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Il mondo delle bolle di sapone
Università degli Studi di Firenze Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria Tesi di Laurea in Didattica della Fisica Il mondo delle bolle di sapone: un percorso scientifico per la scuola primaria Relatore: Dott. Samuele Straulino Candidato: Sara Pennucci Anno Accademico 2009/2010 Ai miei genitori, ad Alessandro, a me stessa. Indice Indice................................................................................................................. 1 Introduzione...................................................................................................... 3 Capitolo 1 La storia delle bolle di sapone attraverso l’arte, la letteratura e l’architettura...................................................................................................... 5 1.1 Nell’arte ...................................................................................................... 5 1.2 In letteratura ............................................................................................. 14 1.3 In architettura ........................................................................................... 18 Capitolo 2 Le proprietà fisico-chimiche delle bolle di sapone ..................................... 25 2.1 Tensione superficiale ............................................................................... 27 2.2 Bagnabilità ............................................................................................... 33 2.3 Capillarità ................................................................................................. 34 2.4 Il percorso più breve fra n punti e le superfici minime .............................. 37 2.5 Proprietà isoperimetriche ......................................................................... 39 2.6 Il problema di Plateau............................................................................... 45 2.7 L’acqua e le sue proprietà chimico-fisiche................................................ 52 2.8 Il sapone e le sue proprietà chimico-fisiche.............................................. 54 2.9 Riflessione e interferenza ........................................................................ 58 Capitolo 3 Il valore formativo della scienza ................................................................... 63 3.1 Il valore attribuito alla scienza e al bambino a partire dai programmi del 1985 fino alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo del 2007.................... 68 Capitolo 4 I metodi di insegnamento che favoriscono l’apprendimento anche nella scienza ............................................................................................................ 73 4.1 La didattica laboratoriale .......................................................................... 73 4.2 La discussione in classe........................................................................... 79 4.3 Il Cooperative Learning ............................................................................ 81 4.4 Il metodo scientifico sperimentale ............................................................ 83 Capitolo 5 La progettazione del percorso didattico “Le bolle di sapone”................... 89 5.1 Prima della realizzazione del progetto...................................................... 89 5.2 Perché le bolle di sapone? ....................................................................... 91 5.3 Il contesto................................................................................................. 91 5.4 Il progetto ................................................................................................. 92 5.5 Struttura schematica del progetto ............................................................ 92 Capitolo 6 Il progetto didattico fase dopo fase.............................................................. 95 6.1 Prima fase: ci sono bolle … e bolle .......................................................... 95 6.2 Seconda fase : caccia alla “ricetta”......................................................... 108 6.3 Terza fase: attività con le graffette ......................................................... 127 6.4 Fase quattro: ancora in … tensione superficiale .................................... 145 6.5 Quinta fase: il sapone, che cos’è? ......................................................... 164 6.6 Sesta fase: bolle e non bolle .................................................................. 178 6.7 Settima fase: riflettiamo sull’esperienza ................................................. 214 Conclusioni................................................................................................... 225 Bibliografia.................................................................................................... 226 2 Introduzione “...Credo che non ci sia nessuno in questa stanza che non abbia fatto qualche volta una comune bolla di sapone, e che, ammirandone la forma perfetta e la meravigliosa lucentezza dei colori, non si sia chiesto come fosse possibile fare tanto facilmente un oggetto così splendido... ...in una comune bolle di sapone c’è molto di più di quanto immagini di solito chi si limita a considerarla un gioco”1 Questa tesi descrive un percorso didattico da me svolto in una classe quinta della scuola primaria, in cui ho trattato l’argomento delle bolle di sapone mediante una serie di incontri a carattere laboratoriale. L’argomento “bolle di sapone” può forse sembrare frivolo e infantile; in realtà invece è molto complesso e presenta concetti e contenuti che lo rendono particolarmente interessante per la didattica e la divulgazione. è stato da me scelto perché consente di sviluppare un percorso didattico che attraversa discipline diverse come la fisica, la matematica, la chimica, e volendo anche la pittura, la letteratura e l’architettura. Il primo capitolo della tesi è dedicato alla presentazione delle bolle di sapone, attraverso un percorso che parte dalla pittura, attraversa l’arte per arrivare fino all’architettura. Ho scelto di iniziare da questi tre argomenti con lo scopo di risaltare la delicatezza, la bellezza, l’apparente fragilità di queste piccole sfere, che hanno emozionato artisti e persone comuni nel corso dei secoli. Il secondo capitolo affronta invece l’aspetto chimico-fisico delle bolle. L’analisi di questa parte riguarda i seguenti argomenti: la tensione superficiale, la bagnabilità, la capillarità, le superfici minime, il problema isoperimetrico, il problema di Plateau, l’interferenza e la rifrazione e per finire le caratteristiche chimiche di acqua e sapone. Nel terzo e quarto capitolo ho affrontato l’importanza del valore formativo della scienza e ho approfondito le metodologie che, secondo me, sono importanti per la realizzazione di un buon insegnamento-apprendimento. 1 Charles V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, 1974 Il quinto e il sesto capitolo sono stati dedicati completamente alla realizzazione del mio progetto didattico. In particolare, nel quinto capitolo descrivo il progetto e spiego in che modo mi sono preparata per realizzarlo; nel sesto capitolo analizzo il percorso, descrivendo in dettaglio tutti gli incontri svolti in classe, cercando di focalizzare i momenti più salienti e significativi, fino ad arrivare alla prova di verifica che ho fatto svolgere ai bambini come valutazione finale. Nel progetto ho svolto molte attività pratico-sperimentali, non solo con lo scopo di far apprendere gli argomenti trattati, ma anche con l’intento di far nascere una curiosità nei loro confronti e di far familiarizzare i bambini con interessanti fenomeni naturali. Il modo, inoltre, con cui ho presentato queste attività tende a valorizzare gli aspetti ludici, in maniera che si instauri un atteggiamento positivo verso gli argomenti affrontati. Queste attività hanno fatto sorgere molte domande nei bambini che, incuriositi, hanno cercato di darsi loro stessi le spiegazioni. Sono convinta che il desiderio di conoscere il perché delle cose sia più utile di spiegazioni fornite senza che nessuno ne avverta la necessità. A proposito di questo, riporto una breve frase particolarmente significativa, scritta da una bambina durante la verifica conclusiva: “a me piace fare esperimenti e mi piace un po’ la scienza e sono curiosa di sapere i perché dei perché”. 4 Capitolo 1 La storia delle bolle di sapone attraverso l’arte, la letteratura e l’architettura Tutto non è che una bolla di sapone 1.1 Nell’arte Le bolle di sapone sono state rappresentate fin dall’antichità. Al museo del Louvre è conservato un vaso etrusco su cui sono dipinti alcuni bambini che soffiano dentro delle cannucce e si divertono a fare le bolle di sapone. Sembra quindi che gli antichi conoscessero le sfere lucenti che si ottengono soffiando all’estremità di un tubo, utilizzando una soluzione particolare. Probabilmente, per i bambini dell’antichità le bolle di sapone erano divertenti quanto lo sono per i bambini di oggi. È prevalentemente nel XVII secolo che si manifesta un maggior interesse degli artisti per le bolle di sapone. In quel periodo le bolle di sapone sono diventate oggetto di rappresentazione non tanto per il loro aspetto ludico, quanto come simbolo, come allegoria della fragilità delle cose umane, della vita stessa. Simbolo aereo e leggerissimo, sempre affascinante per l’infinita varietà di colori e di forme, la bolla diviene una costante all’interno del più vasto tema della caducità umana. Il colore era sicuramente uno dei motivi principali dell’interesse che le bolle di sapone esercitavano sugli artisti dell’epoca, anche se rendere con i pennelli il curioso effetto che si manifesta sulla superficie saponosa era abbastanza complicato, tant’è che in quasi tutti i dipinti le bolle di sapone appaiono pressoché trasparenti. Nella pittura del Seicento è molto presente il tema della “vanitas”, natura morta con elementi simbolici allusivi alla caducità della vita. Questo genere pittorico ha avuto il suo massimo sviluppo in Olanda, strettamente correlato al senso di precarietà che investì il continente europeo in seguito alla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste. Gli elementi caratteristici di tali composizioni possono essere: il teschio, la candela spenta, il silenzio degli strumenti musicali, in quanto simboli di morte; la clessidra o l’orologio, come simboli del trascorrere del tempo; le bolle di sapone, di solito rappresentate con un putto che le crea soffiando da una specie di cannuccia, simbolo della precarietà della vita e dei beni comuni; un fiore spezzato, come un tulipano o una rosa, simbolo della vita che prima o poi appassirà come quel fiore2. “I dipinti dell’epoca si possono dividere in due categorie: quelli in cui è presente un putto o un ragazzo che fa le bolle di sapone e quelli in cui le bolle di sapone appaiono immobili nell’aria senza che alcuno le abbia formate, rendendone più evidente il significato allegorico. Nei primi l’interesse per il gioco dei bambini diventa in qualche caso prevalente, escludendo il significato allegorico. Nel secondo gruppo, le bolle sono un elemento fra i tanti che sottolinea il soggetto del dipinto, quasi un elemento che deve esserci, divenuto come un indizio preciso e facilmente riconoscibile della “vanitas”. Le bolle, quindi, sono rappresentate come un elemento statico, fissato per sempre sulla tela”3. Il dipinto, nella Figura 1, “si riferisce alla Vanità delle cose terrene, come la ricchezza, la bellezza, il passato e le arti. Il cranio al centro ricorda la vanità di tutte le espressioni più belle della vita: la musica (il liuto e il flauto), le arti (la paletta, le spazzole e la piccola scultura), i piaceri della carne (dadi, carte, pipa e tabacco), lo studio (i libri) e la bellezza (i fiori). L’orologio e le candele enfatizzano il passare del tempo; le bolle che fluttuano ricordano la fragilità della vita; la lettera appena leggibile sotto il teschio si riferisce alla morte e alla guerra; il servo nero, vestito in modo elegante e con una catena d’oro (simbolo di lealtà) al collo, simboleggia inevitabilmente il tempo che passa. Il servo regge il ritratto dello sconosciuto che ha commissionato il dipinto, in piccole dimensioni per indicare mancanza di pretese e rifiuto di ostentazione”4. 2 G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Vol. 2, dal Cinquecento al Settecento, Einaudi Scuola, 1990 3 M. Emmer, Bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p.66 4 M. Emmer, Bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p.63 6 Figura 1: D. Bailly, Vanitas con ragazzo nero, 1629 Nel dipinto mostrato in Figura 2, che è un’opera giovanile di Rembrandt, l’artista rappresenta il riposo di Cupido. Supportato da un cuscino, il dio amore si adagia su un letto coperto di stoffa rossa. Usando una cannuccia soffia una bolla in un guscio. Questo motivo è un simbolo di vanitas, familiare nell’arte olandese del XVII secolo. La nozione di transitorietà della vita, però, non è di solito associata a Cupido. Come sempre Rembrandt trova una soluzione creativa mediante un’associazione con la mitologia; rende di fatto la fragile bolla di sapone un simbolo della fragilità dell’amore. La composizione basata su diagonali, una forte luce radente che lascia il fondo scuro e i colori luminosi sono caratteristiche tipiche del suo lavoro prima del 16305. 5 V. Kienerk, P. Marzi Ciotti, Storia dell’arte, volume unico, Sandron, Firenze, 1991 7 Figura 2: Rembrandt, Il riposo di Cupido, 1634 Nell’Europa del XVIII secolo, bambini, scienziati e artisti continuano a mostrare il loro interesse verso le bolle di sapone. Tra gli artisti spicca Jean-BaptisteSiméon Chardin, che realizza diverse versioni del dipinto intitolato Le bolle di sapone, mostrato nella Figura 3. L’opera di Chardin presenta elementi di novità a differenza dei dipinti e delle incisioni realizzate da artisti dei periodi precedenti. Chardin si interessa alle bolle di sapone perché è interessato al mondo e ai giochi degli adolescenti. Il pittore abbandona i temi allegorici e mette invece in evidenza lo stupore con cui i più giovani ammirano le bolle di sapone che appaiono ai loro occhi come oggetti magici. L’aspetto fisico delle bolle è dipinto con cura e con una particolare attenzione alle iridescenze che si formano sulla loro superficie. Quindi da un lato troviamo la sorpresa e la meraviglia dei fanciulli e dall’altro il fascino del fenomeno fisico. Nel dipinto Le bolle di sapone si può notare la straordinaria sensibilità dell’artista nel rappresentare l’infanzia e l’adolescenza, con il bambino che si alza sulla punta dei piedi per guardare incantato la bolla di sapone che il 8 ragazzo più grande sta realizzando6. Figura 3: J.-B.-S. Chardin, Le Bolle di sapone, 1734 Nel dipinto La lavandaia (Figura 4), con grande semplicità e discreto realismo, Chardin descrive un episodio tratto dalla vita quotidiana della classe umile. La scena si svolge in un interno, le due donne sono occupate a svolgere le mansioni domestiche, mentre un bimbo è assorto a giocare con delle bolle di 6 La Biblioteca di Repubblica, La storia dell’arte, l’età dell’impressionismo, Vol. 15, Mondadori Electa, Milano, 2006 9 sapone. I gesti bloccati, le espressioni semplici compongono un esempio di grande poesia dell'intimità quotidiana. Figura 4: J.-B.-S. Chardin, La lavandaia, 1733 Chardin ha utilizzato, come in altre opere di soggetto simile, un espediente innovativo nel particolare della porta aperta sullo sfondo che introduce lo spettatore verso un’ulteriore scena, chiara e brillante, tanto da evidenziare una donna intenta a tendere i panni. La lavandaia è messa in relazione con La femme à la fontaine, molto simile nella struttura compositive e comunque legata dallo stesso intento di descrizione della classe media alla vigilia della Rivoluzione. In entrambi i dipinti troviamo elementi di estrema delicatezza soprattutto nella rappresentazione di 10 alcuni oggetti, piccoli ma discreti esempi di nature morte, genere al quale il pittore si dedica in altri quadri in maniera più dettagliata. Nel XIX secolo il tema delle bolle è affrontato da Edouard Manet, con l’opera Le bolle di sapone (Figura 5). Come Chardin, anche Manet non fa riferimento all’allegoria ma all’umanità dei ragazzi. Figura 5: E. Manet, Le bolle di sapone, 1867 Il ragazzo quindicenne si diverte a fare le bolle: l’opera è tutta centrata sulla figura del ragazzo e sulla corrispondenza tra zone in luce e zone in ombra. La pennellata è sciolta e rapida. La freschezza della pittura è tale da conferire al 11 soggetto grande realismo e immediatezza7. Fra gli artisti contemporanei possiamo ricordare Cagnaccio di San Pietro con l’opera La bolla di sapone (Figura 6) e l’orientale Shu Yong. Figura 6: Cagnaccio di San Pietro, La bolla di sapone, 1927 L’artista cinese è una delle personalità più interessanti della scena 7 V. Kienerk, P. Marzi Ciotti, Storia dell’arte, volume unico, Sandron, Firenze, 1991 12 contemporanea e internazionale. La cultura orientale si fonda sulla ricerca dell’equilibrio e sulla conoscenza dello spirito. Essa rappresenta la cultura dell’emozione e l’arte esprime emozione. Shu Yong demistifica i miti della cultura popolare di massa, sottolineando la falsità degli ideali della cultura americana. Le “Bubbles” (Bolle di sapone) sono la metafora del tempo e delle sue contraddizioni che avvolge il mondo tra passato e presente. Le bolle di sapone hanno una duplice simbologia: rappresentano la trasparenza, la voglia di riscoprire il gioco, sono un legame con la giovinezza. Esse, però sono anche la metafora del potere e delle sue illusioni, sono il simbolo dell’ambizione e del successo degli uomini d’affari.. I suoi “Chinese Myths” diventano icone di modernità che rappresentano il potere di una cultura. Le bolle invadono gli spazi del dipinto sovrapponendosi allo sfondo e creano riflessi di misteriose trasparenze8. Figura 7: Shu Yong, Bubbles 8 http://arteinforma.blogspot.com/2009/12/biennale-internazionale-darte.html 13 1.2 In letteratura Trovare autori che hanno dedicato intere poesie o testi letterari alle bolle di sapone non è facile. Alcuni scrittori le hanno usate come metafore o hanno dedicato loro diverse citazioni. Molto più spesso, in tutte le letterature, si affrontano i temi dell’effimero, della leggerezza, della vanità, della fragilità delle ambizioni umane, tutte questioni che, come abbiamo visto nell’arte, ricordano le bolle di sapone. Le bolle di sapone sono uno degli argomenti classici della letteratura per bambini. “Di fatto tutti i personaggi più famosi della letteratura per l’infanzia hanno avuto avventure con le bolle di sapone. A cominciare da Topolino”9. Figura 8: Topolino, N° 364, 18 Novembre 1962 9 M. Emmer, Bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p.63 14 Gianni Rodari dedicò molti testi alle bolle di sapone. Non si può non ricordare “Cipollino e le bolle di sapone” del 1952, “Gondola fantasma” del 1978, “Bolle di sapone” del 1999. Figura 9: Gianni Rodari, Cipollino e le bolle di sapone, 1952 15 Gianni Rodari, nel testo Gondola fantasma, racconta una delle avventure di Giovannino Perdigiorno nel paese degli uomini di sapone: Giovannino Perdigiorno Viaggiando in carrozzone Capitò nel paese Degli uomini di sapone. Gli uomini di sapone E le loro signore Sono sempre puliti E mandano buon odore. Sono bolle di sapone Le loro parole, escono dalla bocca e danzano al sole. Fa le bolle il papà Quando sgrida il bambino Fa le bolle il professore Mentre spiega il latino. Nelle case, per le strade, dappertutto in ogni momento milioni di bolle volano via con il vento. Il vento le fa scoppiare Silenziosamente… E di tante belle parole Non rimane più niente10. Anche Italo Calvino scrive sulle bolle di sapone e lo fa nell’opera “Marcovaldo, ovvero le stagioni in città”. Quella di Marcovaldo è una favola scritta nel 1963, quando l’Italia sperimentava per la prima volta il boom economico e le macchine e la frenesia entravano prepotentemente nella vita degli italiani. Le città cambiavano volto e le strade si facevano affollate e frettolose. La storia di Marcovaldo è tipica di una letteratura dell’alienazione. Il buon Marcovaldo fa il manovale in una ditta che si chiama SBAV, tutti i giorni 10 G. Rodari, Gondola fantasma. Gli affari del signor Gatto. I viaggi di Giovannino Perdigiorno, Einaudi, Torino, 1978, p. 99-100 16 carica e scarica pancali di merci non ben definite. La sua è una famiglia numerosa, ha molti figli e abita in una città industriale, quella che sembra una metropoli in espansione: cantieri in ogni dove, cemento, smog e auto. Queste situazioni, a grandi linee, rappresentano la cornice entro cui si muove Marcovaldo; le sue disavventure vengono raccontate attraverso venti novelle associate alle stagioni dell’anno, da cui il sottotitolo “Le stagioni in città”. Fumo, vento e bolle di sapone Inverno Nella cassetta della posta di Marcovaldo non c’era mai niente, perché nessuno gli scriveva, ma un giorno i suoi figli Filippetto, Pietruccio e Michelino trovarono un buono omaggio di una ditta di saponi. I ragazzi pensarono di approfittarne, prendendo anche quelli delle altre cassette, quelli delle case vicine e quelli caduti per terra. Così, insieme ad una banda di monelli, ne misero insieme una enorme quantità, e con tutti questi campioni di detersivi riempirono la casa di Marcovaldo, sperando di guadagnare tanti soldi. Quando cercarono di venderli, la cosa cominciò a dare nell’occhio e qualcuno denunciò il fatto alla polizia. Fiutando il pericolo, Marcovaldo disse ai ragazzi di buttar tutto nel fiume. Così un mattino fecero la spedizione di scarico, svuotando tutte le scatole nell’acqua, nei pressi di una rapida e tutto il sapone cominciò a gonfiarsi in tante bolle che si sollevarono dalla superficie dell’acqua e si dispersero in cielo, volando verso la città, mentre il fiume continuava a traboccare come un bricco di latte al fuoco. I grappoli di bolle s’allungavano in ghirlande iridate e tutti gli operai che andavano al lavoro si fermavano allegri a guardare questo spettacolo pieno di colori. Intanto le fabbriche avevano cominciato a buttare fuori il fumo nero di ogni mattino. Bolle colorate e fuliggine nera si confondevano tra loro, finché Marcovaldo, che stava a guardare con gli altri, cerca cerca nel cielo non riusciva a vedere più le bolle, ma solo fumo fumo fumo11. Neppure Gabriele D’Annunzio si è sottratto al loro fascino perfetto e fragile, dedicando loro una poesia, “La bolla di sapone”. La bolla spunta a poco a poco dalla cannuccia, si arrotonda, cresce, si colora. 11 I. Calvino, Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, Einaudi, 1966 17 Poi riflette la finestra, i vasi di fiori in cielo. E il bimbo, prima di lanciarla al vento, ci si specchia dentro. La fa dondolare lievemente, poi la stacca. La bolla s'innalza, brilla un istante al sole e sparisce. Mark Twain nel suo racconto di viaggio, “Innocent Abroad” del 1869 scrive che: “Una bolla di sapone è la cosa più bella, e la più elegante, che ci sia in natura…. Mi chiedo quanto sarebbe necessario per comprare una bolla di sapone se al mondo ne esistesse soltanto una”.12 1.3 In architettura Nell’orizzonte culturale tardo settecentesco e ottocentesco si sviluppano esperienze architettoniche quali il neoclassicismo. Tutta l’arte neoclassica è rigorosamente progettata e si serve di tutti i mezzi che la tecnica mette a disposizione, rivalutando i nuovi materiali e la ricerca tecnico-scientifica degli ingegneri. Il linguaggio neoclassico si diffonde inizialmente in Francia, dove le personalità di maggior rilievo sono Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux. Entrambi fanno parte di quella corrente detta della “visione utopica”, con il progetto di realizzare costruzioni a pantheon o a sfera, così come città del sole o della luce. Uno dei progetti più importanti di Boullée è il Cenotafio di Newton, del 1784 (Figura 10). “Boullée era affascinato dalla magnifica bellezza della forma sferica, dalla maestosità della sfera, dalla grazia del suo contorno, dalla regolarità del suo passare dall’ombra alla luce. La bolla di sapone era allegoria della Vanitas, della fragilità della vita; la sua forma, una sfera, simbolo della 12 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 33 18 perfezione, legata per questo all’idea della morte”13. Figura 10: Boullée, Cenotafio di Newton Figura 11: Berg Arkitektkontor, Ericsson Globe, Stoccolma 13 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p.117 19 Il fascino della sfera, dei colori sulla sua superficie, attrae gli architetti, anche ai giorni nostri. Non come simbolo della Vanitas, anzi come luogo di celebrazione dello sport, della vitalità e della vita. Uno degli esempi più stupefacenti è stato realizzato a Stoccolma nel 1989, su progetto della Berg Arkitektkontor (Figura 11 e Figura 12). Bianca di giorno, la grande sfera del Globe di notte si riveste di luci colorate. Per nulla fragile e volatile14. Figura 12 Berg Arkitektkontor, Ericsson Globe, Stoccolma Negli anni sessanta del secolo scorso un architetto tedesco, che si chiamava Otto Frei, sperimentò delle nuove strutture architettoniche, che chiamò, “Tensile Structures”. Compiva esperimenti utilizzando delle lamine di sapone. Immergeva in acqua saponata delle strutture che simulavano il progetto architettonico e otteneva delle lamine di sapone che venivano fotografate e 14 Ibidem 20 misurate e servivano da modello alla grande architettura. Ovviamente non bisognava trascurare i calcoli strutturali. Le lamine di sapone non hanno praticamente peso; una struttura da costruire ha un peso rilevante e ovviamente i modelli con le lamine di sapone vanno adattati15. La più famosa realizzazione di Otto Frei è proprio l’enorme tenda sospesa sopra lo stadio olimpico di Monaco di Baviera (Figura 13 e Figura 14), che era stato costruito tra il 1969 e il 1971 su progetto dell’architetto Günther Behnisch. Figura 13 Otto Frei, Stadio di Monaco di Baviera Figura 14 Otto Frei, Stadio di Monaco di Baviera 15 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino 21 Anche il progetto dello stadio olimpico di Roma parte dai modelli di lamine saponate e dai calcoli sulle superfici minime. Come spiega il professor Emmer16: “…se immergiamo un telaio metallico, anche di struttura complessa, in acqua saponata, estraendolo vengono a crearsi, come di incanto, le superfici migliori possibili, per il principio di minima energia che la natura segue sempre. Lo stesso principio, seguito dalle api nelle loro cellette, costruite con il minimo dell’energia per comprendere il massimo dello spazio. Un principio molto presente anche nell’architettura moderna”. Un altro esempio di progetto architettonico ispirato da principi della matematica è il Watercube. Tobias Walliser, uno degli architetti della piscina olimpica di Pechino, in un articolo pubblicato nel 2009 ha scritto sia a cosa si è ispirato, sia come è stata concepita la piscina Olimpica di Pechino. Figura 15: Veduta del Watercube e dello stadio di Herzog & de Meuron 16 Ibidem 22 Ecco il principio ispiratore: “Il cosiddetto Watercube associa l’acqua come elemento naturale e Leitmotiv tematico con il quadrato, la forma archetipo della casa nella tradizione e mitologia cinese. Insieme con il grande stadio di Herzog & de Meuron, si crea una dualità tra l’acqua e il fuoco, tra maschio e femmina, Yin e Yan, con le conseguenti tensioni/attrazioni”17. Figura 16: Watercube “Concettualmente, il quadro e gli spazi interni sono ricavati da un ammasso indefinito di schiuma di lamine di sapone, il che simbolizza la condizione della natura che è trasformata in una situazione culturale. L’apparizione del centro acquatico è di conseguenza un ‘cubo di molecole d’acqua’. La sua costruzione è stata realizzata su una unica costruzione. Dietro la casualità è nascosta una rigida geometria che può essere ritrovata in sistemi naturali come i cristalli, le cellule e le strutture molecolari. In altre parole la migliore 18 suddivisione dello spazio tridimensionale con celle di egual volume” . 17 18 Ibidem p. 261 Ibidem 23 L’architetto Walliser afferma che: “L’utilizzo di una adeguata formula matematica o di una forma pura che deriva direttamente da essa non è di grande risultato in architettura. Ma concetti matematici, oltre la geometria, possono essere una grande fonte di ispirazione per gli architetti e possono dar luogo a strutture che sarebbero inimmaginabili in altro 19 modo” . Figura 17: Watercube: dettaglio 19 Ibidem, p.262 24 Capitolo 2 Le proprietà fisico-chimiche delle bolle di sapone Alcuni scienziati, qualche secolo fa, iniziarono a porsi domande sulle bolle di sapone, per esempio riguardo ai colori che appaiono sulle lamine saponose. Uno di questi scienziati fu Isaac Newton (1642-1726). Verso la metà degli anni sessanta del 1600 Newton iniziò ad occuparsi di ottica; nel 1666 pubblicò Of Colours, nel 1669-71 scrisse Lectiones opticae, che nel 1672 rielaborò in New Theory about Light and Colours. Negli anni successivi approfondì gli studi sulla rifrazione della luce. Nell’opera Opticks del 1704 Newton descrisse in modo dettagliato i fenomeni che si osservano sulla superficie delle lamine saponate. Nel secondo volume dell’Opticks leggiamo: “Oss. 17. se si forma una bolla con dell’acqua resa prima più viscosa sciogliendovi un poco di sapone, è molto facile osservare che dopo un po’ sulla sua superficie apparirà una grande varietà di colori. Per impedire che le bolle vengano agitate troppo dall’aria esterna (con il risultato che i colori si mescolerebbero irregolarmente impedendo una accurata osservazione), immediatamente dopo averne formata una, la coprivo con un vetro trasparente, e in questo modo i suoi colori, si disponevano secondo un ordine molto regolare, come tanti anelli concentrici a partire dalla parte alta della bolla. Via via che la bolla diventava più sottile per la continua diminuzione dell’acqua contenuta, tali anelli si dilatavano lentamente e ricoprivano tutta la bolla, scendendo verso la parte bassa ove infine sparivano. Allo stesso tempo, dopo che tutti i colori erano comparsi nella parte più alta, si formava al centro degli anelli una piccola macchia nera rotonda che continuava a dilatarsi”20. Alla fine dell’osservazione 18, aggiunge: “Nel frattempo, nella parte alta che era di un blu scuro e appariva anche cosparsa di molte macchie blu più scure che altrove, comparivano una o più macchie nere e tra queste altre macchie di un nero più intenso… e queste si dilatavano progressivamente fino a che la bolla si rompeva… Da questa descrizione si può 20 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 109 dedurre che tali colori compaiono quando la bolla è più spessa”21. Il fenomeno che Newton aveva osservato è conosciuto con il nome di interferenza e ne accenneremo una descrizione più avanti. Durante la seconda metà del 1800 un altro scienziato affrontò il problema dello studio delle lamine e delle bolle di sapone: è Antoine Ferdinand Plateau. Nel 1873 nell’opera Statistique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires pubblicò il risultato di quindici anni di ricerche. In quell’opera si pongono molti problemi che riguardano le lamine e le bolle di sapone. Elaborò la moderna teoria delle superfici minime, quelle superfici che minimizzano l’area della superficie rispetto a qualche proprietà; nel caso delle bolle di sapone, rispetto al volume d’aria contenuto. “Plateau fu il più autorevole degli schiumologi. Le sue leggi di geometria della schiuma sono tuttora valide. Egli diventò cieco durante alcune ricerche di ottica, perché guardava direttamente il sole. Continuò comunque a studiare la schiuma e le lamine saponose con l’aiuto di colleghi ed amici. Mise a punto una soluzione di sapone, acqua e glicerina con cui otteneva pellicole che duravano anche diciotto ore e potevano essere studiate a lungo. Derivò un insieme di leggi che descrivono le schiume attraverso esperienze e osservazione”22. Una delle cose più stupefacenti che Plateau osservò è che se si soffia con una cannuccia in una soluzione d’acqua saponata gli angoli che le lamine formano sono solo di due misure: o di 120° o di 109° e 28'. Un risultato che sarà dimostrato solo nel 1976 dalla matematica americana Jean Taylor. Molti anni dopo Newton, Charles V. Boys scriverà: “I colori sulle bolle sono così belli e vari che solo questa sarebbe una ragione 23 sufficiente per desiderare di sapere qualcosa sulla causa del colore” . Nel 1902 Boys pubblicò il libro Soap Bubbles and the Forces Which Moulds Them. Questo libro è il risultato di tre conferenze che egli tenne per un gruppo di giovani alla London Institution il 30 dicembre 1889 e il 1° e 3 gennaio 1890. Il 21 Ibidem http://web.unife.it/progetti/matematicainsieme/schiume/index.html 23 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 110 22 26 motivo centrale del libro è lo sforzo continuo di svelare i più profondi problemi connessi con la natura fisica delle bolle di sapone attraverso semplici esperimenti spiegati nei minimi dettagli24. 2.1 Tensione superficiale25 Talvolta si vedono alcuni insetti che camminano sull’acqua; è anche noto che è possibile far galleggiare una graffetta metallica o una lametta d’acciaio, deponendoli con delicatezza sulla superficie del liquido. Questi fenomeni, che sembrano contraddire l’esistenza della forza di gravità e del principio di Archimede, possono essere spiegati considerando l’effetto della tensione superficiale. Prima di tutto cercherò di spiegare le ragioni dell’esistenza di tale forza, per poi analizzarne in dettaglio gli effetti ed arrivare a misurarla. Per capire cosa sia la tensione superficiale è prima di tutto importante ricordare come è fatta al suo interno la materia. È noto che ad ogni elemento chimico corrisponde un atomo con una struttura interna diversa. Gli atomi si possono definire i mattoncini che compongono tutte le sostanze che ci circondano. Ogni sostanza è costituita da più atomi dello stesso tipo o diversi tra loro legati insieme. Questo insieme di atomi costituisce la molecola. Quest’ultima, pur potendosi scomporre negli atomi costituenti, è la particella più piccola che ha le stesse caratteristiche della sostanza che compone. Le molecole di una sostanza possono coesistere in tre modi differenti: stato solido, stato liquido, stato gassoso. Nel primo caso le molecole sono saldamente legate fra loro da alcune forze di coesione che esistono fra molecola e molecola; queste forze fanno sì che il solido sia compatto e mantenga un volume e una forma propria. Gli unici movimenti permessi alle molecole di un solido sono delle vibrazioni, tanto più intense quanto maggiore è la temperatura, attorno alla posizione di equilibrio. I liquidi hanno una struttura interna costituita da molecole vicine le une alle altre, 24 C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, (trad. it.) Zanichelli, Bologna, 1974 25 S. Straulino, Tensione superficiale (da http://hep.fi.infn.it/ol/samuele) http://www.galenotech.org/chimfis1.htm 27 disposte in maniera disordinata, in cui la forza di coesione fra molecola e molecola non è tale da garantire la compattezza della sostanza. Le molecole infatti possono ‘scivolare’ reciprocamente, andando ad occupare zone collocate più in basso rispetto al livello del liquido. Infatti come è noto i liquidi non hanno volume e forma propri, ma si adattano alla forma del recipiente che li contiene. Nei gas, al contrario, le molecole sono molto più distanti fra loro rispetto ai solidi e ai liquidi; per tali sostanze le forze intermolecolari possono essere trascurate in prima approssimazione. Essendo libere di muoversi, le molecole dei gas si spostano rapidamente nello spazio. Chiudendo il gas all’interno di un recipiente, le molecole urtano contro la parete, esercitando in questo modo una certa pressione. In modo più dettagliato si può vedere come la struttura di un liquido dia origine alla tensione superficiale. Guardando la Figura 18 si può notare, in modo schematico e ingrandito, la disposizione delle molecole all’interno di un liquido. Una molecola come quella indicata con la lettera A è circondata da altre molecole simili che la attraggono. La molecola A, sotto l’azione di tali forze, tenderà a spostarsi di un pochino della direzione della molecola più prossima, ma manterrà, in media nel tempo, la propria posizione. Una molecola come la B, che si trova vicina alla superficie del liquido, sentirà anch’essa la forza attrattiva esercitata dalle molecole vicine, ma queste si trovano soltanto accanto o sotto la molecola considerata. Ne consegue che la molecola B, e tutte le altre molecole vicine alla superficie del liquido, sono attratte più efficacemente verso l’interno del liquido stesso. Per questo motivo il liquido si comporta come se ci fosse una pellicola invisibile che lo tiene unito. In realtà si tratta di una forza di origine molecolare, a cui si dà il nome di tensione superficiale. L’intensità della tensione superficiale dipende dal tipo di liquido considerato e da quale altra sostanza è circondato. La tensione superficiale è anche la causa della formazione delle gocce, che sono tenute insieme proprio da questa forza. 28 Figura 18: Rappresentazione schematica di molecole d’acqua all’interno di un recipiente Come già visto nel capitolo precedente, i tensioattivi sono in grado di diminuire la tensione superficiale. Quando la tensione superficiale diminuisce, si ha una minore coesione della superficie del liquido. È per questo motivo che l’acqua saponata, a differenza dell’acqua pura, fa la schiuma. Le bolle di sapone permettono di capire come agisce la tensione superficiale. La lamina liquida delle bolle di sapone è una membrana elastica, che tende sempre ad occupare la superficie più piccola possibile. Detto ciò bisogna sottolineare una differenza, che può essere messa in evidenza con un semplicissimo esperimento. Si consideri un telaio metallico a forma di U con una sbarretta mobile AB appoggiata sopra come nella Figura 19. Se si immerge il telaio in acqua saponata, facendo aderire una lamina liquida sul contorno del telaio e tenendolo poi orizzontale, si può osservare che la sbarretta AB è attratta verso la base della U: per impedire questo movimento è necessario applicare nella direzione opposta una forza F alla sbarretta. Si nota però che l’intensità di questa forza non è proporzionale all’estensione della superficie della lamina ma è invece proporzionale alla lunghezza del tratto l = AB. Per questo motivo si definisce la tensione superficiale (di solito indicata con la lettera greca tau) 29 come una grandezza data dal rapporto fra una forza e una lunghezza: τ= F 2l Nella formula è stato considerato il doppio della lunghezza AB perché la lamina aderisce su due bordi della sbarretta metallica, il cui spessore è molto maggiore delle dimensioni tipiche delle molecole. Figura 19: Telaio metallico a forma di U con lato mobile AB Esistono molti metodi per misurare la tensione superficiale di un liquido. Per uno dei più semplici è necessario un dinamometro abbastanza sensibile e un anello metallico di qualche centimetro di diametro. L’anello, a cui sono attaccati alcuni fili sottili che permettono l’aggancio, deve essere appeso al dinamometro. L’allungamento del dinamometro dà una misura del peso dell’anello e del filo: quindi si potrà leggere un valore F1 sulla scala graduata dello strumento. Il liquido di cui si vuole misurare la tensione superficiale va messo dentro un contenitore, appoggiato sopra un supporto regolabile in altezza. Alzando gradualmente il supporto, cercando di immergere l’anello, si può osservare una forza resistente, che fa contrarre in modo visibile il dinamometro. Si potrebbe pensare che sia la spinta di Archimede sull’anello a far contrarre il dinamometro, ma non è così. Infatti fino a quando l’anello non è completamente immerso, l’allungamento del dinamometro è molto inferiore rispetto a quando 30 l’anello è completamente immerso nel liquido, quindi ben al di sotto della sua superficie. Nella fase di attraversamento della superficie si ha l’effetto combinato della spinta di Archimede e della tensione superficiale. Per poter misurare quest’ultima, senza subire gli effetti della forza idrostatica, è opportuno procedere nella direzione opposta, rispetto a quanto descritto finora. Si estrae il cerchietto dal liquido, abbassando lentamente il tavolinetto. Si potrà così osservare un allungamento crescente del dinamometro, fino ad arrivare ad un valore massimo F2. Continuando ad abbassare il tavolinetto, si potrà osservare un distacco improvviso dell’anello dal liquido e una improvvisa contrazione del dinamometro. La differenza F2-F1 dà la forza con cui la tensione superficiale agisce sull’anello. Sulla base della definizione data, per ottenere τ si deve dividere questo valore per la lunghezza del tratto interessato. In questo caso la lunghezza da considerare è pari al doppio della circonferenza dell’anello, per le stesse ragioni descritte precedentemente. Se r è il raggio dell’anello, il valore della tensione superficiale sarà dato da: τ= F2 − F1 4πr Un modo per vedere la tensione superficiale in azione è quello di osservare i vani sforzi che un insetto fa per uscire dall’acqua: una volta ‘forata’ la pellicola superficiale dell’acqua, questa - per minimizzare la sua superficie - si avviluppa attorno al corpo dell’insetto, intrappolandolo. Al contrario, gli insetti pattinatori come le idrometre e i gerridi, sfruttano la tensione superficiale per pattinare sull’acqua senza affondare: possono così spostarsi sull’acqua e cibarsi di quegli insetti che vi rimangono invischiati dalle forze di tensione superficiale. Questi insetti che camminano sull’acqua sono provvisti di peli superficiali ricoperti di oli, cioé sostanze idrofobe che respingono l’acqua e permettono alla parte terminale delle zampe, costituita da tarso e pretarso, di non forare la membrana superficiale dell’acqua. 31 Figura 20: Insetto pattinatore La capacità di pattinare sull’acqua non è però una caratteristica propria soltanto degli insetti: ne è capace anche il basilisco. Sebbene il basilisco sia più conosciuto come una creatura mitologica (un serpente con ali di pipistrello, testa e zampe di gallo), in realtà, un animale con questo nome esiste ed appartiene al genere dei Rettili Sauri della famiglia degli Iguanidi. Vive nelle foreste sudamericane e, da adulto, può raggiungere gli 80 g di peso e i 70-80 centimetri di lunghezza, compresa la coda che da sola rappresenta i due terzi dell’intero corpo. Figura 21: Basilisco 32 A causa del suo peso da adulto, la stupefacente abilità di correre sull’acqua è una prerogativa del basilisco giovane, ovvero di esemplari con un peso fino a circa 25 g. Infatti, solo esemplari di questa taglia possono correre sull’acqua sostenuti dalla tensione superficiale, raggiungendo velocità fino a circa 12 km/h. In particolare, il basilisco corre in posizione semieretta rizzandosi sulle zampe posteriori e utilizzando la lunga coda come bilanciere. Figura 22: Basilisco che corre sulla superficie dell’acqua Dunque, sebbene i basilischi sfruttino forze dinamiche, a differenza degli insetti pattinatori che sfruttano le forze statiche della tensione superficiale, né gli uni né gli altri perforano la membrana superficiale dell’acqua. 2.2 Bagnabilità La bagnabilità è quella situazione in cui una superficie liquida e una superficie solida entrano in contatto tra di loro, stabilendo una situazione di equilibrio nella quale la risultante delle interazioni molecolari tra le varie interfacce coinvolte è tale da garantire la stabilità della struttura26. Per comprendere questo fenomeno bisogna considerare che le molecole di un liquido sono soggette ad una forza di coesione che le mantiene unite le une alle altre; ma esiste anche una forza di adesione che rappresenta la forza con cui le molecole del liquido aderiscono alla superficie di un materiale con cui vengono in contatto. Quando le forze di adesione sono grandi rispetto alle forze di coesione, il liquido tende a bagnare la superficie; quando invece le forze di adesione sono piccole rispetto a quelle di coesione, il liquido tende a “rifiutare” la superficie. A questo proposito si parla 26 http://it.wikipedia.org/wiki/Bagnatura 33 di bagnabilità tra liquidi e solidi. Ad esempio, l’acqua bagna il vetro pulito, ma non bagna la cera. Se si depone una goccia di un liquido sulla superficie liscia di un solido, a seconda della bagnabilità del liquido nei confronti di quel solido, la goccia formerà un determinato angolo di contatto con il solido. Facendo riferimento alla figura sottostante, se l’angolo di contatto è inferiore a 90°, il solido viene definito bagnabile; se l’angolo di contatto è maggiore di 90°, il solido viene definito non bagnabile. Un angolo di contatto pari a zero indica completa bagnabilità. Per misurare l’angolo di contatto si può usare un goniometro e un righello27. Figura 23: L’angolo di contatto di un liquido con un solido viene utilizzato come indice di bagnabilità. Per α<90° il liquido bagna la parete (es. acqua su vetro); per α>90° il liquido non bagna la parete (es. mercurio su vetro). Se α=0°, il liquido bagna perfettamente la parete. 2.3 Capillarità La capillarità è l’insieme dei fenomeni dovuti alle interazioni fra le molecole di un liquido e quelle di un solido (per esempio le pareti di un recipiente) sulla loro superficie di separazione. I suoi effetti si manifestano per esempio sulla superficie del liquido in contatto col recipiente, che può presentarsi sollevata rispetto alla superficie lontana dal bordo del contenitore (questo accade per esempio nel caso dell’acqua), poiché le forze di adesione tra l’acqua ed il recipiente che la contiene sono maggiori delle forze di coesione tra le molecole d’acqua, o più bassa (per esempio nel caso del mercurio) rispetto al resto della superficie, perché in questo caso sono le forze di coesione a prevalere rispetto 27 http://www.funsci.com/fun3_it/esper2/esper2.htm 34 alle forze di adesione. Quando la superficie di un liquido è curva, nella parte concava si genera una pressione maggiore di quella esistente nella parte convessa. Per ristabilire l’equilibrio tra queste pressioni, il liquido dovrà salire o scendere di un certo tratto all’interno del recipiente. Il fenomeno è più evidente nei tubi capillari, poiché in questi è maggiore la parte di liquido a contatto con le pareti del recipiente rispetto al volume totale. Di conseguenza, la parte di liquido che genera le forze di coesione sarà maggiore e perciò lo spostamento del livello del liquido all’interno del capillare sarà più grande. Il nome capillarità deriva dal fatto che il fenomeno è particolarmente evidente nei tubi sottili, di sezione paragonabile a quella di un capello. Dalla capillarità dell’acqua deriva l’imbibizione, ossia il movimento verso l’alto delle molecole d’acqua che gonfiano la sostanza imbevuta. Dato un liquido in un contenitore, il punto centrale della superficie, che sia gonfio verso l’alto come per l’olio o il mercurio, o verso il basso come nel caso dell’acqua, si chiama menisco28. Figura 24: Il diverso comportamento dell’acqua e del mercurio in presenza di un capillare Il fenomeno della capillarità può essere spiegato molto bene attraverso gli esperimenti effettuati da Boys nella sua celebre opera “Le bolle di sapone e le forze che le modellano”. Boys pone davanti ad una lanterna magica una 28 http://it.wikipedia.org/wiki/Capillarità 35 bacinella contenente acqua colorata di blu, in modo che si possa vedere più facilmente. Vi immerge un tubicino molto sottile di vetro e subito l’acqua vi affluisce, fermandosi circa un centimetro e mezzo sopra al livello che ha nella bacinella. L’interno del tubo è bagnato: la pelle elastica dell’acqua aderisce perciò nel tubo e sale tirando con sé l’acqua, finché il peso dell’acqua sollevata sopra al livello normale è pari alla forza esercitata dalle forze molecolari. Se si prende un tubo con diametro circa doppio del primo, questo effetto di spinta che ha luogo tutto intorno al tubo fa salire un peso doppio d’acqua, ma non fa salire l’acqua a un’altezza doppia, perché, a parità di altezza, il tubo più largo contiene molta più acqua di quello più sottile. Non solleva l’acqua neppure fino all’altezza raggiunta nel tubo più stretto, perché se l’acqua arrivasse così in alto il suo peso sarebbe quattro volte superiore, e non solo doppio come si potrebbe pensare in un primo momento. Nel tubo più largo l’acqua sale perciò soltanto a metà altezza, e, ora che i due tubicini sono uno accanto all’altro, si può notare che nel tubo più sottile l’acqua è alta il doppio rispetto al livello dell’acqua contenuta nel tubo più largo. Supponiamo ora di avere molti tubicini di tutte le misure e di disporli in fila, in ordine di grandezza. Se li immergiamo tutti in un recipiente contenente acqua, questa salirà più in alto nel tubo più sottile, e a un livello sempre più basso negli altri tubicini della fila, finché in un tubo molto largo non si riuscirà addirittura a capire se l’acqua ha effettivamente un livello più alto rispetto a quello nel recipiente29. Figura 25: La capillarità è quel fenomeno che permette all’acqua di risalire i tubicini 29 C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, Bologna, 1974 36 2.4 Il percorso più breve fra n punti e le superfici minime È facile trovare in matematica problemi di questo tipo: Siano fissati tre punti del piano; si cerchi di capire come è possibile ottenere un cammino che congiunga i tre punti, in modo tale che la lunghezza totale del percorso sia la minore possibile. Questi problemi possono essere generalizzati fino a un numero molto elevato di punti. Il matematico tedesco Jacob Steiner fu uno tra i primi ad occuparsene. Sono problemi in cui ci si può imbattere anche nella vita di tutti i giorni. “È ben noto che se si vogliono collegare tra loro due punti, il cammino più corto che li unisce è il segmento rettilineo da uno all’altro. Per raggiungere una località da un’altra, la via più conveniente, se non vi sono altri ostacoli, è quella rettilinea. Se invece di due località se ne considerano tre e si vuole costruire un sistema di strade che le colleghi in modo che la lunghezza totale della strada sia la minima possibile, indicando con A, B e C i tre punti, la configurazione che si ottiene è quella della figura seguente, formata da tre segmenti che si incontrano in un punto centrale O”30. B O A C Figura 26: Problema di Steiner per tre punti 30 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 239240 37 La soluzione è importante non solo dal punto di vista pratico, per esempio per la costruzione di strade, ma per un qualsiasi altro caso in cui vogliamo collegare tra loro un certo numero di punti con il cammino più corto possibile. “Il primo a porre il problema di Steiner per tre punti fu Pierre Fermat (1601-1665). Nella Figura 26, gli angoli formati dai segmenti sono non a caso di 120°”31. Per quanto riguarda il problema di Steiner, è possibile realizzare un modello con lamine di sapone. Si considerino due lamine di plastica, distanziate da alcune sbarrette uguali, fissate nei punti che si vogliono collegare. Se si immerge il tutto nell’acqua saponata e poi lo si estrae, si osserva che tra le diverse sbarrette si formano delle lamine saponate. Dopo qualche secondo, necessario per raggiungere l’equilibrio, è possibile osservare in che modo la lamina si sia disposta. Figura 27: Esperimento con lamine di sapone 31 Ibidem, p.240 38 “Un caso particolarmente interessante è quello in cui si considerano quattro punti posti ai vertici di un quadrato. Una formulazione corretta del problema potrebbe sembrare quella di trovare un punto per cui è minima la distanza dai quattro punti assegnati. La soluzione in questo caso è il punto P, in cui si incontrano le diagonali del quadrato”32. Questa però non è la soluzione migliore: se teniamo in considerazione le leggi di Plateau (“le lamine si possono incontrare tre alla volta e formano angoli di 120° fra loro”) si può intuire che, nel caso delle diagonali del quadrato, gli angoli hanno una misura inferiore a quella prevista da Plateau e quindi il percorso può essere migliorato. Infatti, se si cercano configurazioni a forma di doppia Y, ci si accorge che questa soluzione corrisponde a un cammino più breve. Nella Figura 28 si può vedere ciò che si è ottenuto dopo aver immerso in acqua saponata due lamine di plastica collegate da quattro sbarrette. Figura 28: Esperimento con lamine di sapone 2.5 Proprietà isoperimetriche Perché si forma una bolla di sapone? Soffiando su una lamina, immersa precedentemente in soluzione saponata, la superficie si espande e, quando 32 Ibidem, p. 241 39 smettiamo di soffiare, essa tende all’equilibrio. La bolla assume la forma di una sfera perché, a parità di volume d’aria contenuta, questo solido ha la superficie più piccola rispetto a qualsiasi altro. Questa osservazione si deve ad Archimede e poi a Zenodoro (200 – 100 a.C.); ma solo nel 1884 essa venne dimostrata dal matematico Schwarz: questa proprietà è detta isoperimetrica e vale nel piano euclideo e nello spazio a tre dimensioni. La proprietà isoperimetrica afferma che la circonferenza racchiude la massima superficie con il minimo perimetro e la sfera, che è l’equivalente della circonferenza nello spazio tridimensionale, è il solido che ha il massimo volume a parità di superficie. Probabilmente questa proprietà era nota anche nell’antichità, anche se solo empiricamente. Nell’Eneide, libro I, v. 360 – 368, Virgilio racconta: Quindi Dido commossa, ordine occulto Di fuggir tenne, e d’adunar compagni; che molti n’adunò, parte per odio, parte per tèma di sì rio tiranno. Le navi che trovar nel lido preste, caricar d’oro, e far vela in un subito. Giunsero in questi luoghi, ov’or vedrai sorger la gran cittade e l’alta rocca de la nuova Cartago, che dal fatto Birsa nomossi, per l’astuta merce che, per fondarla, fèr di tanto sito quanto cerchiar di bue potesse in tergo33. La leggenda a cui allude Virgilio è quella secondo cui Didone, arrivata in Africa, chiese al potente re Iarba, re dei Gentili, un tratto di terra per potervi costruire una città. Il re, non volendogliela concedere, le assegnò in segno di scherno tanta terra quanta Didone ne potesse circondare con la pelle di un bue. L’astuta Didone tagliò la pelle in strisce sottilissime e delimitò con queste un ampio lotto di terra adiacente al mare, dove poi costruì Cartagine. Didone risolse brillantemente il problema disegnando un semicerchio, massimizzando così la superficie della nuova città. 33 M. Emmer, Le bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 89 40 Figura 29: Ricostruzione di Cartagine Il problema isoperimetrico “Tra tutte le figure piane che hanno lo stesso perimetro trovare la figura che racchiude l’area più grande”, che se non ha altri vincoli, ha come risposta il cerchio, è stato trattato per la prima volta da Pappo, nel V libro dei suoi volumi di fisica e matematica, intorno al 390 a.C. Didone aveva quindi risolto un problema di massimi e minimi. I matematici pensano che Didone fosse a conoscenza, anche se solo empiricamente, della proprietà isoperimetrica e che la sfruttò a proprio vantaggio. Il classico problema isoperimetrico risale all'antichità. Il problema può essere posto nel modo seguente: fra tutte le curve chiuse nel piano di perimetro fissato, quale curva (se esiste) massimizza l’area della regione inclusa? Si può mostrare che questo problema equivale a cercare fra le curve chiuse nel piano, fissata l’area della regione inclusa, quella che minimizza il perimetro. Anche se il cerchio appare una ragionevole soluzione al problema, la dimostrazione di questo fatto è piuttosto difficile. Il primo passo verso la soluzione fu fatto da Jakob Steiner nel 1883. Steiner iniziò con alcune considerazioni geometriche facilmente comprensibili: per esempio si può dimostrare che qualsiasi curva chiusa che includa una regione non completamente convessa può essere modificata includendo un’area maggiore, 41 girando le aree concave per farle diventare convesse. Si può inoltre mostrare che ogni curva chiusa che non sia simmetrica può essere deformata così da includere un’area maggiore. La forma che è perfettamente convessa e simmetrica è il cerchio, l’unica curva che massimizza l’area, anche se questa non è una dimostrazione rigorosa del problema isoperimetrico34. Un altro modo per arrivare alla soluzione è cominciare a studiare le proprietà dei poligoni, in particolare iniziando dai rettangoli. È facile verificare attraverso alcuni esempi che fra tutti i rettangoli di perimetro fissato il quadrato è quello di area massima. Si può anche dire che, fra tutti i rettangoli di area fissata, il quadrato ha perimetro minimo. Quindi in generale vale la seguente proprietà: Fra tutti i poligoni con un numero fissato di lati e di ugual area, il poligono regolare è quello che ha perimetro minimo. Quindi Fra tutti i poligoni con un numero fissato di lati di ugual perimetro, il poligono regolare è quello che ha area massima. Questo significa in particolare che: fra tutti i triangoli di area fissata, il triangolo equilatero ha il perimetro minimo; fra tutti i quadrilateri di area fissata il quadrato ha il perimetro minimo e questa proprietà può essere generalizzata a poligoni con un numero di lati più grande. Possiamo domandarci adesso: a parità di area, potendo utilizzare un numero qualsiasi di lati, qual è il poligono il perimetro minimo? Per quanto osservato sopra ci si può limitare a considerare solo i poligoni regolari. Si può inoltre verificare facilmente che, a parità di area, più lati ha il poligono regolare, più piccolo è il suo perimetro. 34 http://www.mat.uniroma1.it/people/montefusco/dido.pdf 42 Figura 30: Considerando vari poligoni regolari con un numero diverso di lati, che abbiano tutti la stessa area, si osserva che il perimetro diminuisce al crescere del numero dei lati 35 Allo stesso modo si può verificare che, a parità di perimetro, l’area di un poligono regolare aumenta al crescere del numero dei suoi lati. 35 Figura tratta da http://web.unife.it/progetti/matematicainsieme/schiume/index.html 43 Figura 31: A parità di perimetro, più lati ha il poligono regolare, più aumenta l’area 36 In quest’ottica, la circonferenza viene considerata come un poligono regolare, con un numero infinito di lati. Figura 32: A parità di area, la circonferenza ha il perimetro più corto di qualsiasi poligono regolare I ragionamenti fatti, validi per il piano, possono essere generalizzati allo spazio. Questa volta prendiamo in considerazione i parallelepipedi. È facile verificare che tra tutti i parallelepipedi che hanno lo stesso volume il cubo ha la superficie minima. E, come il cerchio possiede la proprietà isoperimetrica nel piano, la sfera la 36 http://web.unife.it/progetti/matematicainsieme/schiume/index.html 44 possiede nello spazio tridimensionale: A parità di superficie esterna, il solido che contiene maggior volume è la sfera. Quindi Assegnato un volume da contenere, la sfera è quel solido che contiene quell’assegnato volume con la minor superficie esterna. 2.6 Il problema di Plateau Se si immerge un contorno chiuso fatto di filo di ferro in un liquido di bassa tensione superficiale e poi lo si toglie, su questa cornice si distenderà una lamina avente la forma della superficie di area minima. “Se proviamo a legare un filo a due punti diametralmente opposti di un telaio, ad esempio a forma di U, lasciandolo piuttosto lento e lo immergiamo in acqua saponata; quando lo tiriamo fuori, c’è una pellicola tesa sopra di esso, nella quale il filo si muove affatto liberamente. Se rompiamo questa pellicola da una parte, la pellicola rimasta tira immediatamente il filo dalla parte opposta, quanto più le è possibile, fino a quando il filo diventa teso. Si può notare che questo filo si è disposto come un perfetto arco di cerchio, perché questa forma geometrica è quella che consente di avere la massima superficie possibile da una parte, e quindi la minima dall’altra, dove è tesa la pellicola di sapone. È possibile utilizzare anche un telaio a forma di anello; nella parte centrale di questo il filo per un breve tratto è doppio. Se rompiamo la pellicola tra i due fili, essi vengono immediatamente tirati in direzioni opposte fino a formare una circonferenza perfetta, perché questa è la forma che consente di avere un’area massima all’interno, lasciando così all’esterno la minima superficie possibile”37. Intorno alla metà del diciannovesimo secolo il fisico belga Plateau inizia lo studio delle forme assunte dalle lamine saponose. Plateau sfrutta le proprietà fisiche dell’acqua saponata per trovare forme del tutto nuove. “Una delle prime figure di equilibrio di cui si occupa Plateau è la catenoide, figura di rotazione ottenibile 37 C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, Bologna, 1974, p. 43 45 ruotando attorno ad un asse verticale z in un riferimento cartesiano xyz una curva detta catenaria38. La catenoide è una superficie di area minima39; utilizzando le lamine di sapone 38 La catenaria è la forma di una fune ideale appesa per i due estremi. Per “fune ideale” si intende che la fune è perfettamente flessibile, inestensibile, senza spessore e con densità uniforme. La catenaria ha moltissime applicazioni in tanti campi. Eulero trovò che la superficie laterale del solido di rotazione generato da una catenaria, la catenoide, è la superficie minima tra due circonferenze della stessa grandezza. La superficie di rotazione della catenaria è l’unica superfice di rotazione, insieme al piano, ad essere superficie minima; questo si può vedere immergendo in una vasca piena di acqua e sapone due circonferenze uguali distanziate: la bolla di sapone che si formerà si disporrà per avere superficie minima e questa avrà proprio la forma di una catenoide. 39 “Alle estremità di un tubo corto faccio due bolle di sapone normali e se tiro una delle due bolle con un altro tubo scorrevole do alla bolla la forma di un cilindro. Tramite un tubicino soffio aria nel cilindro in modo che il suo profilo risulti perfettamente dritto. La pressione nelle due bolle ora dovrebbe essere esattamente la stessa, poiché il passaggio dell’aria tra le due è libero. Misurandole, si può constatare che il diametro della sfera è esattamente doppio di quello del cilindro; ma la curvatura di questa sfera è la metà di quella di una sfera che avesse un diametro lungo la metà del suo: perciò il cilindro, che come sappiamo ha la stessa curvatura della sfera grande, dato che i due si equilibrano, ha soltanto metà della curvatura che avrebbe una sfera del suo stesso diametro, e in esso la pressione è soltanto la metà di quella che ci sarebbe in una sfera del suo stesso diametro. Via via che si soffia dentro nuova aria, si vede la sfera ingrandirsi e diminuire dunque di pressione; il cilindro si assottiglia a metà altezza formando una strozzatura; non è più un cilindro e il suo profilo si incurva verso l’interno. Mano a mano che si continua a gonfiare e a ingrossare la sfera, la parete del cilindro è risucchiata sempre più verso l’interno, ma non indefinitamente. Se si gonfiasse la bolla sovrastante fino a farla diventare enorme, la pressione diventerebbe estremamente bassa: si riduce a zero se la bolla di sopra viene rotta lasciando così l’aria libera di passare dall’interno all’esterno di quello che prima era un cilindro. Ripetiamo l’esperimento in scala maggiore. Prendiamo due grandi anelli di vetro tra i quali si possa tendere una pellicola dello stesso tipo della precedente. Il profilo della pellicola di sapone è curvo, con la convessità verso l’interno, e ha esattamente la stessa forma che aveva assunto il cilindro più piccolo (descritto sopra). Se ciò è esatto, poiché non vi era pressione, non vi dovrebbe essere neppure curvatura. Osservando però la figura è innegabile affermare che non sia curva, però da quanto detto sopra eravamo convinti che la pressione e la curvatura crescessero e diminuissero insieme. Apparentemente si può affermare che la conclusione sia assurda. Si può dire che, poiché la pressione è ridotta a zero, la superficie non deve avere nessuna curvatura; eppure uno sguardo basta a convincerci che la pellicola è così curva da rivelare un profilo snello e elegantissimo. Osserviamo il modello in figura in modo minuzioso. Se prendiamo un disco con diametro esattamente uguale al diametro interno della figura nella sezione più sottile, e lo appoggiamo di taglio, come nella figura sopra, ebbene si può vedere che il suo contorno si adatta perfettamente nel tratto più vicino alla zona più sottile. Ciò dimostra che, questa parte del modello nell’immagine, vista di lato, appare curva verso l’interno tanto quanto apparirebbe curva verso l’esterno se si potesse osservarla dall’alto. Quindi, se viene considerata soltanto la sezione più sottile, essa appare curva in egual misura sia verso l’interno, sia in direzione opposta, secondo come la si guarda. La curvatura convessa verso l’interno tende a diminuire la pressione interna, e la curvatura convessa verso l’esterno tende ad aumentarla: poiché le curvature sono uguali, si equilibrano esattamente, e non c’è alcuna pressione. Se si potesse 46 è possibile ottenere una porzione finita della superficie, che si estenderebbe all’infinito”40. La catenoide si ottiene immergendo nell’acqua saponata un telaio formato da due anelli metallici, uniti da un manico di filo metallico in modo tale che siano paralleli e coassiali: l’equivalente delle due circonferenze del problema di area minima affrontato da Eulero. La pellicola che si viene a creare all’estrazione del telaio dall’acqua ha appunto la forma di una porzione di catenoide, a conferma della soluzione trovata da Eulero. Figura 33: Catenoide Plateau si rende conto di un fatto interessante che riguarda le catenoide: date le due circonferenze del problema di Eulero, quando i piani su cui queste giacciono sono abbastanza vicini, le catenoidi che passano dalle due circonferenze sono due, una più incurvata dell’altra. Entrambe le catenoidi sono superfici minime, ma solo una delle due risolve il problema dell’area minima. Questo caso offre un esempio di superficie minima che non è la superficie di esaminare allo stesso modo una bolla che si assottiglia a metà altezza formando una strozzatura, troveremmo che quello che abbiamo detto vale non solo per la zona più sottile ma anche per ogni altro punto del profilo. Una superficie come questa, ugualmente incurvata in ogni punto in direzioni opposte, si chiama superficie di curvatura nulla: è così spiegato ciò che prima sembrava assurdo”. C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, Bologna, 1974, p.49-52 40 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 157 47 area minima per un bordo assegnato. Dalle due catenoidi passanti dalle circonferenze date, quella più incurvata ha area maggiore e non può mai essere ottenuta come lamina saponata. Le superfici minime delle quali è possibile trovare un modello con lamine di sapone vengono chiamate stabili. Un’altra superficie minima considerata da Plateau è l’elicoide. Il fisico riesce ad ottenerla usando un telaio di filo di ferro modellato ad elica. Anche l’elicoide retto è una superficie minima considerata stabile. Figura 34: Elicoide Il principio generale che è alla base del lavoro di Plateau permette di realizzare tutte le superfici di curvatura media nulla e le superfici minime, di cui si riconoscono o le equazioni o la generatrice geometrica41. “Si tratta di tracciare un contorno chiuso qualsiasi con le sole condizioni che esso circoscriva una 41 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino. 48 porzione limitata della superficie che sia compatibile con la superficie stessa; se si costruisce quindi un filo di ferro identico al contorno in questione, si ottiene un insieme di lamine saponate che rappresenta la superficie in esame. Plateau non può fare a meno di notare che queste superfici si realizzano quasi per incantesimo”42. Per prima cosa Plateau si occupa della forma che si ottiene quando si soffia con la cannuccia in un liquido saponoso. Non si ottengono delle bolle di sapone sferiche, staccate le une dalle altre, ma un sistema di superfici saponose nessuna delle quali perfettamente sferica. Si formano delle lamine più o meno piatte, che separano tra loro le diverse bolle. “Se si considerano due bolle di sapone che vengono soffiate insieme e se in entrambe è contenuto lo stesso volume d’aria, si otterrà una struttura molto simmetrica. Se invece la parte d’aria contenuta in una è maggiore rispetto a quella dell’altra, la forma che si ottiene è del tipo mostrato nella Figura 35. Figura 35: Bolle che contengono diverse quantità d’aria Se dunque il volume d’aria nelle due bolle è uguale, la parete di separazione sarà piatta perché la pressione è la stessa da una parte e dall’altra della lamina. Nel caso di due bolle di volume diverso, la lamina non sarà piatta ma risulterà 42 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 161. 49 incurvata dalla parte della bolla più grande. In questo caso la lamina di separazione ha una curvatura diversa da zero, e per raggiungere l’equilibrio si ha una pressione maggiore dalla parte della bolla più piccola verso quella più grande. Essendo la differenza di pressione: P= τ R (dove R è il raggio della bolla e τ è la tensione superficiale), pertanto, più il raggio è piccolo, più forte è la pressione. Questa è quindi la soluzione che risolve il problema di minimizzare, assegnati due volumi d’aria, l’area della superficie totale. E la soluzione non ha più una semplice forma sferica”43. È interessante notare che in entrambi i casi gli angoli che le lamine formano nei punti di contatto con la parete di separazione sono sempre di 120°. Allo stesso modo si comporta un sistema di tre bolle. Plateau nota che in questo caso il sistema di lamine ha tre pareti di separazione che si incontrano per ragioni analoghe alle precedenti in angoli di 120°. Si possono poi aggiungere altre bolle e costituire un agglomerato complesso44. Quindi la grande scoperta di Plateau è la seguente: “Comunque elevato sia il numero di lamine di sapone che vengono a contatto tra loro, non vi possono essere altro che due tipi di configurazioni”45 “Precisamente le tre regole sperimentali che Plateau scopre a proposito delle lamine saponate sono le seguenti: 1. Un sistema di bolle o un sistema di lamine attaccate a un supporto in fil di ferro è costituito da superfici piane o curve che si intersecano tra loro secondo linee con curvatura molto regolare. 2. Le superfici possono incontrarsi solo in due modi: o tre superfici che si incontrano 43 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 163. Ibidem 45 Ibidem 44 50 lungo una linea o sei superfici che danno luogo a quattro curve che si incontrano in un vertice. 3. Gli angoli di intersezione delle superfici lungo una linea o delle superfici delle curve di intersezione in un vertice sono sempre uguali, nel primo caso a 120°, nel secondo caso a 109°28’. Qualunque sia il numero di bolle e lamine saponate che andiamo a costruire, gli unici tipi di angoli che formano le lamine sono del tipo indicato da Plateau46. Uno dei primi telaietti che Plateau prende in considerazione è a forma di cubo. Figura 36: Disposizione delle lamine in un telaio a forma di cubo Una volta immerso ed estratto il telaio, le lamine raggiungono la forma stabile in pochi secondi. Il sistema di lamine che si forma rispetta le regole degli angoli e inoltre le lamine vanno ad incontrarsi al centro in una lamina di forma cubica, che risulta sempre disposta parallelamente a una delle facce del telaio cubico. In un primo momento si potrebbe avere l’impressione che gli spigoli che si formano siano diritti; in realtà sono incurvati, come si nota guardando più 46 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 165166. 51 attentamente, perché se non lo fossero non rispetterebbero le regole sugli angoli. Figura 37: Disposizione delle lamine in un telaio a forma di prisma 2.7 L’acqua e le sue proprietà chimico-fisiche L’acqua è il principale composto chimico della biosfera: alla sua presenza e alle sue proprietà si deve l’esistenza stessa della vita in tutte le forme note. È un liquido trasparente senza odore né sapore ed è l’unico composto che possiamo trovare in natura sia allo stato solido (ghiaccio, neve e brina), sia allo stato liquido (mari, fiumi, laghi, sorgenti e pioggia), sia allo stato aeriforme (vapore acqueo). “L’acqua si presenta con formula chimica molto semplice: H2O, dove H sta per idrogeno e O per ossigeno. L’ossigeno e l’idrogeno sono due elementi chimici con numero atomico 1 e 8 rispettivamente e con peso atomico pari a 1 u.m.a. (unità di massa atomica) per l’idrogeno e 16 u.m.a. per l’ossigeno. Nonostante la formula sia semplice, l’acqua presenta caratteristiche particolari. Il legame tra l’ossigeno e l’idrogeno è un legame covalente; gli atomi sono 52 disposti nella molecola ai vertici di un triangolo isoscele. L’ossigeno, che è disposto al vertice superiore, attrae gli elettroni con una forza maggiore (si dice che è più elettronegativo). Studiando lo spettro di vibrazione-rotazione del vapore d’acqua è stato dimostrato che l’angolo di legame è di 104.5°”47. Dato che la forza con cui l’atomo di idrogeno attira l’elettrone di legame è minore di quella esercitata dall’ossigeno sullo stesso elettrone, la molecola d’acqua risulta dotata di una distribuzione di cariche elettriche non omogenea. Figura 38: Molecola polare Come si osserva dalla Figura 38, le estremità della molecola dove si trova l’idrogeno hanno una debole carica positiva, quelle dove sta l’ossigeno una debole (doppia) carica negativa. Ciò implica che, quando sono presenti molte molecole, tra le estremità con carica opposta si eserciti una attrazione elettrostatica spesso sufficiente a tenere le diverse molecole unite tra loro. Questa forza di attrazione prende il nome di legame a idrogeno e, per quanto più debole degli altri legami chimici, in un insieme di molecole a temperatura e pressione ambiente è in tale quantità da condizionarne fortemente il comportamento48. 47 www.progettosigla.it F. Bagatti, M. Braghiroli, E. Corradi, A. Desco, C. Ropa, Le idee della Chimica, Zanichelli, Bologna, 1995 48 53 Figura 39: Legami a idrogeno In condizioni normali di temperatura e di pressione, il gran numero di legami a idrogeno che le molecole d’acqua formano tra loro ne aumenta la coesione. Ciò comporta una elevata tensione superficiale della stessa. Come abbiamo già visto, sulla superficie dell’acqua manca per le molecole la possibilità di legarsi in tutte le direzioni, come accade invece all’interno del liquido stesso. L’adesione molecolare risulta quindi sbilanciata verso l’interno; l’effetto che ne deriva è analogo alla presenza di una forte pellicola elastica sulla superficie dell’acqua a contatto con l’aria. La tensione superficiale dell’acqua può essere facilmente percepita osservando la forma sferica delle gocce d’acqua. I legami ad idrogeno sono inoltre la causa di altri fenomeni fisici relativi all’acqua, tra cui si possono ricordare: l’andamento peculiare della densità in funzione della temperatura, la capillarità, il calore specifico e le sue proprietà di solvente. 2.8 Il sapone e le sue proprietà chimico-fisiche Il sapone è generalmente un sale di sodio o di potassio di un acido carbossilico alifatico a lunga catena; viene prodotto ed usato per sciogliere le sostanze grasse nei processi di pulizia. Si prepara per saponificazione, ovvero per idrolisi alcalina, di grassi di origine animale o vegetale, che porta alla formazione del sale carbossilico (il sapone) e di un alcool49. 49 http://it.wikipedia.org/wiki/Sapone 54 Figura 40: Esempio di una struttura chimica di un sapone La saponificazione è appunto la reazione chimica che trasforma la miscela di un estere (acido grasso) e di una base forte, generalmente la potassa caustica KOH o la soda caustica NaOH, in sapone e glicerolo, a una temperatura compresa tra 80 e 100 °C. L’idrolisi dei corpi grassi produce del glicerolo e una miscela di carbossilati di sodio o di potassio che costituisce il sapone50. La reazione di saponificazione è la seguente: Figura 41: R è una catena di atomi di carbonio e idrogeno. La soda caustica (NaOH) produce un sapone duro, mentre la potassa caustica produce un sapone morbido. Il sapone è considerato un tensioattivo. I tensioattivi sono sostanze che, sciolte in piccole quantità in acqua, ne diminuiscono la tensione superficiale, aumentando la bagnabilità delle superfici o la miscibilità tra liquidi diversi. La conseguenza è l’aumento delle proprietà schiumogene, emulsionanti, disperdenti e detergenti51. Hanno questa proprietà le sostanze organiche la cui molecola presenta una testa idrofila polare ed una coda lipofila apolare. Semplificando la rappresentazione, si può immaginare il tensioattivo come un cerino; il gambo ha 50 51 P. Silvestroni, Fondamenti di chimica, CEA, 1996 Ibidem 55 una struttura affine al grasso, mentre la testa è solubile in acqua. Figura 42: Rappresentazione semplificata di un tensioattivo La testa si rivolgerà sempre verso l’acqua, mentre la coda si attaccherà sempre al grasso. Numerosi tensioattivi, superata una certa concentrazione si organizzano in aggregati supramolecolari, chiamati micelle. Figura 43: Rappresenrtazione schematica di una micella “Questa condizione viene rilevata dalle variazioni improvvise delle proprietà chimiche e fisiche della soluzione. Al di sotto della concentrazione micellare critica le micelle sono completamente assenti. La micellizzazione dipende dal bilancio di due effetti principali: la tendenza delle code idrocarburiche ad evitare il contatto con l’acqua e la repulsione tra le teste cariche, un effetto destabilizzante sul processo di aggregazione. Le catene idrocarburiche, evitando il contatto con il solvente, puntano verso l’interno dell’aggregato, privo 56 di acqua, mentre la repulsione tra le teste cariche sulla superficie della micella è attenuata dalla presenza di ioni di carica opposta (controioni). L’associazione favorevole delle code apolari all’interno della micella avviene attraverso l’interazione idrofobica, che è l’effetto dominante nella formazione di questi grandi aggregati di molecole”52. Figura 44: A sinistra, la concentrazione della molecola anfilitica è minore della c.m.c. Al centro, la concentrazione è uguale alla c.m.c.: la micellizzaione ha inizio. A destra, aumenta il numero di micelle, mentre la concentrazione di molecole libere rimane costante I saponi sono sali dei metalli alcalini, sodio o potassio, di acidi grassi con una lunga catena alchilica. La loro azione consiste nel rimuovere lo sporco, portandolo in soluzione ed eliminandolo mediante lavaggio con acqua. Lo sporco è comunemente costituto da sostanza grasse, come l’olio, che sono polari e non possono sciogliersi in acqua. Le molecole dei saponi hanno una doppia funzionalità: la testa polare, elettricamente carica, partecipa alle interazioni attrattive con le molecole d’acqua circostanti, mentre la coda non polare può interagire con le molecole di grasso. In ambiente acquoso i saponi formano micelle. Le micelle intrappolano l’olio o il grasso nella regione interna, non polare, continuando a rimanere disperse nella soluzione acquosa mediante l’idratazione della superficie esterna formata dalle teste polari. L’ulteriore lavaggio con l’acqua porterà via le micelle. Acqua e grasso sono insolubili l’uno nell’altro, ed occorre un mezzo di trasporto, il sapone, per portare il grasso nella fase acquosa”53. 52 53 http://www.whatischemistry.unina.it/it/micella.html Ibidem 57 Figura 45: Una micella in acqua. All’interno vi è uno strato di grasso 2.9 Riflessione e interferenza 54 I colori iridescenti delle bolle di sapone sono causati dall’interazione con la luce solare e sono dovuti in particolare alla sottigliezza della pellicola. Non si tratta degli stessi colori dell’arcobaleno; piuttosto somigliano alle sfumature che si osservano su una macchia d’olio dell’asfalto bagnato. I colori che appaiono sulla pellicola sono dovuti ai fenomeni di riflessione e di interferenza della luce che la colpisce. “La pellicola di sapone si può considerare come un sandwich costituito da due strati di sapone che contengono uno strato di acqua saponata. Quando la luce illumina la superficie anteriore della pellicola, parte di essa viene riflessa, parte viene trasmessa e giunge alla superficie posteriore interna dove viene quasi completamente riflessa. Quindi la luce attraversa nuovamente la lamina e ritorna in aria. Incontrandosi con la luce riflessa dalla lamina anteriore si combina ad essa, dando luogo alle figure di interferenza, cioè a linee colorate, se la luce di partenza è bianca o a linee di un solo colore intercalate da linee scure se la luce iniziale è monocromatica”. Ecco una rappresentazione schematica dei processi che avvengono quando la luce incide su una bolla di sapone: 54 http://www.museoscienza.org/approfondimenti/online/bolle_di_sapone/ 58 Figura 46: Rappresentazione schematica dei processi che avvengono quando la luce incide su una bolla di sapone Quando la luce colpisce la lamina, di spessore d, il raggio incidente viene in parte riflesso dalla superficie superiore (raggio 1), in parte passa attraverso la lamina e quindi viene riflesso nel punto B dalla superficie inferiore. Il raggio di luce passa poi nuovamente attraverso la superficie superiore (raggio 2) ed esce dalla lamina. I raggi qui rappresentati si possono interpretare come la direzione di propagazione di onde piane, rappresentate come in Figura 46. Quando queste onde emergono dalla lamina, e mi riferisco all’onda 1 e all’onda 2, può succedere che si incontrino e che interferiscano tra loro, dando luogo alle figure di interferenza. Quest’ultima può essere costruttiva o distruttiva: si ha interferenza costruttiva quando le creste delle due onde si sovrappongono (Figura 47) si ha invece interferenza distruttiva quando le onde si distruggono vicendevolmente (Figura 48). 59 55 Figura 47: Interferenza costruttiva 56 Figura 48: Interferenza distruttiva In generale, la sovrapposizione di due onde potrà dar luogo a fenomeni più complessi rispetto ai due meccanismi molto schematici appena spiegati. Vi sono anche altre onde che emergono, dovute alle riflessioni multiple interne alla lamina, ma il loro contributo di interferenza è molto minore di quello delle onde 1 e 2. Figura 49: Onde riflesse e rifratte da una lamina saponosa 55 56 http://scienzapertutti.lnf.infn.it/concorso/banzibazoli/miglioredeimondi/ipertesto/onde.htm Ibidem 60 Se si fa incidere sulla lamina una luce bianca, sulla bolla si osservano strisce di tanti colori. La luce bianca è il risultato della sovrapposizione di luce di molti colori differenti, cioè di radiazioni di lunghezze d’onda diverse che si separano per rifrazione all’interno della lamina. Ogni lunghezza d’onda dà luogo ad un sistema separato di frange. Figura 50: Raggio di luce che colpisce la superficie esterna ed interna della bolla di sapone Quando tutte le onde dei vari colori interferiscono costruttivamente si può vedere un’unica banda larga di colore bianco. I colori che si vedono, come già detto, non coincidono con quelli dell’arcobaleno per il sovrapporsi delle frange di interferenza che corrispondono a diverse lunghezze d’onda. Se, per esempio, in un punto si incontra un massimo di interferenza della luce violetta con un minimo di interferenza della luce rossa l’indebolimento delle lunghezze d’onda più lunghe e il rinforzamento di quelle più corte provoca la comparsa di un colore bluastro. Il colore percepito dipende inoltre dalle caratteristiche dell’occhio: se colpito da luce dei tre colori rosso, verde, blu contemporaneamente percepisce luce di colore bianco. Se colpito da luce di colore rosso e verde contemporaneamente vede il giallo. Alla luce di quanto detto, se per esempio lo spessore della pellicola saponosa è tale per cui si ha il fenomeno dell’interferenza distruttiva di uno dei colori primari (rosso, blu e verde), cioè le onde che generano uno di questi colori si eliminano, l’occhio potrà percepire solo la mescolanza dei due colori rimanenti: 61 bianco – rosso = blu + verde = verde bluastro (ciano) bianco – verde = rosso + blu = blu rossastro (magenta) bianco – blu = rosso + verde = giallo Se si considera ad esempio una zona dove si vede il colore blu, lo spessore della lamina in quel punto è tale per cui interferiscono costruttivamente le radiazioni di lunghezza d’onda corrispondente al colore blu. In una lamina saponosa posta verticalmente è molto facile individuare una zona in cui lo spessore è più piccolo che nel resto della lamina, e nella quale avverrà la rottura: si tratta in genere della parte superiore della membrana, che appare di colore nero perché il suo spessore è così piccolo che tutti i raggi vi interferiscono distruttivamente. Infatti nella parte alta della lamina lo spessore è più piccolo, perché l’acqua tende a scendere per gravità. La zona bianca invece compare in corrispondenza di un certo spessore dove tutti i colori interferiscono costruttivamente. I colori delle bolle di sapone e delle lamine saponose hanno la seguente successione partendo dall’alto: 1. nero 2. bianco 3. giallo 4. porpora 5. blu 6. verde Come abbiamo visto, la successione dei colori dipende proprio dallo spessore della lamina, che è un fattore determinante dell’interferenza. 62 Capitolo 3 Il valore formativo della scienza “Qual è l’immagine della scienza? Quali caratteristiche le assegna il senso comune?”57 Le risposte a queste domande sono svariate, ma ritengo che alcune siano fondamentali per iniziare un percorso didattico riguardante la scienza. La scienza è percepita come oggetto unico. Nel senso comune, non esistono le scienze, se non per il dettaglio del differente campo di applicazione, ma soltanto la scienza. Inoltre, questa scienza unificata è percepita dai più come un processo di accumulazione ordinata, privo dei momenti di conflitto tra correnti di pensiero che caratterizzano ad esempio, la filosofia o l’arte. La scienza è vista come qualcosa senza tempo e senza storia, priva quindi di dinamicità. È vista come una struttura sociale indipendente, ossia come un modo di pensare e di essere di un determinato gruppo sociale, gli scienziati per l’appunto. Il pensiero scientifico viene visto più come un mestiere di alcuni che come una parte della mente di tutti. L’idea di scienza inoltre è incapsulata nella categoria della certezza. Questo è uno dei più inossidabili luoghi comuni del nostro tempo58. Questo secolo ha inferto un colpo definitivo alla coppia “scienza-certezza”, in tutti i campi e in tutte le discipline. “La scienza infatti è fondata sulla curiosità, sull’incertezza e sull’indeterminazione, sulla delimitazione della domanda, sull’insinuazione sistematica del dubbio, sulla prudenza interpretativa, sull’equilibrio, sul gusto e sul rispetto della distinzione tra le cose, sulla trasparenza delle procedure”59. Il dominio del modello positivistico e neopositivistico di scienza e di fare scienza è ormai tramontato. Questo tramonto è avvenuto attraverso un poderoso lavoro di analisi critica, di studio delle sue strutture logiche e storiche, di rilettura delle sue crisi e delle sue fasi di crescita; protrattosi per molti decenni, è stato segnato da una visione più 57 L. Caneva Airaudo, A. Volpi, La scienza in gioco, Carocci Faber, 2006, p. 9 Ibidem 59 Ibidem, p. 11 58 articolata, più flessibile, più problematica, più storica della scienza. Intanto dal metodo si è passati ai metodi, riconoscendo che non è solo e sempre il metodo sperimentale a guidare il lavoro scientifico: lo scienziato utilizza anche il pensiero astratto, i ragionamenti per analogia, la creatività. Nel fare scienze si è posta in luce, oltre al ruolo delle ipotesi, dei loro conflitti e della loro verificazione/falsificazione, anche la possibilità di giungere a una conclusione sbagliata, che svolge un ruolo di “critica e crescita” della scienza, poiché stimola il ripensamento di teorie e costringe la scienza a essere un cantiere in continua attività. “Siamo davanti a un’idea del lavoro scientifico diversa: più critica, più aperta, più plurale, più flessibile, più dialettica”60. Alla scienza oggi va riconosciuto un valore importante nella nostra cultura: un valore cognitivo e sociale prima di tutto, ma anche un valore formativo. La scienza di fatto ha aperto all’uomo una nuova visione del mondo, libera da superstizioni, da mitologie e da condizionamenti ideologico-sociali, fondata sulla ragione e sulla libertà. La scienza è stata quindi una via di liberazione e di dominio della realtà, non più subita, ma legata sempre più ai bisogni dell’uomo. La scienza utilizza una ragione critica, che interpreta e ordina i dati dell’esperienza per indagare i meccanismi della natura. Sia l’antitradizionalismo che la razionalità critica danno avvio ad una nuova visione del mondo, laica, razionale e scientifica, che deve essere il prodotto della stessa trasmissione del sapere. Qua entra in gioco il modo di insegnare scienze. La scuola deve sicuramente considerare la centralità dell’ordine sistematico in tutti i saperi che veicola: deve svilupparli secondo un piano articolato e preciso nella loro struttura scientifica. Questa dimensione però lascia in ombra il fare scienze, la sua varietà di percorsi e la sua problematicità. Nella scuola insegnare scienze è spesso servirsi di manuali, commentarli, ripetere insieme. L’insegnamento è soprattutto manualistico, poco sperimentale e poco riflessivo. La scienza si dovrebbe fare di più nei laboratori. È proprio la dimensione di vivere la scienza che bisognerebbe incoraggiare. Solo in questo modo può nascere una nuova didattica della scienza, non vista come una didattica e una competenza semplicemente applicativa, ma critica. Conoscere non significa arrivare ad una 60 Ibidem, p. 13 64 verità certa ed assoluta, quanto al contrario dialogare con l’incertezza e interrogarsi costantemente sui propri errori, frutto di un processo di pensiero e di azione. Edgar Morin, riprendendo il motto di Montagne, dice che è “meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”61: piuttosto che accumulare conoscenze, è preferibile acquisire un metodo per trattare, organizzare, orientare con un senso i propri saperi. “Morin afferma che l’attitudine generale della mente a porre e a trattare i problemi permette ancor meglio lo sviluppo di competenze particolari o specializzate. Più potente è l’intelligenza generale, più grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali. L’educazione deve favorire l’attitudine generale della mente a porre e a risolvere i problemi e contemporaneamente deve stimolare il pieno impiego dell’intelligenza generale. Questo impegno richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva dell’infanzia e dell’adolescenza, la curiosità, che troppo spesso l’insegnamento spegne e che, al contrario, è necessario stimolare o risvegliare, se sopita. Si tratta di incoraggiare, di spronare l’attitudine indagatrice, e di orientarla sui problemi fondamentali della nostra stessa condizione e del nostro tempo”62. Ciò non può essere inscritto in un programma, ciò può essere animato solo da entusiasmo educativo. “Lo sviluppo dell’intelligenza generale richiede di legare il suo esercizio al dubbio, lievito di ogni attività critica, che permette di ripensare al pensato, ma comporta anche il dubbio del suo stesso dubbio. Deve far appello all’arte dell’argomentazione e della discussione”63. È necessario poi sviluppare la capacità di contestualizzare e mettere in relazione saperi ed esperienze diversi in un approccio pluridisciplinare. Si tratta di restituire alla scienza la sua natura sperimentale all’interno di un quadro di ricerca di senso che parte dall’esperienza concreta e viva di ciascuno. Quindi la manualità e la tecnica acquistano una loro dignità fondamentale perché non solo aiutano a combattere una visione troppo intellettualistica e astratta della scienza, ma perché l’intelligenza è un dato complesso fatto di sagacità, flessibilità d’animo, attenzione vigile e capacità di reazione operativa64. 61 Ibidem, p. 15 E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 16 63 Ibidem, p.16-17 64 L. Caneva Airaudo, A. Volpi, La scienza in gioco, Carocci Faber, 2006 62 65 Parlare di manualità, di esperienza concreta, di ricerca sperimentale significa parlare anche di tecnica. Quest’ultima ci mette in relazione con il nostro mondo materiale e sociale e ci dice che esso è legato al nostro agire. Molti dizionari definiscono la tecnica come l’insieme dei procedimenti usati per applicare delle conoscenze e ottenere dei risultati concreti. La tecnica purtroppo molto spesso viene vista come scienza applicata e così viene separata dall’educazione scientifica. “Troppo spesso la scuola, succube di una visone dualistica della conoscenza, scinde la teoria dalla pratica”65. Al contrario, gli oggetti della tecnica aiutano a comprendere, perché possono stimolare domande sui fenomeni fisici che permettono il loro funzionamento. L’educazione scientifica, intesa come educazione alla comprensione dei fenomeni della realtà umana e naturale, si collega con l’educazione tecnica, intesa come spazio dell’attività umana per realizzare oggetti concreti. C’è un processo creativo che avviene grazie a combinazioni, tentativi, prove, adattamenti, recuperi di esperienze e materiali, procedimenti e ragionamenti. “L’attività scientifica e la tecnica possono muoversi insieme e integrarsi. La prima si basa su procedimenti standardizzati che, semplificando, possiamo schematizzare in questo modo: formulazioni di ipotesi; verifica delle ipotesi attraverso osservazioni ed esperienze; analisi dei risultati”66. La strutturazione di un sapere, come risultato del processo, è legata all’interpretazione e alla comunicazione delle ricerche e delle esperienze. Questa dinamica ha bisogno di un processo creativo che va dalla formulazione di una funzione attesa (che traduce un bisogno) all’appropriazione e all’esplorazione degli eventuali prodotti già esistenti, alla definizione di nuovi prodotti e strumenti. In un approccio culturale della scienza più globale, è essenziale dare ai bambini la possibilità di recuperare all’interno del momento educativo della scienza il momento tecnico-operativo, la sperimentazione reale: il tutto all’interno di un contesto anche ludico e piacevole. Troppo spesso ci si accorge che è la motivazione ad essere carente nei bambini: un collegamento 65 66 Ibidem, p. 17 Ibidem 66 più stretto tra queste dimensioni teoriche e pratiche può essere di enorme aiuto. “Proprio a proposito del gioco, molti studiosi sono concordi nell’affermare che, nella crescita di ogni individuo, il gioco riveste un ruolo di capitale importanza”67. Tra le molte valenze che il gioca ha, e che sono trasversali a tutte le culture, c’è anche quella di consentire al bambino di misurare se stesso: nei confronti della realtà e nei confronti della conoscenza di sé. Allo stesso modo l’attività manuale svolge il doppio compito di rappresentare e mantenere vivi i valori propri di una cultura e di avviare uno stretto rapporto tra la persona e il mondo della materia. Vi è quindi un parallelismo tra il gioco e l’attività manuale, che spesso si trasforma in un’unica cosa, rendendo questi due momenti inseparabili nell’attività del bambino. Nell’infanzia giocare con l’acqua e con tutti gli elementi naturali è stata l’occupazione più entusiasmante e più ricca di apprendimenti. Un bambino che gioca con materiale non strutturato sta esplorando e allargando il suo mondo fantastico, ma sta anche sperimentando conoscenze, sull’incontro tra il suo corpo e la materia, che forse lo influenzeranno per tutta la vita. Da ciò e dalla possibilità di ripetere esperienze simili, o più articolate e complesse, prenderà forma la sua cultura personale, la sua visione del mondo e la sua percezione della realtà. Il gioco, la dimensione ludica può essere un forte elemento di costruzione del senso della realtà, Anche perché è una delle modalità principali dell’esistenza: il gioco attrae sempre perché risponde a un bisogno profondo della persona68. Si potrebbe affermare che questo bisogno corrisponde al sentimento di essere liberi unito a quello di avere la possibilità di esercitare un potere. Il bambino costruendo, facendo, riesce a concepire passo dopo passo l’oggetto che ha di fronte. In questo modo stabilisce delle successioni di operazioni concrete che chiariscono il progetto: misura, traccia, assembla, trasforma i materiali impadronendosi degli attrezzi necessari. Nel corso della fabbricazione il bambino è messo in condizione di provare, toccare, sperimentare, testare, modificare, ricominciare, arrivando ad apprendere i principi di funzionamento degli oggetti che di volta in volta ha davanti. Riesce infine a fare delle esperienze che possono condurlo a capire meglio le leggi 67 68 Ibidem, p.23 P.Borin, La mano e la mente, Carocci Faber, Roma, 2005 67 della natura69. 3.1 Il valore attribuito alla scienza e al bambino a partire dai programmi del 1985 fino alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo del 2007 I programmi del 198570, rispetto a quelli promulgati negli anni precedenti, rappresentano una grossa svolta, non soltanto in ambito scientifico: la scuola di fatto si adegua alle esigenze formative del fanciullo. Essa infatti per la prima volta concorre a sviluppare la creatività del bambino. L’attenzione che i programmi dell’85 mostrano nei confronti della creatività, corrisponde all’esigenza di promuovere nel fanciullo la consapevolezza di sé e delle proprie possibilità e di valorizzare una progressiva capacità di autonomia delle conoscenze sul piano personale e sociale. Il compito della scuola è quello di raggiungere un’alfabetizzazione culturale partendo dall’orizzonte di esperienze e di interessi del bambino per renderlo sempre più consapevole del mondo circostante. Inoltre “la scuola elementare promuove l’acquisizione di tutti i fondamentali tipi di linguaggio e un primo livello di padronanza dei quadri concettuali, delle abilità, delle modalità di indagine essenziali alla comprensione del mondo umano, naturale e artificiale. Essenziale a tal fine è anche la realizzazione di un clima sociale positivo nella vita quotidiana della scuola, organizzando forme di lavoro di gruppo e di aiuto reciproco e favorendo l’iniziativa, l’autodecisione, la responsabilità personale degli alunni. Sono queste le condizioni necessarie perché ogni alunno viva la scuola come ‘ambiente educativo di apprendimento’, nel quale maturare progressivamente la propria capacità di azione diretta, di progettazione e verifica, di esplorazione, di riflessione e di studio individuale. Pertanto, le sollecitazioni culturali, operative e sociali offerte dalla scuola elementare promuovono la progressiva costruzione della capacità di pensiero riflessivo e critico, potenziando nel contempo creatività, divergenza e autonomia di giudizio, sulla base di un adeguato 69 70 L. Caneva Airaudo, A. Volpi, La scienza in gioco, Carocci Faber, 2006 Programmi della Scuola Elementare, D.P.R. 12 febbraio 1985 68 equilibrio affettivo e sociale e di una positiva immagine di sé”. All’insegnamento scientifico viene attribuito il compito di permettere al bambino l’acquisizione di conoscenze e abilità che ne arricchiscano la capacità di comprendere e rapportarsi con il mondo, che lo pongano in grado di riconoscere quale sia il ruolo della scienza nella vita di ogni giorno e nella società odierna e quali siano le sue potenzialità e i suoi limiti. In particolare si afferma che è importante “lo sviluppo di un rapporto sempre più stretto e articolato tra il ‘fare’ ed il ‘pensare’”, visto come uno degli obiettivi fondamentali dell’educazione scientifica. Il fare, inteso come attività concreta manuale e osservativa, è riferimento insostituibile di conoscenze sia per le scienze della natura, sia per lo sviluppo di competenze tecnologiche. “La modalità dei nuovi programmi è quella centrata sull’insegnamento per problemi, attraverso la promozione di percorsi euristici che valorizzano l’esperienza diretta e la sperimentazione attiva. I bambini sono invitati assieme agli insegnanti a fare ricerca. È attraverso il coinvolgimento diretto che il bambino arriva a scoprire le regole che organizzano il mondo circostante. Attraverso l’azione il bambino costruisce le conoscenze, che fanno riferimento ad ambiti disciplinari correlati tra loro e che conferiscono unitarietà e consapevolezza al sapere stesso”71. Nelle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati del 200372, viene sottolineata di nuovo l’importanza dell’esperienza personale, delle conoscenze di ogni singolo bambino e del ‘fare’. Il sapere scientifico ha l’obiettivo di promuovere la nascita e lo sviluppo del pensiero critico, che aiuterà il bambino ad interpretare con atteggiamento positivo e aperto le esperienze della vita futura. Per queste ragioni le materie scientifiche vengono valorizzate sia per quanto riguarda l’atteggiamento dinamico e di ricerca che possiedono, sia per il fatto che contribuiscono alla maturazione personale di ogni bambino. Le Indicazioni nazionali per il curricolo del 200773 sono il documento ministeriale 71 D. Capperucci, Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione curricolare. Modelli teorici e proposte educative per la scuola delle competenze, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 26 72 Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola primaria 2003 73 M.P.I., Indicazioniper il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione,Roma, settembre 2007 69 di riferimento per l’odierna azione formativa. L’obiettivo della scuola è quello di formare ogni persona sul piano cognitivo e culturale affinché possa affrontare l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali presenti e futuri; l’istituzione scolastica è chiamata a realizzare percorsi formativi sempre più personalizzati, rispondenti alle inclinazioni personali, nella prospettiva di sviluppare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, estetici, corporei, spirituali e religiosi. La scuola inoltre deve dedicare particolare cura oltre che al singolo alla formazione della classe come gruppo, alla promozione di legami cooperativi fra i suoi componenti e alla gestione di inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La formazione di importanti legami di gruppo non contraddice la scelta di porre al centro dell’azione educativa la persona; al contrario è indispensabile per lo sviluppo della personalità di ognuno. La scuola inoltre fornisce le chiavi per apprendere ad apprendere, per costruire e trasformare le mappe dei saperi rendendole coerenti con la rapida e imprevedibile evoluzione delle conoscenze. Deve quindi elaborare gli strumenti di conoscenza necessari per comprendere i contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si trovano a vivere e operare. La scuola inoltre può e deve educare i bambini alla consapevolezza e alla responsabilità di un nuovo umanesimo, perché esistono relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità e del pianeta; perché da un lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona, dall’altro ogni persona tiene nelle sue mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità. Per questo motivo il bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei vari ambiti disciplinari e con la contemporanea elaborazione delle molteplici connessioni che possiedono. È fondamentale una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo. In vista di questo scopo la scuola deve conseguire alcuni obiettivi: 70 Insegnare a ricomporre, i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il pianeta, la natura, la mente, la storia - in una prospettiva complessa, rivolta a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri di insieme. Promuovere i saperi di un nuovo umanesimo: la capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; la capacità di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie; la capacità di vivere in un mondo in continuo cambiamento. Diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture. Questi obiettivi possono essere sviluppati fino dalle prime fasi della formazione degli alunni. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le espressioni artistiche e musicali sono occasioni per favorire l’apprendimento per via pratica che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più elaborate conoscenze teoriche e sperimentali. Allo stesso tempo, lo studio di contesti storici, sociali e culturali all’interno dei quali si sono sviluppate le conoscenze è condizione di una loro piena comprensione. In aggiunta, le esperienze personali che i bambini possiedono degli aspetti della natura, della cultura, della società e della storia sono importanti al fine della sensibilizzazione verso i problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo. Ma l’impegno indispensabile per arrivare a raggiungere questo obiettivo è ricreare insieme agli alunni le coordinate spaziali e temporali necessarie per comprendere la loro posizione rispetto agli spazi e ai tempi assai ampi della storia e della geografia umana, così come rispetto agli spazi e ai tempi molto più ampi della natura e del cosmo. Definire un tale quadro d’insieme è compito sia della formazione scientifica che della formazione umanistica. Nelle indicazioni nazionali per il curricolo le discipline sono divise in aree: ciò indica e suggerisce la possibilità di interazione e collaborazione fra le discipline, sia all’interno della stessa area, sia fra aree diverse. L’area matematico- 71 scientifico-tecnologica comprende argomenti di matematica, scienze dell’uomo e della natura, tecnologia tradizionale e informatica. Queste discipline contribuiscono in modo determinante alla formazione culturale delle persone e della comunità, sviluppando la capacità di mettere in stretto rapporto il ‘pensare’ e il ‘fare’; sviluppano inoltre la capacità di critica e di giudizio, la consapevolezza che bisogna motivare le proprie affermazioni, l’attitudine ad ascoltare, comprendere e valorizzare argomentazioni e punti di vista diversi dai propri. Consentono, in sintesi, all’individuo di manifestare la propria cittadinanza attraverso valutazioni e decisioni motivate. Tutte e tre le discipline dell’area hanno come elemento in comune il laboratorio, visto sia come spazio fisico, sia come momento in cui il bambino possa essere attivo nel progettare e nello sperimentare, nel formulare le proprie ipotesi e nel verificarle. “Il laboratorio è anche una comunità di apprendimento dove le conoscenze vengono costruite per mezzo dell’interazione con i compagni”74. Le conoscenze acquisite sono quindi il frutto del lavoro costruito dal gruppo, grazie alla valorizzazione del contributo di ogni componente. “L’astrattezza del pensiero trova una concreta applicazione nelle attività pratiche, mettendo gli alunni alla prova attraverso molteplici situazioni problematiche”75. Le scienze naturali e sperimentali dovranno adottare una metodologia euristica, che, partendo dall’esperienza diretta, accompagnerà il bambino nel passaggio da forme spontanee di pensiero a forme più organizzate e strutturate. La scuola inoltre deve cercare di sviluppare la naturale curiosità dei bambini verso la scoperta; deve essere in grado di incrementare la motivazione invece di frustrarla. Gli insegnanti dovranno essere in grado di selezionare alcuni temi sui quali lavorare in modo diretto e progressivamente approfondito, evitando l’enciclopedismo. Inoltre nella scuola primaria è opportuno utilizzare il gioco, che ha un ruolo cruciale nella comunicazione, nell’educazione al rispetto di regole condivise, nell’elaborazione di strategie adatte ai contesti. 74 D. Capperucci, Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione curricolare. Modelli teorici e proposte educative per la scuola delle competenze, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 206-207 75 Ibidem, p. 207 72 Capitolo 4 I metodi di insegnamento che favoriscono l’apprendimento anche nella scienza 4.1 La didattica laboratoriale In Italia la didattica laboratoriale ha ricevuto un impulso innovativo negli anni sessanta e settanta del Novecento ad opera di molti innovatori: Tra questi ricordiamo De Bartolomeis. Obiettivo dell’educazione, secondo De Bartolomeis, è la costruzione di un atteggiamento di ricerca critico, creativo e produttivo. Questo obiettivo può essere conseguito organizzando la scuola come una struttura a laboratori con utilizzazione programmata degli spazi sociali esterni. “Il laboratorio è un luogo fisico in cui materiali e attrezzature, metodologie, esperti sono a disposizione degli studenti perché facciano esperienze necessarie all’acquisizione di conoscenze e di abilità”76. L’attività di laboratorio si ispira a termini come progettualità, libertà, cooperazione, produttività, processi oggettivi e determinismo delle cose, che divengono punti di riferimento, sostituendo i termini obbligo, coazione, struttura istituzionale. Il valore di tali riferimenti è attestato da ciò che nei laboratori i bambini guadagnano in fatto di iniziativa, di partecipazione attiva, di originalità, di capacità di affrontare situazioni reali, di gratificazione, di collaborazione. L’attività non dipende prevalentemente dall’intervento del docente e quindi gli elementi necessari a svolgerla non tendono ad estinguersi con esso77. I laboratori possono garantire condizionamenti ambientali e organizzativi favorevoli con un alto grado di continuità, perché tali condizionamenti sono modi di essere di una struttura istituzionale. “In questo senso il laboratorio si presenta come: 76 F. De Bartolomeis, La professionalità sociale dell’insegnante. Formazione aggiornamento ambiente di lavoro, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 122 77 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005 un’occasione per scoprire l’unità e la complessità del reale, mai riducibile totalmente a qualche schematismo disciplinare; un contesto significativo di relazione interpersonale e di collaborazione costruttiva di fronte a compiti concreti da svolgere; un itinerario di lavoro euristico, che non scindendo teoria e pratica, esperienza e riflessione, corporeo e mentale, emotivo e razionale, è modello di esercizio riflessivo e di ricerca integrata; uno spazio di creatività che è in grado di accrescere l’autostima degli alunni e di valorizzare l’ampiezza e lo spessore delle competenze di ciascuno, facendole interagire e confrontare con quelle degli altri; un possibile luogo positivo di compensazione di squilibri e di disarmonie psico-educative; un’occasione per proporre agli alunni itinerari didattici significativi”78. Così strutturato, il laboratorio si configura come il bisogno di relazione, di socializzazione, di esplorazione, di costruzione, di fantasia, di avventura, di movimento, di fare da sé: tutti bisogni di cui hanno necessità i bambini per formarsi e per crescere. La caratteristica principale del laboratorio, dal punto di vista didattico, è la sua realizzazione con gruppi di alunni della stessa classe o di classi parallele o verticali, riuniti per livello di apprendimento, per eseguire un preciso compito o per assecondare liberamente interessi e attitudini comuni. Per quanto riguarda la formazione del gruppo, la scelta più opportuna è formare gruppi eterogenei, per evitare il ruolo discriminante delle differenze79. “Se l’attività prevalente è la ricerca, l’insegnante svolge la funzione di guida-supervisione. Non vengono esclusi momenti di insegnamento frontale, ma le attività prevalenti sono la discussione, la ricerca con l’aiuto dell’ insegnante, la ricerca autonoma in gruppo degli alunni. Questi ultimi si abituano così ad usare materiali e strumenti. Lo svolgimento delle attività richiede inoltre massima flessibilità nelle 78 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005, p. 18 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005, p. 18 E. Bottero, Il metodo di insegnamento, FrancoAngeli, Milano, 2007 79 74 attività di gruppo e nell’uso degli spazi e dei tempi”80. L’idea di ricerca cui fa riferimento De Bartolomeis è molto ampia e si ispira al pragmatismo deweyano. Nell’idea di De Bartolomeis sono previste varie forme di ricerca, il cui elemento unificante non è il metodo delle singole scienze, ma uno schema più generale. Lo schema di massima prevede i seguenti passaggi: determinazione dell’argomento, individuazione e selezione del problema, scopi della ricerca, raccolta dei dati, tabulazione, analisi, elaborazione e interpretazione dei dati, valutazione di procedimenti, fissazione dei risultati in maniera che siano comunicabili, eventuale valutazione dei risultati in vista di possibili applicazioni ed interventi. Questo schema mette in evidenza gli obiettivi principali del metodo: sviluppare abitudini di ricerca e riflessive, di conseguenza un metodo di lavoro. Più che concentrarsi sull’apprendimento dei contenuti è quindi necessario mirare all’apprendere ad apprendere81. L’attività proposta, nel laboratorio formativo, si deve prestare ad una manipolazione concreta. Un’attività puramente verbale, senza il passaggio al trattamento reale, non è sufficiente. Quando si parla si sottintendono cose date per scontate, che così non sono quando si tenta di tradurle in attività tangibili. L’attività deve implicare le operazioni cruciali. In una sessione di laboratorio non è possibile fare di tutto: è necessario focalizzarsi su alcune operazioni principali. È indispensabile che il docente sappia con precisione lo sviluppo della procedura che intende centrare, anche se non è detto che di questo siano consapevoli gli alunni. Costoro accetteranno di fare ciò che viene chiesto loro e, solo alla conclusione, in gruppo, si discuterà sulle azioni compiute e sul risultato ottenuto. L’attività non deve avere una soluzione unica. Questa affermazione può risultare sconcertante per coloro che considerano il laboratorio come il luogo dell’esercitazione meccanica, dell’addestramento concreto, dei passi obbligati. Ma non è questo il laboratorio inteso come “spazio mentale attrezzato”, che richiede non una risposta giusta, un’unica soluzione, ma più risposte e più soluzioni, tutte egualmente plausibili. Le attività devono provocare 80 F. De Bartolomeis, La professionalità sociale dell’insegnante. Formazione aggiornamento ambiente di lavoro, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 124 81 E. Bottero, Il metodo di insegnamento, FrancoAngeli, Milano, 2007 75 uno “spiazzamento” cognitivo. L’esperienza di laboratorio deve produrre dissonanza tra ciò che l’allievo conosceva e ciò che va apprendendo mediante il lavoro. Deve indurre una maggiore motivazione negli studenti e mantenere costante il desiderio di scoprire qualcosa di nuovo. Le applicazioni automatiche irrigidiscono il pensiero e rendono difficile la consapevolezza delle diversità dei contesti e dei processi. L’attività si deve situare ad una giusta distanza dalle competenze possedute. “Le abilità richieste nelle attività laboratoriali non possono collocarsi eccessivamente distanti dalle competenze possedute dall’allievo, altrimenti costui utilizzerebbe soltanto un approccio per tentativi ed errori. Per altro verso, le attività non possono neppure identificarsi con le competenze possedute dell’allievo, che si troverebbe costretto a svolgere un esercizio, e non a ricercare le soluzioni ad un problema”82. Le attività devono comportare diversi livelli di interpretazione. Imparare in laboratorio significa apprendere metodi che possono essere variamente applicati in diverse situazioni; perciò un metodo diventa suscettibile di interpretazioni diverse secondo l’angolo visuale adottato. Il gruppo di alunni in laboratorio viene chiamato a proporre, condividere e sperimentare i diversi punti di vista. Le attività devono possedere valenze metaforiche. L’attività laboratoriale non richiede soltanto competenze di tipo esecutivo, così come non produce soltanto apprendimenti di tipo operatorio-concreto. Operare in laboratorio significa fare riferimento (ripensare) ad esperienze lontane ed eterogenee, e contemporaneamente costruire, su quel pensiero, nuove esperienze. Le attività devono coinvolgere il rapporto che ciascuno ha con il sapere. Nel laboratorio l’azione e la riflessione si ritrovano intrecciati nella costruzione del sapere individuale. In tal modo il laboratorio supera la perenne divisione tra teoria e pratica, tra principi e applicazioni, individuando il sapere come conoscenza in azione83. Tutte le nuove impostazioni didattiche sono debitrici nei confronti della didattica 82 F. Tessaro, Metodologia e didattica dell’insegnamento secondario, Armando Editore, Roma, 2002, p. 157 83 Ibidem 76 laboratoriale per le seguenti caratteristiche : Personalizzazione. Innanzitutto la personalizzazione degli obiettivi formativi sulla base delle esigenze formative dei singoli alunni e la personalizzazione dei percorsi di apprendimento (unità di apprendimento) sulla base dei livelli di sviluppo e di apprendimento, oltre che degli stili e dei ritmi di apprendimento, degli interessi, delle motivazioni e delle predilezioni dei singoli alunni. Operatività. Intesa come operatività della loro impostazione didattica. Nei laboratori si attuano i principi metodologico-didattici del learning by doing (apprendere attraverso il fare: è il modello dell’epistemologia operativa) e quindi del problem solving e del cooperative learning84. Tornando alle caratteristiche didattiche del laboratorio, si può affermare che deve essere visto come: ambiente in cui si realizza un rovesciamento della prospettiva didattica: l’obiettivo non è quanto deve conoscere il docente in ordine alle discipline teoriche, ma in che modo le discipline possono costruire la competenza nell’allievo, in che modo esse possono cercare di riempire lo spazio tra il mondo dei problemi vissuti e quello della riflessione. Il laboratorio è soprattutto luogo di costruzione della conoscenza. Affinché i contenuti e le procedure proposti non si sovrappongono semplicemente alle conoscenze già possedute, ma interagiscono con queste permettendo una loro ristrutturazione attraverso nuovi e più ricchi modi di connessione ed collegamenti tra organizzazione, i contenuti è necessario dell’insegnamento trovare e le efficaci esperienze diversificate degli alunni; avventura conoscitiva: nell’insegnamento-apprendimento l’insegnante e l’allievo si costituiscono entrambi come quel viaggiatore, il cui viaggio e la cui scommessa è il percorso formativo (metafora dell’esplorazione di Bateson). Il laboratorio didattico è il luogo più indicato per intraprendere un’avventura conoscitiva; 84 A. Lafranconi Betti, Scuola in laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia,2005 77 luogo dove si realizza la meta cognizione. Infatti il laboratorio didattico mira ad un processo di apprendimento che non incida solamente sulle abilità di base o acquisite, ma anche sulle modalità della loro comprensione ed utilizzazione. Infatti, l’approccio metacognitivo è una modalità di intervento polivalente e trasversale all’interno del processo di apprendimento; luogo di approccio cooperativo: il laboratorio è l’ambiente in cui si concretizza un nuovo modello di insegnamento/apprendimento fondato sulle interazioni fra gli attori del processo didattico. In laboratorio l’enfasi va posta sul rapporto tra esperienza individuale e ricostruzione culturale affinché le teorie servano per rispondere ai perché diventando significative e motivanti85. I processi didattici di laboratorio devono mirare sempre sia all’acquisizione delle competenze, sia al loro consolidamento, attraverso apposite attività. Alle attività di apprendimento e di consolidamento si aggiungono anche attività di sviluppo (approfondimento, ampliamento e arricchimento) che non siano meramente applicative. Prima di essere “ambiente”, il laboratorio è uno “spazio mentale attrezzato”, una forma mentis, un modo di interagire con la realtà per comprenderla e per cambiarla. Il termine laboratorio va inteso in senso estensivo: come qualsiasi spazio, fisico, operativo e concettuale, opportunamente adattato ed equipaggiato per lo svolgimento di una specifica attività formativa. Dal punto di vista logistico il laboratorio della scuola dovrebbe essere un locale a sé stante, appositamente costruito e corredato per produrre apprendimenti specialistici. Dal punto di vista formativo, il laboratorio si caratterizza per l’oggetto della sua azione, vale a dire per l’attività che vi si svolge, che investe il soggetto operante. Con il lavoro in laboratorio lo studente domina il senso del suo apprendimento, perché produce, perché opera concretamente, perché “facendo” sa dove vuole arrivare e perché86. 85 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005 http://www.univirtual.it/ssis/corsispeciali/moduli%20comuni/download/ITP%20AT%20Labor%2 001.pdf 86 78 4.2 La discussione in classe La discussione è un importante strumento didattico, che consente agli alunni di approfondire le conoscenze già in loro possesso e di costruirne di nuove. Le dimensioni del ragionamento e della collaborazione, incluse nell’idea della discussione come ragionamento collettivo, possono essere utilizzate come guida per l’analisi del discorso in classe. Il ragionamento si esplicita in diverse modalità del discorso, quali l’interpretazione, la comparazione e la spiegazione; mentre la collaborazione può essere rilevata a livello di partecipazione, della coordinazione e della co-costruzione di conoscenza. Nel gruppo che discute si alternano momenti in cui prevale il supporto tra i partecipanti e momenti in cui domina il conflitto; entrambe le situazioni hanno un ruolo chiave per lo sviluppo della conoscenza condivisa all’interno della comunità. Nella discussione hanno luogo una serie di operazioni epistemiche che rimandano alle fasi del problem solving e che vanno dalla formulazione del problema alla condivisione delle scoperte87. “Il ruolo dell’insegnante è importante nel caratterizzare il tipo di interazione che si svolge nella classe; in particolare il livello degli scambi tra gli alunni e tra alunni e insegnante cresce notevolmente se il docente usa espressioni linguistiche che: tendano ad evidenziare interessi e motivazioni per portare avanti le ricerche e sviluppare teorie personali; guidano gli studenti verso il raggiungimento di scopi collettivi e non individuali; sfidano gli alunni ad approfondire la riflessione sulle proprie teorie; incoraggiano gli studenti ad utilizzare le competenze e le conoscenze degli altri per costruire insieme conoscenza; generano un approccio all’apprendimento più orientato al processo che al compito”88. È importante che l’insegnante sia il primo ad utilizzare durante la conversazione 87 S. Cacciamani, L. Giannandrea, La classe come Comunità di Apprendimento, Carocci, Roma, 2008 88 Ibidem, p. 43 79 forme al plurale (del tipo “noi”) per sottolineare la costruzione collettiva della conoscenza. Allo stesso modo dovrebbe aiutare gli alunni a percepirsi come membri attivi di una comunità che costruisce conoscenza e non come semplici ascoltatori passivi della lezione dell’insegnante. Specialmente nelle prime fasi del lavoro, il docente potrebbe aiutare gli studenti a sviluppare le teorie proposte formulando domande. “All’inizio della discussione stessa, l’insegnante partecipa per sostenere e facilitare l’avvio dello scambio comunicativo, rinunciando al ruolo di conduttore della lezione, ma ponendosi come membro del gruppo. In questa fase l’insegnante può mettere in atto tutte le tecniche che favoriscono l’instaurarsi di un clima di ascolto e di accoglienza reciproca, come il “rispecchiamento” e l’ascolto attivo, rivolgere richieste di chiarimento e di approfondimento, sapendo che il suo agire costruisce un modello per gli altri membri del gruppo”89. Per precisare meglio quanto appena detto, la tecnica del “rispecchiamento” consiste nella riproposizione, da parte dell’insegnante, di un argomento espresso da un alunno; lo scopo che si persegue è quello di incoraggiare lo studente a continuare la sua riflessione, ma anche quello di consentire agli altri membri del gruppo di soffermarsi sul concetto espresso, per comprenderlo meglio. Riproponendo il pensiero dell’allievo, l’insegnante ha la possibilità di capire se l’alunno ha ben compreso quanto era stato espresso, mentre lo studente viene messo nelle condizioni di chiarire e riformulare le argomentazioni che non sono state apprezzate perché poco chiare o espresse in forma non sufficientemente esplicita. “Un’altra mossa comunicativa che l’insegnante può mettere in atto consiste nella fare il punto della situazione, raccogliendo le diverse posizioni presentate dal gruppo e mettendo in evidenza i punti di contatto e di accordo raggiunti. In questo modo l’insegnante può mettere in connessione informazioni diverse, fornite in momenti successivi e da più alunni che, considerate insieme, possono far avanzare le posizioni di tutto il gruppo di lavoro”90. Così facendo, l’insegnante incoraggia il consenso fra gli studenti. In altri momenti potrebbe invece ritenere più utile stimolare le divergenze e il conflitto socio-cognitivo, chiedendo espressamente di far 89 90 Ibidem, p. 44 Ibidem 80 emergere opinioni discordanti attraverso una richiesta di questo tipo: “siete tutti d’accordo?”. Al termine della discussione l’insegnante deve facilitare l’emergere di un punto di vista superiore, che tenga conto delle diversità delle posizioni di partenza, ma che sia condiviso dal gruppo e percepito come un prodotto della manipolazione della conoscenza di tutti91. 4.3 Il Cooperative Learning “Il Cooperative Learning costituisce una specifica metodologia di insegnamento, attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso. L’insegnante assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività, strutturando “ambienti di apprendimento” in cui gli studenti, favoriti da un clima relazionale positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo di “problem solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione richiede il contributo personale di tutti”92. Tali obiettivi possono essere conseguiti se all’interno dei piccoli gruppi di apprendimento gli studenti sviluppano determinate abilità e competenze sociali, intese come un insieme di abilità interpersonali e di piccolo gruppo indispensabili per sviluppare e mantenere un livello di cooperazione qualitativamente alto. Tale metodo si distingue sia dall’apprendimento competitivo che dall’apprendimento individualistico e, a differenza di questi, si presta ad essere applicato ad ogni compito, ad ogni materia, ad ogni curricolo93. Il lavoro di gruppo non è una novità nella scuola; ma la ricerca dimostra che gli studenti possono anche lavorare insieme senza trarne profitto. Può infatti accadere che essi operino insieme, ma non abbiano alcun interesse o soddisfazione nel farlo. Nei gruppi di apprendimento cooperativo, invece, gli studenti si dedicano con piacere all’attività comune, sono protagonisti di tutte le fasi del loro lavoro, dalla pianificazione alla valutazione, mentre l’insegnante è soprattutto un facilitatore e 91 Ibidem http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm 93 N. Rosati, Cooperative Learning a misura di bambino, Anicia, Roma, 2007 92 81 un organizzatore dell’attività di apprendimento. Il cooperative learning presenta di solito i seguenti vantaggi: migliori risultati degli studenti: tutti gli studenti lavorano più a lungo sul compito e con risultati migliori, migliorando la motivazione intrinseca e sviluppando maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico; relazioni più positive tra gli studenti: gli studenti sono coscienti dell’importanza dell’apporto di ciascuno al lavoro comune e sviluppano pertanto il rispetto reciproco e lo spirito di squadra; maggiore benessere psicologico: gli studenti sviluppano un maggiore senso di autoefficacia e di autostima, sopportano meglio le difficoltà e lo stress94. I cinque elementi che rendono efficace la cooperazione sono: l’interdipendenza positiva, per cui gli studenti si impegnano per migliorare il rendimento di ciascun membro del gruppo, non essendo possibile il successo individuale senza il successo collettivo; la responsabilità individuale e di gruppo: il gruppo è responsabile del raggiungimento dei suoi obiettivi ed ogni membro è responsabile del suo contributo; l’interazione costruttiva: gli studenti devono relazionarsi in maniera diretta per lavorare, promuovendo e sostenendo gli sforzi di ciascuno e lodandosi a vicenda per i successi ottenuti; l’attuazione di abilità sociali specifiche e necessarie nei rapporti interpersonali all’interno del piccolo gruppo: gli studenti si impegnano nei vari ruoli richiesti dal lavoro e nella creazione di un clima di collaborazione e fiducia reciproca. Particolare importanza rivestono le competenze di gestione dei conflitti (più in generale si parlerà di competenze sociali) che devono essere oggetto di insegnamento specifico; la valutazione di gruppo: il gruppo valuta i propri risultati e il proprio modo di lavorare e si pone degli obiettivi di miglioramento95. 94 Ibidem 82 L’efficacia della metodologia cooperativa è data inoltre dal supporto di alcuni comportamenti e valori specifici. All’interno di questo quadro generale, le diverse interpretazioni del principio di interdipendenza e delle variabili più significative nell’apprendimento (interazione, motivazione all’apprendimento, compito e ruolo dell’insegnante) hanno originato lo sviluppo di diverse correnti o modalità di cooperative learning96. Figura 51: Disposizione dei banchi nel Cooperative Learning 97 4.4 Il metodo scientifico sperimentale Il metodo scientifico è stato formulato per la prima volta con chiarezza da Galileo Galilei; essendo fondato sull’esperimento, viene anche definito metodo sperimentale. Da una prima osservazione della natura da parte dello scienziato, nasce un esperimento, sviluppato in maniera controllata in modo tale che si possa riprodurre il fenomeno che si vuole studiare. “L’esperimento ha lo scopo di convalidare o confutare l’ipotesi che lo scienziato ha formulato, e l’ipotesi serve a sua volta per spiegare i meccanismi alla base di quel particolare evento. Se l’ipotesi viene confermata dall’esperimento, si procede con l’esecuzione di un gran numero di altri esperimenti indipendenti, in maniera tale 95 Cacciamani, L. Giannandrea, La classe come Comunità di Apprendimento, Carocci, Roma, 2008 96 http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm 97 Ibidem 83 che i risultati acquisiti diventino completamente attendibili: i dati raccolti vengono elaborati e successivamente viene formulata una teoria. Se, invece, l’ipotesi non è confermata dall’esperimento, l’ipotesi viene modificata e sottoposta a nuovi esperimenti”98. Il metodo scientifico si può dividere in due fasi distinte, illustrate nello schema seguente: Figura 52: Fasi del metodo scientifico “In pratica il metodo scientifico è un modo di conseguire informazioni sul meccanismo degli eventi naturali verso cui ci poniamo delle domande: per determinare se le soluzioni proposte sono valide si utilizzano dei test (esperimenti) condotti in maniera rigorosa. La rigorosità del metodo scientifico risiede nel fatto che una teoria non è mai definitiva, ma è suscettibile di modifiche o di sostituzioni, qualora vengano alla luce nuovi aspetti non considerati in precedenza. Il metodo scientifico richiede una ricerca sistematica di informazioni e un continuo controllo per verificare se le idee preesistenti sono ancora supportate dalle nuove informazioni. 98 http://www.scienzeascuola.it/joomla/le-lezioni/24-lezioni/331-il-metodo-scientifico-osperimentale 84 Se i nuovi elementi di prova non sono favorevoli, gli scienziati scartano o modificano le loro idee originarie. Ogni teoria scientifica viene quindi sottoposta a continua revisione: è questa la grande sfida del metodo sperimentale99. Figura 53: Fase schematica del metodo sperimentale 100 “Nella scuola il metodo sperimentale è spesso ridotto a una schematizzazione del tipo: osservazione iniziale del fenomeno; induzione che porta a ricavare dai dati le ipotesi; deduzione che dalle ipotesi conduce a formulare previsioni circa future possibili osservazioni o risultati sperimentali; verifica sperimentale che porta all’accettazione o alla negazione delle ipotesi attraverso la realizzazione di esperimenti”101. Una schematizzazione di questo genere, che mette in evidenza i punti principali dell’indagine scientifica, si presta facilmente a equivoci; suggerisce infatti 99 Ibidem http://www.saroalioto.it/met_sper.htm 101 M. E. Bergamaschini, L’insegnamento delle scienze sperimentali, 2006, p. 2 100 85 un’immagine del metodo scientifico come di un procedimento quasi automatico, una specie di meccanismo in cui si perdono i riferimenti entro i quali si svolge la ricerca scientifica: la realtà naturale con la complessità e la varietà dei fenomeni che le sono propri. Occorre dare una precisazione sul significato del termine “dato”, per capire come viene inteso nel linguaggio della scienza. Prima di tutto è necessario ricordare che i ‘dati’ sono numeri e che le relazioni che legano fra loro i dati sono formule matematiche102. Il fatto che il libro della scienza sia scritto in caratteri matematici fu espresso con chiarezza da Galileo, che intendeva così superare i sillogismi e i ragionamenti ‘per analogia’, propri della filosofia naturale aristotelica. È vero però che il dato è un indizio che rimanda ad una domanda di partenza formulata dallo scienziato e che richiede l’intervento della sua creatività, perché l’ipotesi va inventata, non può essere dedotta meccanicamente dai fatti, dai dati. La soluzione non si raggiunge mai mettendo in fila i dati raccolti, perché da essi non è automaticamente deducibile. Non si acquisisce dunque una conoscenza scientifica se non si mette in campo la ragione nella sua pienezza, non solo una razionalità di tipo ipotetico-deduttivo con la quale spesso si identifica la ragione scientifica: la scienza scaturisce dalla fantasia, dalla creatività, dall’intuizione, anche da un rapporto diretto con il mondo naturale; non quindi una ragione analitica, ma una ragione sintetica. Il metodo sperimentale non può quindi essere ridotto a uno stereotipo, come detto sopra. Al contrario, va inteso come una dimensione del lavoro scientifico che in quanto tale, costringe nel lavoro scolastico a recuperare la persona nella sua unità, piuttosto che dissolta nelle sue molteplici abilità o non abilità103. Lo scienziato, che è impegnato nel suo lavoro, è consapevole del fatto che esiste una sorta di ricorsività nelle scienze sperimentali. Osservando la figura sottostante si può facilmente vedere che si parte dall’esperienza del fenomeno per formulare domande significative; si procede formulando ipotesi interpretative che rendano ragione di quanto osservato, selezionando le risposte in base ai dati osservati; sulla base del modello 102 103 Ibidem Ibidem, p. 3 86 elaborato si formulano previsioni non contenute nei dati osservati noti, secondo un procedimento logico del tipo “se è vero che… allora posso prevedere che”. Come ultimo passo, in base alle previsioni si progetta un esperimento che riproduca il fenomeno in forma semplificata: l’esperimento serve per fare osservazioni in condizioni ottimali sul comportamento del modello, nello stesso modo in cui si fanno osservazioni sull’oggetto indagato104. Figura 54: La ricorsività nel metodo delle scienze sperimentali 105 Così facendo, lo scienziato compie un percorso circolare partendo dal fenomeno naturale per ritornare ad osservarlo, rivolgendo la propria attenzione agli aspetti nuovi ottenuti dal modello, per verificare il modello e contemporaneamente comprendere il fenomeno più in profondità. A livello didattico si possono individuare alcune attività coerenti con il metodo delle scienze sperimentali, le quali favoriscono il rapporto della persona con il mondo e hanno inoltre una forte valenza formativa: “osservare con attenzione la realtà che ci circonda; descrivere quanto si osserva con modalità che portano dalle forma verbali o illustrate all’uso del linguaggio numerico e più in generale matematico; 104 105 Ibidem, p. 5 Schema tratto da: Emmeciquadro, n. 9, agosto 2000, p. 48 87 astrarre nella fase di acquisizione del modello interpretativo; immaginare e progettare la simulazione/esperimento, per verificare le ipotesi interpretative avanzate; eseguire procedure sperimentali con l’uso di strumenti e costruendo apparati di misura appropriati; organizzare complessivamente il proprio modo di ragionare per distinguere i fatti dalle interpretazioni; costruire conoscenze ordinate e sistematiche; costruire gerarchie tra le conoscenze acquisite, arricchendo il proprio quadro concettuale; acquisire ed elaborare il linguaggio disciplinare specifico”106. La ricorsività suggerisce un’impostazione didatticamente efficace: la logica con cui costruire le tappe di un percorso non è lineare e progressiva, ma, cambiando il punto di vista o il contesto, si può riprendere il lavoro fatto proponendo nuovi passi, per arrivare con il tempo ad una conclusione più approfondita dei fenomeni naturali oggetto di studio. In momenti successivi è possibile riprendere contenuti simili a livelli più complessi e con modalità differenti, favorendo il maturare della consapevolezza del cammino realmente fatto e offendo la possibilità di superare negli anni eventuali difficoltà107. 106 107 Ibidem, p. 5 Ibidem 88 Capitolo 5 La progettazione del percorso didattico “Le bolle di sapone” 5.1 Prima della realizzazione del progetto Durante l’estate appena trascorsa ho passato buona parte del mio tempo a riflettere su come strutturare il progetto. L’argomento che desideravo sviluppare ormai aveva preso forma nella mia mente; c’era solo bisogno di capire come far apprendere a dei bambini della scuola primaria i fenomeni fisici che modellano le bolle di sapone. Iniziai dalla lettura del libro di Charles V. Boys “Le bolle di sapone e le forze che le modellano”. Questa opera mi è stata di grande aiuto per la realizzazione del percorso didattico perché spiega in modo accessibile a tutti la scienza delle bolle di sapone. Il libro di fatto è una miniera inesauribile di esperimenti di facile realizzazione. Così, mentre lo leggevo, mi dilettavo a provare quelli che ritenevo adatti anche a dei bambini. Devo ammettere che questo tipo di attività mi ha riempita di gioia e ha fatto emergere il “fanciullino” che è dentro ognuno di noi e al contempo pensavo che i bambini avrebbero provato delle piacevoli sensazioni. Con il trascorrere dei giorni si andava anche definendo il modo in cui avrei portato avanti il percorso: avrei trasformato l’aula scolastica in un piccolo laboratorio a misura di bambino. In questo luogo gli alunni avrebbero avuto la possibilità di svolgere semplici esperimenti, capaci di stimolare l’interesse e lo stupore, che sono la spinta principale dell’apprendimento. Mentre iniziavo a stendere per iscritto il percorso, si definiva piano piano il ruolo che avrei occupato durante il mio lavoro assieme ai bambini. Decisi che avrei avuto un ruolo il più marginale possibile, ossia che li avrei lasciati apprendere tramite l’esperienza diretta. Mi sarei limitata a stimolare in loro curiosità e riflessioni, attraverso domande e li avrei condotti in questo modo, tramite la discussione, a raggiungere risposte condivise da tutti loro. Solo in un secondo momento, dopo la sperimentazione, la discussione e quindi la completa appropriazione dell’esperienza fatta, avrei fornito loro delle piccole pillole di spiegazioni scientifiche. Con questo approccio prettamente pratico e sperimentale i bambini possono esercitare la loro manualità, costruendo anche piccoli oggetti, e hanno la possibilità di fare misure ed osservazioni che possono essere estese anche a questioni di carattere generale. Contemporaneamente alla stesura schematica del progetto ho pensato, al di là degli argomenti che avrei approfondito per la mia preparazione personale, gli argomenti che avrei presentato ai bambini. Non si tratta soltanto di decidere l’ordine di presentazione, ma anche quali parti potevano essere facilmente comprese e approfondite e quali no. Ho deciso quindi di iniziare il mio progetto partendo dalle emozioni e dalle sensazioni che i bambini avrebbero dovuto esprimere tramite il disegno; poi ho pensato che fosse opportuno partire dal “gioco” stesso delle bolle di sapone perché ero certa che facesse parte della loro esperienza diretta. Tramite vari passaggi graduali sarei potuta arrivare alla creazione di ricette di bolle di sapone sia resistenti che di grosse dimensioni, creando con i bambini una loro “pozione magica” da riutilizzare in vari momenti del percorso. Gli argomenti prettamente scientifici che ho ritenuto opportuno approfondire sono quelli della tensione superficiale, che ha occupato ben due fasi del progetto, il sapone come tensioattivo, le emulsioni, la proprietà isoperimetrica e le superfici minime, arrivando ad accennare anche se solo superficialmente alla formazione dei colori sulle lamine di sapone. Qualche giorno prima dell’inizio del progetto ho preso accordi con la collega di scienze di classe quinta che si è dimostrata più che disponibile nel mettermi a disposizione tutto il tempo per me necessario per la realizzazione del percorso didattico. Abbiamo concordato che mi sarei incontrata con la classe due volte alla settimana per un totale di quattro ore settimanali. Nei giorni precedenti al primo incontro ho riprovato tutti gli esperimenti, che mi ero proposta di far realizzare ai bambini, e ho strutturato una scaletta contente delle domande-chiave per ogni argomento, che mi avrebbe permesso di guidarli nella discussione attiva. Ho preparato inoltre delle tabelle su carta da pacchi da compilare con loro al momento della conclusione condivisa dall’intera classe e i cartelloni per le spiegazioni scientifiche dei fenomeni fisici appresi attraverso gli esperimenti. 90 5.2 Perché le bolle di sapone? L’argomento principale del mio progetto sono le bolle di sapone. Ho scelto questo argomento perché da sempre affascina i bambini e non solo: chi non ha mai preso una cannuccia e un bicchiere con acqua e sapone e si è perso con questo gioco fatto di forme, colori e trasparenze? Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è divertito a far fluttuare nell’aria queste bellissime e affascinati sfere. All’apparenza così semplici ma nella realtà così complesse. Così ho pensato che attraverso le bolle avrei potuto spiegare in modo ludico e divertente dei concetti fisici complessi. Le bolle di sapone, inoltre, per la loro natura “magica” e in un certo senso “misteriosa” hanno da sempre avuto la capacità di suscitare emozioni positive. Mi piaceva quindi l’idea di regalare loro, oltre che una esperienza di apprendimento, il ricordo di un percorso didattico svolto all’insegna dell’allegria, perché è questo che le bolle donano a grandi e piccini. 5.3 Il contesto Il progetto è stato svolto nella scuola primaria di Fossone, frazione del comune di Avenza in provincia di Massa-Carrara. In questa scuola svolgo il ruolo di insegnante di sostegno nella classe seconda. La conoscenza dell’ambiente, delle colleghe e degli stessi bambini, anche se non appartenenti alla mia classe, ha fatto sì che scegliessi proprio questa scuola. La classe coinvolta nel progetto è una classe quinta costituita da diciannove bambini, tutti abitanti nella zona limitrofa alla scuola. I bambini sono ben integrati e formano un gruppo compatto. La classe presenta un clima sereno e disteso, in cui tutti mostrano un comportamento maturo e responsabile, ottenuto sicuramente grazie all’ottimo lavoro svolto dalle insegnanti durante gli anni precedenti, finalizzato alla costruzione del rispetto reciproco e della convivenza civile. Sono rimasta particolarmente colpita dal fatto che i bambini hanno mostrato un atteggiamento cooperativo e riflessivo nel prendere le decisioni riguardanti sia la vita della classe, sia le attività da svolgere. La scuola è a tempo prolungato, da lunedì a venerdì; sono presenti due rientri settimanali con uscita prevista per le ore 91 16.30. Purtroppo a causa della “riforma” e dei conseguenti tagli che ha portato vi è stata una drastica riduzione delle attività di laboratorio. 5.4 Il progetto L’obiettivo di questo progetto è di strutturare una mentalità curiosa, capace di osservare ciò che avviene nei fenomeni naturali con metodo e in modo critico: si gioca con le bolle di sapone per imparare a costruirne di tutti i tipi, scegliendo come farle, descriverle, toccarle, annusarle e disegnarle, ricercando di volta in volta le ragioni dei fenomeni osservati. Durante il lavoro osserverò: quali sono le idee di partenza dei bambini; quanto accade di imprevisto in corrispondenza delle varie fasi; quali possibili aperture di contesto si presentano nel corso del lavoro; i percorsi di causa-effetto, non lineari, intuitivi; le emozioni dei bambini. 5.5 Struttura schematica del progetto Destinatari: alunni di classe V Obiettivi: usare i sensi per indagare; elaborare previsioni e ipotesi; predisporre uno schema per l’esecuzione di preparazioni chimiche; usare forme di rappresentazione diverse per raccogliere dati; acquisire esperienza diretta sul concetto di circonferenza come perimetro minimo a parità di area e di sfera come superficie minima a parità di volume; dotarsi di un modello per interpretare il fenomeno delle bolle di sapone; Obiettivi trasversali: italiano: descrivere adeguatamente idee, concetti, emozioni; storia: avere notizie della storia di Cartagine e associarla alla regina 92 Didone; matematica: riconoscere le figure legate alla geometria piana e solida. Organizzazione: gruppo classe nei momenti di elaborazione delle ipotesi e di discussione; piccolo gruppo nelle fasi operative e nell’elaborazione e verifica delle ipotesi; lavoro individuale nella fase di reperimento del materiale e di verifica. Metodologia: didattica laboratoriale; cooperative learning; discussione; metodo scientifico sperimentale. Materiali: materiale da disegno; confezioni per fare bolle di sapone; bacinelle; piatti di plastica; bicchieri di plastica trasparente; zuppiere di plastica trasparente; cucchiai di plastica; bottiglie di plastica; pinzette; stuzzicadenti; graffette; acqua del rubinetto; acqua distillata; detersivo liquido concentrato; detersivo in polvere; saponetta; sale; 93 colla vinilica; glicerina; zucchero; miele; zucchero in zollette; olio; coca cola; latte; spago; filo di ferro di diametro diverso tenaglie; tavolinetto regolabile in altezza; supporto per dinamometro; dinamometro; anello metallico; cannucce; pennello; cronometro; stoffa; imbuto; candela; metro; forbici. Spazi: aula; bagno; palestra; cortile. Tempi: sono state previste sette fasi. Le prime sei di quattro ore ciascuna e la settima di due ore. 94 Capitolo 6 Il progetto didattico fase dopo fase 6.1 Prima fase: ci sono bolle … e bolle Obiettivo: Esperienze a confronto Dopo essermi presentata agli alunni e motivato la mia presenza nella loro classe, ho spiegato che il progetto che avremmo realizzato insieme consisteva nel conoscere sotto tutti i vari aspetti le bolle di sapone. Ho detto loro che, per conoscere queste bellissime sfere, avrebbero avuto l’opportunità di compiere esperimenti e che quindi si sarebbero trasformati in tanti piccoli scienziati. Il fatto che li avessi definiti “scienziati” e il senso di responsabilità che avevo trasmesso loro mentre spiegavo che questo progetto serviva per la mia tesi di laurea, ha scaturito in loro un forte entusiasmo, e quando ho chiesto esplicitamente se erano felici di aiutarmi, in coro mi hanno risposto di sì. Ho introdotto l’attività chiedendo ai bambini di mettersi comodi, di stare in silenzio e di ascoltare ad occhi chiusi una brevissima storia: “Sei dentro una gigantesca bolla di sapone. La bolla , sospinta da un venticello lieve, si alza appena da terra e ti solleva, facendoti volare nell’aria. Come stai lì dentro? Lentamente la bolla si muove per la classe ed esce dalla finestra: il cielo, gli alberi, le case ti passano vicino. Qualcuno ti vede e ti saluta. Un uccellino ti accompagna divertito per qualche secondo. Ora la bolla rientra dalla finestra e lentamente ridiscende a terra e tu esci… Ora guardi la bolla da fuori: un soffio più forte e…paff, la bolla scoppia” Terminata la breve lettura ho chiesto loro di riaprire gli occhi e di disegnare le sensazioni e le emozioni che avevano provato. Si sentivano talmente investiti di responsabilità nei miei confronti che mi domandavano continuamente se il disegno andava bene, se preferivo che usassero i pennarelli o le matite colorate. Il risultato finale è stato eccellente come si può ben vedere da alcuni disegni che hanno realizzato. 96 Terminati i disegni, ho detto che avevo una piccola sorpresa per loro, chiedendo di chiudere di nuovo gli occhi e di non aprirli fino a quando non glielo avessi detto io. Ho messo sul banco di ciascun bambino una confezione di bolle di sapone già pronte e, quando ho chiesto di aprire gli occhi, sui loro volti si è disegnato un sorriso e mi hanno chiesto se potevano fare le bolle. Ovviamente ho detto di sì, però mentre facevano le bolle dovevano prestare anche attenzione alle loro caratteristiche: ho chiesto loro di toccarle, annusarle e osservarle bene. Questa attività ha creato un po’ di confusione, come si può ben immaginare; del resto, la ludicità delle bolle di sapone è innegabile e anche la maestra Manuela si è dilettata nell’attività. 97 98 Ammetto che non è stato affatto facile distoglierli da questo momento “ludico”; comunque alla fine sono tornati ai loro banchi. Ho chiesto loro di rispondere per alzata di mano ad alcune domande. “Come sono le bolle di sapone che abbiamo fatto? Prima di tutto proviamo a descriverle” M.: “sono fragili perché appena le tocchi scoppiano” L.: “sono molto colorate; sono leggere, sono fragili” D.: “sono riflettenti come uno specchio” D.: “sono rotonde, sono leggere, e sono fragili” G.: “però una bolla che si è appoggiata è rimasta tutta intera”. Allora chiedo a tutta la classe se sanno perché la bolla è rimasta intera anche se si è appoggiata. A.: “perché il banco è bagnato” “Altre caratteristiche delle bolle di sapone?” M.: “si spostano con il vento” D.: “se soffi tanto, le bolle diventano più grosse” N.: “si spostano e si appoggiano lentamente” E.: “si muovono come le piume” Ho invitato i bambini a riflettere sulle seguenti domande: “come avete fatto a fare le bolle di sapone?” “Secondo voi cosa serve per fare bene queste bolle di sapone?” L.: “il soffio” E.: “la quantità di sapone” A.: “bisogna soffiare tanto” E.: “se soffi più lentamente la bolla diventa più grande, se soffi velocemente la bolla scoppia subito” M.: “secondo come soffi si possono formare tante bolle e si possono unire” Ripeto la domanda “ma che cosa vi serve per fare bene queste bolle? Che strumenti vi servono?” A.: “il sapone” F.: “acqua” M.: “acqua e sapone” 99 M.: “mia nonna ci metteva anche lo shampoo” P.: “aria, ma bisogna soffiare lentamente” M.: “ho un “affare” grande, uno medio e uno piccolo che serve per fare le bolle” “Ma come si chiama quello strumento che serve per fare le bolle? Ha un nome..” G.: “si chiama ‘soffietto’ ” Siccome il nome esatto dello strumento non veniva fuori l’ho detto io: “si chiama telaio!” Al termine della discussione chiedo ai bambini di disegnare le bolle di sapone e di descriverle in forma scritta. 100 Dopo che i bambini hanno realizzato i disegni sulle bolle di sapone, ho domandato loro: “Avete mai provato a fare le bolle solo con l’acqua, cioè senza il sapone? Ci siete riusciti? Pensate a quando fate scorrere l’acqua con un po’ di pressione dal rubinetto di casa: non si vedono delle piccole bollicine?” I bambini hanno risposto alle mie domande con le seguenti affermazioni: E.: “quando apri l’acqua del rubinetto sul lavandino si formano delle bollicine piccolissime” G.: “quando si muove la mano ‘velocissimamente’ nell’acqua si formano delle bollicine” V.: “quando si va in piscina e si soffia dentro l’acqua si formano le bolle” F.: “anche quando soffi nell’acqua del mare si formano le bolle” D.: “io quando prendo una coca-cola, con la cannuccia mi diverto a fare le bolle!” Successivamente ho portato i bambini in bagno perché avevo progettato di osservare le bolle di sola acqua. Ho quindi chiesto ai bambini di disporsi in semicerchio di fronte ai lavandini, ho posizionato due bacinelle e ho aperto completamente i rubinetti dell’acqua. Ho invitato a osservare bene quello che accadeva all’interno delle bacinelle. 101 Dopo l’osservazione, ho chiesto di descrivere come sono le bolle di sola acqua. M.: “sono trasparenti, scoppiano subito” “Ma come sono queste bolle?” D.: “Piccole, trasparenti, molto fragili” “Che differenza c’è tra le due bacinelle?” I bambini hanno risposto che c’è una differenza di pressione e in una bacinella le bolle risultavano più piccole. Ho ripetuto ciò per tutti i bambini dicendo che, nella bacinella color argento, le bolle sono molto poche perché l’acqua esce con meno forza rispetto a prima: la pressione adesso è diminuita. L.: “le bolle si formano in fondo e ai margini della bacinella e sono piccoline” N.: “dove l’acqua esce più piano le bolle sono di meno, dove l’acqua esce più forte le bolle sono di più” “Altre caratteristiche?” P.: “le bolle sono fragili e si formano in fondo alla bacinella” E.: “scoppiano subito, sono sottili, non sono colorate” E.: “sono piccole, scoppiano subito, sono trasparenti” 102 Dopo l’osservazione diretta, torniamo in classe per raccogliere le caratteristiche delle bolle di sola acqua in uno schema alla lavagna. Mentre scriviamo queste caratteristiche, facciamo anche un confronto con le bolle di sapone. Dopo aver riletto le caratteristiche scritte alla lavagna sulle bolle senza sapone, pongo ai bambini la seguente domanda: “Ma che cos’è una bolla di sapone? Potete dare una definizione, oppure fare un esempio, o ancora fare un paragone”. E.: “una bolla d’acqua con l’aggiunta di sapone” A.: “una palla trasparente, fragile, con delle sfumature colorate che fluttua nell’aria” D.: “è come il vetro perché si rompe” P.: “la bolla è come una piuma perché fluttua nell’aria” Chiedo ad A. di ripetere la sua definizione A.: “è come una palla…..” Io intervengo di nuovo dicendo: “ma se lancio una palla, cade subito a terra…” 103 Una bambina ha l’intuizione che aspettavo… V.: “le bolle di sapone sono simili ai palloncini” Quindi io intervengo dicendo: “perché le bolle di sapone sono simili ai palloncini? Che caratteristiche hanno in comune?” Rispondono tutti insieme dicendo che hanno la stessa forma e volano. Viene fuori una gran confusione; chiedo di dare l’opportunità a V. di completare la sua definizione, aggiungendo le caratteristiche che hanno in comune. V: “sono fragili perché anche i palloncini si bucano facilmente, fluttuano entrambi nell’aria perché sono leggeri” Chiedo: “ma cosa c’è all’interno dei palloncini e delle bolle di sapone?” Dicono che all’interno della bolla c’è l’aria ma all’interno dei palloncini c’è l’elio. Confermo che hanno ragione ma aggiungo: “se noi gonfiamo un palloncino con la bocca al suo interno c’è…?” Mi rispondono tutti insieme che c’è l’aria. Quindi abbiamo trovato un'altra caratteristica in comune. Chiedo ai bambini se siamo tutti d’accordo a dire che le bolle di sapone sono simile ai palloncini, e una valanga di voci risponde di sì. G. interviene dicendo che: “i palloncini resistono di più, perché sono più spessi.” A questo punto domando: “qual è la differenza tra un palloncino e una bolla di sapone?” E. risponde che: “le bolle di sapone sono fatte con l’acqua e il sapone mentre i palloncini sono fatti di gomma così possono resistere a lungo.” Quindi approfitto per sottolineare che le bolle di sapone sono formate da una pellicola di acqua saponata. A questo punto siamo pronti per arrivare ad una conclusione condivisa da tutta la classe. A. fa il punto della situazione dicendo che: “le bolle di sapone sono come dei palloncini leggeri, perché fluttuano nell’aria; come quelli di gomma, sono pieni d’aria, possono entrambi scoppiare facilmente e hanno una forma rotonda. La loro differenza è che al posto della gomma c’è uno strato sottile di acqua e sapone.” Per consolidare ciò che i bambini hanno concluso ho pensato di far prima vedere e poi provare loro un esperimento. Il mio obiettivo è proprio quello di far notare che una bolla di sapone si comporta come un palloncino elastico e che 104 quindi al suo interno l’aria si trova sotto pressione e sfugge appena è possibile. Il materiale utilizzato per l’esperimento è il seguente: una candela accesa una soluzione di acqua saponata (preparata da me precedentemente) un imbuto, con un diametro piccolo Ho preso l’imbuto e ho immerso nell’acqua saponata la parte più larga in modo da formare una pellicola, ho soffiato nell’imbuto e ho formato una bolla, quindi ho tappato con il dito l’apertura in modo che la bolla che si era formata non si sgonfiasse. Ho avvicinato l’estremità dell’imbuto, che avevo chiuso con il dito, alla fiamma della candela e ho tolto il dito. I bambini hanno così potuto notare che mentre la bolla si sgonfia la fiamma della candela inizia ad ondeggiare fino poi a spengersi. Questa esperienza è stata provata poi direttamente da tre bambini: uno di questi purtroppo non è riuscito a spengere la bolla, ma questo comunque non è essenziale per la spiegazione. 105 106 Alla fine degli esperimenti ho fatto notare ai bambini quello che è accaduto. Ho spiegato che, come avevano già intuito, la bolla si comporta come un palloncino elastico. Se si gonfia il palloncino e poi lo si lascia andare senza legarlo questo inizia a girare per la stanza fino a quando l’aria contenuta è completamente uscita. Nella bolla succede la stessa cosa. Quindi, grazie all’elasticità della membrana saponosa all’interno della bolla, l’aria si trova a pressione maggiore rispetto alla pressione dell’atmosfera. Come i bambini hanno potuto notare, non sempre la bolla riesce a spengere la candela: questo dipende dal valore della pressione dell’aria contenuta nella bolla. I bambini hanno potuto inoltre notare che più piccola è la bolla, prima si spenge la candela. A conclusione di questa prima fase ho spiegato ai bambini che le bolle che diciamo “di sapone” in realtà sono di acqua saponata. Nelle bolle di sapone l’acqua è sempre presente anche se in forma ridotta a una sottile pellicola di molecole che sta all’interno di due sottili membrane di sapone, e in questo assomiglia un po’ ad un sandwich. 107 All’interno della bolla vi è una certa quantità di aria e vapore acqueo la cui pressione, che è la forza esercitata sulla superficie di sapone interna, equilibra per un po’ di tempo quella dell’aria che “preme” sulla superficie esterna. Finché le due pressioni si equilibrano la bolle resiste; poi, quando l’equilibrio si rompe, la bolla scoppia. Nelle bolle di sola acqua le molecole, in assenza delle due membrane di sapone, evaporano praticamente subito e la bolla scoppia quasi istantaneamente. 6.2 Seconda fase : caccia alla “ricetta” Obiettivo: bolle resistenti e grandi Questa mattina l’obiettivo è quello di individuare delle ricette per creare delle bolle resistenti e delle bolle di grandi dimensioni. Introduco l’argomento in questo modo: “sono veramente molto belle le bolle di sapone, peccato che durino poco. Vi piacerebbe fare una bolla di sapone che resista più a lungo?” Ovviamente tutti in coro rispondono di sì. Ho fatto notare che è necessario cercare di capire perché anche le bolle di sapone finiscono per scoppiare. “Questa mattina ho pensato di farvi fare qualche esperimento provando ad utilizzare le bolle di sapone confezionate”. Memori dell’esperienza precedente hanno iniziato a manifestare un enorme entusiasmo. Siccome però l’aula non è molto spaziosa e si rischiava di creare solo caos li ho divisi in piccoli gruppi dando consegne diverse: in questo modo mentre un gruppo faceva l’esperienza, gli altri potevano osservare ciò che accadeva. Ho invitato quindi un gruppo a fare le bolle vicino al calorifero, un altro vicino alla finestra, uno al buio, un altro alla luce del lampadario e per finire un gruppo all’aperto e un altro ancora al chiuso. Quello che i bambini hanno osservato è stato riportato in una tabella intitolata “che cosa succede subito alla bolla?”. Lo scopo era quello di verificare se in determinate situazioni le bolle “scoppiano” o “non scoppiano subito”. 108 109 Dopo l’esperienza fatta dai diversi gruppi li ho aiutati a riflettere tramite una discussione guidata. Ho chiesto alla classe: “che cos’è che fa scoppiare o non scoppiare le bolle di sapone?” A.: “vicino alla finestra scoppiano perché il vetro è asciutto e duro” M.: “scoppiano vicino al calore” A.: “al buio scoppiano di meno perché ad esempio la luce del sole o del lampadario le scalda” E.: “all’aperto le bolle di sapone durano di più perché è freddo, però dopo che si è mosso il vento sono scoppiate subito” “Al chiuso invece cosa succede?” N.: “al chiuso dentro una scatola scoppiano subito perché non possono muoversi” “E vicino al termosifone cosa succede?” G.: “Scoppiano molto velocemente perché la temperatura è troppo alta.” 110 Attraverso il confronto, i bambini sono arrivati alla conclusione che la temperatura più alta fa scoppiare prima le bolle; il freddo le aiuta a durare di più e che anche il vento è un pericolo per le bolle di sapone. Ho chiesto loro quali effetti può avere la temperatura dell’aria sulla durata di una bolla. Ho cercato di favorire la riflessione e semplificare la difficoltà del ragionamento fornendo esempi ed analogie prese dalla vita quotidiana. Finalmente ho davanti un bel gruppetto di bambini pronti a fornirmi una risposta. Decido di chiamare un bambino particolarmente silenzioso, che risponde in questo modo: “al caldo l’aria che è contenuta all’interno della bolla si gonfia fino a romperla.” Gli dico che è stato bravissimo e che il concetto è esatto; domando ai bambini se sono tutti d’accordo. Qualcuno dice di sì e qualcun altro di no. Allora domando la motivazione a chi non si era trovato d’accordo con il compagno. F. allora dice: “per me l’aria non si può gonfiare ma si allarga e fa rompere la bolla.” A. precisa ancora meglio dicendo: “sono d’accordo anch’io con F. ma è meglio dire che al caldo l’aria dentro la bolla di sapone si dilata e la fa scoppiare.” “E al freddo cosa succede?”, domando. 111 L: “al freddo l’aria dentro la bolla si restringe e quindi le bolle di sapone durano di più.” I bambini sono arrivati tramite la discussione ad una conclusione in cui tutti si sono trovati d’accordo. Prima di creare una ricetta per bolle resistenti, ho approfondito in modo più scientifico ciò che loro avevano appreso tramite l’esperienza diretta. Ho spiegato che, come avevano potuto sperimentare loro stessi, esistono dei pericoli per le bolle di sapone. Il calore prodotto dal termosifone fa aumentare la pressione all’interno della bolla, dove vi sono aria e vapore acqueo, fino a romperla; la polvere o il vento agiscono sulle bolle rompendone la membrana superficiale; l’anidride carbonica, essendo un gas più pesante dell’aria, fa sì che le bolle gonfiate con il nostro fiato stiano sospese nell’aria solo per poco tempo e quindi cadendo verso terra siano destinate a scoppiare; per finire l’aria secca fa evaporare più velocemente la pellicola d’acqua che forma le bolle. Il calore agisce anche favorendo l’evaporazione dell’acqua che si trova nell’intercapedine tra i due strati superficiali di sapone, quindi la pellicola d’acqua si assottiglia e, non riuscendo più a contrastare la pressione dell’aria esterna, scoppia. Però c’è un amico delle bolle di sapone ed è il freddo. Infatti se proviamo a mettere l’acqua saponata in frigo per qualche minuto, possiamo riuscire a rallentare l’evaporazione della pellicola d’acqua e la bolla di sapone dura più a lungo. Ma le bolle hanno anche un’altra amica che è l’umidità; infatti se proviamo a fare le bolle di sapone nei giorni di pioggia o più semplicemente se proviamo a spruzzare un po’ d’acqua nell’aria circostante le bolle durano di più. Per facilitare la spiegazione mi sono avvalsa del seguente cartellone: 112 Esaurito l’argomento, pongo alla classe questa domanda: “come dobbiamo fare secondo voi per ottenere bolle più resistenti?” I bambini hanno suggerito di mettere più sapone nella soluzione. Siccome non sono emersi altri suggerimenti, ho proposto ai bambini di dividersi in piccoli gruppi e precisamente in due gruppi da quattro e in due gruppi da cinque; ho chiesto loro di sistemare i banchi per poter lavorare. In questa fase 113 organizzativa i bambini si sono trovati decisamente smarriti, perché, pur essendo in quinta, non sapevano disporre i banchi per lavorare a gruppi. Ho intuito così che non avevano mai fatto alcun lavoro a piccoli gruppi e purtroppo ne ho avuto conferma dopo averglielo domandato. Dopo aver sistemato i banchi con il mio aiuto, ho messo a loro disposizione tutto il materiale che avevo preparato (detersivo liquido concentrato, detersivo in polvere, glicerina, sale, zucchero, miele, colla vinilica, acqua del rubinetto, acqua distillata, piatti e bicchieri) per poter creare una ricetta ottimale per ottenere bolle che durino il più a lungo possibile. Ho fornito inoltre una bacinella, un cucchiaio, una siringa da 5 ml e una bottiglia di plastica per ogni gruppo. Prima di iniziare, ho mostrato ai bambini un diagramma a blocchi con una ricetta base per bolle di sapone resistenti. 114 Ho spiegato che, prima di utilizzare gli ingredienti, sarebbe stato opportuno scrivere la loro ricetta, come avevo mostrato nel cartellone. Ho detto loro che erano liberi di modificarla a loro piacimento, aggiungendo o togliendo ingredienti, modificando le dosi che io avevo scritto; l’unica cosa che avrebbero dovuto mantenere costante era l’utilizzo di 1 litro di acqua di rubinetto o di acqua distillata. Operando in questo modo i bambini hanno avuto modo di cooperare attivamente tra di loro. Oltre a condividere strategie per ottenere il risultato finale, hanno imparato a rispettare il compagno all’interno del gruppo, ad interagire, a condividere le loro idee e a collaborare. 115 116 Dopo aver progettato le loro “pozioni magiche” (così le abbiamo chiamate), i bambini con ordine si sono avvicinati al tavolo degli ingredienti per poter prendere ciò di cui avevano bisogno. E, mescolata dopo mescolata, ecco che nelle bacinelle sono apparse le fatidiche pozioni. Li ho aiutati a travasarle nelle bottiglie e ho spiegato loro che dovevamo lasciarle riposare almeno due o tre giorni perché era necessario far evaporare l’eventuale alcool presente nel detersivo. Ed ecco finalmente è arrivato il giorno di provare a fare le bolle con le ricette create dai bambini. Devo ammettere che ero molto preoccupata durante questi giorni di attesa, perché avevano usato di tutto e avevo paura che alla fine restassero delusi. Invito i bambini a disporsi di nuovo a gruppi: ciò ha suscitato entusiasmo. Consegno un bicchiere di plastica e un telaio (preso dalle confezioni comprate), fornisco loro un foglio e li informo che prima di verificare se le bolle riescono o non riescono devono fare delle ipotesi: ogni bambino del gruppo dovrà esprimere la sua previsione, poi si proverà a fare le bolle, si scriverà la verifica e infine le conclusioni. Spiego quindi ai bambini che il metodo che utilizzeranno si chiama metodo sperimentale e che viene utilizzato dagli scienziati. Dopo aver scritto le ipotesi, dico che è arrivato il momento di verificare se le bolle riescono o meno. Purtroppo su quattro gruppi solo tre riescono nel loro intento: non sto a dire la delusione. 117 118 Decidiamo di misurare il tempo di vita delle bolle fatte con le loro ricette. Suggerisco due modi per contare la dura delle singole bolle: uno soggettivo, contando tutti insieme ad alta voce, ed uno oggettivo, utilizzando un cronometro. I bambini hanno optato per la seconda possibilità. Visto che sono tutti d’accordo su quanto detto, propongo di misurare il tempo di vita di cinque bolle per ogni gruppo, di prendere nota di ogni misurazione e poi di fare la media aritmetica per vedere quanto possono vivere in media le bolle. Propongo ai bimbi di creare una ricetta per bolle resistenti condivisa da tutta la classe, sulla base delle ricette create dai quattro gruppi. Riporto alla lavagna, sotto loro indicazioni, gli ingredienti che ogni gruppo ha utilizzato. 119 Successivamente i bambini tutti insieme scelgono l’ingrediente da utilizzare e la quantità. Scrivo la ricetta della classe alla lavagna. Per evitare discussioni su chi avrebbe preparato la “pozione”, decido di farla io; chiedo però ai bambini di leggermi gli ingredienti che dovrò utilizzare. Mescoliamo gli ingredienti scelti e mettiamo a riposare la pozione di classe… non ci resta che attendere. È arrivato il giorno di provare a fare le bolle con la ricetta di classe, riusciranno oppure no? I bambini come sempre sono divisi in piccoli gruppi. Consegno loro un telaio, un bicchiere, dove verso un po’ di pozione, e per finire un foglio, dove poter fare le loro ipotesi. Ed ecco che provano a fare le bolle… sono veramente molto resistenti, rimbalzano perfino. 120 Il mio scopo adesso è quello di fare delle bolle molto grandi e propongo ai bambini questa mia idea. Scrivo alla lavagna la ricetta base per creare bolle di sapone di grosse dimensioni; gli ingredienti e le operazioni da eseguire vengono scritte sempre all’interno di un diagramma a blocchi, come avevamo fatto con l’altra ricetta. 3 cucchiai di detersivo 1 litro di acqua Mescolare bene Lasciare riposare 121 1 cucchiaio di zucchero Dico ai bambini che possono variare la quantità degli ingredienti scritti, mantenendo costante la quantità di un litro d’acqua. Questa volta voglio che assumano una metodologia più simile al metodo scientifico, ossia dalla ricetta di partenza saranno invitati a modificare solo una cosa per volta. Sistemo su un banco al centro della classe gli ingredienti (sapone in polvere, zucchero e acqua di rubinetto). Consegno ad ogni gruppo una bacinella, un cucchiaio e una bottiglia di plastica vuota. Adesso possono iniziare il loro lavoro, come avevano appreso la volta precedente: scrivono prima gli ingredienti e la loro quantità attraverso il diagramma a blocchi. Ed eccoli all’opera… finalmente le pozioni sono pronte e, dopo aver versato il liquido nelle bottiglie, le lasciamo riposare i canonici tre giorni. “Cosa ci servirà per fare delle bolle grandi a parte una soluzione ottimale?” L.: “il telaio” Tutti i bambini sono d’accordo con la compagna di classe. “Ma secondo voi il telaio che abbiamo usato fino ad oggi per fare le bolle può 122 andare bene?” Dopo un po’ di silenzio, E. dice che “forse non va bene perché è troppo piccolo e quindi le bolle che escono sono piccole”. L. interviene dicendo: “ma i telai che vendono nelle confezioni per fare le bolle sono tutti piccoli” A.: “ci vuole per forza un telaio grande ma non esiste.” Così dico: “che cosa ne dite di farne uno grande come questo?” Mostro il telaio costruito da me con lo spago e le cannucce. Sui loro volti si è acceso un bel sorriso… Fornisco quindi a ogni bambino un pezzo di spago abbastanza lungo e due cannucce. Spiego che realizzare il telaio che ho fatto è facilissimo: basta far passare il filo nelle cannucce e fare un nodo per chiudere il telaio. Le cannucce, come hanno potuto vedere, devono essere posizionate sui lati opposti. I bambini si mettono al lavoro ed ecco che tutti hanno il loro telaio per fare bolle giganti. Siccome non è ancora possibile provare la soluzione per bolle giganti, ne approfitto per dare qualche spiegazione scientifica di ciò che fino a quel momento hanno appreso attraverso gli esperimenti. Utilizzando anche questa volta un cartellone, spiego loro che piccole quantità di sapone sono sufficienti per ottenere bolle di dimensioni significative. L’ingrediente più adatto è il sapone liquido per i piatti, sempre meglio quello concentrato. L’aumento della 123 concentrazione di sapone in acqua porta all’aumento del numero delle molecole che possono essere utilizzate per dare origine alla superficie della bolla, composta da: sapone – acqua – sapone, che dunque potrà formare una sfera di superficie maggiore. Inoltre alcuni ingredienti come lo zucchero, il miele o la glicerina, legandosi alle molecole d’acqua che stanno nella lamina che forma le bolle, le rendono più resistenti per due ragioni: contrastano la discesa verso il basso delle molecole d’acqua dovuta alla forza di gravità, e così, almeno per un po’, impediscono alla pellicola di acqua di assottigliarsi fino a rompersi; rallentano l’evaporazione della pellicola d’acqua che, assottigliandosi più lentamente, permetterà alla bolla di durare più a lungo. 124 Finalmente una mattina è arrivato il momento di provare le bolle di “grosse dimensioni”; decido di uscire con i bambini nel cortile della scuola, perché in questo modo hanno la possibilità di muoversi più facilmente e le bolle hanno meno probabilità di scoppiare urtando contro i molteplici oggetti che affollano l’aula. 125 126 Non è stato facile per i bambini fare le bolle di sapone, perché purtroppo questa mattina ogni tanto soffiava il vento e di conseguenza le faceva scoppiare. Però i risultati sono stati comunque soddisfacenti e loro si sono divertiti moltissimo ugualmente, come si può vedere dalle espressioni dei loro volti. 6.3 Terza fase: attività con le graffette Obiettivo: la scoperta della tensione superficiale Alla tensione superficiale, che è un argomento particolarmente complesso, ho dedicato due fasi. Prima di parlare della tensione superficiale, è necessario precisare l’idea di galleggiamento. Un oggetto galleggia quando sfrutta la spinta idrostatica per rimanere in prossimità della superficie dell’acqua, pur penetrando in parte in essa. È proprio grazie all’acqua spostata che l’oggetto galleggia; infatti il principio di Archimede afferma che: “un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del liquido spostato”. Da questa definizione discende una conseguenza 127 importante: affinché un oggetto galleggi in acqua, la sua densità media deve essere inferiore alla densità dell’acqua. Tuttavia, in alcuni casi questa regola sembra violata, come nel caso di una graffetta di metallo, che è possibile “appoggiare” sulla superficie dell’acqua senza che questa vada a fondo. Innanzitutto cercherò di far comprendere ai bambini cosa accade alla superficie dell’acqua quando vi posiamo sopra qualcosa che resta in superficie come una graffetta di metallo e cosa succede quando vi si aggiunge del sapone. Come di consueto i banchi sono disposti in modo da poter organizzare il lavoro in piccoli gruppi. A disposizione di ogni gruppo ho messo una bacinella di plastica trasparente colma d’acqua e delle graffette di metallo, un bicchiere con un po’ di coca cola, un bicchiere con il latte e un bicchiere con il sapone e per finire una siringa. Per questa attività avevo preparato anche un tabella intitolata “le graffette galleggiano o non galleggiano?” disegnata su un foglio di carta da pacchi. Prima di iniziare l’esperimento chiedo alla classe se secondo loro le graffette avrebbero galleggiato oppure no. Metà classe ha risposto di sì e l’altra metà di no. Propongo ai bambini di appoggiare delicatamente una graffetta sulla superficie dell’acqua cercando di farla galleggiare. Questo esperimento non è di facile esecuzione perché serve molta delicatezza! Dopo diversi tentativi non andati a buon fine sono riusciti a posizionare la graffetta sulla superficie dell’acqua. In questo modo hanno potuto notare che le graffette lasciate scivolare sulla superficie dell’acqua riescono a galleggiare. Suggerisco di provare ad aggiungere un po’ di latte con la siringa e chiedo se con l’aggiunta di latte la graffetta galleggia. In modo corale mi rispondono che la graffetta galleggia ancora. 128 “Adesso prendete con la siringa un po’ di coca – cola e mettetela nell’acqua.” I bambini osservano che la graffetta continua a rimanere a galla. 129 Come ultima cosa chiedo di aggiungere un po’ di sapone, e con lo stupore generale la graffetta affonda in un lampo. 130 Dopo aver terminato gli esperimenti abbiamo raccolto il risultato nella tabella preparata. Spiego ai bambini che con l’aggiunta del sapone si rompe la pellicola superficiale dell’acqua; “vi ricordate che avevamo visto che il sapone si mette tra le molecole…” i bambini concludono la frase dicendo “dell’acqua”. Per ora non dico altro, ma leggo una storia e mi preparo a rivolgere loro alcune domande. 131 La graffetta Loretta La graffetta Loretta era proprio molto carina. Così carina che tutti, dal temperino all’evidenziatore al pennarello, la guardavano ammirati. Una volta la graffetta stava trattenendo dei fogli colorati proprio vicino ad un bellissimo piattino pieno d’acqua. Il piattino Giacomino le gettò uno sguardo distratto e subito se ne innamorò. Anche Loretta si innamorò del piattino: “Vorrei stare un po’ con te”, disse il piattino. “Anche a me piacerebbe molto…”, rispose Loretta. Lui continuò: “Vorrei che tu galleggiassi con me”. E lei: “Purtroppo credo di essere troppo pesante… io sono di metallo!”. Poi d’improvviso Giacomino s’illuminò: “Ho trovato la soluzione, aspetta e vedrai…”. Egli chiamò a raccolta tutte le molecole di acqua e chiese loro aiuto: “Dovete aiutarmi!!! Ho bisogno che vi mettiate tutte vicine come una rete elastica per far galleggiare Loretta”. Le molecole ubbidienti si disposero l’una accanto all’altra, strette strette tra loro, e Loretta si sdraiò piano piano sulla superficie: Giacomino e Loretta riuscirono così a coronare il loro sogno. Ma un brutto giorno un bimbo dispettoso fece cadere una goccia di sapone nel piattino indebolendo irrimediabilmente la rete delle molecole che prima era molto resistente: Loretta, non più sostenuta, precipitò e da quel giorno dovette accontentarsi di vivere insieme a Giacomino, ma restando sul fondo. Attraverso delle domande guidate ho aiutato i bambini ad arrivare ad una conclusione condivisa. “Chi mi racconta la storia?” L. racconta diligentemente tutta la storia. Interviene E., precisando che: “la rete che avevano formato le molecole si spezza.” Quindi chiedo: “Loretta da cosa era sostenuta?” M. risponde: “dalla rete formata dalle molecole d’acqua.” Domando ancora: “ma le molecole come si erano disposte?” L: “vicine, strette l’una accanto all’altra.” “E con il sapone cosa è capitato?” Domando. D.: “il sapone le ha fatte allontanare e quindi Loretta è caduta.” Ricordo ai bambini l’esperimento fatto poco prima quando avevano potuto verificare che la graffette con l’aggiunta del sapone precipitata sul fondo della 132 bacinella. Chiedo “cosa avete capito da questa breve storiella?” A.: “le molecole dell’acqua sono vicinissime tra loro e in superficie formano un letto, così la graffetta Loretta può restare sdraiata sull’acqua.” A. ha fatto un buon esempio; chiedo se ci sono altre idee. P. dice: “secondo me la rete delle molecole d’acqua che si trovano in superficie forma come un coperchio.” A questo punto spiego che la forza che tiene tesa la superficie dell’acqua viene chiamata dagli scienziati “tensione superficiale” ed è proprio questa che sostiene Loretta. Il sapone indebolisce o spezza la rete tra le molecole di acqua in superficie e perciò la graffetta, non più sostenuta, precipita sul fondo. Per verificare se hanno capito la relazione forza – rete – tensione, chiedo loro di completare individualmente alcune frasi. Nell’incontro successivo riprendo l’argomento riguardante la tensione superficiale chiedendo ad un bambino di raccontare di nuovo la storia della graffetta Loretta. “Visto che la storiella ve la siete ricordata molto bene, voglio chiedervi se vi ricordate anche il nome scientifico che viene dato alla forza prodotta dalla rete di molecole d’acqua.” Le mani piano piano iniziano ad alzarsi tutte; la risposta viene data da E. che dice: “tensione superficiale.” “Molto bene, questa mattina continuiamo gli esperimenti sulla tensione 133 superficiale.” Spiego ai bambini che ho portato degli strumenti che usano proprio gli scienziati. Mentre tiro fuori dalla mia borsa il materiale che ci sarebbe servito per continuare gli esperimenti, un bambino mi chiede se anche nell’acqua distillata ci sono le molecole d’acqua. Così ne approfitto per spiegare la differenza tra l’acqua del rubinetto e l’acqua distillata. Continuo a prendere gli strumenti e ogni volta specifico il nome e spiego a cosa serve. Arrivati al dinamometro, ne approfitto subito per mostrare come è fatto e per sottolineare che serve per misurare le forze, che hanno una loro unità di misura che si chiama Newton. Una bambina mi domanda se dopo la laurea farò la scienziata e io le rispondo che farò la maestra. È stata molto simpatica e mi ha fatto sorridere. Dopo questa piccola parentesi vado avanti con le spiegazioni sui vari oggetti che utilizzerò per l’esperimento. Quest’ultimo verrà fatto con acqua di rubinetto, acqua distillata e per finire con acqua e sapone. Finalmente siamo pronti per misurare la forza della tensione superficiale. L’esperimento consiste in un piccolo anello di metallo, attaccato al dinamometro mediante tre fili sottilissimi. Il dinamometro, a sua volta, è attaccato a un sistema di aste di sostegno. Una bacinella piena d’acqua è appoggiata su un piano di altezza regolabile. Il sostegno viene prima alzato, per immergere l’anello, e poi abbassato per farlo uscire dall’acqua. Si misura la forza massima registrata dal dinamometro prima che l’anello riesca a uscire completamente. Come prima cosa appendiamo l’anellino metallico al dinamometro e misuriamo tutti insieme la forza-peso che viene segnata alla lavagna. Dopo aver scritto F, chiedo: “lo sapete per che cosa sta F?” Tutti insieme hanno risposto che F sta per forza. Quindi potevo andare avanti con l’esperimento. Chiedo ad un bambino di aiutarmi a leggere le divisioni sul dinamometro. Il primo esperimento viene fatto utilizzando l’acqua di rubinetto. Dopo che l’anellino è stato immerso in acqua, si abbassa lentamente il piano di appoggio della bacinella. Si osserva un fenomeno particolare: sembra che l’acqua si attacchi all’anello, impedendogli di uscire. Improvvisamente, però, la pellicola d’acqua si rompe e l’anello balza verso l’alto. 134 Terminato l’esperimento, calcoliamo la forza con cui la tensione superficiale agisce sull’anello, facendo la differenza fra la forza massima segnata dal dinamometro prima del distacco e la forza peso dell’anello. 135 Il secondo esperimento viene fatto con acqua distillata. Terminato l’esperimento, i bambini notano che la forza con cui la tensione superficiale agisce sull’anello è esattamente uguale a quella che avevamo ottenuto con l’acqua del rubinetto. Quindi, come abbiamo detto prima, l’unica differenza tra acqua distillata e acqua di rubinetto è che la prima è priva di sali minerali, ma per quanto riguarda la tensione superficiale si comporta nello stesso modo. Il terzo esperimento viene fatto con acqua di rubinetto con l’aggiunta di una goccia di sapone. Mentre aggiungo il detersivo liquido chiedo ai bimbi di ripetermi che cosa fa il sapone. E. risponde dicendo che: “il sapone rompe la tensione superficiale formata dalle molecole d’acqua.” M. “le fa allontanare, mettendosi in mezzo alle molecole d’acqua.” I bambini notano subito che per l’anello metallico è meno difficile entrare nell’acqua; quindi la tensione superficiale si è abbassata. Dopo questo esperimento, in cui abbiamo ripetuto la misura delle forze in gioco, verifichiamo che la forza con cui agisce la tensione superficiale sull’anellino è minore rispetto alle situazioni precedenti. 136 Faccio una sintesi di quanto abbiamo visto: “abbiamo verificato attraverso gli esperimenti la differenza della forza della tensione superficiale; questa nell’acqua del rubinetto è molto forte e le molecole d’acqua si tengono strette strette; quando arriva il sapone, invece, le molecole si allontanano e la rete diventa più debole”. Per l’esperimento successivo prendo tre monetine, una da un centesimo, una da due e una da cinque centesimi, e una bottiglietta d’acqua con il contagocce. Le dispongo tutte e tre sulla cattedra e domando: “secondo voi quante gocce d’acqua possono entrare in una monetina da un centesimo?” Provate a pensarci”. E in breve tempo arrivano le prime risposte. I bambini rispondono dicendo che per loro ci sta solo una goccia d’acqua. “C’è qualcuno che pensa che ce ne possano stare più di una?” Nessuno risponde. F. dice: “forse due”. Gli altri bambini ci pensano un po’, poi concordano con la compagna. Inizio a fare qualche proposta dicendo: “che ne dite di quattro, sette, dieci gocce d’acqua?” Nessuno mi appoggia. Vado avanti nella mia sfida e dico: “quindici gocce!” A questo punto è arrivato il momento di provare a mettere le goccioline d’acqua sulla monetina. 137 Invito i bambini a contarle mentre le lascio cadere: uno, due, tre, (avevo già superato le loro aspettative ma continuiamo!) quattro, … sette, dieci, … quindici, … diciotto ed alla diciannovesima goccia l’acqua fuoriesce dalla monetina. Concludiamo che su una moneta da un centesimo possono entrarci circa diciotto gocce d’acqua. Domando come si è disposta l’acqua sulla monetina. L. risponde che: “forma una cupola.” “Ma chi forma questa cupola?” Qualcuno suggerisce che entrino in gioco le molecole d’acqua. “Più precisamente le molecole dell’acqua che si trovano dove?” M. risponde dicendo: “quelle che stanno in superficie”, aggiungendo poi che: “sono tese tra di loro e formano una rete.” “Quindi che cosa fa questa rete?” E. risponde dicendo che: “questa rete tiene insieme le molecole d’acqua della superficie e non le fa cadere; questo fenomeno si chiama tensione superficiale.” Ripetiamo l’esperimento anche con le monete da due e da cinque centesimi. Gli esperimenti con queste due monetine sono stati fatti per soddisfare la vivace curiosità dei bambini. Hanno scoperto così che nella moneta da due centesimi ci possono stare circa ventisette gocce d’acqua. I bambini si sono fatti prendere da un forte entusiasmo nello scommettere il numero delle gocce che può contenere una moneta da cinque centesimi, così alla fine hanno detto che ci stanno un minimo di trentacinque gocce e un massimo di quaranta gocce. Ed ecco che tutti insieme iniziano a contare. Alla fine hanno scoperto che nella monetina da cinque centesimi ce ne stanno circa trentasei. Chiedo ai bambini di dividersi nuovamente a gruppi e faccio distribuire i fogli. Consegno un bicchierino a gruppo, un po’ di borotalco e del sapone. Domando: “il borotalco galleggia o non galleggia?” I bambini iniziano a scrivere le loro ipotesi prima di fare l’esperimento. Terminata questa prima fase metto nel bicchiere pieno d’acqua un po’ di borotalco. 138 139 Verificano che il borotalco galleggia. Chiedo adesso di fare una seconda ipotesi, riflettendo sulla domanda “il borotalco con l’aggiunta di sapone nell’acqua galleggia o non galleggia?” Suggerisco che per verificare quello che succede realmente al borotalco bisogna aspettare qualche istante. I bambini scrivono la seconda ipotesi e, dopo che hanno terminato di esprimere il loro pensiero, verso un po’ di sapone nei loro bicchieri contenenti appunto acqua e borotalco. 140 Dopo qualche istante il borotalco piano piano inizia a scendere verso il fondo. Al termine dell’esperimento la classe trae le sue conclusioni in maniera condivisa affermando che il borotalco si è posato sul fondo a causa del sapone che rompe la tensione superficiale. è arrivato il momento di proporre alla classe un altro esperimento di forte impatto visivo. Consegno una bacinella ad ogni gruppo, dove verso le soluzioni create precedentemente. Chiedo ad una bambina di prendere i telai fatti con lo spago e le cannucce e di distribuirli ai compagni di classe. L’obiettivo di questa esperienza è far vedere che esiste una forza che tende a far contrarre le superfici che delimitano i liquidi ed è ben visibile in particolare con le lamine saponose. Prima di tutto domando ai bambini di prendere in mano l’estremità del telaio dalla parte dove si trova una cannuccia e di osservare che il telaio ha la forma di un rettangolo. A questo punto dico loro di immergerlo completamente nell’acqua saponata e di estrarlo delicatamente. I bambini notano che su di esso si è formata una lamina di sapone e che i lati del rettangolo fatti con lo spago hanno assunto la forma di due archi. 141 142 Spiego ai bambini che la lamina saponosa ha tanta forza da attirare i lati del rettangolo, curvandoli verso l’interno del telaio; questa forza è proprio la manifestazione della tensione superficiale. Quando la lamina si rompe, come i bambini hanno notato più volte, questi due lati tornano nella configurazione di partenza. A questo punto propongo ai bambini di costruire un telaio con il filo di ferro. Mostrando loro un telaio costruito da me, spiego come procedere. Con un filo di ferro dovranno realizzare una U e un cursore, le cui estremità possono muoversi sui lati della U. Li informo che questo telaio serve per verificare la forza delle lamine saponose e quindi della tensione superficiale. Ed eccoli all’opera. 143 Dopo aver terminato la realizzazione dei telai a forma di U consegno ad ogni gruppo una bacinella e la soluzione di acqua saponata che avevano realizzato nella fase precedente. Prima di far provar loro l’esperimento, spiego quello che dovranno fare. 144 Da questo esperimento gli alunni hanno potuto osservare che il lato mobile del telaio viene richiamato con forza verso il fondo della U dalla tensione superficiale della membrana saponosa. Sono stati inoltre invitati a tenere fermo con le dita il cursore, perché potessero rendersi conto della forza esercitata dalla lamina saponosa. 6.4 Fase quattro: ancora in … tensione superficiale Obiettivo: la tensione superficiale Siccome anche questa fase è dedicata alla tensione superficiale, inizio l’incontro proponendo un subito un esperimento per aver la possibilità di ricapitolare quanto appreso nella lezione precedente. Ad ogni gruppo consegno una bacinella e a ciascun bambino una bottiglietta piena d’acqua e un pezzettino di garza medica. Chiedo di osservare bene la garza e di descriverla. N. dice che “è molto sottile e ha tanti buchi”. D. precisa che: “in alcuni punti i buchi sono larghissimi”. Ripeto a tutti che la garza è molto sottile e ha le maglie larghe; invito i bambini a togliere il tappo dalla bottiglietta e a mettere sull’apertura la garza; dopo questa operazione dovranno capovolgere la bottiglia. Prima di iniziare l’esperimento, domando: “secondo voi, se si capovolge la bottiglia l’acqua esce o non esce e perché?” I. dice che l’acqua non esce perché la garza assorbe l’acqua e alcuni bambini sono d’accordo con lei. A.: “per me esce perché la garza è sottile e poi ha i buchi, quindi l’acqua esce per forza”. Altri bambini condividono l’ipotesi di A. F.: “per me, quando giri la bottiglietta, l’acqua forma una cupola sui buchini e quindi non esce”; solo in due si trovano d’accordo con la compagna. Chiedo se ci sono altre ipotesi. E.: “la garza fa come la tensione superficiale dell’acqua, che per un po’trattiene l’acqua; poi si rompe e la fa passare”; in due sono d’accordo con E. D.: “non esce perché i buchini sono piccolissimi e l’acqua non riesce a passare”. 145 A.: “l’acqua non passa e basta.” Visto che non ci sono altre ipotesi, invito ai bambini a fare l’esperimento. Prima però suggerisco come posizionare in modo corretto la garza, così che risulti ben tesa; spiego inoltre che devono posizionare la bottiglietta in verticale e ovviamente aggiungo di capovolgere la bottiglietta sopra la bacinella per evitare inconvenienti. 146 Dopo aver verificato, tutti in coro i bambini dicono che l’acqua non passa. “Perché l’acqua all’inizio esce e poi non esce più?” N.: “secondo me non esce perché si forma una pellicola” “E cosa fa questa pellicola secondo te?” A.: “secondo me quando giri la bottiglia esce un po’ d’acqua, ma entra l’aria, che quindi fa da tappo” M.: “secondo me quando giri la bottiglia la garza non si bagna completamente” D.: “quando giri la bottiglia l’acqua crea una striscia sottile d’acqua che impedisce all’acqua stessa della bottiglia di uscire come se fosse un tappo” Siccome non ci sono altre idee, intervengo dicendo che D., come P. prima, con parole semplici hanno dato la spiegazione giusta; a questo punto spiego cosa è successo alle molecole dell’acqua. “Quando giriamo completamente la bottiglia le molecole vanno a mettersi all’interno dei buchetti della garza e quindi formano una rete di molecole sopra la rete della garza e l’acqua non esce più.” “Sapete dirmi perché mentre giro la bottiglia l’acqua esce?” E.: “mentre stiamo girando la bottiglia l’acqua esce un pochino perché non si appoggia tutta sulla garza” “Molto bene! Mentre capovolgo la bottiglia succede che la rete dell’acqua non ha ancora coperto tutta la garza e l’acqua trova ancora qualche spazio per 147 uscire; una volta che la nostra bottiglietta si trova in posizione verticale, l’acqua ha finalmente ricoperto tutta la garza e riesce a coprirne completamente i buchini. Questo è l’effetto della tensione superficiale.” Proseguo l’incontro dicendo: “se le molecole che stanno in superficie si legano tra loro per formare una rete, forse questa si potrebbe rompere semplicemente… tagliandola con un dito!!! Proviamo a vedere se è vero?” Ad ogni bambino vengono consegnati un bicchiere colmo d’acqua e delle graffette. Invito i bambini a far scivolare le graffette sulla superficie dell’acqua; ormai riescono a compiere l’operazione senza grosse difficoltà. 148 Dopo aver fatto scivolare le graffette sull’acqua, propongo loro di tagliare la superficie con il dito, in una zona vicina alla graffetta o un po’ più lontana. Il risultato di questa osservazione verrà aggiunto alla tabella “le graffette galleggiano o non galleggiano?”. Prima di iniziare l’esperimento domando: “secondo voi la graffetta galleggia oppure no, se taglio la superficie dell’acqua con il dito?” I bambini ipotizzano che cada sul fondo ed E. precisa il concetto, fornendo una spiegazione: “perché si rompe la tensione superficiale.” Invito i bambini a rompere la superficie dell’acqua in punti differenti con il dito. 149 Come avevano correttamente ipotizzato, le graffette cadono sul fondo. Chiedo: “secondo voi qual è la conclusione dell’esperienza fatta?” A. risponde dicendo: “se si taglia in qualunque posto la superficie dell’acqua le graffette cadono.” “Siamo tutti d’accordo?” Rispondono di sì. L. interviene dicendo che è d’accordo con i compagni; ma riformula il concetto in modo più preciso affermando che: “quando tagliamo con un dito la pellicola superficiale dell’acqua, questa si rompe e le graffette affondano.” Dopo aver terminato l’esperimento abbiamo raccolto il risultato nella tabella “le graffette galleggiano o non galleggiano”. Per consolidare ciò che i bambini hanno imparato propongo un gioco. In questo gioco ogni bambino si trasforma in una molecola d’acqua; le varie molecole, tenendosi per mano, interagiscono fra loro. Ciascun bambino indossa un’immagine che rappresenta la molecola H2O, da me preparata in precedenza con il cartoncino colorato. Per avere più spazio ci siamo spostati nella palestra della scuola. Prima di iniziare l’attività ho spiegato ai bambini qualcosa sulla molecola dell’acqua: un piccolo approfondimento mi sembrava doveroso. Prendo le molecole d’acqua e ne consegno una a ciascun bambino. “Ora che vi siete trasformati tutti nelle molecole dell’acqua, ditemi cosa c’è scritto sopra i cartoncini”. Leggono lettera per lettera quello che è scritto sul cartoncino: “ H – H – O” , poi leggono tutto insieme “H2O”. 150 “È il nome della molecola d’acqua!!!” aggiungono. “Ciascuno di voi ha due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno; secondo voi perché li ho posizionati proprio in quel modo e non in un altro? Pensateci bene!” La prima risposta è stata un boh generalizzato; poi silenzio. Finalmente interviene M. dicendo: “perché così le hai fatte tutte uguali”. Rispondo che effettivamente le molecole d’acqua sono tutte uguali; “In ogni caso c’è un motivo ben preciso nella disposizione che ho scelto …” altro attimo di silenzio. “Provate a guardarvi l’un l’altro”, suggerisco. Spiego loro che le molecole d’acqua tendono ad attrarsi reciprocamente. Gli atomi di ossigeno hanno la tendenza a legarsi ad atomi di idrogeno di molecole vicine: questo accade perché l’ossigeno rappresenta un polo elettrico negativo mentre l’idrogeno è un polo elettrico positivo. I due poli opposti si attraggono. “Un po’ come succede con le calamite!” ha esclamato qualcuno. Avendo assegnato a ciascun bambino una molecola d’acqua per la riuscita del gioco, è importante che le diverse molecole siano orientate in modo da favorire i legami, cioè così: H+ + H O- H+ + O- H H+ + O- H A questo punto chiedo a tre bambini di prendersi per mano, e spiego che le molecole d’acqua si legano tra di loro in un modo simile. Aggiungo che questo legame viene chiamato dagli scienziati legame a idrogeno. Ora siamo pronti per iniziare il nostro gioco di simulazione. Tutti i bambini si prendono per mano. Chiedo loro di iniziare a tirarsi, e quando si staccano devono cercare di riunirsi al compagno. Tutto il gruppo si è divertito tantissimo durante la simulazione, che si è svolta tra molte risate. Vi ha partecipato anche la maestra Manuela. 151 Richiamo i bambini intorno a me e spiego che ciò che abbiamo simulato nel gioco è simile a ciò che accade quando tagliamo l’acqua o la buchiamo con il dito, come abbiamo fatto nell’esperimento precedente. “Sapete a questo punto spiegarmi in modo preciso ciò che succede nel caso dell’acqua?” Silenzio generale: tutti pensano. Ed ecco due mani alzate! F. dice: “mentre stavamo giocando e ci tiravamo ci siamo divisi tante volte e tutte le volte con fatica abbiamo cercato di riprenderci per mano”. Spiegando quello che è accaduto durante il gioco, F. ha dato in modo “embrionale” una buona spiegazione. Domando se qualcuno vuole aggiungere qualcosa o esprimere in altro modo ciò 152 che la compagna ha detto, pensando anche all’esperimento che avevamo fatto poco prima in classe. C’è di nuovo silenzio, ma alla fine A. alza la mano e dice: “quando abbiamo tagliato l’acqua, le molecole che si trovano in superficie, cioè quelle che si trovano in tensione sulla superficie, cercano di riavvicinarsi per tappare il buco, come abbiamo fatto noi quando ci siamo staccati tirandoci e poi abbiamo cercato di riprenderci per mano”. Gli dò conferma che quanto ha detto è corretto, e aggiungo: “la tensione superficiale secondo voi diminuisce o aumenta in questo caso e cosa è successo alla graffetta durante l’esperimento precedente?” Tutti in coro rispondono che “diminuisce… e che la graffetta affonda”. Per concludere chiedo se siamo tutti d’accordo ad affermare che “se tagliamo l’acqua, le molecole che stanno in tensione sulla superficie cercano di intervenire per rattoppare la zona dello strappo e che in questa situazione la tensione superficiale diminuisce e non sostiene più la graffetta che infatti affonda”. Tutti rispondono che sono d’accordo con quanto è stato detto. Torniamo in classe e i bambini riprendono posizione all’interno dei loro gruppi. Chiedo loro: “vi piacerebbe vedere come corrono le molecole sulla superficie dei liquidi?” I bambini hanno risposto di sì in coro, com’era da aspettarsi. Continuo dicendo che: “è sufficiente appoggiarci sopra qualcosa che non vada a fondo per accorgerci che esse non si muovono solo per rattoppare dei buchi.” 153 Distribuisco tre piattini colmi d’acqua per ogni gruppo, nove stuzzicadenti, una pinzetta, un pezzettino di sapone, un bicchierino contenente olio, una siringa e una zolletta di zucchero. Spiego ai bambini che gli esperimenti sono tre e che li faremo uno alla volta, seguendo l’ordine che suggerisco, così da evitare anticipazioni e confusione. Sinceramente non ero del tutto convinta di fare questo esperimento, perché presenta alcune difficoltà; però riconosco che è riuscito bene ed è stato utile. Nel primo piattino propongo di disporre gli stuzzicadenti a raggiera sulla superficie dell’acqua, in modo da lasciare tra di loro un piccolo spazio al centro. Come avevo previsto, questa disposizione ha creato qualche difficoltà, ma dopo vari tentativi ci sono riusciti. Ho invitato poi i bambini a collocare in questo spazio con la siringa una o due gocce d’olio. 154 “Cosa è successo agli stuzzicadenti dopo aver messo l’olio?” domando. I bambini rispondono che gli stuzzicadenti si sono allontanati. Chiedo ai bambini di prendere il secondo piattino e di disporvi tre stuzzicandenti 155 nello stesso modo. Nello spazio vuoto i bambini dovevano collocare un pezzettino di sapone, sostenendolo con una pinzetta. “Osservate cosa accade…” 156 I bambini dicono che anche con il sapone gli stuzzicadenti si allontanano. Siamo pronti per fare il terzo esperimento, quindi utilizziamo l’ultimo piattino e questa volta mettiamo al centro degli stuzzicadenti, disposti un po’ più lontano, una zolletta di zucchero sempre tenuta con una pinzetta. 157 I bambini hanno notato che questa volta gli stuzzicadenti si avvicinano. A questo punto è arrivato il momento di dare qualche spiegazione sui fenomeni appena osservati. Spiego che l’olio non si mescola con l’acqua e, disponendosi sulla sua superficie, ne rompe la tensione superficiale. Per questo motivo le molecole di acqua si allontanano dall’olio trascinando con sé gli stuzzicadenti che vi sono posati sopra. Lo stesso avviene con il sapone che, creando una piccola membrana oleosa in superficie, fa sì che gli stuzzicadenti si allontanino. Lo zucchero della zolletta, invece, per sciogliersi richiama a sé le molecole d’acqua che si trovano in superficie; gli stuzzicadenti dunque si avvicinano, portandosi al centro del piattino. Introduco una nuova discussione sempre riguardante la tensione superficiale. Domando ai bambini se hanno mai sentito nominare una categoria di insetti 158 definita insetti pattinatori. Qualcuno risponde di no e qualcun altro di sì. A. dice: “sono quegli insetti capaci di camminare sull’acqua.” Spiego che si chiamano idrometre e gerridi e chiedo: “sapete come fanno a camminare sull’acqua?” Qualcuno risponde che sono talmente leggeri che non rompono la tensione superficiale dell’acqua. E. aggiunge: “lo scorso anno scolastico abbiamo parlato un po’ di questi insetti e abbiamo studiato che, a causa dell’inquinamento dovuto al fatto che si scaricano i detersivi nell’acqua, questi insetti non possono più camminare.” Intervengo dicendo che gli insetti pattinatori hanno qualcosa sulle loro zampette che permette loro di camminare sulla superficie dell’acqua. E. dice: “hanno le zampe molto leggere e quindi non rompono la tensione superficiale.” Aggiungo che però ci sono molti insetti che sono leggerissimi ma che non riescono comunque a camminare sull’acqua. Dopo un breve attimo di silenzio M. interviene dicendo che: “forse hanno una specie di patina sulle zampette.” Spiego che questi insetti hanno dei peletti idrorepellenti. “Sapete cosa vuol dire idrorepellenti?” I bambini rispondono: “che respingono l’acqua”. Arriviamo alla conclusione che i peletti idrorepellenti, non forando la membrana superficiale dell’acqua, le permettono di restare in tensione e dunque di sostenere gli insetti e quest’ultimi possono camminare. “Ma se invece un insetto rompe la superficie dell’acqua, cosa succede?” A.: “l’insetto affonda perché rompe la rete dell’acqua.” “Sapete cosa fa la pellicola dell’acqua quando viene bucata da un insetto?” Silenzio… Visto che nessun bambino risponde prendo di nuovo la parola e spiego loro che la pellicola superficiale dell’acqua si avvolge attorno all’insetto intrappolandolo e impedendogli di galleggiare. Pongo la seguente domanda: “secondo voi cosa potrebbe succedere se un 159 bimbo dispettoso versasse in uno stagno una grande quantità di sapone?” Le mani si alzano tutte, ma dò la parola a V. che risponde dicendo: “a parte che gli animali che vivono nello stagno si sentirebbero male fino a morire, succederebbe anche che gli insetti pattinatori non potrebbero più camminare sull’acqua.” Chiedo se sono tutti d’accordo con la compagna e rispondono di sì. Terminato questo argomento propongo ai bambini di raccogliere altre prove sulla tensione superficiale. La risposta è affermativa e aggiungono che fare gli esperimenti è divertentissimo. Invito A. a prendere in mano un pennello e un bicchiere d’acqua e gli chiedo di immergerlo; domando alla classe di osservare il comportamento delle setole. E. dice che: “le setole del pennello si gonfiano” M. interviene dicendo che: “si allargano”. Chiedo al bambino di tirare il pennello fuori dall’acqua e chiedo di osservare di nuovo le setole. 160 I bambini affermano che adesso le setole si stringono. “Secondo voi chi fa stringere le setole del pennello?” Progressivamente i bambini giungono a una soluzione condivisa e comprendono che il comportamento delle setole bagnate può essere spiegato ricorrendo alla tensione superficiale. E., per esempio, ha una buona intuizione: “la forza che tiene insieme le molecole superficiali dell’acqua spinge le setole verso l’interno”. Spiego ai bambini che la tensione superficiale dell’acqua agisce in modo da costringere le setole bagnate a riunirsi, assumendo l’aspetto di massimo ordine, occupando anche la più piccola area possibile per contenere lo stesso volume. Dopo questa brevissima spiegazione mostro di nuovo come si comporta il pennello attraverso una rappresentazione grafica. 161 La parte riguardante la tensione superficiale si è conclusa ed è giunto il momento di approfondire l’argomento trattato con qualche spiegazione più precisa. Mostro il cartellone che avevo realizzato precedentemente e inizio la spiegazione riprendendo il discorso su come è costituita una molecola d’acqua. Siccome una molecola d’acqua è formata da due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno e la distribuzione di carica elettrica all’interno della molecola non è uniforme, ogni molecola attira le molecole vicine: quindi gli atomi di idrogeno attirano gli atomi di ossigeno e viceversa. Invitando i bambini ad osservare il disegno, spiego loro che all’interno del liquido una molecola d’acqua qualsiasi è attratta da tutte le parti con la stessa forza dalle molecole vicine, mentre le molecole che si trovano sulla superficie possono essere attratte solo dalle molecole a fianco e da quelle che si trovano all’interno del liquido. Continuo dicendo che le molecole in superficie si tirano l’un l’altra, con una certa forza che più volte durante gli esperimenti abbiamo definito tensione superficiale. 162 Abbiamo visto durante gli esperimenti che il sapone abbassa molto la tensione superficiale perché le sue molecole, interponendosi tra quelle di acqua che stanno in superficie, ne diminuiscono la forza di attrazione reciproca. Ciò fa sì, come abbiamo verificato tante volte, che la tensione superficiale non ce la faccia più a vincere la forza di gravità a cui è sottoposta la graffetta: ed ecco infatti che in presenza di sapone questa affonda. Per lo stesso motivo le pareti della bolla di sapone sono più flessibili di quelle di sola acqua, che come abbiamo sperimentato durante il primo incontro si rompono quasi subito. 163 6.5 Quinta fase: il sapone, che cos’è? Obiettivo: conoscere il sapone I bambini come di consueto sono divisi in piccoli gruppi. Inizio questo incontro ponendo subito una domanda molto semplice. “a cosa serve il sapone?” Ecco una valanga di mani alzate… E.: “il sapone serve per abbassare la tensione superficiale dell’acqua” L.: “a rompere la tensione superficiale.” Sinceramente non mi aspettavo che arrivassero subito queste due risposte. “Bravissimi, ma ditemi in modo più semplice a cosa serva il sapone tutti i giorni” F.: “per lavarsi” A.: “per lavarsi le mani” “Ma serve per lavare solo le persone?” L.: “i piatti” D.: “i vestiti” “Quindi serve per togliere che cosa?” Finalmente tutti insieme rispondono: “lo sporco”. A: “serve anche per fare le bolle…” Ricapitolo ciò che hanno detto alla lavagna e sottolineo il fatto, molto importante, che lo abbiano associato alla tensione superficiale. 164 Metto a loro disposizione dei bicchieri trasparenti, dell’acqua, dell’olio, un cucchiaio e una siringa. Li invito a versare delicatamente i liquidi nel contenitore e a osservare. 165 “Che cosa avete notato?” E. risponde dicendo che: “l’olio galleggia perché è leggero.” A questo punto formulo un’altra domanda: “che cosa pensate che possa succedere se agitiamo con il cucchiaio il sistema costituito da acqua e olio: l’olio va sul fondo oppure acqua e olio si mescolano tra loro? Pensateci e poi rispondete; se volete, visto che siete a gruppi, potete consultarvi tra di voi.” Non tutti i bambini sono d’accordo: alcuni pensano che l’olio vada a fondo, mentre altri ritengono che acqua e olio si mescolino. Raccolgo le ipotesi alla lavagna: se agitiamo con il cucchiaio la miscela di acqua e olio, quest’ultimo va a fondo: dodici bambini; se agitiamo con il cucchiaio la miscela di acqua e olio, queste due sostanze si mescolano: sette bambini A questo punto i bambini sono pronti per provare l’esperienza diretta. 166 Riporto alla lavagna ciò che hanno verificato i bambini dopo l’esperimento. Del risultato dell’esperimento, come si può vedere dall’immagine sopra, non tutti i bambini condividono quanto hanno sperimentato e nasce una piccola discussione tra di loro. 167 Dopo averli lasciati per un po’ discutere, intervengo dicendo che l’ipotesi era riferita solo al momento in cui si mescolano l’acqua e l’olio con il cucchiaio. Quindi chiedo di miscelarli di nuovo e di osservare cosa succede. M. dice che: “l’olio si separa in parti piccolissime e poi, quando smetto di mescolare e lascio passare un po’ di tempo, l’olio si riunisce.” G. interviene dicendo che: “se mescolo velocemente l’olio si mescola e non si vede più e dopo ritorna come prima.” Ripeto quanto detto dai due bambini ma in modo diverso e più chiaro dicendo: “pur avendo agitato il miscuglio, l’olio e l’acqua si sono apparentemente mescolati tra di loro in un primo momento, ma dopo breve tempo l’olio si è separato nuovamente dall’acqua e il sistema si presenta com’era all’inizio. Domando ai bambini che cosa hanno capito da questa esperienza e da quanto detto durante la discussione, invitandoli a riflettere sull’ esperimento. P.: afferma: “acqua e olio non si mescolano tra loro, perché quando abbiamo finito di mescolare l’olio, che si era diviso in parti piccolissime, si riunisce all’acqua e tutto torna come prima.” Tutti i bambini sono d’accordo con quanto affermato visto che ormai i dubbi sono stati dissolti. Spiego ai bambini che gli scienziati definiscono acqua e olio liquidi immiscibili, perché, proprio come abbiamo sperimentato, non si possono mescolare tra loro; aggiungo che è come se fossero due nemici giurati, che non vogliono mai fare la pace tra loro e che, se posti in contatto diretto, finiscono inevitabilmente per litigare e per separarsi nuovamente. È arrivato il momento di continuare l’esperimento. Consegno ad ogni gruppo del sapone liquido e chiedo di ipotizzare che cosa accadrà se realizziamo le stesse operazioni di prima aggiungendo anche il sapone. Spiego ai bambini che le ipotesi sulle configurazioni finali dovranno essere riportate in una tabella come quella che disegnerò alla lavagna e che invito a copiare su una pagellina a quadretti. 168 Ecco le fasi dell’esperimento che porta alla verifica di quanto chiesto nella tabella. 169 Come hanno potuto osservare dall’esperimento, il sapone liquido si posiziona sul fondo del bicchiere. Adesso chiedo ai bambini che cosa pensano che succeda se mescoliamo con un cucchiaio. 170 171 I bambini verificano le previsioni fatte agitando il miscuglio. Terminato l’esperimento e dopo aver osservato che i liquidi si disperdono l’uno nell’altro, pongo la seguente domanda: “secondo voi che cosa ha fatto il sapone? A.: “il sapone si è mescolato con l’olio: non ci sono più le palline di prima ma si formano come dei brillantini” M.: “forse il sapone ha diviso l’olio in goccioline microscopiche”. I bambini condividono quanto hanno detto i compagni. “E l’acqua?” F.: “l’acqua si è mescolata con il sapone e con l’olio”. Riprendo la parola spiegando che l’olio non si è proprio mescolato all’acqua; si è semplicemente suddiviso in tantissime goccioline, come aveva detto anche M., che si sono disperse nell’acqua, grazie all’intervento del sapone, dando origine ad una situazione che gli scienziati chiamano emulsione. “Quindi cosa fa il sapone?” L.: “il sapone permette all’olio di emulsionarsi con l’acqua”. Inizio l’incontro successivo dicendo che nella lezione precedente avevamo fatto degli esperimenti riguardanti i liquidi immiscibili. Chiedo quindi se si ricordano quali sono. I bambini rispondono che l’acqua e l’olio non si mescolano tra di loro. Chiedo che cosa accade se aggiungiamo un po’ di sapone e mescoliamo. 172 Rispondono che si forma una emulsione e a questo punto domando ai bambini come fa il sapone a mettere d’accordo l’acqua e l’olio, visto che avevamo detto che l’acqua e l’olio sono nemici giurati e non vanno per nulla d’accordo. Ricordo loro che quando mescoliamo il sistema di acqua e olio, le goccioline di quest’ultimo diventano piccolissime e si uniscono alle gocce d’acqua; ma quando smettiamo di mescolare, l’olio si separa nuovamente dall’acqua e il sistema torna come era all’inizio. Quando abbiamo aggiunto il sapone mescolando il sistema abbiamo formato un’emulsione. “Quindi cosa fa il sapone per mettere d’accordo l’acqua con l’olio?” D. è l’unico ad alzare la mano, quindi gli dò la parola; dice che: “le particelle del sapone si uniscono con quelle dell’olio e dell’acqua, si mescolano tutte insieme e si danno la mano”. M. aggiunge: “il sapone si posiziona tra le molecole dell’acqua e le molecole dell’olio.” P. interviene dicendo che: “il sapone fa mescolare l’acqua e l’olio trasformandoli in liquidi che si possono mescolare.” Dico ai bambini che gli scienziati definiscono due liquidi che si possono mescolare dicendo che sono miscibili. I bambini arrivano alla conclusione che il sapone si mette in mezzo tra l’acqua e l’olio e, dando la mano ad entrambi, li fa diventare amici. Chiedo ai bambini di rappresentare ciò che hanno compreso sul sistema acqua, olio e sapone, attraverso il disegno. Ecco qui di seguito alcuni disegni. 173 174 Quando hanno terminato i loro disegni, pongo ai bambini le seguenti domande: “avete notato che le bolle di sapone hanno la stessa forma sferica delle goccioline d’olio?” Tutti in coro rispondono di sì. “Secondo voi, come potrebbero essere disposte le molecole di sapone, l’acqua e l’aria intrappolata nella bolla? Provate a riflettere su questa domanda”. L. afferma: “per me, l’aria è all’interno della bolla, il sapone all’esterno.” Dico ai bambini che, per visualizzare bene la posizione degli elementi che loro stessi mi suggeriscono, disegnerò sulla lavagna un ingrandimento di una parte della bolla. In base al suggerimento di L., inizio raffigurando: aria interna, sapone e acqua, ponendo quest’ultima come ultimo strato esterno, così come suggerito da M. Tuttavia alcuni compagni non sono convinti di ciò che ha detto M. e, dopo una breve discussione, interviene A. dicendo che: “dentro la bolla c’è solo aria e l’acqua saponata va posizionata all’esterno, quindi vicino alle molecole di sapone, ma esternamente”. 175 E. dice: “secondo me, ci sono due strati di molecole di sapone: uno tra l’aria interna e l’acqua saponata e uno vicino all’acqua saponata ma più esternamente.” Visto che i bambini sono d’accordo con E., completo il disegno avvalendomi del suggerimento di M., che consiglia di disegnare anche l’aria esterna. Grazie alla discussione e alla visualizzazione di ciò che hanno detto arrivano alla conclusione che le bolle di sapone a partire dal centro verso l’esterno, sono costituite da aria interna, sapone, pellicola di acqua saponata, sapone e per finire aria esterna. Detto ciò, è arrivato il momento di far capire ai bambini il legame esistente tra le bolle di sapone, la tensione superficiale e il sapone. Tramite delle domande guidate ho fatto riemergere le osservazioni frutto delle loro esperienze. I bambini hanno affermato quanto segue: “le bolle di sola acqua sono piccole e si rompono subito”; “le bolle grosse si fanno aggiungendo all’acqua il sapone”; 176 “le bolle più belle e durature si fanno con acqua, sapone, zucchero o miele o glicerina”; “l’aggiunta del sapone fa affondare la graffetta perché il sapone diminuisce la tensione superficiale, come è successo a Loretta”; “la tensione superficiale agisce tirando verso l’interno, come abbiamo osservato dall’esperimento fatto con il pennello.” Dopo aver ripercorso le varie tappe del progetto chiedo ai bambini: “secondo voi perché le bolle si fanno con il sapone?” A. risponde dicendo che: “le bolle si fanno con il sapone per il sapone abbassa la tensione superficiale dell’acqua.” Quindi chiedo: “la tensione superficiale dell’acqua saponata è minore o maggiore della tensione superficiale dell’acqua pura?” M.: “la tensione superficiale dell’acqua saponata è minore di quella di sola acqua.” “Allora come possiamo dire?” “Perché le bolle si fanno con il sapone?” E.: “le bolle si fanno con il sapone perché la tensione superficiale dell’acqua saponata è minore di quella dell’acqua pura; infatti le bolle di sola acqua scoppiano subito, come ci hai fatto vedere la prima volta che sei venuta”. Chiedo alla classe se condivide ciò che ha appena detto la compagna; tutti si trovano d’accordo con lei. Ora che abbiamo concluso anche questa fase è arrivato il momento di mostrare ai bambini un cartellone che rappresenta il sapone, in modo da rendere tutto più chiaro. Spiego che il sapone è costituito da molecole formate da una coda idrofoba. “Vi ricordate cosa significa questo termine?” G.: “vuol dire che ha paura dell’acqua”. “Quindi questa coda si allontana il più possibile dall’acqua, e come potete vedere dal disegno, si lega all’olio o al grasso più in generale. La nostra molecola di sapone ha anche una testa definita polare, come l’acqua: questo significa che ha due poli (uno negativo e uno positivo) e di conseguenza si può unire all’acqua. Ecco per quale motivo il sapone, mettendosi in mezzo tra l’acqua e l’olio, permette loro di unirsi. 177 E. interviene dicendo che: “è come una specie di ponte.” Chiedo a conclusione di quanto detto se hanno compreso ciò che ho spiegato, e tutti rispondono in modo affermativo. 6.6 Sesta fase: bolle e non bolle Obiettivo: comprendere la forma e i colori delle bolle Ed eccoci arrivati all’ultima fase. Inizio il nuovo argomento ponendo subito una domanda: “secondo voi, perché le bolle di sapone sono sferiche?” I.: “perché il telaio è tondo”, E. interviene dicendo: “ma anche con il telaio quadrato escono rotonde, ti ricordi che abbiamo provato con i telai a U”. 178 Chiedo, quindi, se la forma delle bolle dipende dal tipo di telaio. E. aggiunge: “forse dipenderà da come sono disposte le molecole di sapone.” D.: “secondo me le molecole di sapone si attaccano al telaio e prendono la sua forma ma quando soffiamo l’aria si staccano e si chiudono”. Ho detto loro: “per ora non rispondo alla domanda che vi ho fatto e non vi dico neppure cosa penso delle vostre affermazioni; al contrario vi dò un pezzo di filo di ferro per uno. Con il filo di ferro dovete creare dei telai bidimensionali di forme diverse; anche strane; questi telai poi ci serviranno per osservare cosa succede quando andiamo a fare le bolle di sapone.” I telai costruiti hanno forme diverse, che vanno dal semplice rettangolo al cuore fino ad arrivare a forme del tutto irregolari. Ed ecco è arrivato il momento per i bambini di provare a fare le bolle di sapone con i telai costruiti. Consegno ad ogni bambino un bicchierino di plastica contenente acqua saponata. I bambini si alzano e iniziano a fare bolle in ogni parte della classe. Le bolle escono dai telai sferiche in ogni caso! 179 180 Faccio notare ai bambini che, utilizzando telai di varie forme, le bolle di sapone continuano ad avere una forma sferica, e chiedo loro una spiegazione di ciò. D. provare a dare una risposta: “quando bagniamo il telaio nell’acqua saponata, la lamina ha la forma del telaio mentre, quando iniziamo a soffiare, l’aria spinge la lamina verso l’esterno e gonfiandosi prima di staccarsi si chiude e prende la forma di una sfera.” “Altre ipotesi non ce ne sono?” E.: “secondo me come avevo detto prima dipende dalla disposizione del sapone sul telaio.” Chiedo se gli altri bambini hanno idee diverse o se condividono ciò che hanno detto i loro compagni. Tutti tacciono; decido di raccontare ai bambini la leggenda della regina Didone liberamente tratta dall’Eneide di Virgilio. La regina Didone Primogenita del re di Tiro, Didone approdò sulle coste dell’odierna Tunisia intorno all’814 a.C. dopo un lungo peregrinare e chiese al potente re Iarba un pezzo di terra per potervi costruire una città. Il re non voleva accontentarla e, pensando di 181 prenderla in giro, le concesse di prendere tanto terreno “quanto ne poteva contenere la pelle di un bue”. Didone non si scoraggiò: scelse una penisola, tagliò la pelle di bue in tante striscioline sottilissime e… definì quello che sarebbe stato il futuro territorio della città di Cartagine, delimitandolo con le striscioline che aveva ottenuto dalla pelle. Dopo aver letto la leggenda mostro ai bambini sulla cartina dove Didone fondò la sua città e spiego loro ciò che è scritto nella leggenda. A questo punto chiedo: “vogliamo aiutare Didone a ottenere con la pelle di un solo bue il territorio più grande possibile?” All’unanimità rispondono di sì. Divido la classe in piccoli gruppi e metto a disposizione di ciascun gruppo le forbici, lo scotch e un pezzo di stoffa di dimensioni identiche per simulare la pelle del bue. Il compito che assegno ad ogni gruppo è quello di progettare la costruzione della propria mini-Cartagine usando la stoffa. I bambini discutono tra di loro su come tagliare e disporre le striscioline di stoffa; prima alcuni provano tagliando un foglio di carta. 182 Ed eccoli pronti a sistemare le striscioline. Siccome vedo che sono dubbiosi su come sistemarle, pongo ai bambini una domanda: “secondo voi, in che modo Didone ha sistemato le striscioline?” I bambini riflettono sulla domanda ma non rispondono: quindi la pongo in modo diverso e più semplice, “secondo voi la regina Didone ha sistemato le striscioline in modo da delimitare il perimetro” (e mostro alla lavagna la disposizione delle striscioline) “o in modo da coprire la superficie?” (e mostro anche la seconda possibilità). I bambini riflettono sulla scelta da fare e provano entrambe le soluzioni arrivando facilmente a capire che è meglio disporle l’una accanto all’altra per delimitare il perimetro. Sorge però un problema: lo spazio a disposizione nell’aula è poco, così decidiamo di spostarci in palestra. Ogni gruppo inizia a disporre le striscioline secondo quanto progettato in classe. In un primo momento sono un po’ preoccupata perché i primi due gruppi dispongono le strisce per formare un rettangolo e un triangolo. Tra me e me penso: “e se a nessuno venisse in 183 mente di fare un cerchio? Come posso risolvere il problema?”; per fortuna, mentre faccio le mie riflessioni, un gruppo inizia a disporre le striscioline una accanto all’altra fino a formare un cerchio! Il quarto gruppo invece crea una figura geometrica irregolare. 184 Dopo che hanno terminato di creare le loro mini-Cartagini invito ogni gruppo a misurare i lati delle loro figure geometriche per poi calcolare l’area e il perimetro. Il gruppo che ha dato la forma di cerchio alla sua Cartagine però non sa come si prendono le misure in quanto non hanno ancora studiato la circonferenza. Così li aiuto dicendo che devono misurare il diametro e mostro loro come si fa. Come è naturale, mentre prendono le misure si aprono tra i bambini le scommesse su quale figura è più grande. Dopo aver segnato le misurazioni sui fogli; torniamo in classe e dico loro che è arrivato il momento di fare due calcoli per trovare l’area e il perimetro delle miniCartagini. Sia io sia la maestra di classe diamo aiuto a due gruppi: un gruppo era in difficoltà perché i bambini non conoscevano le formule per calcolare area e perimetro del cerchio in quanto, come già detto, non era stato ancora studiato; un altro gruppo aveva creato una figura geometrica irregolare e di conseguenza non sapeva come procedere. Dopo aver risolto i problemi assegnati, ho scritto alla lavagna i risultati ottenuti dalle figure geometriche create dai bambini con le striscioline di stoffa, in modo da poter fare un confronto. 185 Purtroppo, mentre riportavo i risultati alla lavagna, ho notato che i perimetri delle quattro figure erano sensibilmente diversi, perché le strisce di stoffa erano state tagliate con larghezze differenti. Per ovviare a questo inconveniente, ho focalizzato l’attenzione della classe sulla terza figura geometrica (rettangolo) e sulla quarta figura geometrica (cerchio), che avevano un perimetro simile. In base al confronto di queste due figure, è risultato a tutti evidente che il cerchio fosse la figura più conveniente da utilizzare perché, nonostante avesse un perimetro leggermente maggiore di quello del rettangolo, la sua area era notevolmente più grande di quella di quest’ultimo. Per confermare il concetto e fare una verifica più quantitativa, propongo loro di fare un’altra esperienza. Consegno quindi ad ogni bambino un foglio di carta millimetrata e un filo di lana di 60 cm di lunghezza, dicendo loro che questo filo sarà il perimetro di una figura geometrica regolare, che dovranno costruire. Siccome noto che hanno qualche difficoltà con il filo di lana, consiglio di fermarlo con lo scotch. 186 Li invito a contare i quadretti che si trovano all’interno della superficie delimitata dal filo di lana. Quindi chiedo: “il perimetro è uguale per tutte le figure costruite?” Tutti rispondono in modo affermativo. L. sottolinea che: “i perimetri sono uguali perché hai consegnato a tutti un filo di lana della stessa lunghezza”. Ripeto che il perimetro è uguale in ogni figura geometrica costruita, ma chiedo: “quale figura ha area maggiore?” Nonostante avessero già contato i quadretti, ripetono l’operazione, probabilmente per avere la certezza della risposta. E., che è la prima ad alzare la mano, risponde che il cerchio ha l’area maggiore. Chiedo se sono tutti d’accordo e mi rispondono di sì. A. riassume quanto ha appreso dicendo: “tra tutte le figure che abbiamo formato, che hanno lo stesso perimetro, il cerchio ha l’area più grande”. “Molto bene: siete tutti d’accordo con quanto detto da A.?” Per consolidare e verificare le esperienze fatte propongo ai bambini un semplice problema di geometria. 187 Problema: i tre contadini Tre contadini devono recintare tre terreni diversi. Hanno tutti a disposizione la stessa quantità di rete. Il primo contadino con la sua rete delimita il suo terreno all’interno di un rettangolo di dimensioni: 4 m sul alto corto e 6 m sul lato lungo. Il secondo contadino con la sua rete delimita il terreno all’interno di un quadrato con lato di 5 m. Il terzo contadino delimita il suo terreno all’interno di una circonferenza di raggio 3.19 m. Calcolare la lunghezza del perimetro dei tre terreni e la loro superficie. Come già detto, i bambini non hanno ancora studiato il cerchio come figura geometrica, quindi scrivo alla lavagna le formule per calcolare la circonferenza e l’area del cerchio. I bambini risolvono il problema dei tre contadini, scoprendo che il perimetro dei tre terreni è lo stesso, ma le superfici racchiuse sono diverse. In particolare, il terreno a forma di cerchio è quello che ha l’estensione maggiore. 188 189 Dopo aver riportato alla lavagna i risultati ottenuti dalla risoluzione del problema, chiedo ai bambini, in base anche alle esperienze fatte fino a quel momento, ciò che hanno compreso. Le mani si alzano tutte per rispondere; ciò mi rende contenta perché vuol dire che il lavoro fatto fino a quel momento ha dato i suoi frutti. L.: dice che: “tra tutte le figure geometriche del piano che hanno lo stesso perimetro, il cerchio è quello che ha la superficie maggiore.” Riprendendo il discorso riguardante la leggenda della regina Didone, dico: “secondo voi dunque come ha disposto le striscioline Didone?” I bambini rispondono sicuri che la regina ha disposto le striscioline in modo da formare un cerchio. Spiego che Didone tagliò la pelle di bue in tante striscioline sottilissime con cui circondò un pezzo di terra disegnando un cerchio, o meglio un semicerchio perché voleva che la città di Cartagine si affacciasse sul mare. Quindi alla fine Didone era una regina esperta di geometria e riuscì a sfruttare le proprie conoscenze a proprio vantaggio in barba al re Iarba. Dopo tutta questa matematica annuncio ai bambini che finalmente possiamo riprendere a fare i nostri esperimenti. I bambini sono pronti a sperimentare le superfici minime attraverso le lamine saponose. Decido di fare io stessa l’esperimento, in modo tale che possano prestare tutta la loro attenzione all’osservazione di quanto accadrà. Per questo esperimento utilizzo una bacinella contenente acqua saponata, un telaio a forma di U con cursore e un pezzo di filo di cotone. Spiego che dovrò legare su un lato del telaio i due estremi il filo di cotone. Quindi immergerò il tutto nell’acqua saponata e solleverò delicatamente il telaio fino a quando su questo si sarà formata una lamina saponosa. Prima di immergere il telaio nell’acqua saponata chiedo ai bambini di ipotizzare il comportamento del filo di cotone. Ci sono state previsioni molto diverse: M.: “secondo me il filo si attorciglia su se stesso” F.: “per me si attorciglia sul cursore”; D.: “secondo me si arrotola sulle braccia della U”; P.: “il filo resta a galla”; 190 Chiedo a P di spiegare meglio ciò che ha affermato. P. dice: “il filo resta ‘sdraiato’ sulla lamina saponosa”. Chiedo se ci sono altre ipotesi; E.: “per me si attorciglia su se stesso ma resta sulla lamina”; G.: “secondo me il filo penzola giù perché diventa pesante quando si bagna”. A questo punto immergo il telaio. Una volta estratto il telaio il filo risulta leggermente attorcigliato su se stesso e penzola un po’. Spiego ai bambini che adesso devo bucare la membrana che si è formata tra il filo di cotone e il telaio ma prima di fare ciò domando: “secondo voi che forma geometrica prenderà il filo di cotone?”. E.: “prenderà la forma di un cerchio”; A.: “per me quella di un quadrato” M.: “per me invece non assumerà alcuna forma e resterà attorcigliato su se stesso”. G. dice: “secondo me prenderà la forma di un triangolo”. Prima di bucare la lamina ricapitolo ciò che hanno detto i bambini e, già che ci sono, chiedo di fare una previsione anche alla maestra Manuela: mi risponde che, secondo lei, una volta bucata la membrana il filo cadrà giù a penzoloni. A questo punto è arrivato il momento di verificare quanto è stato affermato. Chiamo un bambino ad aiutarmi: io tengo in mano il telaio a U e il bambino buca la membrana saponosa tra il filo e il cursore, ed ecco che si è formata la figura! Chiedo ai bambini, rimasti a bocca aperta dallo stupore, di osservare il risultato dell’osservazione. “Che figura si è formata?” domando. Tutti mi rispondono che si è formato metà cerchio, e L., in modo più preciso, dice che si tratta di un semicerchio. Sottolineo che, a prescindere dalla forma del telaio e del filo, si otterrà, in questo caso, sempre un semicerchio. 191 Adesso facciamo un altro esperimento. Prendo un telaio a forma di racchetta, al cui interno in precedenza avevo applicato un cappio fatto di filo di cotone. Dopo 192 aver bagnato il telaio nell’acqua saponata lo estraggo delicatamente. Prima di bucare la membrana che si trova all’interno del cappio domando loro quale figura si sarebbe formata. Questa volta senza esitare troppo, memori dell’esperienza appena fatta, quasi tutti insieme rispondono che probabilmente si sarebbe formato un cerchio. Chiamo un bambino per verificare se quanto detto risulta vero. Ed ecco che bucando la membrana all’interno del cappio il nostro filo assume proprio la figura di un cerchio. 193 A questo punto dò loro qualche nozione di approfondimento. Spiego che, quando si rompe la membrana circondata dal filo di cotone, nella membrana grande appoggiata si crea un foro di forma circolare. Ricordo loro il problema dei “Tre contadini”: tra tutte le linee chiuse con lo stesso perimetro la circonferenza è quella che racchiude la superficie massima. Se il foro è di area massima la lamina rimasta, ossia quella esterna al foro sarà la superficie di area minima. Concludo dicendo che quando si rompe la pellicola saponosa all’interno del filo, questo si apre formando un cerchio perfetto indipendentemente dalla forma che aveva prima. Alla luce di quanto detto fino a questo punto, ritengo che i bambini possano sperimentare lo stesso tipo di problemi nello spazio, cioè in tre dimensioni anziché in due. I bambini, come sempre, sono divisi in piccoli gruppi. Consegno otto cubetti di legno uguali a gruppo. Spiego che dovranno costruire delle figure geometriche di ugual volume, ma con superfici diverse. Prima di iniziare chiarisco che i cubi messi a disposizione devono essere impiegati tutti nella costruzione di una sola figura geometrica e che quest’ultima deve essere una figura regolare. I bambini iniziano il loro lavoretto di “costruzione”. Ed ecco ciò che hanno costruito. 194 Sottolineo ai bambini che tutti i gruppi hanno costruito uno stesso tipo di figura geometrica, il parallelepipedo. Anche il cubo è un parallelepipedo particolare, come anche il quadrato è un rettangolo particolare. Disegno alla lavagna i tre diversi parallelepipedi costruiti dai bambini. A questo punto chiedo loro di contare le facce esterne delle singole figure e le segno sotto il disegno corrispondente. Il mio intento è quello di far comprendere ai bambini che a parità di volume il 195 cubo ha la superficie più piccola. Inizio la discussione dicendo: “per ogni parallelepipedo abbiamo usato la stessa quantità di cubi, quindi otto per il primo parallelepipedo, otto per il secondo e otto per il cubo”. “Se abbiamo usato la stessa quantità di cubi per le tre figure geometriche realizzate, il volume è diverso o è il solito?” Si alza qualche mano. D. risponde: “per me è il solito volume.” Chiedo chi è d’accordo con D., ma solo un bambino lo è; gli altri rispondono che il volume è diverso nelle tre figure. Aiuto i bambini dicendo che anche per me il volume è il solito e chiedo di provare a pensare per quale motivo anch’io dico così. Dopo aver lasciato un po’ di tempo per la riflessione, chiedo di nuovo perché secondo me i tre solidi hanno lo stesso volume. Un bambino risponde dicendo: “perché abbiamo utilizzato la stessa quantità di cubetti.” Domando se gli altri condividono la risposta o se hanno opinioni diverse. I bambini rispondono che sono d’accordo con quanto detto dal compagno. “Cosa cambia nelle tre figure geometriche?” M. risponde che: “cambia la quantità delle facce perché nel primo ne abbiamo contate trentaquattro, nel secondo ventotto e nel terzo ventiquattro”. “Benissimo, cambia il numero delle facce. Le facce indicano la superficie della figura solida.” Chiedo qual è la figura che ha la superficie più piccola. D. risponde: “il cubo”. Chiedo se sono tutti d’accordo e rispondono di sì. “Provate a spiegarmi quello che avete capito da quanto sperimentato fino ad ora con i cubetti.” F. risponde dicendo che: “se prendiamo tre parallelepipedi e tra questi c’è un cubo, e tutte e tre le figure hanno lo stesso volume, il cubo è quello che ha la superficie più piccola”. Dopo aver terminato con successo la discussione sui parallelepipedi, riprendiamo i nostri lavoretti manuali. 196 Consegno un panetto di pongo ad ogni bambino; prima di iniziare a lavorarlo, spiego che devono costruire una figura tridimensionale regolare, tipo il cubo, la piramide, il cono, il parallelepipedo, la sfera. Specifico inoltre che non devono assolutamente dividere o scambiarsi pezzi di pongo perché altrimenti non hanno più la stessa quantità di materiale a testa. I bambini ora possono iniziare a modellare il pongo. L’operazione è abbastanza faticosa all’inizio, perché la pasta da modellare è particolarmente dura. Alla fine riescono a realizzare qualche solido. 197 Dopo che i bambini hanno terminato i loro “lavoretti” chiedo di osservare le figure realizzate, e domando: “i solidi che avete modellato hanno lo stesso volume?” Tutti rispondono in modo affermativo, e chiedo loro di motivare la risposta. La risposta è stata: “perché ci hai dato un panetto di pongo uguale a tutti, cambia solo il colore.” Allora domando qual è il solido che ha la superficie più piccola fra quelli da loro realizzati. Quasi tutti i bambini, ricordano quello che avevano imparato dall’esperienza precedente, rispondono che è il cubo; tre bambini azzardano a dire la sfera. Propongo ai bambini di formare un cubo sempre utilizzando il pongo. Dopo averlo realizzato, suggerisco di modellare il cubo esercitando pressioni in tutte le direzioni, e che dovranno compiere questa operazione più volte fino a quando otterranno una figura solida ben precisa, senza dire quale. 198 Mano a mano che manipolavano il cubo, si andava delineando piano piano una figura tondeggiante; hanno potuto in questo modo sperimentare che il cubo si stava lentamente trasformando in una sfera. 199 Finita questa attività, ricordo ai bambini la domanda che avevo posto loro ad inizio della sesta fase, ossia: “perché le bolle di sapone hanno forma sferica?” Per farli arrivare a rispondere alla domanda riprendo il discorso sulla circonferenza dicendo che: “a parità di area, la circonferenza è la figura che ha perimetro minimo; allo stesso modo la sfera è la figura nello spazio che a parità di volume ha superficie minima”. La sfera è, quindi, la forma geometrica che, a parità di volume d’aria contenuto, consente alla bolla di resistere più a lungo, perché ha la minor superficie di contatto con l’aria esterna, come potete vedere osservando le vostre sfere appoggiate sul banco. Questa forma sferica è indipendente dalla forma del telaio perché è dovuta all’azione della tensione superficiale che, “stirando” la lamina liquida, fa sì che le bolle di sapone assumano necessariamente la forma di una sfera. Chiedo ai bambini se secondo loro è possibile costruire con l’acqua e il sapone delle “figure” che non siano sferiche. I bambini rispondono dicendo di no: le bolle di sapone possono essere solo sferiche! Rilancio la domanda in un’altra forma: “proviamo a creare delle non-bolle di sapone, ad esempio a forma di cubo?” I bambini mi chiedono subito: “non-bolle”? Dico: “proprio così! non-bolle! Perché solo le bolle hanno una forma sferica, ma noi faremo delle non-bolle che sono qualcosa di diverso!” “Come si fa a fare delle non-bolle?” Mi chiedono. 200 Rispondo dicendo che devono creare dei telai particolari che poi andranno comunque immersi nell’acqua saponata. Prima di consegnare il materiale necessario, mostro i telai tridimensionali che avevo costruito a casa, per dar loro un esempio concreto di quello che avrebbero dovuto realizzare. Consegno ad ogni bambino un pezzo di filo di ferro e metto a disposizione delle cannucce, spiegando che vanno tagliate in pezzi lunghi 5 cm. Una volta distribuito il materiale, invito i bambini a iniziare il loro lavoro. Realizzare queste figure non è stato semplice: quasi tutti i bambini hanno avuto bisogno del mio aiuto, perché non riuscivano a comprendere come costruire il telaio tridimensionale. Inoltre avevano bisogno del mio supporto per chiudere le facce che mano a mano si andavano aggiungendo. Per fortuna, piano piano qualcuno ha compreso il procedimento e, dopo aver realizzato il proprio telaio, mi ha dato una mano ad aiutare i compagni in difficoltà. Per realizzarli, hanno impiegato ben due incontri e mezzo. Quasi tutti hanno costruito il cubo, tranne due bambine, che hanno realizzato la piramide a base triangolare. 201 202 Finalmente le figure tridimensionali sono pronte! Prima di immergere i telai nell’acqua saponata faccio qualche domanda ai bambini. Innanzitutto mostro loro un cubo e una piramide a base triangolare e domando: “secondo voi cosa accadrà quando immergerò il cubo nell’acqua saponata?” L.: “per me quando lo immergi si forma una bolla tutta intorno al cubo e se poi soffi ci viene un buco”. “Qual è secondo te la forma che prenderà la bolla?” L.: “la forma del cubo”. E.: “il sapone si posiziona su tutti i lati del telaio”. F.: “se soffi si forma un cerchio”; ricordo a F. che il cerchio è una figura piatta a due dimensioni e si trova nel piano mentre la sfera è una figura a tre dimensioni e si trova nello spazio. Gli chiedo, quindi, se soffiando si forma un cerchio o una sfera. F.: “Si forma una sfera.” I bambini non hanno altre ipotesi. Ricordo loro la nostra idea iniziale: la creazione di non-bolle! Ho posto ai bambini questa domanda: “dove si posizionano secondo voi le lamine di acqua saponata, che nel telaio bidimensionale si posizionavano su tutta la sua superficie?” M.: “si posizionano sulle facce”, A. aggiunge che: “all’interno si forma una bolla sferica”. M.: “secondo me le bolle non vengono; proprio come hai detto tu sono nonbolle”. 203 Insieme ai bambini decidiamo di iniziare l’esperimento immergendo per primo il cubo. Invito un bambino a compiere l’esperienza, mentre il resto della classe osserva. Dopo aver tirato fuori dalla soluzione saponosa il cubo, domando ai bambini di osservare la figura tridimensionale che si è formata. A. dice che: “si è formata una specie di clessidra all’interno del cubo” Invito a guardare con attenzione dove si sono posizionate le lamine, poi domando se si trovano sulle facce del cubo o al suo interno. E. risponde dicendo che: “sulle facce non ci sono le lamine, si trovano tutte 204 all’interno del cubo”. Sottolineo che quello che ha detto è giustissimo e infatti nei telai tridimensionali le lamine si uniscono sempre all’interno del solido. Chiamo un altro bambino ad immergere nuovamente il cubo. Questa volta le lamine saponose si sono posizionate diversamente rispetto a prima; chiedo che cosa notano. D.: “al centro si è formato un cubo piccolo che è unito a quello grande con delle lamine” “Il cubo piccolo è esattamente uguale al cubo grande?” Mi dicono che sono uguali ma cambiano le dimensioni. Chiedo: “osservate il cubo piccolo e osservate il cubo di legno che è sulla 205 cattedra: sono proprio uguali?” I bambini iniziano a muoversi dai loro banchi per guardare con attenzione il cubo di legno e il cubo formatosi all’interno del telaio tridimensionale. Finalmente arriva la risposta che aspettavo. A.: “le facce del cubo sono un pochino diverse!” Siccome non aggiunge altro, chiedo al bambino che cosa intende con questa affermazione e sottolineo che ciò che ha detto è giusto. Invito anche gli altri bambini a riflettere su quanto detto dal compagno. A. riprende la parola e dice: “le facce del cubo di acqua saponata sono un po’ incurvate verso l’interno”. “Mentre quelle del cubo di legno come sono?” V.: “quelle del cubo di legno sono piane”. Quindi abbiamo scoperto che le facce del cubo all’interno del telaio tridimensionale sono curve e non piane e questo vale per tutte le superfici di acqua saponata. Invito un altro bambino a ripetere l’esperimento con la piramide, per verificare con un altro modellino se effettivamente le lamine si posizionano come abbiamo osservato nel cubo. 206 I bambini arrivano allo stessa conclusione, ossia che le lamine si uniscono sempre all’interno della figura lasciando libere le facce della piramide. Mi chiedono di ripetere l’esperimento e di provare a soffiare per vedere se effettivamente dai telai tridimensionali non escono le classiche bolle. Quindi dopo aver immerso di nuovo il telaio nella soluzione di acqua saponata vi soffio dentro e come avevo anticipato le bolle non si formano. Chiedo ai bambini: “che differenze e che analogie ci sono tra le bolle e le nonbolle?”. P.: “non hanno una forma sferica” E.: “non fluttuano nell’aria,” A.: “sono immobili” G.: “quando ci si soffia si rompono”. “Mi avete detto le differenze e ora sapete dirmi che cosa hanno in comune con le bolle di sapone?” M.: “sono fatte con acqua saponata” V.: “sono colorate e fragili”. Continuo la discussione chiedendo alla classe che cosa rappresentano le nonbolle, mostrando ai bambini un telaio tridimensionale imbevuto nell’acqua 207 saponata. V. risponde dicendo che: “rappresentano semplicemente delle lamine di acqua saponata molto sottili”. Dopo questa lunga discussione decido di porre alla classe una domanda complessa, perché richiede la capacità di ‘trasferire’ l’idea di superficie minima dalle bolle alle lamine. Ecco la domanda cruciale. “Prima qualcuno di voi ha detto che le lamine saponate non sono piane ma curve; sapete spiegarmi perché?”. I bambini sono in silenzio, nessuno alza la mano; mi rendo perfettamente conto che non è facile rispondere. Cerco di guidarli verso la risposta, sperando di riuscirvi. Prendo un foglio di carta A4 e dico ai bambini di immaginare che questo pezzo di carta rappresenti la lamina saponosa. Lo tengo con entrambe le mani dalla parte dei lati corti. Spiego che la sua superficie è perfettamente piana. Se, però, cerco di avvicinare i due lati corti, la superficie si incurva. Quando i due lati si toccano ho ottenuto un cerchio. Allo stesso modo, in un telaio tridimensionale le lamine tentano di connettersi l’una all’altra per occupare la superficie minima a parità di volume. “È per tutti chiaro questo concetto?” Tutti i bambini rispondono di sì. È arrivato il momento di affrontare l’ultimo aspetto riguardante il mondo delle bolle di sapone, i colori. Decido di non dedicarvi molto tempo come per gli altri argomenti, per non sovraccaricare i bambini di concetti complicati. Introduco l’ultimo argomento dicendo che abbiamo potuto ammirare molte volte i colori delle bolle, però lo abbiamo fatto senza soffermaci mai ad osservarli con cura. La prima domanda che pongo ai bambini è questa: “secondo voi i colori sulle bolle di sapone si possono vedere sempre oppure si vedono solamente se passano davanti ad un determinato sfondo?”. E., M. ed A. alzano subito la mano. M. dice: “con la luce del sole i colori si vedono bene mentre al buio no”. E. interviene correggendo M., dicendo che ho parlato di sfondo nella domanda 208 che ho posto. Riformulo la domanda dicendo: “se le bolle passano davanti al grembiulino di A. che è bianco si vedono i colori sulle bolle? E se passano davanti al grembiulino di L. che è nero si vedono i colori?” A.: “i colori sullo sfondo bianco non si riescono a vedere, mentre su uno sfondo scuro si vedono molto bene”. E. dice che è d’accordo con quanto ha detto A., ma aggiunge che le bolle quando passano vicino al grembiule di una bimba sono trasparenti. “Come M. ha detto all’inizio con la luce del sole i colori sulle bolle si vedono. Quindi sicuramente per vederli avremo bisogno anche di una sorgente luminosa, che può essere oltre alla luce del sole anche la luce del lampadario o di una candela.” L. ricorda un esperimento fatto all’inizio, quando avevamo tirato le tende e spento la luce. In quel caso i colori si vedevano bene perché comunque dalle tende filtrava la luce. Riprendo la discussione dicendo che i colori delle bolle di sapone dipendono anche dalla sorgente di luce. “Avete mai sentito parlare di luce bianca?” Nessuno risponde. “La luce bianca è formata da un insieme di tanti colori”. Per far sperimentare quanto affermato, mostro loro il disco di Newton. Faccio notare che è composto da spicchi colorati e chiedo: “secondo voi, se faccio girare velocemente questo disco, quale colore vedrò?” Qualcuno ha risposto che vedrò tutti i colori, qualcun altro che si vedrà il colore più scuro e qualcuno, che ricordava ciò che avevo detto poco prima, mi ha risposto dicendo che si vedrà il bianco. Ho iniziato a far girare velocemente il disco e i colori presenti hanno dato origine al colore bianco. “Come avete potuto osservare, più veloce sarà la rotazione meno nitidi saranno i colori degli spicchi, fino a quando si vedrà soltanto il colore bianco. Concludo dicendo che: “per vedere i colori sulle bolle si dovrà utilizzare una luce bianca che è formata da tanti colori messi insieme”. Spiego ai bambini che mi piacerebbe fare un confronto tra i colori delle bolle di sapone e quelli dell’arcobaleno. Chiedo loro se sanno quanti sono i colori 209 dell’arcobaleno e quali sono. I bambini mi rispondono che i colori sono sette e li elencano. Quando arrivano all’indaco, spiego loro che l’indaco non è un vero colore ma è soltanto una tonalità compresa fra il blu e il violetto. Aggiungo anche che in realtà i colori dell’arcobaleno sono sei e non sette, ma viene aggiunto appunto l’indaco semplicemente per arrivare al numero sette che è considerato più solenne. Ripeto in sequenza corretta i colori dell’arcobaleno: rosso, arancione, giallo, verde, blu, violetto. I bambini sono rimasti stupiti e nello stesso tempo affascinati da questa scoperta sul numero dei colori dell’arcobaleno. Prima di iniziare il lavoro di confronto, mostro lo strumento che utilizzeremo per studiare i colori sulle lamine saponose. Ho spiegato, visto che erano molto curiosi, i vari passaggi che ho fatto per costruire questo “strumento”. Si tratta di una cornice di legno, al cui interno si possono creare lamine saponate piuttosto estese. Lo sfondo della cornice è scuro e permette di osservare bene i colori delle lamine. Prendo una bottiglia di acqua saponata e la verso nel contenitore posto sulla base della cornice di legno. Coinvolgo anche un bambino, che immergerà e solleverà una bacchetta in plastica al fine di ottenere una lamina saponosa. Io invece scriverò alla lavagna la tabella di confronto. Siamo finalmente pronti per iniziare l’esperimento. 210 211 Chiedo ai bambini di osservare bene i colori e ciò che accade man mano che passa il tempo. E. risponde dicendo: “i colori sulla lamina prendono delle forme strane e al passare del tempo i colori spariscono”. Chiedo quale colore sembra prevalere, via via che gli altri colori spariscono. Mi rispondono che è il nero. “Vediamo un po’ se sapete dirmi per quale motivo i colori dopo un po’ si vedono sempre meno”. Siccome nessuno risponde, provo ad aiutarli. “I colori si vedono sempre meno perché, con il passare del tempo, la lamina subisce un cambiamento. Lo abbiamo visto quando abbiamo fatto le bolle di sapone; per questo fenomeno dopo un po’ scoppiavano anche se non toccavano niente”. L. dice che: “forse la lamina diventa più sottile”; “Secondo te perché si assottiglia?” M. interviene dicendo che: “il caldo è un nemico delle bolle di sapone e fa evaporare la lamina che diventa sottile e poi si rompe”. “Quindi, mano a mano che passa il tempo, la pellicola si assottiglia e nelle parti dove è più sottile i colori non si vedono più ma si vede solo il nero. Alla fine la pellicola si rompe”. Osserviamo bene i colori sulla lamina saponosa e iniziamo a confrontarli. 212 Il confronto viene fatto in maniera condivisa da tutta la classe. Dall’osservazione i bambini hanno notato che non tutti i colori presenti 213 nell’arcobaleno lo sono anche nella lamina saponosa. Hanno anche osservato che più passa il tempo e più i colori scendono verso il basso fino a sparire completamente poco prima della rottura della lamina. Dopo questa osservazione ho scritto alla lavagna le due successioni di colori secondo le indicazioni dei bambini. Al termine di questo breve percorso sui colori delle bolle di sapone, invito i bambini a scrivere sul quaderno ciò che hanno appreso da questo ultimo argomento. 6.7 Settima fase: riflettiamo sull’esperienza Questa mattina si è svolta la verifica sul percorso svolto. Le domande sono state strutturate in modo tale da ottenere una valutazione oggettiva; la verifica è composta in tutto da ventinove quesiti, di cui ventotto sulle conoscenze affrontate durante il progetto e uno a carattere personale per capire se ai bambini il percorso è piaciuto e li ha interessati. Ho strutturato le domande seguendo l’ordine di svolgimento del progetto. In 214 particolare ho inserito nove domande a risposta multipla, undici domande con risposta a scelta tra “vero” e “falso”, cinque domande a risposta aperta; un quesito che richiede il riassunto di una storia raccontata da me in classe e di spiegare ciò che la storia ha voluto dire; infine un esercizio di completamento. In più ho assegnato loro un cruciverba: anche questo riguarda gli argomenti svolti durante i nostri incontri. Ho cercato di formulare le domande nel modo più chiaro e semplice possibile, perché non volevo mettere i bambini in una situazione di difficoltà e di ansia. La verifica è stata preparata al computer in modo che potessero lavorare direttamente sui fogli consegnati e per non togliere tempo allo svolgimento della prova. Quando sono arrivata a scuola, gli alunni avevano già separato i banchi e stavano rileggendo gli appunti che nei giorni precedenti avevo preparato in vista della verifica; volevo infatti che tutti avessero le stesse possibilità di riuscita perché purtroppo qualche assenza per causa dell’influenza c’è stata. Ho consegnato le fotocopie e, prima di dare inizio alla prova, ho letto le domande in modo da dare loro la possibilità di chiedere spiegazioni, in caso ci fosse qualcosa di poco comprensibile. Finito di leggere, ho consigliato di rifare una lettura personale e di saltare le domande di cui non conoscevano la risposta per poi tornarci sopra in un secondo momento. Ho anche consigliato di ripensare alle esperienze fatte durante il progetto perché sicuramente sarebbero state loro di aiuto. 215 Il tempo a disposizione concesso è stato di un’ora e mezza, anche se in realtà i bambini hanno consegnato molto prima della fine del tempo. Nella risoluzione delle domande presenti nella verifica non hanno avuto grosse difficoltà. Qualcuno ha presentato delle incertezze momentanee nella risoluzione del cruciverba perché non ne aveva mai risolto uno; in ogni caso, dopo avergli fornito i giusti strumenti, le cose sono andate nel migliore dei modi. Prima della correzione delle verifiche ho stabilito di attribuire un punto per ogni domanda tranne che per le domande: 7, 9, 14 alle quali ho assegnato due punti perché richiedono di spiegare la scelta fatta e per la domanda 20, poiché richiedeva di ricordare in giusta successione gli elementi che costituiscono una bolla di sapone. Invece non ho considerato la domanda 29 perché chiedeva semplicemente di esprimere il gradimento sull’esperienza fatta. Ho sommato i vari punteggi ottenendo come massimo risultato 32. Ho fatto corrispondere il voto al punteggio nel modo indicato nell’istogramma seguente, che rappresenta la distribuzione dei punteggi ottenuti dai bambini. L’istogramma dimostra che gli obiettivi che mi ero prefissata sono stati ampiamente raggiunti! 216 Posso quindi affermare che quasi tutti gli alunni hanno acquisito un ottimo livello di conoscenza e comprensione degli argomenti trattati durante lo svolgimento del progetto. Al di là di una valutazione oggettiva, necessaria all’insegnante per valutare più che altro il proprio operato, ogni classe ha delle proprie peculiarità. Quando ho letto i risultati ottenuti da ciascun bambino, entrambe le maestre mi hanno confermato che rispecchiano l’andamento abituale della classe. Nell’istogramma seguente riporto il numero di alunni per voto individuale. Questo grafico è ottenuto dal precedente raggruppando gli individui che hanno avuto punteggi vicini, secondo lo schema mostrato nella figura precedente. La media aritmetica è superiore a 9, quindi estremamente vicina al voto massimo. Per quanto riguarda il cruciverba, è stato deciso di attribuire semplicemente una valutazione, perché abbiamo stabilito di non conteggiarlo nell’assegnazione del punteggio della verifica. Tutti i bambini hanno ottenuto la valutazione “bravissimo”. Durante la prova di verifica i bambini erano tutti presenti, quindi ho avuto la possibilità di avere un riscontro completo ed effettivo sul percorso fatto. Tutti 217 hanno svolto il compito in completa autonomia. Passando all’analisi delle singole domande, riporto i risultati ottenuti nella seguente tabella. Domanda Risposta giusta Risposta parziale Risposta errata 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 19 16 19 15 17 17 19 19 15 17 17 18 19 13 18 12 19 18 16 16 14 19 16 15 19 19 13 19 4 2 5 - 3 4 2 2 2 1 1 1 7 1 3 3 5 3 4 6 - I bambini hanno risposto bene a quasi tutte le domande. Non si sono evidenziate grosse difficoltà nella risoluzione dei quesiti, anche in quelli dove veniva richiesto di dare una spiegazione alla risposta scelta. Aver avuto la possibilità di compiere direttamente molteplici esperimenti ha 218 favorito nei bambini la comprensione degli argomenti trattati durante il progetto, apportando di conseguenza un buon apprendimento. Di seguito riporto alcune parti della verifica. 219 220 221 Il cruciverba… 222 Riporto alcuni pensieri espressi dai bambini 223 224 Conclusioni Alla fine del percorso, qui presentato, posso affermare che è stato importante approfondire gli aspetti teorici relativi agli argomenti affrontati; soprattutto è stato molto impegnativo trovare il modo di presentarli alla classe. Anche se ho già avuto diverse esperienze come insegnante curricolare, questa per me è stata la prima volta in cui ho costruito e realizzato un percorso didattico in maniera completamente autonoma. Lo scorso anno scolastico, secondo gli obiettivi formativi di tirocinio del quarto anno, ho infatti progettato, attuato e verificato un itinerario didattico, ma in accordo e in collaborazione con i docenti della classe. Partendo dal concetto che il compito dell’insegnante di oggi non è più quello di imprimere nozioni nella mente dei bambini, ma è quello di renderli partecipi al loro stesso processo di apprendimento, ho cercato di sviluppare l’apprendimento attraverso metodologie e attività didattiche che risultassero coinvolgenti. Attraverso la realizzazioni di molti esperimenti penso di essere riuscita a sviluppare l’attenzione, l’interesse, la curiosità e la conoscenza di tutto il gruppo classe. Tirando le somme, posso affermare che nel complesso mi ritengo più che soddisfatta dei risultati ottenuti. I bambini hanno partecipato al progetto con entusiasmo, impegno e senso di responsabilità; i momenti in cui ci siamo divertiti sono stati moltissimi; l’unico momento in cui hanno manifestato un po’ di “scontentezza” è stato quando si sono trovati a dover risolvere un paio di problemi di geometria. Per me invece il momento più difficile durante la realizzazione del progetto è stato quando abbiamo creato i telai tridimensionali, perché la loro costruzione ha richiesto un continuo intervento da parte mia. Concludendo spero che questa esperienza didattica, anche se breve, rimanga con il trascorrere del tempo un bel ricordo nella loro mente. A questo punto sento il dovere di ringraziare l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Avenza che mi ha permesso di realizzare questo progetto; le insegnanti di classe quinta, dove ho sviluppato il percorso didattico e in particolare la Maestra Manuela che mi ha concesso tutte le ore di cui avevo necessità, senza alcuna riserva; i bambini che con il loro entusiasmo hanno realizzato un bellissimo lavoro. Ringrazio i miei genitori e il mio fidanzato che mi hanno supportata durante tutto il percorso universitario, nel momento della realizzazione del progetto e della stesura della tesi. Un ultimo ringraziamento va al Prof. S. Straulino per l’aiuto professionale e cortese che mi ha dimostrato. 225 Bibliografia E. Amaldi, Fisica generale, parte II, Libreria Eredi Virgilio Veschi, Roma, 1965 F. Bagatti, M. Braghiroli, E. Corradi, A. Desco, C. Ropa, Le idee della Chimica, Zanichelli, Bologna, 1995 G. Bernardini, Fisica generale, parte I, Libreria Eredi Virgilio Veschi, Roma, 1965 P. 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