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Sanzioni disciplinari per avvocati: l`avvertimento
Sanzioni disciplinari per avvocati: l’avvertimento Articolo di Antonino Ciavola 29.01.2005 Per effetto della necessaria appartenenza all’Ordine, tra l’iscritto e il gruppo professionale si crea un vincolo che impone comportamenti e regole conformi ai fini perseguiti dal gruppo medesimo. Il controllo sul rispetto dei suddetti comportamenti è da sempre riservato allo stesso gruppo professionale, allo scopo di assicurare l’indipendenza del ministero difensivo e del sodalizio forense da qualunque supremazia diversa dalla legge, al fine di evitare ingerenze e condizionamenti di altre autorità, “per il quale si ingenerasse a danno della istituzione una tal dipendenza o inferiorità gerarchica di fronte alle medesime”. Sanzioni disciplinari per avvocati: l’avvertimento Avv. Antonino Ciavola A Remo Danovi, il Maestro Sommario: § 1. Doveri degli avvocati: le due facce della medaglia; § 2. Le pene disciplinari; § 3. Il confine (sottile?) tra avvertimento e assoluzione; § 4. Ipotesi di soluzione. § 1. Doveri degli avvocati: le due facce della medaglia Per effetto della necessaria appartenenza all’Ordine, tra l’iscritto e il gruppo professionale si crea un vincolo che impone comportamenti e regole conformi ai fini perseguiti dal gruppo medesimoi. Il controllo sul rispetto dei suddetti comportamenti è da sempre riservato allo stesso gruppo professionale, allo scopo di assicurare l’indipendenza del ministero difensivo e del sodalizio forense da qualunque supremazia diversa dalla legge, al fine di evitare ingerenze e condizionamenti di altre autorità, “per il quale si ingenerasse a danno della istituzione una tal dipendenza o inferiorità gerarchica di fronte alle medesime”ii. La ragione dell’istituzione, e del mantenimento, della c.d. giurisdizione domestica risiede quindi nella necessità di indipendenza della classe forense, valutata in misura maggiore rispetto alle altre professioni; nel caso degli avvocati, infatti, dopo la fase disciplinare amministrativa innanzi al Consiglio dell’Ordine, anche la fase giurisdizionale in senso stretto è gestita da un organo di giurisdizione domestica, il Consiglio Nazionale forense, mentre alla Suprema Corte di Cassazione resta il controllo finale di legittimità, che non può valutare la congruità della sanzione. La Suprema Corte ha infatti statuitoiii che “l’adeguatezza della sanzione inflitta all’incolpato dal Consiglio Nazionale forense non è censurabile dalla Corte di Cassazione atteso che è riservato agli organi disciplinari il potere di determinare la sanzione più rispondente alla gravità e alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale”. Ed ancora: “L’apprezzamento della rilevanza dei fatti accertati rispetto alle incolpazioni formulate e la scelta della sanzione appartengono all’esclusiva competenza degli organi disciplinari, le cui determinazioni sfuggono al controllo di legittimità, a meno che non si traducano in un palese sviamento di potere, inteso come esercizio del potere disciplinare in modo avulso dai fini per cui è conferito dalla legge”iv. Al fine di evitare che la tutela dell’avvocatura nel suo complesso si traduca nella pratica in una difesa corporativa degli interessi dei singoli iscritti, con conseguente svilimento della stessa funzione disciplinare, sono state studiate diverse ipotesi di modifica dell’ordinamento forense, ipotizzando anche una separazione tra organo strettamente amministrativo e organo giudicante in fase disciplinare. Attualmente, però, chi rappresenta in sede locale gli avvocati e decide su di loro è sempre lo stesso organo, peraltro elettivo e quindi potenzialmente condizionabile nei comportamenti dei singoli: il Consiglio dell’Ordine. La tutela dell’indipendenza della professione, quindi, va vista sotto due profili; quello di chi è controllato, e quello di chi controlla. Le norme di riferimento sono contenute nel R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (Legge Professionale Forense). L’art. 38 comma 1 è la base normativa sulla quale oggi si innestano quelle regolamentariv contenute nel codice deontologico: “gli avvocati che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare”. Come è noto, il codice deontologico esplicita i comportamenti più frequenti e più rilevanti; tra questi, rientrano i doveri del consigliere dell’Ordine. “L’avvocato chiamato a far parte del Consiglio dell’Ordine deve adempiere l’incarico con diligenza, imparzialità e nell’interesse della collettività professionale”vi. Controllati e controllori rispondono pertanto alle stesse regole, essendo due facce della stessa medaglia. § 2. Le pene disciplinari Il successivo art. 40 della legge professionale forense così dispone: “Le pene disciplinari, da applicarsi secondo i casi, sono: 1) l’avvertimento, che consiste nel richiamare il colpevole sulla mancanza commessa e nell’esortarlo a non ricadervi, ed è dato con lettera del Presidente del Consiglio dell’Ordine; 2) la censura, che è una dichiarazione formale della mancanza commessa e del biasimo incorso; 3) la sospensione dall’esercizio della professione per un tempo non inferiore a due mesi e non maggiore di un anno, salvo quanto è stabilito nell’art. 43; 4) la cancellazione dall’albo; 5) la radiazione dall’albo”. L’espressione iniziale, “secondo i casi”, non è meglio definita e indica l’elevatissimo margine di discrezionalità del quale gode l’organo giudicante. Una breve casistica, limitata alla sanzione dell’avvertimento, renderà l’idea. E’ stato sanzionato con l’avvertimento il comportamento dell’avvocato consistente nella compilazione dei temi scritti al concorso di notaio poi presentati a nome di altra personavii. La stessa sanzione è stata comminata al professionista che si era costituito in cancelleria dichiarando di essere munito di procura a margine, in realtà inesistente, e che prima dell’apertura dell’udienza aveva tentato di apporre sull’originale la suddetta procuraviii. Ancora, è stato sanzionato con l’avvertimento l’avvocato che aveva sottoscritto col nome di un collega una domanda rivolta al cancelliere della Preturaix. A fronte di tali comportamenti apparentemente molto gravi, l’avvertimento è stato inflitto anche per infrazioni di rango palesemente inferiore, come nella classica ipotesi delle espressioni sconvenientix, nonchè nei casi di contrasti non gravi tra avvocatixi. Le notevoli diversità di ipotesi che conducono all’applicazione di questa sanzione minima possono essere spiegate con l’uso, spesso disinvolto, che è fatto delle attenuanti. In realtà la più autorevole dottrinaxii ha rilevato l’assenza di disposizioni di legge che richiamino espressamente la possibilità di applicare alle sanzioni le attenuanti e le aggravanti, anche in modo stravagante, fino al punto da consentire in concreto qualunque tipo di sanzione per qualunque comportamento. Lo stesso Autore fa notare che la casistica delle aggravanti è assai ridotta, e si limita solitamente alla valutazione dei precedenti disciplinari. E’ da segnalare una decisione che riferisce, riguardo alla personalità dell’incolpato, “la sua tendenza a porre in essere comportamenti identici a quelli ora contestati, la sua incapacità assoluta di una minima emenda nonostante le opportunità offertegli... e il disprezzo per i principi fondamentali che devono ispirare l’attività del difensore” e considera tale personalità come specifica aggravantexiii. Ben più ampia è la casistica sulle attenuanti, riferite ai buoni precedentixiv, all’età avanzata dell’incolpato unita ai buoni precedentixv, alla giovane età e all’inesperienzaxvi, all’eccesso di passione difensivaxvii, al particolare stato d’animo dell’incolpato unito all’insussistenza di precedentixviii, e persino al corretto comportamento tenuto dopo i fatti addebitatiglixix. § 3. Il confine (sottile?) tra avvertimento e assoluzione Da quanto abbiamo esposto si deduce che uno dei momenti di maggior conflitto interiore nella vita di un consigliere dell’Ordine è sicuramente quello della fase dibattimentale di un procedimento disciplinare. In tali momenti, il consigliere è combattuto e deve valutare i propri doveri istituzionali e deontologici a fronte della naturale tendenza alla difesa, piuttosto che all’accusa, che caratterizza la nostra professione e che, talvolta, si traduce in un buonismo poco comprensibile agli occhi dei terzi. La fase dibattimentale culmina nella votazione che si divide, di norma, in due fasi. Nella prima fase si decide se assolvere l’incolpato o dichiararlo responsabile, mentre la seconda fase, nel caso in cui la maggioranza abbia votato per la responsabilità, riguarda la determinazione della sanzione da infliggere. La giurisprudenza disciplinare è concorde nel distinguere nettamente anche il procedimento logico in due fasi, nel senso che, una volta accertata la violazione delle norme deontologiche, deve sempre essere dichiarata la responsabilità dell’incolpato; mentre tutte le circostanze attenuanti assumono rilevanza soltanto nella seconda votazione, potendo condurre, nell’ipotesi più favorevole, alla applicazione della sanzione minima dell’avvertimento, ferma restando la obbligatorietà di sanzionare l’iscritto che, pur in presenza di tutte le attenuanti ipotizzabili, abbia comunque tenuto un comportamento non confacente alla dignità della professione forense. Nella pratica però avviene frequentemente che il confine tra l’assoluzione e la responsabilità divenga sempre più esile nelle ipotesi di violazioni di norme deontologiche di minor rilevanza, accompagnate da molte attenuanti. L’esempio classico è quello previsto dall’art. 31 del Codice Deontologico Forense, relativo all’obbligo di informativa tra colleghi corrispondenti: “Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante il professionista che ometta di dare informazioni al collega dominus in ordine alla causa affidatagli” xx. La violazione di tale obbligo, anche se accertata, si accompagna talvolta ad un chiarimento che interviene fra i colleghi in lite e che viene composto con l’adempimento dell’incolpato, sia pure tardivo: in tali ipotesi, solitamente, l’avvocato che con il suo esposto ha dato origine al procedimento disciplinare si dichiara soddisfatto dei chiarimenti e delle informazioni tardivamente ricevute e comunica al Consiglio dell’Ordine di non avere più interesse a che il procedimento prosegua. In tale circostanza, ed in tante altre alla stessa assimilabili, secondo la giurisprudenza maggioritaria occorre egualmente dichiarare la responsabilità dell’incolpato e successivamente valutare il suo adempimento, seppur tardivo, ai doveri professionali. La procedibilità dell’azione disciplinare è infatti slegata dalla volontà della persona che, con il suo esposto, abbia attivato i poteri del Consiglio: “L’azione disciplinare non rientra nella disponibilità delle parti e pertanto la rinuncia all’esposto da parte degli esponenti o l’eventuale consenso delle parti alla transazione economica non condiziona e non implica l’estinzione o l’interruzione del procedimento stesso”xxi. L’avvenuto chiarimento, quindi, non estingue l’illecito disciplinare; ma esso risulta decisivo perchè, unito alla mancanza di clamore (l’episodio resta circoscritto tra due professionisti), e ad altre circostanze attenuanti, dovrebbe condurre alla irrogazione della sanzione minima, vale a dire l’avvertimento. Eppure in molti casi la personalità dell’incolpato è talmente cristallina da rendere estremamente difficoltosa la rigida applicazione delle norme, tanto che in alcune ipotesi si giunge alla assoluzione dell’incolpato, se egli è persona notoriamente corretta ed è responsabile di una leggera negligenza. Talvolta, durante la discussione in sede dibattimentale, alcuni consiglieri sostengono la necessità di pervenire, nonostante l’accertato illecito, alla assoluzione dell’incolpato in quanto il solo fatto di subire un procedimento disciplinare e di doversi difendere in sede dibattimentale innanzi al Consiglio, rappresenta, per i professionisti di condotta specchiatissima ed illibata, una punizione ed un monito già sufficienti ad evitare che egli ricada nella mancanza commessa. Tale espressione di voto sembrerebbe in contrasto con i principi sopra indicati, che distinguono nettamente la dichiarazione di responsabilità dalla concreta determinazione della sanzione. Tuttavia lo stesso Consiglio Nazionale Forense, con sentenza che appare minoritaria, ha recepito tali argomentazioni statuendo (in relazione a una decisione del Consiglio dell’Ordine di Genova) che “la stima massima dalla quale goda l’incolpato ed il fine perseguito dallo stesso... possono evitare l’applicazione di una sanzione disciplinare essendo sufficiente l’ammonimento contenuto nella motivazione della decisione del consiglio Nazionale forense”xxii. La decisione in commento è minoritaria, ma non isolata; più recentemente lo stesso organo di giustizia ha affermato che “è possibile il realizzarsi di un comportamento complessivamente censurabile, ma non a tal punto da giustificare una delle sanzioni previste dall’art. 40 della legge professionale”xxiii. Seguendo il principio della prima massima, sembra che si possa ipotizzare l’applicazione di una sorta di ammonimento non codificato, del tutto simile al cosiddetto “avvertimento orale” che talvolta segue le decisioni di assoluzione sopra esemplificate. In sostanza il Consiglio, talvolta, perviene alla assoluzione in considerazione non già della assoluta mancanza di fatti aventi rilevanza disciplinare, bensì valutando la stima massima di cui gode l’incolpato e la sanzione indiretta dell’ammonimento che è già insito nella sottoposizione a procedimento disciplinare. In altre ipotesi, più sbrigativamente, gli organi forensi hanno inflitto una sorta di irregolare “deplorazione” dei comportamenti, puntualmente annullataxxiv. Un esempio di deplorazione, e quindi di ammonimento che accompagna l’assoluzione, è dato da questa motivazione: “Raccomandando, per il futuro, una maggiore attenzione agli aspetti formali e processuali, con contestuale invito a una maggiore pacatezza nell’esercizio della professione, non appare essere venuto meno al dovere di correttezza l’avvocato che, dopo aver tempestivamente avvisato il collega di controparte della propria assumenda iniziativa, scriva al giudice delegato ai fallimenti ... manifestando valutazioni sulla condotta sostanziale e processuale del curatore fallimentare interessato...”xxv. Tale soluzione “deviata” rispetto al sistema disciplinare delineato dalla giurisprudenza maggioritaria ci spinge ad un maggiore approfondimento delle norme che regolano le sanzioni applicabili, ma prima appare necessario un riesame della sentenza del CNF sopra indicata, poichè lo svolgimento del procedimento innanzi al Consiglio dell’Ordine di Genova offre a sua volta, per la sua attualità, notevoli spunti di riflessione. Il caso riguardava il comportamento di un avvocato che aveva tenuto nascosto alla cliente il mancato adempimento al mandato conferitogli, ed aveva anzi fornito informazioni non corrispondenti al vero. Si tratta di un comportamento che si riscontra con una discreta frequenza: l’avvocato in ritardo nell’adempimento del mandato, per tranquillizzare il cliente in merito alla causa civile da intraprendere, gli comunica di aver già notificato la citazione, gli indica la data di udienza, mentre in realtà l’atto deve essere ancora scritto. Tale comportamento costituisce un illecito disciplinare che oggi è anche codificato negli articoli 38 e 40 del codice deontologico; tuttavia, nella decisione in esame, il CNF, dopo aver definito tale comportamento come riprovevole, ha affermato l’esistenza di circostanze attenuanti “di tale peso da fare ritenere che una qualunque misura disciplinare, anche quella più limitata dell’avvertimento, appaia sproporzionata al fatto commesso”. Come abbiamo riferito, la più autorevole dottrina ha pesantemente criticato questa decisione, sia sotto il profilo dell’errata impostazione, giacchè un comportamento riprovevole, una volta accertato, deve essere sanzionato senza eccezioni, sia sotto il profilo delle attenuanti/esimenti, valutate dal CNF in modo assai originale. La prima attenuante è stata così definita: “l’unanime stima della quale gode l’incolpato nel Foro genovese e della quale è stata data testimonianza anche nel corso della trattazione del ricorso davanti al Consiglio Nazionale Forense dal probo difensore dell’avv. S.”. In effetti, talvolta accade che il difensore dell’incolpato sia un collega appartenente allo stesso studio; e talvolta questo difensore afferma che i fatti esposti dall’incolpato gli constano personalmente, così confondendo la funzione difensiva con l’attività del testimone. Ciò – naturalmente – è contrario a qualunque logica processuale, ma nel precedente in argomento ha finito per avere un peso rilevante! § 4. Ipotesi di soluzione Abbiamo già visto che l’art. 40 della legge professionale prevede come prima pena disciplinare “l’avvertimento, che consiste nel richiamare il colpevole sulla mancanza commessa e nell’esortarlo a non ricadervi, ed è dato con lettera del Presidente del Consiglio dell’Ordine”xxvi. La seconda pena è la censura, che viene definita “una dichiarazione formale della mancanza commessa e del biasimo incorso”. Il dato testuale, pertanto, sembra individuare nell’avvertimento una sanzione non formale, del tutto simile a quella che oggi viene comminata con la forma del cosiddetto “avvertimento orale” dei Consigli dell’Ordine ovvero con il citato “ammonimento in motivazione” del Consiglio Nazionale Forense. In dottrina, è stato sostenutoxxvii che l’avvertimento non è dato in forma pubblica, tanto che il relativo provvedimento non viene notificato all’iscritto ma comunicato con una semplice lettera del Presidente. Lo stesso Autore, seguendo il dato testuale, evidenzia che la prima dichiarazione formale dell’accertamento di una mancanza è la censura, il cui relativo provvedimento è notificato all’interessato. La giurisprudenza ha invece ritenuto la nullità dell’avvertimentoxxviii dato con una semplice lettera del Presidente del Consiglio dell’Ordine, in quanto anche l’avvertimento è pena disciplinare ed il relativo provvedimento deve essere necessariamente notificato all’incolpato previa deliberazione del Consiglio, che deve seguire le regole dettate, per tale procedimento, degli artt. 47 e seguenti del R.d. 22 gennaio 1934 n. 37. Più recentemente è stato statuito che “le sanzioni disciplinari, anche la più lieve dell’avvertimento, possono essere inflitte solo dopo lo svolgimento di un regolare procedimento disciplinare nel rispetto della legge, dei diritti dell’incolpato e della difesa; pertanto è nullo il provvedimento con il quale il Consiglio dell’Ordine, omettendo di instaurare il relativo procedimento, infligga ad un iscritto la sanzione dell’avvertimento”xxix. Tale procedimento prevede, in particolare, che la decisione è deliberata dal Consiglio, è redatta dal relatore, è motivata, sottoscritta da Presidente e Segretario ed infine pubblicata (art. 51). Ciò ha fatto ritenere al CNF ed alla Corte di Cassazionexxx che l’avvertimento, essendo una sanzione disciplinare e non una semplice misura correttiva sfornita di carattere sanzionatorio, va irrogato secondo le regole sopra ricordate; competente ad infliggerlo è, quindi, l’organo cui l’ordinamento attribuisce il potere disciplinare mentre il riferimento fatto dall’art. 40 al Presidente atterrebbe alla fase esecutiva e non a quella deliberativa della sanzione. Sembra muoversi in quest’ottica anche una decisione più recente del CNF che ha così statuito: “è legittima la decisione del presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di dare esecuzione alla sanzione dell’avvertimento con la semplice lettura del dispositivo della decisione disciplinare, essendo la comunicazione formale, prevista dall’art. 40 R.d.l. 1578/33, mero atto accessorio lasciato alla discrezionalità del Presidente medesimo”xxxi. Tra i precedenti appena citati, quello della Cassazione a sezioni unite, per la sua autorevolezza e benchè ormai risalente nel tempo, merita un attento esame. Nel 1958 il Consiglio dell’Ordine di Roma avviava un procedimento disciplinare a carico di due avvocati che avevano presenziato ad una intervista giornalistica rilasciata da un loro cliente, “assistendo ... come muti testimoni alla conversazione, ma premurandosi di dare precise indicazioni sulla sede del loro studio legale in Roma e sulla loro opera di avvocati ...”; ed avevano consentito “di farsi fotografare ... di fare apparire la fotografia sui quotidiani ... al solo scopo di provocare pubblicità sui loro nomi”. Oggi, con la dilagante cultura dell’immagine televisiva, l’episodio potrà far sorridere; ma il Consiglio dell’Ordine di Roma, con decisione del 1963, comminava ai due professionisti la sanzione dell’avvertimento, e la decisione resisteva all’appello al CNF ed era infine confermata in Cassazione. Con il primo motivo di ricorso, gli avvocati sostenevano appunto che il Consiglio non aveva il potere di infliggere loro l’avvertimento, poichè l’art. 40 attribuirebbe espressamente detta competenza al Presidente del Consiglio dell’Ordine. A sostegno, deducevano che l’avvertimento non avrebbe natura disciplinare ma sarebbe una misura correttiva non pubblica. La censura era respinta dalla Suprema Corte in base alle seguenti considerazioni: 1) l’avvertimento è espressamente definito come una delle pene disciplinari (art. 40); 2) il riferimento alla competenza a procedere disciplinarmente è al Consiglio (art. 38); 3) nelle libere professioni non vi è principio gerarchico e quindi l’avvertimento non può essere espressione di un potere di supremazia diverso da quello disciplinare, “che è il solo cui i professionisti sono soggetti nei confronti degli Ordini di appartenenza”; 4) il dato testuale dell’art. 40, n. 1, non attiene alla fase deliberativa ma a quella esecutiva della sanzione. La seconda e l’ultima di tali autorevoli argomentazioni sono, a mio sommesso avviso, inesatte. Infatti, è certamente vero che per irrogare una qualunque sanzione disciplinare occorre seguire il procedimento che garantisca il diritto di difesa, mentre altra cosa è valutare chi – all’interno del Consiglio individuato a norma dell’art. 38 – sia competente ad irrogare la sanzione e quali siano le modalità corrette per infliggere l’avvertimento. Come abbiamo visto, il dato testuale dell’art. 40 della legge professionale, riferito all’avvertimento, afferma che esso è dato con lettera del Presidente del Consiglio dell’Ordine. Evidentemente, tra l’art. 40 della legge professionale e gli artt. 47 e seguenti del regolamento di attuazione (R.d. 37/34) vi è un apparente contrasto; tuttavia, tale contrasto non può essere risolto dando prevalenza al regolamento di attuazione, in quanto esso è una fonte normativa secondaria, equiparabile agli odierni d.P.R., e non può mai prevalere sulla legge formale, che è fonte normativa primaria. Ciò risulta evidente dal tenore dell’art. 1 della L. 31 gennaio 1926, n. 100, richiamato nel preambolo al Regio Decreto in argomento. La giurisprudenza, però, non ha approfondito tale contrasto tra le fonti di rango diverso, rilevandolo all’interno della stessa legge professionale, segnatamente tra l’art. 40, che elenca le pene disciplinari, e l’art. 38, che attribuisce il potere disciplinare al Consiglio. Peraltro, è impossibile che l’attento legislatore degli anni ’30 abbia commesso, in provvedimenti coevixxxii o addirittura all’interno dello stesso provvedimento (R.d.l. 1578/33) simili errori; e non è possibile accedere alle tesi giurisprudenziali sopra indicate, poichè esse cozzerebbero con dato testuale dell’art. 40, svuotandolo di significato. Se tentiamo di interpretare le norme dando loro il significato letterale, che poi è conforme a quello voluto dal legislatore, il sistema può essere ricostruito nei termini che seguono. Si può ipotizzare, seguendo il dato testuale, che esista un potere disciplinare che la legge attribuisce al Presidente del Consiglio dell’Ordine in quanto tale, ed è il potere di infliggere la sanzione, scritta ma non formale, dell’avvertimento. L’art. 40 non dice che l’avvertimento è comunicato con la lettera del Presidente, bensì che è dato (cioè inflitto) con tale mezzo: questo dato testuale non è superabile in via interpretativa. Tale potere non è assoluto ed incontrollato, ma viene esercitato tenendo conto dell’art. 45 della legge professionale nonchè delle norme di attuazione, in quanto non incompatibili con il dato testuale della legge. Pertanto, anche ai sensi della complessiva e sopravvenuta riforma dei procedimenti amministrativi (dalla L. 241/90 in avanti), il Presidente (o un suo delegato) dovrà dare notizia dell’avvio del procedimento, dovrà dare all’iscritto la possibilità di controdedurre e di essere sentito, e nell’ipotesi di apertura del procedimento disciplinare occorrerà, come di consueto, citare l’incolpato davanti all’intero Consiglio con le modalità ed i termini dell’art. 45. Tutto ciò avverrà in un procedimento che potrà assumere natura semplificata se, all’esito dell’istruttoria e del dibattimento, emergerà l’opportunità di comminare una pena non formale, ma soltanto morale, quale è l’avvertimento nel senso sopra inteso ed emergente dal dato normativo. Questa soluzione potrebbe essere confortata da una decisione del CNFxxxiii che ha così affermato: “la comunicazione del Presidente del Consiglio dell’Ordine, indirizzata ad un avvocato e contenente l’espressione <il presente ha valore di richiamo ufficiale deciso dal Consiglio nella seduta del..>, assume la natura della sanzione disciplinare dell’avvertimento, prevista dall’art. 40 R.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578. Peraltro, tale sanzione dell’avvertimento, inflitta per mezzo di un provvedimento presidenziale, deve considerarsi nulla per la mancata audizione dell’incolpato”. La suddetta motivazione, assunta su conclusione conforme del pubblico ministero, non censura il fatto che il provvedimento sia stato reso dal Presidente, ma soltanto la nullità derivante dalla mancata audizione dell’incolpato. Occorre quindi contemperare il chiaro dato testuale con le garanzie introdotte dopo il 1933, e in particolare con quelle costituzionali e segnatamente con il diritto di difesa, previsto dall’art. 24 Cost. ed applicabile anche ai procedimenti amministrativi, “soprattutto quando si determini una deminutio di situazioni giuridiche soggettive”xxxiv. La lettura più estrema dell’art. 40 lascerebbe al solo Presidente la potestà disciplinare per le mancanze più lievi, ma tale interpretazione, che probabilmente era quella voluta dal legislatore, sembra essere figlia del paternalismo di quegli anni lontani, ed oggi non offre sufficienti garanzie per l’incolpato. Sembra allora opportuna una lettura meno estrema, ma più rispettosa del dato testuale; in questo caso l’avvertimento verrà dato dal Presidente, a seguito di una delibera del Consiglio in tale direzione, tramite lettera. Tale soluzione non contrasta, a ben vedere, con le norme del regolamento. Infatti, la norma regolamentare dell’art. 51 che prevede la redazione della decisione potrebbe intendersi riferita alle sole sanzioni formali previste nei numeri da 2 a 5 dell’art. 40 della legge, ma non all’avvertimento, che peraltro dovrebbe essere, all’interno della lettera, succintamente motivato, e verrà notificato ai sensi dell’art. 50 della legge. Se quanto sin qui esposto è esatto, ne deriva che il termine “notificato”, per quanto riguarda l’avvertimento, è usato dal legislatore in senso atecnico: del resto, in campo amministrativo, vi sono numerosi provvedimenti, anche aventi carattere decisorio, che vengono “notificati” tramite raccomandata A. R. La differenza non è di carattere puramente formale, in quanto l’avvertimento dato con tale modalità, e con la caratteristica di sanzione non formale, verrebbe percepito dall’iscritto secondo la sua vera natura (resa evidente anche dalla stessa denominazione) di richiamo, e non, come accade oggi, come sanzione che macchia la personalità e la moralità di chi ne viene colpito. Proprio perchè non formale, tale sanzione non avrebbe natura di precedente disciplinare, ferma restando la sua impugnabilità innanzi al CNF, che deriva dalla natura di pena disciplinare, anche se non formale, inequivocabilmente attribuitagli dall’art. 40 in commento. La diversa lettura qui ipotizzata solleverebbe anche gli animi dei consiglieri chiamati a decidere e renderebbe meno sottile il confine tra avvertimento e assoluzione. -------------i E. RICCIARDI, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, 1990, 324; C. Cost., 12 luglio 1967, n. 110. ii Relazione presentata alla Camera dei deputati nel 1874, riportata da E. RICCIARDI, op. cit. iii C. Cass., sez. unite, 10 febbraio 1998, n. 1342. iv C. Cass., sez. unite, 11 marzo 2002, n. 3529. v in questo senso cfr. C. Cass., sez. unite, 6 giugno 2002 n. 8225. vi codice deontologico forense, art. 24, canone III. vii CNF, 4 giugno 1956. viii CNF, 17 dicembre 1981. ix CNF, 31 gennaio 1986. x CNF, 23 marzo 1993, n. 43; CNF 11 aprile 2001 n. 55; CNF, 13 maggio 2002 n. 63. xi CNF, 18 febbraio 1989, n. 30; CNF, 13 ottobre 2001, n. 205; CNF, 27 dicembre 1990 n. 141. xii R. DANOVI, Corso di Ordinamento forense e Deontologia, 2003, 357. xiii Consiglio dell’Ordine di Roma, 30 aprile 1992, riportato da R. DANOVI, Commentario del Codice Deontologico Forense, 2004, 104. xiv CNF, 19 aprile 1975. xv CNF, 22 febbraio 1975. xvi CNF, 12 luglio 1977. xvii Consiglio dell’Ordine di Milano, marzo 1981; anche questo precedente, come quasi tutti quelli indicati, trovasi in R. DANOVI, Commentario del Codice Deontologico Forense. xviii CNF, 1 giugno 1974. xix CNF, 8 ottobre 1981; CNF, 27 aprile 1978. xx CNF, 2 luglio 2001, n. 125, in Rassegna Forense n. 1/2002. xxi CNF, 27 giugno 2003, n. 199; CNF, 14 luglio 2003, n. 220; CNF, 1 ottobre 2003, n. 290. xxii CNF, 24 novembre 1983, in Resp. civ. e previdenza, n. 1/1987, con nota fortemente critica di R. DANOVI, Una nuova sanzione disciplinare: l’ammonimento (ovvero, il processo come pena e il processo come gioco), ivi, 127. xxiii CNF, 28 novembre 1998, n. 181. xxiv CNF, 7 marzo 1969; CNF, 9 maggio 1968; CNF, 20 luglio 1961; tutti precedenti indicati da R. DANOVI nell’ultimo articolo citato. xxv Consiglio dell’Ordine di Vicenza, 27 gennaio 1997, in Normativa e giurisprudenza disciplinare del Foro di Vicenza, 38. xxvi Infatti il CNF ha ritenuto valida una decisione che ha inflitto all’incolpato la sanzione del “richiamo”, intendendola come un avvertimento: CNF, 28 aprile 1998, n. 32. xxvii E. RICCIARDI, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, 1990, 419; C. Cost., 12 luglio 1967 n. 110. xxviii CNF 12 settembre 1987, n. 76. xxix CNF, 6 ottobre 1999, n. 152. xxx C. Cass., sez. unite, 18 aprile 1968 n. 1158; il testo integrale è in Rassegna forense, 1968, 453. xxxi CNF, 19 febbraio 2002, n. 2. xxxii Infatti il regolamento è stato emanato lo stesso giorno in cui il R.d l. 1578/33 veniva convertito in legge. xxxiii CNF, 13 ottobre 1994, n. 97. xxxiv C. Cost., 31 marzo 1994, n. 107. ( da www.altalex.it )