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Poesie sparse - liberospirito.org
Mariangela Gualtieri (1951) Poesie sparse Bello, bello, bello mondo, bello ridere di mondo in luce mattutina in colorazione di mondo con stagioni e popolazione e animali. Bello mondo questo ricordo, questo io lo ricordo bello, molto bello mondo, con cielo diurno e notturno, con facce che mi piacevano e musi e zampe e vegetazione che mi sospirava e mi sospirava leggera leggera, tirando via chili e scarponi interiori che mi infangavano, tirando via ferri da stiro che mi portavo nel petto, e gran pulitura di dentro. Bello, questo io lo ricordo bello. Io ho avuto soccorso a volte da una piccola foglia, da un frutto così ben fatto che dava sollievo a mio disordine di fondo. Sì sì. Io sono dei vostri, alberi, sono dei vostri Animali eleganti, io sono dei vostri. Credetelo. Sono dei vostri. Ci separa soltanto un fiato infantile, ma lo so, lo so, sono io tutto quel manto, sono io il tronco e lo storno e il falco. Ci separa un niente, colore, capello, piccolo piccolo nome: l’impianto del respiro è solo apparente diverso. Ci guarderemo fraternamente. Io sarò migliore. Larga come l’andare di un fiume grande, ci capiremo con l’albero e col seme, capiremo l’insetto e la grandine. Risplendiamo. Adesso. Essere il mondo, voglio. Sentirmi a casa nel cosmo. E le maree saranno la strada del gonfio cuore. Sarà d’amore se cresco. Se avanzo o calo. Sarà d’amore. E luce voglio. Così m’impetalo, che mi spensiero, che rido mentre corro, come la rondine, mi moltiplico a stelo, gocciolo, mi biforco, mi alzo e tramonto, mi slargo, mi infaldo, divento cima e svetto, mi innevo e frano. Tutto questo io voglio, dolcemente, perché fuori dell’umano il dolore è uno sparo minimo e la più gran parte è ridere, mi pare, il grande canto. Lo senti il firmamento ? Com’è sereno! Anche noi siamo dentro. Abbiamo polverine nelle vene, antiche come il cielo, sono disciolte nel sangue, hanno dentro l’impronta di un’andare semplice e grande, come le grandi sfere. Abbiamo sfere nel sangue, cartine geografiche con strade d’argento e vedute telescopiche fino ad Aldebaran. Abbiamo Vega nel sangue la stella prodigiosa, e istruzioni precise per il viaggio per l’appontaggio e coraggio abbastanza per ogni volo. (da Predica ai pesci, in Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino, Einaudi, 2003) Che cosa sono i fiori? non senti in loro come una vittoria? la forza di chi torna da un altro mondo e canta la visione. L’aver visto qualcosa che trasforma per vicinanza, per adesione a una legge che si impara cantando, si impara profumando. Che cosa sono i fiori se non qualcosa d’amore che da sotto la terra viene fino alla mia mano a fare la festa generosa. Che cosa sono se non leggere ombre a dire che la bellezza non si incatena ma viene gratis e poi scema, sfuma e poi ritorna quando le pare. Chi li ha pensati i fiori, prima, prima dei fiori. (da So dare ferite perfette, in Senza polvere senza peso, Torino, Einaudi, 2006) Forse si muore oggi – senza morire. Si spegne il fuoco al centro. Sanguinano le bandiere. Generale è la resa. Ciò che nasce ora crescerà in prigionia. Reggete ancora porte invisibili dell’alleanza bastioni di sereno. Puntellate il bene che si sfalda in briciole in cartoni. Il popolo è disperso. In seno ad ognuno cresce il debole recinto della paura – la bestia spaventosa. A chi chiedere aiuto? E’ desolato deserto il panorama. Si faccia avanti chi sa fare il pane. Si faccia avanti chi sa crescere il grano. Cominciamo da qui. (da Un niente più grande, in Bestia di gioia, Torino, Einaudi, 2010 ) Ci vorrebbe in alto Chi qualcuno più di uno che non fa preferenze fra te e il fratello di te. Chi vede la fatica d’abitare il deserto terrestre. Senza eserciti e senza corona di re dei re. Chi non guida alla lotta ma insegna la resa. Senza nemici chi non vuole ogni giorno una lode. Ci vorrebbe in alto o dentro Chi ama ogni cosa ogni nazione e popolazione e regno e razza e specie e deformità e schifo e deformazione. Chi sa la pena la condanna d’essere fatti così di ammazzare le cose che amiamo e poi provare un dolore abissale un dispiacere, una mancanza, un vuoto. Chi sa la fatica d’essere umano fra altri umani esposto alle minime correnti. Con una spinta all’immenso e una che trattiene in faccende piccole. Chi sa com’è essere meschino e prepotente e però provare gioia per un po’ di sole, una corsa, un niente, una cosa fatta bene, una storia raccontata da qualcuno. Ci vorrebbe lassù, Chi è più di uno e sa la paura d’ esser solo al mondo di non valere niente d’essere ripetente e ripetente. Chi sa lo sforzo di destreggiarsi fra le spine del giorno. E sa il piacere di fare le cose la gioia dell’azione e non si inquieta se provi anche tu a creare se vuoi costruire un mondo dentro il mondo suo. Chi accetta la pretesa tua Di fare meglio di lui. Ci vuole, lassù, Chi ti insegna a liberarti di Chi, a farne senza. (da La pietà, in Caino, Torino, Einaudi, 2011)