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chi ha rapito la critica?
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CHI HA RAPITO LA CRITICA?
Scrivere di cinema al tempo della recensione “inutile”
a cura di Paolo Cherchi Usai
Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam
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Da qualche anno, ormai, ci si lamenta del fatto che il panorama critico si sia
frantumato in una galassia di chiacchiere,
aneddotica, superficialità rampante. Il fenomeno è comunemente attribuito alla crisi dei giornali e della stampa specializzata,
all’esplosione dell’internet, alla dittatura
populista della blogosfera e al suo abuso da
parte degli spettatori che s’improvvisano
critici. Questo atteggiamento non è immune da una buona dose di vittimismo. È proprio colpa dell’economia, della tecnologia,
della democrazia nell’informazione,insomma
degli “altri”, o siamo noi a esserci lasciati
sfuggire di mano il discorso critico creando
una distanza apparentemente insormontabile fra noi e il “resto del mondo”? C’è qualcosa che possiamo fare per mettere fine a
un’inutile geremiade e trovare uno sbocco
a questa crisi (se c’è)? Quali sono le strategie utili o necessarie a riprendere il filo
del discorso critico e affrontare con in modo più energico ed efficace un quadro culturale radicalmente cambiato rispetto a
quello di due o tre decenni fa? Una, e una
sola, la regola del gioco: smetterla di dare
la colpa alle circostanze, e mettersi in questione direttamente, in prima persona.
Il lento suicidio della critica “analogica” - per intenderci, la critica promossa
da coloro che sono nati e cresciuti all’ombra della macchina da scrivere prima di ritrovarsi davanti a un computer - si è consumato in modi diversi da un Paese all’altro. In Italia è prevalso quello più comodo,
che consiste nel fare finta di niente per poi
esprimere, e nelle strategie retoriche necessarie a renderle intelligibili e influenti.
Pochi si sono cimentati nella prima direzione, pochissimi nella seconda, ed è questo che fa la differenza. Non si tratta di adattarsi al minimo comune denominatore, bensì di sovvertirlo; invece si è optato per l’acquiescenza, per l’impressionismo a buon
mercato, per l’aneddotica. La prosa dei cosiddetti “giovani leoni” è diventata sempre
più insipida, l’argomentazione sempre più
amorfa. E le grandi firme sono per lo più
rimaste a guardare. Nel loro assordante silenzio, i nostri maestri ci dicono che per ciò
che li riguarda hanno fatto il loro dovere,
e il problema non appartiene più a loro.
Può darsi che sia così; in fondo è giusto che ogni generazione si prenda le sue
INLAND EMPIRE - L'impero della mente di David Lynch
prendersela con la rivoluzione digitale e
con le sue immediate conseguenze. L’aggressiva passività sottintesa a tale genere
di reazione si può sintetizzare nella formula
seguente:“ecco, adesso si credono tutti critici”, fingendo d’ignorare che tutti, a loro
modo, lo sono davvero e che l’unico privilegio del cinéphile specializzato è quello di
aver visto e letto di più, non quello di capire meglio a priori perché un film sia bello oppure no. Il critico professionista (intendendo con ciò, beninteso, chi ne ha fatto un “mestiere”, non necessariamente pagato) ha anche la prerogativa di dedicare
più tempo del solito all’atto del pensare,
quindi dello scegliere con cura ciò che va
detto. Questo non lo autorizza a presumere che le sue opinioni valgano più delle altre. Se vuole un’autorità, deve meritarsela.
E le “stelle” stanno a guardare
L’impressione che si ha seguendo l’evoluzione della critica italiana dall’inizio
dell’èra digitale (si generalizza, certo: ci sono le eccezioni, ma non è di queste che si
vuole discutere) è che i “professionisti” abbiano gettato la spugna: non nel senso che
abbiano smesso di pensare o dire cose intelligenti, bensì nella loro mancata volontà
di fare uno sforzo in più e riconoscere fino
in fondo che i tempi sono cambiati, che le
armi di ieri sono ormai spuntate e che anche quelle di oggi richiedono una profonda revisione. Ciò avrebbe dovuto avvenire
in due direzioni: nella qualità delle idee da
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responsabilità. Ma intanto quella nuova si
ritrova in mezzo al guado. Le ultime leve
della cinefilìa, stanche di acrobazie verbali e impazienti di fronte a teorizzazioni di
cui non sentono alcun bisogno, si sono arrangiate con quello che avevano, e nel linguaggio che capiscono. Noi, intanto, abbiamo creduto di cavarcela spostando la
mira dalla carta stampata alle presentazioni
televisive e multimediali con versioni malamente rivedute e aggiornate dei discorsi
di Claudio G. Fava, Vieri Razzini e Pietro
Pintus all’epoca della televisione di Stato.
Con una differenza: loro avevano almeno
l’acume di esternare i loro concetti in termini comprensibili alle masse; noi no, noi
vogliamo educare, sorprendere, fare i furbi. Parliamo a vanvera di metacinema, strizziamo l’occhio alle mode pur proclamando di rifiutarle, escogitiamo concetti che
non hanno alcun significato per lo spettatore e che gli fanno rimpiangere i tempi in
cui si faceva vedere il film e basta; oppure,
quando può, lo spettatore cambia canale e
si rivolge ai programmi che non lo sottopongono a un simile supplizio.
Manca, per quel che ne sappiamo, uno
studio dedicato all’analisi linguistica delle
introduzioni ai film visti su piccolo schermo in Italia; è un peccato, perché rivelerebbe con ogni probabilità l’urgenza di una
svolta nel modo in cui l’esperto si rivolge al
suo pubblico. Manca soprattutto il coraggio di sporcarsi le mani e affrontare di petto il problema della divulgazione, quella
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Die Friseuse di Doris Dörrie
pratica che non dà gloria sul breve termine
ma che - se praticata con impegno e assiduità - contribuisce a forgiare il gusto collettivo molto più di qualsiasi pezzo di bravura a beneficio dell’élite. La critica di cinema nell’epoca digitale, se ancora serve a
qualcosa, ha bisogno di soluzioni, non di
piagnistei, e fra le prime soluzioni da adottare c’è la rinuncia all’ambiguità: l’accademico, il giornalista, il critico, il maître à penser vero o presunto dovrebbero decidere
una volta per tutte se è il caso di comportarsi in territorio altrui come se si fosse a
casa propria. Il compianto Alberto Farassino, che certamente meritava il posto universitario da lui occupato, sapeva come cambiare registro sulle pagine di quotidiani e
riviste. Il suo è rimasto purtroppo un caso
relativamente isolato, imitato da pochi.
Quel che dice la gente
Una seconda soluzione è il mettere a
nudo le contraddizioni della “critica digitale” nella sua forma più bassa, l’epiteto elevato a modus operandi. Facebook e la blogosfera in generale hanno aperto uno sterminato campo di battaglia nel quale le giuste osservazioni e gli insulti sono sottoposti a una convivenza coatta, nella quale non
ci si può districare senza perdere tempo e
fatica mentale. E il tempo è prezioso, così
come è prezioso il diritto al silenzio, cioè la
libertà di astenersi dal giudizio apodittico.
L’esercizio della moderazione su internet è
diventato una forma di disobbedienza civile, un modo imprevisto - e paradossalmente sovversivo - di segnalare che la comunicazione critica può avvenire in altri modi,
più efficienti e più appaganti sia per i commentatori che per i loro destinatari.
Uno dei più utili - una terza soluzione al presunto “furto della critica” - si esprime nel riacquistarne il controllo con uno
strumento ancora più immediato dell’internet, la conversazione a viva voce. Quasi tutti, almeno una volta, siamo stati testimoni di illuminanti scambi di vedute fra
persone che non hanno mai scritto né pubblicato una riga sul cinema. È vero che la
maggioranza non lo fa perché ha altro di
cui occuparsi, ma ci sono persone che hanno fatto della discussione orale (ripeto: discussione, non monologo) una vera e propria arte, coniugando il talento nel suscitare l’attenzione altrui a quello, non meno
prezioso, del saper ascoltare. Riprendersi
la critica non comincia sulle pagine di una
rivista, bensì - l’ho detto e non mi stanco
di ripeterlo - nella vita quotidiana: a tavola, all’uscita dal cinema, davanti alla televisione; e, sì, anche davanti al computer,
commentando il punto di vista di un blog
d’alta qualità. Ce ne sono, e bisognerebbe
promuoverli parlandone ad altri. Ma con
le parole opportune.
Nel farlo (ecco una quarta soluzione
con la quale confrontarsi) è indispensabile mettere finalmente da parte la contrapposizione fra “cosa dice la gente” e quello
che dice l’esperto. Una critica degna di questo nome non ha speranza di farsi ascoltare perpetuando l’equivoco secondo il quale basta saperla più lunga per avere ragione. Rifiutare di misurarsi con l’opinione comune non porterà lontano; affrontare il
duello ad armi pari presuppone un atteggiamento che non va confuso né con la tolleranza né con il didatticismo. In questa
prospettiva, l’intolleranza del critico “fondamentalista” - quello che prende il prossimo a bacchettate sulle dita a ogni passo
falso - non è meno detestabile dell’educatore che crede d’incoraggiare il novizio con
una generica pacca sulla spalla, facendogli
l’elemosina di un’indulgenza che non fa bene né all’apprendista né ai suoi futuri tentativi di fare critica.
Non sparate sull’apprendista
Mettiamoci - mi rivolgo qui a un “noi”
addetti ai lavori, senza distinzione di ruoli
- una mano sul cuore e diciamo la verità:
che cosa facciamo quando un volenteroso
dilettante ci sottopone una recensione chieSegnoSpeciale 16
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dendoci se vale la pena di pubblicarla da
qualche parte? Se non alziamo gli occhi al
cielo (“mamma mia, eccone un altro”), diamo un’occhiata alle prime righe e poi - se
non abbiamo visto nulla di speciale - cerchiamo un modo elegante e sbrigativo di
liberarci dell’intruso, magari con un breve
messaggio espresso in termini tali da non
tradire troppo la nostra noia offendendo
l’interessato. È un errore gravissimo. Se ci
importa qualcosa del fare critica, dovremmo essere sinceri con noi stessi e scegliere
fra due opposte soluzioni: dire no, grazie,
non abbiamo il tempo di leggere provini,
che si rivolgano ad altri; oppure, se accettiamo di leggere, armarsi di penna rossa e
blu (o di evidenziatore sul programma di
scrittura) e fare le pulci all’articolo, frase
per frase, parola per parola e in maniera
costruttiva, sollevando domande, contestando le opinioni e suggerendo alternative, se ce ne sono.
È probabile che nove dilettanti su dieci non si rifaranno mai più vivi, nel qual caso potremmo dire di avere fatto almeno il
nostro dovere; il decimo, quello che tornerà
indietro con una nuova versione dell’articolo,avrà qualche speranza in più - per quanto esile - di avere un futuro. La miseria del
critico isolazionista non è il suo sguazzare
nel proprio orgoglio (quelli sono affari suoi:
in questo, almeno, ognuno si cerca la morte che vuole) né la sua sterile pretesa che
non vi sia bisogno di successori, la patetica
illusione dell’après moi, le deluge in un mondo che già non ha bisogno di lui; ciò che è
davvero imperdonabile è che egli contribuisca indirettamente, con la sua apatìa nei
riguardi del comune mortale, a perpetuare
quella mediocrità che vorrebbe neutralizzare a colpi di geniali intuizioni. La stupidità critica non si abbatte con una risata, bisogna combatterla a cielo aperto.
Abbiamo parlato di soluzioni, ne abbiamo segnalato alcune. Ce ne sono altre,
meno ambiziose ma non per questo indegne di riflessione ulteriore, dal curare la bulimìa del gusto derivante dal consumo indiscriminato di cinema (troppi Dvd ingurgitati in una settimana fanno più male che
andare troppo poco al cinema) alla disciplina della lettura (leggere meno libri di cinema, leggerli meglio; ma questo, forse, è
un consiglio superfluo dato che i libri di cinema non si leggono più: si tratterebbe allora di pubblicare meno, e pubblicare meglio). Una di queste può essere applicata al
cinema ma anche alla cultura in generale;
e in politica, in società, perfino nelle nostre
relazioni più intime. Recuperare - anche
nella sua modesta sfera di influenza - la dimensione morale del fare critica è per certi versi un’illusione, non perché l’impresa
non abbia più alcuna speranza di successo,
ma perché essa è ormai priva di oggetto (lo
rimarrà per molto tempo, almeno fino a
quando il cinema che abbiamo conosciuto
finora non diventerà materia di archeologia). Questa non è tuttavia una ragione sufficiente a non combatterla. L’onestà intellettuale, davanti allo schermo e altrove, si
coltiva anche coltivando le cause perse.
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