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Riuscirà l`Italia a “cambiare passo”?
Riuscirà l’Italia a “cambiare passo”? di Vincenzo Visco 1- Una breve premessa Gli studi contenuti nel volume rappresentano un contributo consapevole e coerente all’interpretazione delle difficoltà economiche dell’Italia. Rigorosi sul piano scientifico, sono tuttavia di non difficile lettura anche per i non specialisti. Narrano una storia di occasioni perdute, opportunità non cercate e non colte, difficoltà nell’accettare e percorrere la via delle riforme, dell’innovazione e della modernizzazione del Paese. Emerge il quadro di un paese incapace di andare oltre le sue produzioni tradizionali e le sue microimprese, di superare le sue ingiustizie distributive e il suo sistema di welfare incompleto, ma anche – cosa più preoccupante – un paese che ha perso la voglia di rischiare e di scommettere sul futuro e che, dopo la crisi del 1992, ha basato la sua crescita sul basso costo del lavoro e sulla competitività di prezzo senza investire in innovazioni, ha mantenuto e accentuato una distribuzione sperequata tra salari e profitti senza approfittarne per accrescere gli investimenti, l’accumulazione, l’innovazione. Un quadro non esaltante, quindi, e purtroppo realistico. E sfortunatamente l’evoluzione recente delle vicende economiche nazionali e internazionali rende ancora più problematiche le prospettive, tanto da farci dubitare che le analisi e le soluzioni proposte in questo libro ed altrove siano (ancora) sufficienti a risolvere la nostra crisi, e a farci temere che – viceversa – saremo costretti a un lungo periodo di difficoltà e sofferenza con esiti incerti. 2 L’Italia e la crisi La crisi internazionale in atto ha avuto ed ancora più avrà effetti pesantemente negativi sull’economia italiana. Nel momento in cui queste note vengono scritte (febbraio 2010) gli elementi di informazione, su cui riflettere, sono numerosi e problematici. Nel 2009 il PIL italiano si è ridotto di 4,9 punti percentuali: si tratta della contrazione più elevata dal 1945, l’ultimo anno della seconda guerra mondiale! Le recessioni del dopoguerra risultano tutte di dimensioni molto inferiori: infatti nel 1975 la riduzione del PIL fu di 2,8 punti, nel 1993 di 1,2 punti, nel 2003 di 0,1 punti e nel 2008 di 1 punto. Ma ciò che impressiona di più è che il crollo dell’economia italiana, pari al 5,9% nel biennio 2008-2009, risulta ben più elevato del -3,3% dell’area euro, del –2,9% dell’area OCSE, del –2,1 negli Uniti e del -3,7% della Germania. Questi dati, che indicano che il PIL italiano pro-capite è ritornato ai livelli del 1999, sono coerenti con l’ipotesi di declino progressivo dell’economia italiana negli ultimi 10 anni che si manifesta nell’impoverimento (ancora solo relativo) della popolazione: posto eguale a 100 il PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto dei 27 paesi della 1 UE, nel 2000 l’Italia si collocava a un livello di 117 mentre il dato previsto per il 2010 risulta pari a 98,6, il che riflette una sistematica perdita di posizioni anno dopo anno con una pericolosa convergenza verso livelli di benessere di paesi come Grecia, Cipro, Portogallo, ecc. e di perdita di contatto con i grandi paesi europei (Tabella 1). Tabella 1. PIL pro capite a parità di potere d’acquisto (UE 27=100) Paese/anno ITA Ger Fra U.K. Spa Gre Port. Cipro Zona € 2000 117 118,5 115,4 119 97,3 84,1 78,0 88,7 112,5 2010 98,6 116,6 110,6 116,5 101,6 95,8 76,1 93,4 108,2 Fonte: Commissione UE, data base AMECO La crisi inoltre ha provocato un aumento dei disavanzi pubblici di tutti i paesi compresa l’Italia, e una crescita del debito che in Italia sembra destinato a ritornare ai livelli massimi toccati tra il 1992 e il 1994 (120-125% del PIL). Secondo il FMI, il debito pubblico dei paesi avanzati è destinato ad aumentare, tra il 2008 e il 2014, di 40 punti percentuali, e il ritorno ai livelli di debito precedenti la crisi entro il 2030 richiederebbe una correzione strutturale dei bilanci pari a 8 punti percentuali. Inoltre l’aumento delle necessità di finanziamento da parte dei governi dei loro disavanzi provocherebbe, sempre secondo il FMI, un aumento dei tassi di interesse di circa 2 punti. E’ chiaro cosa questo significa per l’Italia: che potrebbe trovarsi entro pochi anni a dover far fronte a una spesa per interessi aggiuntiva pari ad almeno 2 punti e mezzo di PIL. Poiché già oggi la spesa per interessi, pari a circa il 10% delle entrate complessive, è al limite del livello di solvibilità che le agenzie di rating e i mercati ritengono accettabile, i rischi per il nostro Paese sono molto alti. Tanto più che a partire dal 2001, e con il breve intervallo del periodo compreso tra il 2006 e il 2008 (II° governo Prodi), la situazione della finanza pubblica italiana è andata progressivamente deteriorandosi, interrompendo e invertendo il processo di risanamento posto in essere tra il 1995 e il 2000. Lo evidenziano i dati dell’indebitamento netto, superiore al 5% nel 2010, del saldo primario, passato dal +5% circa tra il 1998 e il 2000, al –0,5 previsto per il 2010, del saldo di parte corrente deterioratosi fino a trasformarsi in deficit tra il 2003 e il 2005, con una ripresa negli anni successivi (2006 e 2007) e un ulteriore peggioramento negli ultimi anni, dell’aumento sistematico delle spese correnti (anche in questo caso con una inversione di tendenza nel 2006 e 2007) passate dal 43,6% del PIL del 2000 al 48% circa del 2009, della tendenza a fare affidamento crescente su entrate una tantum per contenere i saldi di bilancio. E tutto ciò in un contesto di deterioramento evidente e progressivo della qualità e quantità dei beni pubblici e servizi prodotti. 2 Le prospettive peggiorano ulteriormente se si tiene conto del contesto europeo e soprattutto delle dinamiche interne alla zona euro. Negli anni passati l’abbondanza di liquidità e i bassi tassi di interesse sui mercati internazionali hanno consentito ai paesi più fragili dell’Unione Europea di finanziare senza troppi problemi i debiti e i disavanzi pubblici e – cosa ancora più importante - i loro deficit di parte corrente, nonché in alcuni casi (Irlanda, Spagna, ma anche la Grecia degli ultimi anni) una crescita robusta del prodotto e dei consumi interni. Questo modello è entrato ovviamente in crisi in seguito al collasso dei mercati finanziari, al flight to quality degli investitori, e alle restrizioni creditizie conseguenti. In altre circostanze e in altri tempi questi paesi che – come si dice – hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, avrebbero potuto ritrovare un equilibrio mediante una svalutazione con conseguente inflazione e deprezzamento del debito pubblico, o con una sua ristrutturazione o, in casi estremi, un ripudio. In presenza di una moneta unica e dei vincoli posti dal trattato di Maastricht, queste soluzioni non sono praticabili e in conseguenza alcuni paesi sono diventati fortemente vulnerabili e oggetto di attacchi e pressioni speculative. E in presenza di una evidente divergenza delle econome reali, la stessa moneta unica e l’Unione Europea perdono credibilità, con rischi, non solo teorici, di una implosione e di un fallimento dell’intero progetto in mancanza del cambiamento di alcuni indirizzi di fondo. I paesi che si trovano in evidente difficoltà sono quelli che abbinano alti disavanzi di bilancio e alto debito pubblico, con disavanzi delle partite correnti. Essi sono – come è noto – i cosiddetti PIIGS 1. In questo contesto particolarmente delicata appare la situazione del nostro Paese, che, oltre al disavanzo e al debito pubblico, a partire dal 2000-2001 ha perso progressivamente competitività, passando da una situazione di pareggio della bilancia dei pagamenti ad un deficit di oltre 2 punti di PIL, e con tendenza a crescere, di dimensioni analoghe a quelle dell’Irlanda, che tuttavia negli ultimi anni ha realizzato un fortissimo recupero, dopo aver raggiunto nel 2007 un disavanzo di parte corrente di 5 punti; anche l’Irlanda, all’inizio del nuovo secolo, partiva da una situazione di equilibrio. Esiste però una importante differenza tra Italia ed Irlanda: quest’ultimo paese, infatti, ha utilizzato il disavanzo dei conti con l’estero per generare un afflusso di capitali che ha consentito di finanziare indirettamente una crescita interna molto forte; al contrario l’Italia è riuscita ad abbinare squilibri crescenti all’interno e con l’estero con una sostanziale stagnazione e, ultimamente, con una fortissima recessione. Gli altri PIIGS mostrano invece per l’intero periodo (2000-2010) disavanzi strutturali di parte corrente: ciò significa che – almeno in teoria – l’Italia potrebbe recuperare le posizioni perdute 1 Portogallo. Italia, Irlanda, Grecia, Spagna. Fino a pochi mesi fa l’Irlanda non era considerata a rischio (chi sa perché), e quindi i PIIGS erano PIGS, e coincidevano con il “Club Med” (esclusa la Francia). 3 se fosse in grado di arrestare e invertire il processo di declino in atto recuperando la situazione e le condizioni economiche e finanziarie del 2000. Ma l’aspetto più delicato della situazione attuale consiste nel fatto che, nello stesso periodo (2000-2009), la Germania, che pure partiva – come l’Italia – da una situazione di equilibrio di parte corrente, ora presenta un surplus di quasi 5 punti, e un aumento rilevante di competitività. Tra tutti i PIIGS l’Italia è il Paese che, rispetto alla Germania, ha maggiormente perso competitività: circa 30 punti di tasso di cambio effettivo in 10 anni2. In questa situazione le alternative possibili per il nostro Paese (e per gli altri PIIGS) non sono molte: o ci si rassegna ad alcuni lustri di deflazione dei prezzi interni (salari inclusi) per recuperare competitività, in un contesto di inevitabile stagnazione, ipotesi coerente con le scelte attuali, ma alla lunga politicamente insostenibile e che potrebbe portare al default e all’uscita dall’euro; o viceversa ci si impegna in un accelerato processo di riforme incisive per modificare i meccanismi attuali di funzionamento dell’economia. Anche questa scelta appare politicamente difficile, dato che non vi è accordo, al momento attuale, né sull’analisi della situazione, cioè sulle diagnosi, né tanto meno sulle terapie. Vi sarebbe in realtà anche un’altra soluzione (che potrebbe alleviare lo sforzo di riaggiustamento strutturale dei Paesi più deboli, comunque inevitabili). Si tratta di una soluzione cooperativa all’interno della UE: la Germania dovrebbe gradualmente ridurre fino ad annullare il suo surplus di parte corrente, consentendo così una svalutazione dell’euro che potrebbe ridare a tutti i paesi europei opportunità di crescita. Tale soluzione, però, oltre ad evidenti ostacoli di natura “ideologica” derivanti dalla cultura sostanzialmente mercantilistica dei paesi europei più forti, Germania in testa, potrebbe avvenire soltanto nel contesto di un riequilibrio generale delle politiche e delle posizioni relative dei diversi Paesi, e quindi coinvolge le scelte future non solo dell’Europa, ma anche degli Stati Uniti, della Cina, ecc. Sarebbe anche opportuno che il tasso di inflazione obiettivo della BCE (e delle altre banche centrali) crescesse a livelli superiori all’attuale 2% in modo da fornire spazi maggiori alle politiche monetarie. 3. I problemi strutturali dell’Italia Come sottolineano i contributi che compongono la prima parte del volume (tra gli altri, quelli di Ciccarone e Saltari e di Bianco e Bugamelli) le difficoltà del Paese vengono da lontano e sono strutturali, e si manifestano in una evidente e pronunciata crisi di produttività e di competitività. 2 In proposito, cfr. Roubini N. e Dag A., Will Europe PIGS learn to fly?, sito RGE 2010. 4 In base ai dati disponibili, si può rilevare che la produttività del lavoro (prodotto per ora lavorata) è cresciuta solo dello 0,5% nei 10 anni compresi tra il 1994 e il 2005, mentre nel decennio precedente (1986-1995) essa era cresciuta del 2,1%. Il trend inoltre è nettamente decrescente dato che tra il 1996 e il 2000 la produttività cresce dell’1% e tra il 2000 e il 2005 si riduce mediamente dello 0,1%. Inoltre la produttività totale dei fattori, cresciuta mediamente dell’1,2% nel periodo 1986-1995, aumenta solo dello 0,41% tra il 1996 e il 2000, e si riduce dello 0,68% tra il 2001 e il 2005. In media, nei 15 anni compresi tra il 1996 e il 2005 la riduzione media risulta dello 0,14%. Questo calo deriva essenzialmente da una ridotta accumulazione del capitale e da una riduzione del rapporto capitale/lavoro favorita dalle politiche di moderazione salariale e dalla conseguente riduzione del costo del lavoro, che ha reso conveniente per le imprese sostituire lavoro a capitale. Si è ridotta non solo l’intensità del capitale ma è anche peggiorata la sua composizione, penalizzando gli investimenti innovativi. In sostanza il problema non riguarda più il mercato del lavoro, il suo costo e la sua flessibilità, che era (forse) la questione principale nell’ultimo decennio del secolo scorso, e che continua ad essere riproposta in modo inerziale anche adesso in sede di trattative, ed accordi, tra governo e sindacati. Il problema riguarda il mondo delle imprese, la finanza pubblica (su cui tornerò più avanti), l’assetto istituzionale del Paese (inteso in senso ampio, e non limitato alla forma di Governo, e ai processi di decisione del Parlamento), l’organizzazione della P.A. , le infrastrutture, la moralità pubblica e privata. Queste questioni sono state ampiamente analizzate negli ultimi anni da molti studiosi, in particolare da Pierluigi Ciocca in un libro recente e importante 3, e dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia. Il dato di fondo è che tra il 1992 e il 2006 i profitti sono fortemente aumentati (di 10 punti percentuali in quota) e i debiti delle imprese si sono ridotti, ma la ristrutturazione produttiva ha riguardato solo una minoranza delle imprese italiane, che sembrano aver perso nel loro complesso gli stimoli alla ricerca della competitività e dell’innovazione. Né si può dire che l’euro abbia rappresentato un vincolo particolarmente stretto, salvo che nell’ultimo periodo: tra il 1992 e il 2002, infatti, il cambio si è svalutato del 30%; certo la concorrenza dei Paesi a basso costo del lavoro, e l’espansione delle esportazioni cinesi sostenute dal pegging con il dollaro e dalla sottovalutazione dello Yuan, si è fatta sentire, ma nel complesso gli stimoli concorrenziali per le imprese si sono ridotti, soprattutto per quelle che operano prevalentemente sul mercato interno, o in settori protetti. Particolarmente preoccupante è la difficoltà delle nostre imprese a crescere, avvalorata non solo dalla retorica del “piccolo è bello”, ma anche da un sistema normativo che in numerose occasioni introduce limiti dimensionali che può risultare poco conveniente superare. Eppure i dati 3 Ciocca P., Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia, 1796-2005, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 5 parlano chiaro: secondo la Banca d’Italia, posta pari a 100 la produttività del lavoro nelle imprese con più di 200 dipendenti, l’indice scende a 90 tra 50 e 200 addetti, e a 80 tra i 20 e i 50 dipendenti. E’ anche ben noto che le micro imprese possono investire meno di quelle più grandi in ricerca e innovazione, che sono i veri motori della crescita della produttività. Su queste questioni andrebbero quindi concentrate non solo l’attenzione e l’analisi, ma anche la proposta di interventi coerenti e incisivi di politica industriale, e di incentivazione (fiscale e non). Inoltre, poiché le imprese più grandi e più strutturate meno facilmente riescono ad evadere le imposte, la riduzione dell’illegalità fiscale rappresenta uno strumento fondamentale di una buona politica industriale. Per un buon funzionamento dei mercati e del sistema produttivo è essenziale che le regole che li riguardano siano adeguate ed efficienti. Il diritto e la regolamentazione sono nati (e trovano la loro ragione d’essere) proprio per creare il contesto in cui l’attività economica possa svolgersi in modo ordinato, e con garanzie sufficienti per tutti i partecipanti. Non sembra essere questa la situazione in Italia, paese in cui le norme e le regolamentazioni sembrano spesso prescindere da qualsiasi obiettivo o preoccupazione di funzionalità economica, per seguire logiche sostanzialmente autoreferenziali che in concreto spesso si traducono nell’introduzione di ostacoli per chi le deve rispettare. Ciò è vero per il diritto privato (nonostante le riforme – insufficienti – del diritto societario e fallimentare), per il diritto amministrativo, per il diritto processuale, per quello penale, e per il sistema di regolamentazione dei mercati. La incapacità di affrontare in maniera organica questi problemi e di pervenire a proposte efficaci, è evidente. Essa, per esempio, si è manifestata molto chiaramente nella recente vicenda della Protezione Civile, dalla quale è emerso che, a fronte di normative complesse e paralizzanti, si è scelta la strada della piena discrezionalità (e dell’arbitrio), anziché quella più complessa delle riforme. L’attività della P.A. può avere un impatto molto importante sul funzionamento dell’economia. Negli ultimi anni i salari pubblici sono cresciuti più di quelli privati, soprattutto per le funzioni di vertice, ma la produttività è rimasta insufficiente, anzi in alcuni casi si è chiaramente ridotta. Poiché il peso della P.A. nell’economia italiana è equivalente a quello della industria - circa il 20% del PIL - è evidente il contributo che un recupero di funzionalità ed efficienza potrebbe fornire: un incremento di efficienza del 10% equivale infatti ad un incremento del prodotto di 2 punti. Anche in questo caso si tratta di un problema complesso che andrebbe affrontato situazione per situazione, con un grande spirito di innovazione, investendo sulla qualità, sulla competenza, sulla trasparenza e sul merito, e superando la logica della “funzione pubblica” che, in quanto tale, non esiste mentre esistono tipologie di organizzazione diversa a seconda delle funzioni effettivamente svolte dalle singole amministrazioni e dei beni e servizi prodotti. In altre parole, 6 riformare “la” pubblica amministrazione è impossibile, e anche inutile. Riformare “le” pubbliche amministrazioni è indispensabile. Le riforme necessarie (e forse possibili) sono quindi tante. E’ dubbio che le classi dirigenti attuali per consapevolezza e capacità siano all’altezza del compito, ma non si può escludere. Tuttavia il risultato non è garantito: il problema di fondo riguarda la capacità della società italiana e soprattutto del sistema delle imprese di recuperare la vitalità perduta. Come ha efficacemente scritto Pierluigi Ciocca: “Anche se i governi risanassero la finanza pubblica, potenziassero le infrastrutture, riformassero il diritto dell’economia, non può non preoccupare il polarizzarsi della struttura produttiva in troppe aziende minuscole, poche aziende medie, troppo poche e poco diffuse imprese di grande dimensione. Soprattutto non possono non preoccupare la soluzione di continuità strutturale, la pochezza dei legami, che nel tempo si sono determinati nel tessuto delle imprese italiane: fra l’azienda piccolo-media, a cui spetterebbe di innovare, e la grande impresa, a cui spetterebbe di selezionare, recepire, adattare l’innovazione promettente e di applicarla su larga scala, così diffondendo il progresso tecnico. Se non emergeranno imprese piccole-medie capaci di inventare e/o grandi gruppi in grado di affinare e produrre in massa le novità, vi sarebbe più di un dubbio che gli italiani restino <<ricchi per sempre>>”4. 4. La finanza pubblica Le difficoltà della finanza pubblica rappresentano da molti anni uno dei problemi strutturali principali della nostra economia, fonte di ansia costante e di vincolo e condizionamento alla crescita. In sostanza il problema nasce negli anni ’80, infatti nel 1980 il rapporto debito/ PIL non raggiungeva il 60%; tra il 1992 e il 1994 esso arrivò al 124%, e il Paese rischiò l’insolvenza. All’origine dell’accumulo del debito era un bilancio pubblico in disavanzo strutturale con livelli di entrata insufficienti a finanziare la spesa pubblica e quindi con un elevato indebitamento che tuttavia non si traduceva in un incremento della quota di debito pubblico perché l’inflazione e la politica monetaria rendevano i tassi di interesse reali negativi. In sostanza il disavanzo pubblico veniva finanziato con un prelievo occulto (una vera e propria imposta) sul patrimonio, e più precisamente sul risparmio privato. Il meccanismo fu messo in crisi dal cambiamento delle politiche monetarie posto in essere attraverso il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia: improvvisamente la politica monetaria diventò restrittiva, i tassi di interesse positivi, e il debito pubblico iniziò a crescere velocemente rispetto al PIL. Infatti, l’adozione di politiche monetarie maggiormente ortodosse non 4 Ciocca P., Appunto su: L’impresa e le sorti dell’economia, in www.apertacontrada.it. 7 fu seguita da politiche fiscali più restrittive, in particolare da un immediato aumento del prelievo fiscale, come sarebbe stato ovvio e necessario. E’ difficile riscontrare un altro esempio di inconsapevolezza ed inerzia da parte di una classe dirigente nella gestione dell’economia di un Paese. Fatto sta che il timore per l’impopolarità e la possibile perdita di consenso derivante da un aumento dell’imposizione portò l’Italia al rischio di default nel 1992, e di nuovo a cavallo tra il 1994 e il 1995. Da allora abbiamo assistito ad una rincorsa affannosa a misure di taglio, contenimento, razionalizzazione di istituti, ecc., senza che vi sia stato un dibattito serio ed esplicito sulle origini della crisi, né un accordo sulla ripartizione dei costi necessari. L’ingresso nell’euro diede un rilevante contributo in termini di riduzione dei tassi di interesse, ma il processo di consolidamento della finanza pubblica non fu mai portato a termine, e anzi fu interrotto a partire dal 2001. E’ interessante notare che il tentativo del secondo Governo Prodi di riprendere il percorso tra il 2006 e il 2008 fu una delle cause principali della crisi di quel governo. Il fatto è che nessuno si ritiene responsabile della situazione della finanza pubblica e nessuno vuole assumersi i costi economici e politici relativi. Le prospettive future della finanza pubblica sono – come si è visto – molto precarie, e sono aggravate dal fatto che, diversamente dagli anni ’90, quando pressoché tutto il debito era in mani italiane, oggi esso è abbondantemente internazionalizzato. In ogni caso, per meglio chiarire la situazione, è utile verificare lo stato strutturale effettivo dei conti pubblici e la sua evoluzione nel corso del tempo. Tabella. 2. Entrate, uscite, saldi delle AAPP, periodo 1980-2008 (%PIL) 1980 1990 2000 2005 30,9 24,2 27,3 Uscite nette AAPP 26,2 di cui uscite in conto 4,5 5,3 2,6 4,1 capitale spese per la sanità n.d. 6 5,7 6,7 27,7 31,4 29,7 Entrate nette AAPP 20,2 di cui imposte dirette 9,3 13,8 14,4 13,3 imposte indirette 8,2 10,4 14,7 14,2 altre entrate 2,7 3,5 2,3 2,2 -5,9 -3,2 7,2 2,4 Saldo -3,8 -9,6 -6,1 -4,4 Saldo interessi 2,0 0,0 -3,8 -3,9 Saldo prestazioni/ contributi EEPP di cui contributi 12,3 12,3 12,1 12,6 prestazioni 10,4 12,2 16,0 16,6 -1,1 -,1.3 Saldo pensioni Ammortamenti -1,3 -1,5 -1,6 -1,8 Risultato di gestione 2,1 2,8 3,5 3,4 -7,0 -11,4 -0,8 -4,3 Indebitamento netto 2006 27,9 2007 26,7 2008 26,8 5,0 4,1 3,8 6,8 31,4 6,6 31,9 6,9 31,2 14,4 14,8 2,2 3,4 -4,4 -4,0 15,1 14,7 2,1 5,2 -4,8 -3,6 15,4 13,7 2,1 4,3 -4,9 -3,8 12,6 16,5 -1,1 -1,8 3,4 -3,3 13,1 16,7 -0,9 -1,8 3,5 -1,5 13,4 17,3 -0,7 -1,9 3,6 -2,7 8 Nella Tabella 2 sono riportati i dati relativi alle entrate, le uscite e i relativi saldi della P.A. separando il saldo degli interessi (attivi e passivi), e il saldo degli enti previdenziali, dalla differenza tra le altre spese, entrate tributarie e altre entrate. Si separa così la parte finanziaria del bilancio, da quella previdenziale/assistenziale, e da quella relativa alla fornitura di beni e servizi. Si può notare che: a) le entrate strettamente tributarie (le “tasse” in senso stretto) rappresentano circa il 29% del PIL (percentuale non elevatissima); a queste vanno aggiunti oltre 13 punti di contributi sociali per ottenere la pressione fiscale (42%); inoltre vanno ancora aggiunti circa 2 punti di entrate non tributarie; b) nel 1980 la pressione tributaria superava di poco il 17%, 12 punti in meno di quella attuale, nel 1990 essa aveva raggiunto il 24%, livello comunque insufficiente a coprire le spese, e solo successivamente si è stabilizzata sul 29%; le uscite della P.A. esclusi interessi e spese previdenziali, salvo un picco all’inizio degli ani ’90 (31%), risultano oggi agli stessi livelli del 1980 (26-27%); di questa percentuale circa 10-11 punti sono ascrivibili alle spese per la sanità e per investimenti, tutti gli altri servizi costano quindi meno di 15 punti di PIL, cui si deve aggiungere l’indebitamento netto; c) le entrate tributarie e le altre entrate sono oggi, diversamente dagli anni ’80 e ’90, superiori alle uscite nette e nel 2008 contribuivano a ridurre il disavanzo complessivo del bilancio per 4,4 punti; d) il saldo degli interessi, che aveva raggiunto e superato il 10% del PIL, risulta negli ultimi anni inferiore al 5% grazie alla riduzione dello stock del debito e soprattutto alla riduzione dei tassi di interesse: ambedue i contributi sono destinati purtroppo ad invertire il loro segno nei prossimi anni; e) gli enti previdenziali passano da un surplus di +2 punti a un deficit di – 3,8: una variazione di 6 punti che corrisponde pressoché interamente ad un aumento delle prestazioni di 7 punti percentuali, dal momento che l’entità dei contributi sociali è rimasta sostanzialmente costante, tra il 12 e il 13% del PIL in tutto il periodo considerato; f) anche il saldo pensionistico in senso stretto esibisce un disavanzo di circa 1 punto; in ogni caso dalla tabella emerge la trasformazione del nostro welfare da un sistema prevalentemente “bismarckiano”, cioè basato sulle contribuzioni, ad uno più orientato ad un finanziamento attraverso le imposte; ed infatti non è un caso che le imposte siano cresciute molto mentre i contributi sociali sono rimasti costanti: è aumentata quindi la trasparenza del sistema, ma anche la percezione da parte di molti contribuenti che, a causa delle implicazioni redistributive del welfare (pensioni escluse), il valore dei servizi ottenuti è inferiore all’ammontare delle imposte pagate; d’altra parte, quando la riforma previdenziale sarà andata a regime, e vi sarà una piena corrispondenza tra contributi pagati e diritti pensionistici acquisiti, sarà più difficile sostenere che la pressione fiscale, intesa come il pagamento coattivo per finanziare l’attività dello Stato, deve includere anche i contributi pensionistici che non sarebbero altro che una forma di risparmio individuale forzato. 9 Nel complesso la Tabella 2 disegna un quadro dal quale risulta che le spese nette della P.A. per acquisto e produzione di beni e servizi pubblici sono oggi ancora ai livelli del 1980, mentre sono fortemente cresciute le imposte (che peraltro all’inizio degli anni ’80 erano troppo basse), e le spese degli enti previdenziali. Questi dati implicano che il sistema è stato fortemente “stressato” negli ultimi decenni, ma che, ciò nonostante, il risanamento della finanza pubblica non è stato completato e, al contrario, le prospettive sono quelle di un consistente peggioramento. Quali margini vi siano, in queste condizioni, per ulteriori riduzioni di spesa o aumenti di prelievo è difficile dire o proporre, ma se la situazione dovesse peggiorare (il che è praticamente certo) qualcosa saremmo costretti a fare. Resta il fatto che il bilancio pubblico va riportato strutturalmente e definitivamente in equilibrio. Si tratta di interventi analoghi a quelli che dovranno essere posti in essere nei prossimi anni da pressoché tutti i paesi più avanzati, Stati Uniti in testa, ma ciò non toglie che sul piano politico, e nell’attuale contesto culturale, essi saranno di difficilissima realizzazione pratica. Queste considerazioni vanno tenute presenti nel valutare i contributi della seconda e della terza parte del volume, dove viene analizzata (Franzini e Granaglia) un’altra tra le urgenze che oggi esistono nel nostro paese, e cioè la necessità di ridurre le disuguaglianze esistenti e di ridurre i livelli di povertà, e vengono avanzate proposte sia sul versante redistributivo e di contrasto della povertà (De Vincenti, Paladini, Tardiola, Baldini e Toso) che sul versante dei servizi (Beltrametti), del mercato del lavoro (Leonardi e Pallini), della previdenza (Raitano). Nella prospettiva di dover affrontare una fase di riforme strutturali incisive, e forse anche in un contesto drammatico, assicurare maggiore equità e sicurezza alla popolazione, soprattutto a quella più esposta ai rischi, è essenziale, per ragioni di efficienza, e di consenso politico, oltre che di equità. Le soluzioni prospettate sono condivisibili; del resto per quanto riguarda l’Irpef esse sono riprese dal Libro Bianco sull’imposta sui redditi, curato da De Vincenti e Paladini e promosso da chi scrive; anche se la loro proposta è comunque intermedia rispetto all’obiettivo finale, in quanto per una vera riforma dell’Irpef servirebbero non meno di due punti di PIL, che rappresentano oggi l’eccesso di imposizione sui redditi bassi e soprattutto quelli medi. Tuttavia va detto che, per le misure che richiedono un consistente impegno di risorse pubbliche, nulla di quanto ricordato potrà essere realizzato nella situazione finanziaria attuale, a meno che non si riesca a porre in essere una operazione di redistribuzione a somma zero, attraverso la riduzione delle imposte finanziata con la diminuzione della enorme evasione fiscale che esiste oggi in Italia. L’esperienza dei governi di centro-sisnistra dimostra che ciò è possibile; tuttavia le reazioni che tali tentativi hanno suscitato durante l’ultimo governo Prodi sono lì ad indicarci la grande difficoltà politica, non tecnica, dell’operazione. 10 5. Alcune considerazioni conclusive Dall’analisi svolta, stimolata dalla lettura dei contributi contenuti del libro, emerge che le prospettive dell’economia italiana sono incerte e piuttosto preoccupanti. L’Italia continua a non reggere il passo con gli altri principali paesi europei, si trova stretta dal vincolo dei conti pubblici, in rapido deterioramento, e da un deficit di parte corrente elevato e crescente. Non ha realizzato le riforme necessarie, e non le ha in verità neanche discusse. Vi è la necessità di recuperare competitività ed efficienza, ma essa non si traduce in consapevolezza generale e condivisa. La mancata convergenza economica tra Sud e Nord del paese riduce la possibilità di una crescita più rapida, che potrebbe derivare proprio dalla convergenza tra le due aree, e distoglie l’attenzione dai problemi veri, creando la insana convinzione che liberandosi del Mezzogiorno il resto dell’Italia potrebbe risolvere per ciò stesso i suoi problemi, il che non sembra peraltro vero e avrebbe piuttosto effetti strutturali catastrofici, scardinando le relazioni tra regioni oggi completamente integrate sul piano commerciale5. La consapevolezza della necessità di un “cambio di passo” non è presente tra le forze politiche, ed infatti nessuna avanza proposte, o prova ad “anticipare” gli eventi. Ed in effetti la coesione nazionale su un obiettivo di politica economica fu raggiunta, per l’ultima volta, solo in occasione dell’ingresso nell’euro. I governi di allora ebbero peraltro anche una strategia coerente: risanamento dei conti pubblici, Europa, modernizzazione del paese attraverso privatizzazioni e liberalizzazioni, riforma fiscale con incisiva semplificazione e introduzioni di incentivi alla capitalizzazione delle imprese (la DIT), riduzione del prelievo sulle imprese e del costo del lavoro attraverso la fiscalizzazione dei contributi sociali non pensionistici, introduzione delle ICT nella P.A. attraverso il “fisco on line” e l’acquisto informatizzato dei beni e servizi della P.A., realizzazioni ambedue all’avanguardia dei tempi. Altri progetti di informatizzazione della P.A. (per es. nel settore giudiziario) erano in corso o in progettazione Sfortunatamente, da un lato i cambi di governo pur all’interno della maggioranza di centrosinistra influirono negativamente sulla composizione del governo e sulla qualità dei ministri, sicché quella che nella mente di alcuni era una “strategia”, non corrispondeva alla consapevolezza piena di altri. Inoltre, dopo le elezioni del 2001 la nuova maggioranza prospettò una visione totalmente diversa del paese e delle sue prospettive basata sull’allentamento delle regole, la sottovalutazione dei problemi del bilancio pubblico, e su un misto di lassismo e di velleità di comando poco coerenti con le effettive esigenze del Paese. Le classi dirigenti sembravano avere in mente più un’Italia tipo 5 La questione meridionale non è al centro delle analisi condotte nel libro, salvo l’interessante contributo di Lucidi nella prima parte; ciò nonostante essa rimane un problema fondamentale. 11 “anni 50”, che non l’immagine di un paese che doveva fare i conti con una delle più grandi rivoluzioni tecnologiche della storia. L’Italia ha così continuato a declinare e non sembra avere oggi brillanti prospettive. Il tentativo di riproporre un modello diverso nel periodo del secondo governo Prodi con le ulteriori liberalizzazioni, la riduzione del prelievo fiscale e contributivo sulle imprese, e il rigore nella spesa pubblica, non ha avuto successo, sia per la mancanza di una strategia coerente e condivisa all’interno del governo e della maggioranza dell’epoca, sia soprattutto per il progressivo affievolirsi della consapevolezza dei problemi del paese nell’opinione pubblica e nella politica6. Oggi siamo fragili ed esposti ai rischi delle turbolenze del mercato, privi di peso e autorevolezza internazionali, e soprattutto privi di una rotta, e di una strategia. Anche se i miracoli sono sempre possibili, la situazione non è tale da poter indurre all’ottimismo. 6 Una analisi attenta delle diversità nella visione e nella pratica della politica economica in Italia sarebbe quanto mai utile in sede di analisi economica. 12