze pare che i nativi americani abbiano origini che risalgono a una popolazione proveniente dall’Asia quindicimila anni fa. Alla ricerca di tracce per individuare quella popolazione, Willerslev ha studiato alcune ossa risalenti a ventiquattromila anni fa, trovate nel villaggio di Mal’ta in Siberia orientale. In uno studio preliminare, Maanasa Raghavan, ricercatrice presso il Centro di genetica, aveva scoperto in quei resti alcune tracce di Dna, solo che i geni sembravano appartenere a un nordico europeo, non a un asiatico orientale. «Ho interrotto quella ricerca pensando che il reperto fosse stato contaminato», ha detto il dottor Willerslev. Dopo che quest’ultimo e i suoi colleghi hanno messo a punto metodi più potenti e raffinati per analizzare il Dna, Raghavan con i suoi collaboratori è ritornata a studiare il Dna trovato a Mal’ta, scoprendo che non era contaminato. Si trattava Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica DOMENICA 22 MAGGIO 2016 LO STUDIOSO ESKE WILLERSLEV, 44 ANNI, DIRIGE IL CENTRO DI GEO-GENETICA DELL’UNIVERSITÀ DI COPENAGHEN semplicemente di un genoma diverso da qualsiasi cosa si aspettassero: alcune parti assomigliavano molto da vicino al Dna di antichi europei, ma la maggior parte presentava rassomiglianze con quello dei nativi americani. Sembra che il ragazzo di Mal’ta appartenesse a un’antica popolazione sparpagliatasi in tutta l’Asia ventiquattromila anni fa, poi entrata in contatto con gli asiatici orientali. Dall’unione delle due popolazioni nacque una discendenza. Ebbene: i nativi americani sono i discendenti diretti di quei bambini. La popolazione di Mal’ta non presenta legami di parentela con gli 35 asiatici che vivono oggi in quella regione, ma prima di scomparire passò parte del suo Dna agli europei. Alcune ricerche hanno poi mostrato la strada percorsa dai geni dall’Asia all’Europa. In uno studio pubblicato nel giugno scorso, è stato individuato un Dna simile a quello di Mal’ta in una popolazione nomade dell’Età del bronzo denominata yamnaya, vissuta tra i 4300 e i 5500 anni fa in quella che è oggi la Russia sud-occidentale e che si diffuse poi in Europa, dove aggiunse il suo genoma al mix di geni lì preesistente. Nel 2011, il dottor Willerslev e i suoi colleghi hanno anche pubblicato il primo genoma di un aborigeno australiano e quella ricerca ha dato loro nuovi indizi sulla nostra storia. Le prove archeologiche attestano che gli esseri umani arrivarono in Australia circa cinquantamila anni fa. Gli scienziati a lungo si sono chiesti se gli aborigeni oggi presenti sul continente siano i discendenti di quei primi colonizzatori, o siano arrivati in seguito. Willerslev ha notato una grossa lacuna negli studi precedenti: molti degli aborigeni di oggi hanno infatti qualche parentela con gli europei. E così ha deciso di cercare il genoma puro degli aborigeni, senza tener conto del Dna europeo. Nel 2010 trovò all’università di Cambridge un campione di peli raccolto in Australia negli anni Venti e con i suoi colleghi ne ricavò il Dna e ricostruì il genoma del proprietario. Quest’analisi ha rivelato che gli antenati degli aborigeni australiani si staccarono da altri popoli non africani circa settantamila anni fa, il che conferma l’idea che i primi a mettere piede in Australia furono gli antenati degli odierni aborigeni. Le sue esperienze in Australia hanno anche modificato il modo col quale Wellerslev e i suoi colleghi studiano il Dna delle popolazioni indigene. Venuto a sapere nel 2011 che in un ranch in Montana di proprietà di Melvyn e Helen Anzick nel 1968 era stato trovato lo scheletro di un bambino vissuto 12.700 anni fa, Willerslev contattò la famiglia chiedendo il permesso di cercare le ossa del cosiddetto “Bambino di Anzick” e riuscendo poi ricavarne il Dna. Sulla base delle loro ricerche in Groenlandia, avevano ipotizzato che quel bambino fosse appartenuto a una popolazione estinta, senza alcun legame con i nativi americani viventi. Invece il genoma ha dimostrato tutt’altro: il bambino era strettamente imparentato ai nativi americani di oggi. © 2016 The New York Times (Traduzione di Anna Bissanti) ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 36 Sapori. On the road DOMENICA PROSSIMA SARÀ POSSIBILE VISITARE BEN 750 CANTINE, DAL PIEMONTE ALLA SICILIA NON SOLO PER ASSAGGIARE E MAGARI COMPRARE MA ANCHE PER SCOPRIRE ANGOLI DI CAMPAGNA MENO BATTUTI DAL TURISMO 10 Piemonte Lombardia San Fereolo Borgata Valdibà 59 Dogliani (Cn) Tel. 0173-742075 Azienda San Cristoforo Via Villanuova 2 Erbusco (Bs) Tel. 030-7760482 Un puzzle di boschi e vigneti tra Dogliani e Monforte d’Alba, per un totale di dodici ettari gestiti con approccio biodinamico: 45mila le bottiglie prodotte cantine bottiglie & piatti In Franciacorta, Bruno Dotti ha tradotto la passione per la terra in piccola produzione di vini. Dopo trenta mesi sui lieviti, sboccatura per il Brut di Chardonney SAN FEREOLO Armonico e speziato, con il roastbeef BRUT DI CHARDONNAY Aperitivo eccellente Da 17 euro Da 15 euro Toscana Nel 1983, Hideyuki e Marisa Miyakawa hanno dato vita in Maremma a un’azienda bio di vino e olio, completata da un agriturismo pet friendly Agricola Bulichella Località Bulichella 131 Suvereto (Li) Tel. 0565-829892 VERMENTINO TUSCANIO Con i crudi di pesce Il libro Lo scrittore Giacomo Pilati ha appena pubblicato “Morsi d’Italia”, itinerario sentimentale del gusto. Tra le tappe imperdibili, l’azienda Cottanera di Castiglione di Sicilia, dove assaggiare il Fatagione, “un Nerello Mascalese indimenticabile” Da 11 euro Campania Sabino Loffredo ha deciso di misurarsi sui migliori vitigni irpini a partire dal 2000. Dalle uve Fiano, coltivate a due passi dalla cantina, un bianco elegante e minerale Azienda Vinicola Pietracupa Via Vadiaperti 17 Montefredane (Av) Tel. 0825-607418 L’appuntamento Domenica prossima, supercena a Monastero di Astino (Bg), presenti i venti cuochi stellati della Lombardia orientale, nominata Regione europea della gastronomia 2017. Su tutti, il tristellato “Da Vittorio” , che festeggia mezzo secolo di attività FIANO BIANCO Ideale con spaghetti alle zucchine Da 14 euro “L LICIA GRANELLO Sicilia Giacomo e Gabriella Rallo hanno creato una delle più importanti cantine siciliane, oggi nelle mani dei figli. Tra i loro vini più buoni spicca il delizioso Vigna di Gabri L’iniziativa La giornalista fotografa Barbara Abdeni Massaad ha curato il libro-progetto “Soup for Syria”, coinvolgendo grandi cuochi di tutto il mondo: ritratti, ricette e ricavato delle vendite sono dedicati ai rifugiati del campo profughi di Bekaa, in Libano Giri d’Italia Donnafugata Via Lipari 18 Marsala (Tp) Tel. 0923-724200 VIGNA DI GABRI Profumato, ideale col pesce alla brace Da 12 euro in aderenti pantaloni di velluto nero e con una cammisa di tipo mascolino, a righe bianche e rosse, con le maniche rimboccate. ‘Ho cucinato io. Chissà che è venuto fuori’. Era venuta fuori una cenetta squisita, condita da un vinello bianco freschissimo e tradimentoso nella sua apparente innocuità”. Basta una manciata di parole ad Andrea Camilleri (il romanzo è Il tailleur grigio) per trasformare il vino in tentazione estiva e malandrina. Del resto, con l’estate alle porte, la fruizione del vino cambia modalità e geografia: l’Italia si ridisegna, tra coste e campagne, in base al clima e al tempo delle vacanze. La scelta di vini diversi — rinfrescanti e beverini — è scontata. Insieme ai cibi dell’inverno — zuppe, lunghe cotture, comfort food, cibi scaccia-freddo — mandiamo a riposare in cantina i vini loro abbinati: rossi corposi e da meditazione, bianchi molto strutturati, passiti da grandi formaggi. Ma la divisione tra bianchi e rossi suona meno scontata da quando il periodo delle temperature miti si è allungato ed è cresciuta la voglia di vini buoni, non banalmente dissetanti. Un salto di cultura enologica supportato dal moltiplicarsi di realtà vignaiole sempre più articolate e interessanti, anche da un punto di vista di visibilità sociale. EI SI ERA FATTA TROVARE Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica DOMENICA 22 MAGGIO 2016 Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna Azienda Agricola Radikon Località Tre Buchi 4 Gorizia Tel. 0481-32804 Cantina Francesco Bellei&C. Via Nazionale 130 Loc. Cristo di Sorbara Bomporto (Mo) Tel. 059-902009 Ha un secolo di vita l’azienda familiare che ha rivoluzionato il mondo del Lambrusco, declinandolo con la sapienza delle bollicine d’autore Stanko Radikon condivide con Josko Gravner la palma di pioniere della viticoltura naturale in Friuli Venezia Giulia. Fermentazione e macerazione lunghissime per la sua Ribolla ANCESTRALE Sa di viola e lamponi perfetto con i fritti Da 40 euro Da 10,50 euro ILLUSTRAZIONE DI PAULA SIMONETTI RIBOLLA Ricca e complessa, con Formadi frant Marche Autore di un piccolo libro imperdibile “Non è il vino dell’enologo”, Corrado Dottori produce nella sua comunità bioagricola un Verdicchio appassionante e iodato VERDICCHIO Da sorseggiare con il brodetto Da 18 euro Puglia Eredità millenaria di una nobile famiglia normanna in Salento, la proprietà di settecento ettari a conduzione biologica: formaggi, conserve, oli e vini Azienda Duca Carlo Guarini Largo Frisari 1 Scorrano (Le) Tel. 0836-460257 NEGRAMARO CAMPO DI MARE con zuppa gallipolina Da 8 euro Un tempo la fatica e le difficoltà di gestione delle piccole attività alternative rendevano il rapporto diretto con la clientela altalenante e farraginoso, oggi le produzioni biologiche, biodinamiche, ecosostenibili, non si nascondono più dietro la scritta in etichetta o al bollino verde della certificazione. Alle loro spalle, infatti, pulsano aziende che sono un modello di nuova agricoltura, pronte a farsi conoscere e vivere a tutto tondo, tra agriturismi, fattorie didattiche e comunità rurali. A fare la differenza, l’idea che il vino sia sempre più figlio della terra (e meno degli enologi): un cambiamento figlio delle nuove produzioni naturali, a partire dai cosiddetti aranciati, da lunghe macerazioni. Per questo, va raccontato dall’inizio, ovvero dalla vigna. Bisogna andare sul posto, guardare, annusare, toccare, ascoltare il racconto: questo cambia la dimensione del bere. Non solo responsabile, come dice la pubblicità, ma anche consapevole, oltre che — giustamente — godibile. Secondo l’ultima inchiesta di Wine News, l’enoturismo rappresenta una delle diversificazioni di investimento più importanti del vino italiano, fondamentale per aumentare la fidelizzazione degli eno-appassionati. Così, anche l’annuale appuntamento con “Cantine aperte” ha cambiato le sue dinamiche. Si visitano le cantine non solo per assaggiare e magari comprare, ma finalmente anche per conoscere le realtà agricole, bypassando il marketing turistico importato dai grandi paesi delle produzioni di massa (Stati Uniti e Australia in primis) e scegliendo di rapportarsi con chi il vino lo fa davvero. Se il rapporto tra vino e natura vi attrae, andate sul sito del Movimento Turismo del Vino e organizzate la gita che domenica prossima vi porterà in una delle settecentocinquanta cantine aperte, dal Piemonte alla Sicilia. Andate a conoscere da vicino il lavoro dei vignaioli grandi e piccini: sarete orgogliosi della vostra personalissima selezione di un vino per l’estate. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Sardegna “Solo uva e zolfo (a volte)” è il claim di questa piccola azienda-culto, adagiata nella campagna di Sassari. Tra i suoi vini il Renosu bianco, blend di Vermentino e Moscato di Sennori Tenute Dettori Località: Badde Nigolosu Sennori (Ss) Tel. 079-512772 RENOSU BIANCO Sapido e solare, con le cozze gratinate Da 11 euro Quando il tappo vale la tappa MAURIZIO CROSETTI Agriturismo La Distesa Via Romita 28 Cupramontana (An) Tel. 0731-781230 Di cantina in cantina i vini dell’estate 37 I L VINO D’ITALIA È UN GIRO di bicchiere più di plastica che di cristallo, più caraffa che decanter, è un alone rosso sulla tovaglia all’ultimo sorso dopo la pasta e fagioli. La geografia della corsa è anche quella delle mille cantine ma di più del paesaggio, in questa stagione le viti stanno preparandosi a reggere il peso dell’estate che verrà, non ancora esposte all’offesa della grandine, assetate di una pioggia tornata forse a fare il proprio mestiere, persino troppo generosa. E qui è generoso anche il vino: assomiglia ai ciclisti, non se la tira quasi mai perché è lui che tira e spinge. Roba da trattoria, non da enoteca. Da cantina sociale, da consorzio, non da fissati della barrique. Si beve la sera e qualche volta lungo la strada, soprattutto in salita dove non mancano mai i camper dei tifosi, le tendopoli degli appassionati che bivaccano con le damigiane accanto. Salgono in montagna due o tre giorni prima dei corridori, mangiano, bevono anche dalla tanica, offrono. E forse non saranno vini da gran premio, ma nessun bicchiere ha più sapore, più retrogusto d’allegria, di comunità felice e un po’ ebbra. Ricapitolando. Non è stata per niente male, finora, la Falanghina della signora Nunzia a Benevento, e ancora meglio il Cirò su quel tavolo a Catanzaro. Abbiamo, con l’autista Massimo e il fotografo Andrea (lui non beve, non vale), ceduto un paio di volte alla tentazione della mezza bottiglia, errore da poveracci, che nessuno vada a dirlo a Gianni Mura. Ci ha giustamente redarguito l’ostessa di Danilo a Modena, levando quella mezza offesa dal tavolo: «Piuttosto, ragazzi, meglio lo sfuso nella caraffa. Oppure una bottiglia vera, intera, se poi non la finite che male c’è?». Non staremo qui a parlarvi della cronometro del Chianti, il vino dentro la borraccia è ormai un classico: diciamo che la cena a Gaiole ha avuto il suo bel perché. L’anno scorso il Giro sfrecciò da Barbaresco a Barolo, due anni fa da Treviso a Valdobbiadene e tra pochi giorni saremo a Novacella, dove i monaci ci sanno fare con il Gewurztraminer. Non c’è arrivo senza un comitato d’accoglienza o una pro-loco, non c’è angolo di strada che non ricordi al viandante quanto sia triste la sosta a base di acqua minerale. Qui si rivedono i pintoni di quando eravamo piccoli, quelli chiusi con la macchinetta e il gommino, e i bicchieri di vetro spesso e pesante. Ed è bello poter ordinare ormai quasi ovunque anche un solo calice, però come si deve. Sempre si conosce dell’altro, si prova, si impara. Perché al Giro saranno anche belle le tappe, ma i tappi (in sughero) lo sono di più. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 22 MAGGIO 2016 38 L’incontro. Ottimisti ‘‘ HO ACCETTATO SPOLETO CON LO STESSO SPIRITO CON CUI ACCETTAI ANNI FA DI GUIDARE L’ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA A PARIGI. UN LUOGO DOVE VENIVANO SOLTANTO ITALIANI A FAR MERENDA “Mio padre lavorava all’Unità, mia madre era il capo della segreteria di Togliatti, mio fratello Giuliano ancora non era nato e io venivo sempre parcheggiato a casa del temutissimo Palmiro che ai miei occhi era solo un vecchio zio”. Famiglia più che militante e infanzia più che comunista. Alle quali l’uomo che ha risollevato le sorti del Festival dei Due Mondi di Spoleto, reagì fin da ragazzo “preferendo i Rolling Stones ai Beatles e l’Accademia di arte drammatica alla facoltà di filosofia”. Risultato? “De- vardamento registico che ha fatto del mio personaggio è talmente forte che non posso far altro che ripetere esattamente la parte come lui l’ha concepita. È tutta del suo sacco. Ho accettato proprio perché a chiedermelo è stato il mio maetesto la lagna e non mi piace star farina stro, colui che mi strappò all’Accademia già al primo anno e mi portò a lavorare con sé. Sono stato per dieci anni il suo aiuto regista, poi ogni tanto mi metteva in a fare delle particine, in spettacoli immensi come l’Orlando furioso. Pensi lì a rimpiangere il passato. In as- scena che ho avuto l’onore di fare una piccolissima parte accanto a Gassman, quando Luca mise il scena quel meraviglioso Riccardo III». Nel 1970, quando Ronconi fu invitato a presentare l’Orlando furioso a New senza di risorse tocca aguzzare York, Ferrara partì con la compagnia alla volta della Grande Mela. Fu a bordo di quel charter che i grandi occhi della prim’attrice, Adriana Asti, allora trentaset(già musa di Visconti e Pasolini e a un passo dalla chiamata di Buñuel per Il l’ingegno. Solo il presente conta, tenne fantasma della libertà), affogarono dentro quelli azzurri del ventitrenne aiuto regista («Ero bello come mio padre all’epoca», scherza). Quando atterrarono era già più di un flirt, e oggi sono una delle coppie più affiatate del mondo dello spettail resto sono chiacchiere” colo. Le mostruose, vampiresche dinamiche familiari che entrambi così magi- Giorgio Ferrara GIUSEPPE VIDETTI I ‘‘ ROMA NTORNO A PIAZZA DI SPAGNA ROMA È GREMITA DI TURISTI, una fiumana di gente che sciama verso le piccole arterie pedonali che scendono dal Babuino verso via del Corso. La casa al terzo piano ha infissi robusti, il vociare indistinto non turba la quiete del vasto, accogliente salone. Il rosso pompeiano delle pareti rende l’atmosfera più intima e preziosa, con la luce del primo pomeriggio che s’insinua discreta tra le misteriose geometrie di pregiati tappeti anatolici. Giorgio Ferrara, regista e attore, figlio di Maurizio, colonna del Partito comunista, e fratello maggiore di Giuliano, giornalista, conduttore televisivo e politico, è sdraiato sul sofà come un lord d’altri tempi a fare il bilancio di questi otto anni da direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto, un miracolo creato da Gian Carlo Menotti alla fine degli anni Cinquanta che Rutelli gli mise in mano come un giocattolo rotto dopo la dissennata gestione di Francis Menotti, il figlio adottivo che aveva preso le redini del festival dopo la morte del maestro. «Tutti gli amici mi dicevano, lascia perdere, chi te lo fa fare?», racconta Ferrara. «Io invece ero incuriosito, perché venivo da un’esperienza simile, avevo diretto per quattro anni l’Istituto italiano di cultura a Parigi. Anche lì trovai una situazione disperante, un posto dove venivano soltanto italiani a far merenda. Così pensai di raccontare la nostra cultura ai francesi attraverso lo spettacolo, costruendo all’interno del salone un teatrino del Settecento. Sono ottimista per natura, e con lo stesso spirito affrontai Spoleto. Il primo anno fu faticosissimo, perché il festival era diventato un fantasma. Così mi affidai alla mia agenda: chiamai Robert Wilson e Lu- È UN PERIODO IN CUI GLI ARTISTI VIVONO CON IL BAFFO MOSCIO. QUANDO IL LAVORO NON C’È FACCIO MIE LE PAROLE DI MIA MOGLIE: NESSUNO RIESCE A ESEGUIRE L’OZIO MERAVIGLIOSAMENTE COME ME. SONO MOLTO PIÙ BRAVO A NON FARE NULLA CHE A RECITARE ca Ronconi. La loro ripetuta presenza è stato un traino formidabile». Risultato, da cinquemila presenze il festival si è stabilizzato l’anno scorso su settantamila, recuperando lo smalto che si pensava avesse perso per sempre. Ferrara e sua moglie, l’attrice Adriana Asti, che vivono tra Roma, Parigi e l’Umbria, hanno riaperto l’appartamento nella capitale in occasione delle repliche di Danza Macabra di Strindberg al Teatro Quirino, lo spettacolo teatrale che Luca Ronconi allestì a Spoleto due anni fa, la sua penultima creatura prima della scomparsa nel febbraio 2015, un testo insidioso che Ferrara affronta con imprevedibile, potente spavalderia, considerando la sua poca esperienza come attore. «A Ronconi divertiva il fatto che fossi io a farlo, e con le spalle coperte dal genio ho accettato», racconta. «L’inchia- stralmente rappresentano in Danza macabra non li hanno mai sfiorati né la differenza d’età è mai stato un gap. «Adriana (la signora Asti è nell’altra stanza ma riservata com’è non ruberebbe mai la scena al marito, ndr) si sente molto più giovane di me. E lo è nello spirito. Io, d’altronde, ho sempre frequentato persone più grandi, non ho amici della mia età. Abitudinario e sedentario io, asociale lei; si rifiuta categoricamente di seguirmi nelle attività di rappresentanza, ha paura della noia. Dice: sono sicura che quando morirò sarà per noia, quindi non voglio accelerare la fine. Quarantacinque anni insieme son tanti, ma non troppi per un rapporto che non è mai degenerato in routine. La vita coniugale è stata per noi, prima di tutto, un divertimento. La Ginzburg scrisse per Adriana una commedia intitolata Ti ho sposato per allegria (1964; nel 1967 diventò un film con la Vitti e Albertazzi per la regia di Luciano Salce), quella è l’essenza del nostro rapporto. Sono sedotto dall’ottimismo di mia moglie e dal suo buonumore. Ci piace occuparci delle nostre case, ci piacciono i cani, ci piace condurre una vita molto privata e solitaria. Accanto a una donna così allegra, spiritosa e intelligente non mi è mai mancata la vita sociale». Ferrara è cresciuto in una famiglia con forti motivazioni politiche. Le ha schivate tutte in favore dell’arte, fin dalla precoce iscrizione all’Accademia nazionale d’arte drammatica che pose la parola fine al corso di filosofia che gli aveva consigliato papà, primo presidente comunista della Regione Lazio. «Mia madre era il capo della segreteria di Togliatti, mio padre lavorava all’Unità, mio fratello Giuliano non era ancora nato, io ero piccolo e venivo parcheggiato sistematicamente a casa Togliatti, nel quartiere Montesacro, a Roma», racconta. «Palmiro era temutissimo ma io lo consideravo un vecchio zio. Le frequentazioni di mio padre e mia madre (e più tardi di mio fratello) erano quasi esclusivamente politiche, un giorno Amendola e l’altro Alicata, Napolitano o Berlinguer. L’intera famiglia si trasferì a Mosca nei primi anni Sessanta, quando mio padre, all’epoca di Krusciov, fu nominato corrispondente dell’Unità in Russia (Ferrara parla russo fluentemente, ndr). Ma la politica ha appassionato mio fratello più di me, ci voleva una reazione in famiglia. Io amavo Mick Jagger più dei Beatles, ammiravo Andy ‘‘ RONCONI È STATO IL MIO MAESTRO, PER DIECI ANNI FUI IL SUO AIUTO REGISTA. MI DIEDE ANCHE QUALCHE PARTICINA. HO AVUTO L’ONORE DI FARNE UNA ACCANTO A GASSMAN IN QUEL SUO MERAVIGLIOSO ‘RICCARDO III’ Warhol e la sua Factory — precocemente intrigato dall’idea del laboratorio» . Fu Luchino Visconti a mettergli in testa l’idea che avrebbe potuto recitare, anni prima della regia cinematografica del pluripremiato Un cuore semplice (1977), sceneggiatura di Cesare Zavattini dal racconto di Flaubert, con la Asti in cima al cast. «Luchino mi diceva sempre, ma no, ma che regista, tu devi fare l’attore. Fui suo aiuto regista in Ludwig e nell’Old Times di Pinter (1973) con Adriana, Valentina Cortese e Umberto Orsini che fece scandalo all’Argentina. Pinter andò su tutte le furie per quell’allestimento insolito in cui il pubblico fu sistemato sul palco e gli attori in platea su un ring da pugilato; bloccò lo spettacolo definendolo un musical pornografico». Ora che Visconti e Pinter e Ronconi se ne sono andati si sente orfano? Anche lei arranca nel medioevo dell’arte, come qualcuno chiama il nostro tempo? «È un periodo in cui gli artisti vivono perennemente col baffo moscio. Una lamentazione continua a rimpiangere il passato. Ma è il presente che conta, il resto sono chiacchiere. Meglio essere ottimisti e soprattutto appassionarsi al proprio lavoro, senza stare a lagnarsi. Bisogna fare come Romeo Castellucci, che quest’anno sarà a Spoleto con due spettacoli: non ci sono risorse? Aguzziamo l’ingegno! Così, con le sue idee geniali ha conquistato la Francia, dove gli fanno ponti d’oro. Io stesso, per farcela con l’esiguo budget di Spoleto, ho creato produzioni con altri teatri italiani: con Il Piccolo di Milano, quando c’era Ronconi, con il Teatro Stabile Metastasio di Prato, con il Festival di Ravenna, con il Festival Internacional de Musica di Cartagena, e ho cominciato a far viaggiare le nostre produzioni come Giorni felici e Danza macabra — che nel gennaio 2017 debutterà al Théâtre de l’Athénée di Parigi — o la Trilogia Mozart-Da Ponte. Detesto la lagna, e in questo ho trovato un’alleata formidabile in mia moglie. E quando il lavoro non c’è faccio mie le parole di Adriana: “Nessuno riesce a eseguire l’ozio meravigliosamente come me. Sono molto più brava a non far nulla che a recitare”». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-05-22