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tesi della dottoressa federica toso
Università degli Studi di Torino Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie Alimentari STUDIO DELL’EVOLUZIONE DI BIRRA “BARLEY WINE” MEDIANTE NASO E LINGUA ELETTRONICA Relatore: Prof. Giuseppe Zeppa Candidata: Federica Toso Anno accademico: 2012/2013 INDICE INTRODUZIONE 1.1 La birra 4 4 1.1.1 La storia 1.1.1.1 L’evoluzione dell’industria birraia in Italia 1.1.2 Le materie prime 6 7 8 1.1.2.1 L’acqua 8 1.1.2.2 I cereali 9 1.1.2.3 Il luppolo 10 1.1.2.4 Il lievito 13 1.1.3 Il processo produttivo 13 1.1.3.1 La maltazione 13 1.1.3.2 L’ammostamento 16 1.1.3.3 La filtrazione 19 1.1.3.4 La bollitura 21 1.1.3.5 La fermentazione 21 1.1.4 Il barley wine 22 1.1.4.1 L’invecchiamento della birra 23 1.1.4.2 L’invecchiamento in legno 25 1.2 Tecniche per la caratterizzazione strumentale 1.2.1 Il naso elettronico 28 28 1.2.1.1 Sensori utilizzati nel naso elettronico 29 1.2.1.2 L’utilizzo nel settore della birra 31 1.2.2 La lingua elettronica 32 1.2.2.1 La misura potenziometrica 33 1.2.2.2 L’utilizzo nel settore della birra 35 SCOPO DEL LAVORO 36 2 MATERIALI E METODI 37 3.1 I prodotti 37 3.2 Le valutazioni compositive 39 3.3 La caratterizzazione strumentale 42 3.3.1 L’analisi con il naso elettronico 42 3.3.2 L’analisi con la lingua elettronica 44 RISULTATI 46 4.1 Le analisi di base 46 4.2 Il naso elettronico 57 4.3 La lingua elettronica 64 CONCLUSIONI 67 RINGRAZIAMENTI 68 BIBLIOGRAFIA 69 SITOGRAFIA 72 3 INTRODUZIONE 1.1 La birra “ Vinum est donatio dei, cervetia traditio umana. ” Martin Lutero Con questa frase estremamente coincisa, il teologo tedesco Martin Lutero (1483-1546) riassume la differenza tra il vino e la birra, la quale, diversamente dal primo che rappresenta un dono divino, è una tradizione fortemente radicata nell’umanità. Infatti, fin dai tempi più remoti la birra è stata un elemento di primaria importanza nelle abitudini alimentari di quasi tutti i popoli ed è oggi la bevanda alcolica più consumata e prodotta al mondo. Nel 2011, secondo la FAO, ne sono state prodotte oltre 185 milioni di tonnellate, delle quali 48 milioni (oltre il 25%) sono state prodotte dalla Cina, nazione che rappresenta il 1° produttore al mondo, seguita da Stati Uniti d’America, Russia, Brasile e Germania (tabella 1.1). I tedeschi sono, quindi, i primi produttori di birra dell’Unione Europea, seguiti da Regno Unito, Polonia e Spagna. L’Italia è all’10° posto nella classifica dei produttori di birra dell’UE-27 con 1,2 milioni di tonnellate di birra prodotte nel 2011. Tabella 1.1 - Principali Paesi produttori di birra (FAO, 2011) Paese produttore Cina Quantità (t) 48.345.000 Usa 22.533.700 Brasile 13.300.000 Russia 9.935.920 Germania 8.944.725 4 In Italia, la produzione della birra è regolamentata dalla legge n. 1354 del 16 agosto 1962 intitolata “Disciplina e igiene della produzione e del commercio di birra” e modificata con Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1998, n. 272. Per la legge italiana, con il termine birra, si intende il prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica con ceppi di Saccharomyces carlsbergensis o di Saccharomyces cerevisiae di un mosto di birra preparato con malto anche torrefatto, di orzo o di frumento o di loro miscele, amaricato con luppolo o suoi derivati o con entrambi. Oltre a orzo e frumento, possono essere aggiunti altri cereali anche rotti, macinati o sotto forma di fiocchi nonché materie prime amidacee e zuccherine, in misura massima del 40% calcolato sull’estratto secco totale del mosto. In Italia, per la classificazione della birra si utilizzano due diversi parametri, quali il titolo alcolometrico volumico e il grado saccarometrico (o grado Plato), ovvero la quantità in grammi di estratto secco contenuto in 100 grammi di mosto. Sulla base di questi parametri, esistono 5 categorie: • La “birra analcolica”, avente grado Plato compreso tra 3 e 8 e titolo alcolometrico volumico inferiore a 1,2% vol; • La “birra leggera” o “birra light”, avente grado Plato compreso tra 5 e 10,5 e titolo alcolometrico volumico tra 1,2% vol e 3,5% vol; • La “birra”, avente grado Plato non inferiore a 10,5 e titolo alcolometrico volumico maggiore di 3,5%; • La “birra speciale”, avente grado Plato non inferiore a 12,5 e titolo alcolometrico volumico maggiore di 3,5%; • La “birra doppio malto” avente grado Plato non inferiore a 14,5 e titolo alcolometrico volumico maggiore di 3,5%. Sulla base della medesima legge, quando alla birra sono aggiunti frutta, succhi di frutta, aromi o altri ingredienti alimentari, la denominazione di vendita deve essere completata con il nome della sostanza utilizzata. 5 1.1.1 La storia Le prime testimonianze sulla birra risalgono al IV millennio a.C. e provengono dalla Mesopotamia, dove i Sumeri erano soliti coltivare cereali per macinarli e produrre farine e pane. Per la macinazione delle cariossidi venivano utilizzate delle pietre d’appoggio, le quali con l’usura tendevano a incavarsi e a riempirsi di acqua piovana in caso di maltempo; la pioggia ristagnando sulla pietra si arricchiva dei rimasugli dei cereali dando origine a un’acqua giallastra che può essere definita il primo esempio di birra. La birra era conosciuta anche nell’Antico Egitto, dove, secondo le testimonianze, ne venivano prodotte diverse tipologie, talune aromatizzate con datteri e spezie. Era largamente diffusa alla corte del faraone e veniva usata anche come medicamento per guarire malattie e curare ferite. Dall’Oriente, la birra si diffuse nell’antica Grecia e nell’antica Roma. In entrambe le zone, però, era molto diffuso il consumo di vino e la birra, definita sarcasticamente “vino d’orzo”, era ritenuta una bevanda meno raffinata. Nell’Impero Romano, ad esempio, la bevanda si diffuse in particolare nelle campagne, mentre nelle città era utilizzata soprattutto come ingrediente per creme e oli per il corpo. Con l’avvento del Medioevo, si verificò una crescita significativa nella produzione e nel consumo di birra, la quale, prodotta essenzialmente nei monasteri, si diffuse largamente in tutto il Nord Europa. Infatti, a differenza dell’Europa meridionale, dove la bevanda alcolica più prodotta e consumata era il vino, nel Nord, essendo la zona poco idonea per la coltivazione della vite, la birra divenne molto popolare. Il fatto che segnò una svolta nella produzione di birra fu l’introduzione del luppolo, il quale si diffuse largamente a partire dal XIII secolo grazie agli studi di Suor Hildegard von Bingen, suora dell’abbazia di St. Rupert in Germania, la quale effettuò numerose sperimentazioni empiriche per dimostrare che, grazie a questa infiorescenza, la birra si conservava meglio. Essendo la birra ormai diventata una bevanda importante e largamente diffusa, con l’avvento dell’età moderna incominciarono a essere promulgate leggi al fine di regolarne la produzione e la commercializzazione. La prima di queste leggi fu il Reinheitsgebot, ovvero l’Editto di Purezza emanato da Guglielmo IV di Baviera 6 nel 1516, che stabiliva che i birrai bavaresi, nelle loro ricette, potevano utilizzare esclusivamente acqua, malto d’orzo e luppolo. La ragione alla base di questa legge fu il tentativo di eliminare le competizioni per i prezzi del frumento che quell’anno aveva avuto un raccolto disastroso. Dopo essere rimasto in vigore per diverse centinaia di anni, oggi, questo editto non vige più, ma molte birre tedesche presentano ancora in etichetta la dicitura che significa “prodotta secondo la legge della purezza tedesca”, frase che viene utilizzata per ragioni di marketing. Più ci si addentra nell’età moderna, maggiori sono le innovazioni che si riscontrano nell’ambito della produzione della birra, per la quale la svolta fondamentale fu l’avvento della rivoluzione industriale. In particolare, le importanti scoperte che favorirono il miglioramento qualitativo della birra furono il termometro inventato da Fahrenheit nel 1714, la macchina a vapore inventata da James Watt nel 1785 e il frigorifero inventato da Carl von Linde nel 1859. Nel XVII secolo, inoltre, vennero intrapresi i primi studi sul lievito da Antonie van Leeuwenhoek, in seguito approfonditi da Charles Cagniard de Latour, Anton Dreher e Gabriel Sedlmayr. Un personaggio di fondamentale importanza per l’evoluzione qualitativa della birra è stato Louis Pasteur con i suoi studi inerenti le fermentazioni, i quali permisero di comprendere l’attività dei lieviti e dei batteri, questi ultimi responsabili di odori sgradevoli e gusti non conformi. Importante invenzione di Pasteur fu la tecnica della pastorizzazione, che consentì di prevenire l’azione di batteri e lieviti indesiderati con conseguente inacidimento della birra. 1.1.1.1 L’evoluzione dell’industria birraia in Italia Per quanto riguarda lo sviluppo dell’industria birraia in Italia, i primi stabilimenti comparvero verso la metà dell’Ottocento fino ad arrivare, nel 1890, a 140 aziende attive presenti sul territorio. Tra il 1910 e il 1925 la produzione di birra passò da 600 mila hL a 1,6 milioni di hL, fatto che, unito al crescente consumo procapite, iniziò a infastidire i produttori vinicoli, i quali si mossero affinché venissero emanate delle leggi atte a sfavorire la produzione di questa bevanda. Nel 1927, venne emanata la legge Marescalchi, la quale stabiliva l’obbligo di utilizzare almeno il 15% di riso nella produzione della birra, apparentemente con lo scopo di agevolare l’agricoltura nazionale. Questo obbligo portò a un peggioramento della qualità della bevanda, in quanto all’epoca non si avevano tecnologie idonee per l’utilizzo di 7 questo ingrediente nelle ricette. La legge introdusse, inoltre, delle restrizioni nella vendita, le quali, insieme al peggioramento qualitativo, portarono l’industria birraia italiana ad affrontare un periodo di crisi che peggiorò ulteriormente con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale. Solo a partire dagli anni Cinquanta si incominceranno a vedere segnali di ripresa che porteranno il mercato della birra a crescere nel nostro Paese. 1.1.2 Le materie prime 1.1.2.1 L’acqua L’acqua, dal punto di vista quantitativo costituisce dal 90% a oltre il 95% della birra; è, quindi, la materia prima più importante dal punto di vista quantitativo e le sue caratteristiche chimiche e biologiche assumono notevole rilevanza. Per la produzione di birra riveste fondamentale importanza la durezza dell’acqua, la quale influenza notevolmente le caratteristiche sensoriali del prodotto finito. La durezza totale è definita come la somma degli ioni di metalli alcalinoterrosi (Ca2+e Mg2+) e può essere suddivisa in durezza carbonatica (o temporanea) e non carbonatica (o permanente). Nel caso dello ione bicarbonato (HCO3-), si parla di durezza temporanea, in quanto con l’ebollizione i bicarbonati precipitano sotto forma del corrispondente carbonato con perdita di anidride carbonica: Ca(HCO3)2 CaCO3 + CO2 + H2O Nel caso dei solfati, dei nitrati e dei cloruri (SO42-, NO3-, Cl-), si parla di durezza permanente, in quanto rimangono disciolti nell’acqua anche a temperatura di ebollizione. La durezza dell’acqua di processo è un parametro importante perché gli ioni in essa presenti influenzano il pH del mosto: gli ioni calcio (Ca2+) e magnesio (Mg2+) provocano un decremento del pH, mentre lo ione bicarbonato (HCO3-) ne provoca l’incremento. Dato che il pH influenza l’attività enzimatica, la durezza dell’acqua assume un’importanza decisiva in fase di ammostamento. Le acque dure determinano, infatti, un innalzamento del pH dai valori ottimali, compresi tra 5.2 e 5.4, influenzando negativamente la degradazione di amido e proteine e causando 8 rallentamenti nella filtrazione. Le acque caratterizzate da una durezza elevata possono, inoltre, favorire l’estrazione dei tannini dalle glumelle con conseguente impatto organolettico negativo (Buiatti, 2004). Alcune birre conosciute in tutto il mondo devono le loro caratteristiche proprio all’acqua impiegata nel processo produttivo; è il caso ad esempio, delle pilsner prodotte nella città di Pilzen con acque molto povere di sali e le Monaco per quali si utilizzano acque povere in solfati e cloruri, ma ricche in bicarbonati (Buiatti, 2009). In ogni caso, se da un’analisi della durezza, l’acqua risulta essere non idonea per la tipologia di birra che si desidera produrre esistono metodi per modificarla. Ad esempio, un metodo diffuso per l’abbassamento della durezza carbonatica è il trattamento con latte di calce (una soluzione satura di idrossido di calcio) che causa la precipitazione di calcio e magnesio sotto forma di carbonato di calcio, carbonato di magnesio e idrossido di magnesio, tutti composti insolubili che possono, quindi, essere separati per filtrazione. In alterativa al trattamento con latte di calcio, nei birrifici è comune la demineralizzazione dell’acqua mediante passaggio su resine a scambio ionico o su membrane ad osmosi inversa. 1.1.2.2 I cereali Oltre all’acqua, un altro importante ingrediente della birra è l’orzo (Hordeum vulgare L.) che è da sempre il cereale preferito per la produzione della birra grazie all’elevato contenuto in amido e al basso tenore proteico. Da un punto di vista qualitativo, il migliore è l’orzo distico (Hordeum vulgare var. disticum), caratterizzato da cariossidi più grandi e uniformi (figura 1.1). Figura 1.1 – Spiga di orzo distico 9 In molti paesi, per ragioni qualitative e/o economiche, è consentito l’impiego di fonti amidacee alternative all’orzo. Ad esempio, il mais (Zea mais L.) è il succedaneo più utilizzato in Italia grazie al suo costo inferiore e alla sua notevole disponibilità. Si utilizza la cariosside degerminata, ovvero privata dell’embrione, e può essere utilizzato in forma di semola, fiocchi o come sciroppo di glucosio, in cui l’amido ha subito un’idrolisi acida o enzimatica. Un altro succedaneo sovente impiegato è il grano tenero (Triticum aestivum L.), il quale può essere usato come malto o come frumento non maltato. Il primo trova largo utilizzo nelle Weißbier tedesche, mentre l’impiego di frumento non lavorato è diffuso in Belgio per la produzione delle Blanche. Anche il riso (Oryza Sativa L.) è un cereale spesso utilizzato per l’elevato tenore amidaceo (85-90%), ma presentando una temperatura di gelatinizzazione dell’amido superiore rispetto a quella di altri cereali richiede accorgimenti tecnologici per essere utilizzato (gelatinizzazione a parte o aggiunta di amilasi batteriche resistenti alle alte temperature). Altri cereali che possono essere utilizzati per la produzione di birra sono l’avena, il miglio, il sorgo, il farro… 1.1.2.3 Il luppolo Il luppolo è l’ingrediente con funzione amaricante e aromatizzante della birra. In particolare, viene utilizzata l’infiorescenza femminile della pianta di Humulus lupulus L. (figura 1.2), una pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Cannabaceae. Figura 1.2 - Infiorescenza femminile della pianta di Humulus lupulus (da www.entheology.com) 10 Il luppolo è caratterizzato dalla presenza di ghiandole luppoline (figura 1.3), le quali secernono sostanze resinose che possono essere distinte in resine morbide e resine dure sulla base della loro solubilità in esano. Le prime, alle quali appartengono gli α-acidi e i β-acidi, sono caratterizzate da una buona solubilità nel solvente, a differenza delle seconde, le quali sono insolubili in esano. Figura 1.3 - Ghiandole luppoline all'interno dell’infiorescenza femminile di luppolo (da www.ars-grin.gov) Le resine dure non hanno molto importanza nel campo della birra, mentre quelle morbide sono responsabili del sapore amaro della birra, in particolare gli αacidi. I β-acidi (lupulone, colupulone e adlupulone) sono, infatti, insolubili nel mosto e nella birra, quindi non contribuiscono all’amaro della bevanda. I responsabili dell’amaro sono, invece, gli α-acidi, una classe a cui appartengono l’humulone, il cohumulone e l’ad-humulone. In fase di bollitura, gli α-acidi si isomerizzano in iso-αacidi (figura 1.4), composti più solubili in acqua rispetto agli α-acidi e, secondo Peacock (1998), nove volte più amari. Le resine, quindi, conferiscono alla birra il classico gusto amaro, contribuiscono alla stabilità microbiologica, in quanto possiedono proprietà antibatteriche, e stabilizzano la schiuma (Meussdoerffer & Zarnkow, 2009). Figura 1.4 - Isomerizzazione degli α-acidi in fase di bollitura (da www.chemicalbook.com) 11 Il luppolo è ricco anche in oli essenziali, i quali vengono prodotti dalle ghiandole luppoline al termine della maturazione, dopo la sintesi delle resine. La composizione di questa frazione aromatica dipende dalla genetica, quindi dalla cultivar, e da fattori colturali. Gli oli essenziali del luppolo si compongono per il 5080% di idrocarburi, tra i quali i più comuni sono alcuni monoterpeni, in particolare il mircene, e alcuni sesquiterpeni, come il β-cariofillene e l’umulene. Trattandosi di sostanze estremamente volatili, se la luppolatura viene effettuata interamente in bollitura, la maggior parte degli aromi vengono persi. Per questa ragione, per conferire alla birra aromi derivanti dal luppolo, si aggiunge una parte dell’ingrediente al termine della bollitura (rinunciando all’isomerizzazione degli α-acidi in esso contenuta) o si effettua il dry hopping, ovvero l’aggiunta a freddo durante la fermentazione alcolica o al termine della stessa. Il luppolo contiene, inoltre, lo 0,8-1,5% di polifenoli, la cui quantità e varietà dipendono dalla cultivar e dalla tecnica coltivazione. Con la tecnica dell’HPLC, Forster et al. (Briggs et al., 2004) hanno rilevato oltre 100 composti facenti parte della frazione polifenolica, come gli acidi idrocinnamici, gli acidi idrobenzoici, l’acido clorogenico e l’acido gallico, molti dei quali sono stati identificati anche nel malto. Sul mercato, il luppolo può essere reperito in diverse forme: come cono essiccato, in plugs (fiori pressati in dischi di 14 grammi), in pellet o come estratto in polvere (figura 1.5). Gli ultimi due tipi sono i più utilizzati, in quanto garantiscono una migliore stabilità del prodotto e un più accurato dosaggio (Krottenthaler & Glas, 2009). Figura 1.5 - Luppolo in forma di fiori essiccati (1), plugs (2) e pellet (3) (da www.listermannbrewing.com) 12 1.1.2.4 Il lievito Per legge, la fermentazione alcolica del mosto di birra deve essere condotta da ceppi di Saccharomyces cerevisiae o Saccharomyces carlsbergensis (in realtà, il termine carlbergensis non ha più valenza da un punto di vista tassonomico, in quanto, nonostante sia ancora molto utilizzato nel settore della birra, questa specie di lievito è stata riclassificata come Saccharomyces pastorianus). Sulla base della specie di lievito utilizzata, si distinguono 2 categorie di birra: • le birre ad alta fermentazione (ale) fermentate essenzialmente con ceppi di Saccharomyces cerevisiae; • le birre a bassa fermentazione (lager) fermentate essenzialmente con ceppi di Saccharomyces pastorianus. Le due categorie prendono il nome, oltre che dalla temperatura utilizzata in fase di fermentazione alcolica (10-12°C al massimo per le lager e 20-22°C per le ale), anche dal comportamento dei lieviti in fase di fermentazione. Infatti, il Saccharomyces cerevisiae, lievito principe dell’alta fermentazione, nel fermentatore, tende a raccogliersi nella parte superiore, in prossimità della superficie del mosto, mentre il Saccharomyces pastorianus tende a flocculare e a raccogliersi sul fondo del tank (Tenge, 2009). 1.1.3 Il processo produttivo Nella figura 1.6 è riportato un diagramma di flusso riportante le principali fasi della produzione di birra. Nello schema, si parte dal processo di maltazione, il quale è il primissimo fondamentale step con il quale si trasforma l’orzo in malto. In realtà, però, questa fase non viene effettuata dai birrifici, ma presso malterie specializzate che si occupano unicamente di questa parte del processo produttivo. 1.1.3.1 La maltazione La maltazione è un processo fondamentale per la produzione della birra, in quanto la cariosside d’orzo contiene il 62-65% di amido, il quale, però, non è fermentescibile e solo trasformando l’orzo in malto si consente lo sviluppo di tutto il corredo enzimatico necessario alla conversione del polisaccaride in zuccheri semplici. Inoltre, si sviluppano anche enzimi in grado di degradare le piccole 13 quantità di proteine e trigliceridi presenti nel cereale dando origine ad aminoacidi e acidi grassi utili per supportare la crescita del lievito. Le malterie, aziende deputate alla trasformazione dell’orzo (o altri cereali) in malto, ritirano partite di cariossidi rientranti in stringenti standard qualitativi riguardo alla capacità di germinazione, al contenuto in proteine, all’omogeneità di dimensioni della granella e al contenuto d’acqua. Figura 1.6 - Flow sheet del processo produttivo della birra 14 La maltazione si compone di tre fasi essenziali, quali la macerazione, la germinazione e l’essicazione. L’orzo conferito alla malteria, dopo una fase di pulitura avente lo scopo di allontanare i corpi estranei presenti, viene posto in una vasca a macerare in acqua a 10-20°C per 24-36 ore. Al fine di rimescolare la granella per consentirne una bagnatura omogena, si insuffla aria dal fondo della vasca. In questo modo, si introduce anche ossigeno, il quale è necessario per la respirazione e, se assente, provoca un accumulo di anidride carbonica e la conseguente fermentazione delle cariossidi. Al termine di questa fase, l’umidità dell’orzo cresce dal 10-12% al 45% circa, umidità ideale per il successivo passaggio, la germinazione, che avviene in apposite camere a temperatura controllata (20-25°C) e dura dai 2 ai 4 giorni. Durante questa fase si verifica l’emissione della radichetta, fattore che stimola la produzione di acido gibberellico, il quale induce l’attivazione di enzimi idrolitici, che iniziano a demolire le sostanze di riserva, quali amido e proteine. Gli enzimi aventi maggiore importanza sono quelli in grado di degradare l’amido (α- e β-amilasi e destrinasi), quelli che degradano le proteine (proteasi e peptidasi) e quelli in grado di scindere i β-glucani. L’orzo germinato, definito malto verde, viene trasferito nell’essiccatoio, un recipiente a fondo forato attraverso cui viene fatta fluire aria calda, al fine di ridurne il livello di umidità preservando i complessi enzimatici sviluppati durante la maltazione. In questa fase, inoltre, si ottengono il colore e il flavour caratteristici del tipo di malto prodotto; infatti, grazie a reazioni di imbrunimento non enzimatico (reazioni di Maillard) a carico di aminoacidi e zuccheri semplici, vengono prodotte melanoidine, polimeri aventi notevole impatto sul colore e l’aroma della birra, oltre che sul pH e sulla stabilità del gusto (Kreisz, 2009). La temperatura di torrefazione varia notevolmente a seconda del tipo di malto che si desidera ottenere: per i malti chiari non si superano gli 80°C, mentre per quelli più colorati si usano temperature oltre i 100°C. Inoltre, esistono malti estremamente scuri, utilizzati in minime quantità in birre particolari, i quali vengono tostati anche a temperature intorno ai 200°C. Prima di essere inviato al birrificio, infine, il malto viene sottoposto a una fase di pulitura finale con lo scopo di allontanare le radichette. 15 1.1.3.2 L’ammostamento La prima fase che viene effettuata in birrificio è la miscelazione dei diversi malti nelle quantità definite dalla ricetta della birra che si vuole produrre. Una volta effettuata la miscela, questa viene convogliata al molino dove viene macinata. Il processo di molitura ha lo scopo di ridurre le dimensioni delle cariossidi per facilitare le successive fasi di estrazione e diluizione dei costituenti del mosto. Questa fase deve essere gestita con cura al fine di lasciare il più possibile intatte le glume che rivestono il chicco, in quanto queste costituiranno il letto filtrante per la successiva chiarificazione. Il malto macinato viene, quindi, inviato al tino di miscela nel quale si addiziona acqua calda (a circa 38°C) leggermente acidulata (pH 5.5). La quantità di acqua aggiunta dipende dalla tipologia di birra che si vuole ottenere: in media si utilizzano 2-3 L di acqua per kg di malto per le birre chiare e 1-1,5 L di acqua per kg di malto per le scure. Prima di procedere con l’ammostamento, se la ricetta lo prevede, si aggiungono eventuali altri cereali non maltati al fine di avere una maggiore quantità di amido e quindi un maggiore potenziale zuccherino. Essendo che, però, con i cereali non maltati non si apportano enzimi, solitamente non si eccede il 25% sul peso totale della granella (anche se per legge si può arrivare al 40%) e li si unisce solamente a malti caratterizzati da un elevato potere diastasico. Dato che i diversi cereali che si possono aggiungere presentano diverse temperature di gelatinizzazione dell’amido (tabella 1.2) solitamente questo viene preventivamente gelificato, attraverso una cottura a 80-100°C, e poi convogliato alla caldaia di saccarificazione. Una volta che la miscela è interamente nel tino di saccarificazione si procede con l’ammostamento, fase che può essere effettuata in due diverse modalità: per infusione o per decozione. Nel primo caso, detto anche sistema inglese, non è prevista la bollitura della miscela; si impasta il malto con acqua a 38-40°C per poi aggiungere ulteriore acqua a circa 80°C al fine di raggiungere una temperatura della massa di 63-65°C in circa mezz’ora. Quindi, la miscela viene tenuta in agitazione per un’ora al fine di avere omogeneità di temperatura e per evitare che il malto aderisca alle pareti incandescenti con conseguente formazione di aromi indesiderati. 16 Tabella 1.2 - Temperature di gelatinizzazione di alcuni cereali (Briggs et al., 2004) Fonte di amido Temperatura di gelatinizzazione (°C) Fonte di amido Temperatura di gelatinizzazione (°C) Mais* 62-77 Frumento 52-66 Sorgo* 69-75 Segale 49-61 Miglio* 54-80 Avena 52-64 Orzo 60-62 Riso* 61-82 Malto d’orzo 64-77 Patata 56-71 Le fonti di amido con * devono sempre essere cotte prima dell’ammostamento. L’ammostatura per decozione, chiamato anche sistema tedesco o a tempera, prevede la bollitura di un’aliquota di mosto. Il malto viene innanzitutto impastato con acqua fredda, successivamente si trasferisce circa ¼ della massa in un altro contenitore e lo si porta a ebollizione per poi riunirlo all’intera massa ed effettuare di nuovo il prelievo di una parte e ripetere il trattamento. L’operazione viene ripetuta più volte fino al raggiungimento di una temperatura di circa 75-80°C. Utilizzando questa tecnica si degradano una parte degli enzimi a causa della bollitura, ma si ha una maggiore gelatinizzazione dell’amido, una maggiore estrazione dal perisperma e una maggiore formazione di melanoidine. Durante l’ammostamento, attraverso il controllo di temperatura, tempi e pH, avvengono una serie di attività enzimatiche che portano all’idrolisi di amido, βglucani e proteine. L’idrolisi dell’amido inizia con la gelatinizzazione dello stesso, fase in cui il polisaccaride perde la sua struttura cristallina formando una struttura altamente viscosa grazie al rigonfiamento dei granuli. Grazie a questo passaggio, l’amido diventa più facilmente attaccabile dalle α- e dalle β-amilasi che hanno il compito di scinderlo in zuccheri meno complessi. Le prime sono endoenzimi in grado di rompere le catene di amilosio e di amilopectina dando origine a catene più piccole e portando alla formazione di glucosio, maltosio, maltotrioso e oligosaccaridi dall’amilosio e oligosaccaridi ramificati dall’amilopectina. La β-amilasi, invece, è un esoenzima che inizia a operare dall'esterno, ovvero taglia la catena dopo due unità di glucosio dando origine a molecole di maltosio. Con l’attività di questo enzima, 17 quindi, nel caso dell’amilosio si ottiene il 100% di maltosio, mentre nel caso dell’amilopectina si ottiene il 55% di maltosio e il 45% di β-destrine limite che presentano il legame α-1,6. L’α-amilasi ha un pH ottimale intorno a 5.6-5.8, una temperatura ottimale di 70-74°C e si degrada a 80°C, mentre la β-amilasi ha un pH ottimale intorno a 5.45.5, una temperatura ottimale di 58-65°C e si inattiva oltre i 65°C. Entrambi gli enzimi, però, non sono in grado di scindere il legame α-1,6 dell’amilopectina, il quale può essere scisso dall’enzima destrinasi presente nel malto, ma, poiché la sua temperatura ottimale è di 50-60°C, ha una scarsa attività in fase di ammostamento. Sulla fase di saccarificazione hanno effetto la temperatura, il pH, il tempo di trattamento e la concentrazione del malto. Per quanto riguarda la temperatura, operando a 62-65°C si ha la massima produzione di maltosio, in quanto si tratta della temperatura ottimale per la β-amilasi; a 70-73°C (temperatura ottimale per l’αamilasi), invece, si ha la massima produzione di zuccheri semplici. Il pH deve essere mantenuto a valori di 5.5-5.6 in modo da favorire entrambe le amilasi e ottenere buone quantità di zuccheri fermentescibili. Se il pH è più elevato, è opportuno acidificare la massa attraverso l’aggiunta di acidi minerali come l’acido lattico o l’acido solforico. In alternativa, si può effettuare un’acidificazione biologica favorendo l’attività di batteri lattici come il Lactobacillus delbrueckii nella primissima fase di ammostamento. Questo microrganismo, attraverso la sua attività omofermentativa, consuma zuccheri e produce acido lattico. In fase di ammostamento, si verifica anche l’idrolisi dei β-glucani, i maggiori costituenti delle pareti cellulari dell’endosperma. Si tratta di composti importanti per la stabilità della schiuma e per il corpo della birra, ma una loro incompleta degradazione nel mosto ne aumenta la viscosità rendendo difficile la successiva fase di filtrazione. Il malto presenta l’enzima endo-1,4-β-glucanasi, il quale ha una temperatura ottimale di 40-45°C, ma le condizioni di ammostamento ne precludono l’attività, in quanto si tende a lavorare a temperature più alte per favorire le amilasi, e, quindi, può essere necessario aggiungere enzimi esogeni di origine batterica. Nel malto d’orzo sono presenti anche proteasi, enzimi in grado di catalizzare l’idrolisi dei legami delle catene polipeptidiche che formano le proteine. Questi enzimi hanno diversi effetti in fase di ammostamento, tra i quali di notevole 18 importanza è la scissione delle proteine con formazione di azoto amminico (FAN: free amino nitrogen). Con questo termine si intende l’insieme di aminoacidi e piccoli peptidi (dipeptidi e tripeptidi) presenti nel mosto, i quali sono ritenuti importanti per la crescita del lievito e per la loro performance fermentativa (Lekkas et al., 2005). Le proteasi sono enzimi poco resistenti alle alte temperature, quindi, per favorire la loro attività, è necessario uno step a inizio ammostamento, definito protein rest, durante il quale la temperatura è mantenuta a 55-60°C. Al termine del processo di ammostamento, la temperatura viene portata a 7780° con lo scopo di inattivare tutti gli enzimi. 1.1.3.3 La filtrazione Il mosto ottenuto nella fase precedente deve essere sottoposto a filtrazione per separare la grande quantità di trebbie in esso presente. Questo processo può essere effettuato utilizzando il tino di filtrazione (figura 1.7) o un filtro pressa (figura 1.8). Figura 1.7 - Il tino di filtrazione (Hans Michael Esslinger, pag. 183) 19 Il primo metodo è il più utilizzato e consiste nel trasferimento della miscela di mosto e trebbie in un apposito tino caratterizzato dalla presenza di un falso fondo forato sul quale si depositano le trebbie che fungono da letto filtrante. La miscela viene pompata dall’alto e mediante una serie di lame rotanti a bassa velocità, le trebbie formano uno strato spesso una ventina di centimetri e vengono attraversate dal mosto che, mediante ripetuti passaggi, raggiunge un buon livello di limpidità. Terminata la chiarificazione del mosto, le trebbie vengono lavate con acqua calda (78 °C) per recuperare la maggior quantità possibile di zuccheri. Le trebbie esauste, grazie al loro elevato contenuto proteico, sono un ottimo mangime e vengono, quindi, destinate all’alimentazione zootecnica. Figura 1.8 - Il filtro pressa (Hans Michael Esslinger, pag. 184) L’alternativa a questo sistema è l’utilizzo di un filtro pressa costituito da un numero variabile di tele filtranti in serie sulle quali si depositano sottili strati di trebbie (circa 4 cm). Dato il basso spessore dello strato di trebbie, se si utilizza questo tipo di filtrazione, il malto può essere macinato molto più finemente, in quanto il rischio di impaccamento è minore. Con il filtro pressa è possibile effettuare una filtrazione efficace e veloce, ma ciò nonostante questo sistema non è molto diffuso. 20 1.1.3.4 La bollitura Il mosto filtrato viene traferito nel tino di cottura dove viene portato a ebollizione e bollito per alcune ore con lo scopo di concentrarlo, sterilizzarlo, inattivare eventuali enzimi ancora attivi, provocare la precipitazione delle proteine e dei polifenoli, strippare composti volatili indesiderati e provocare reazioni di Maillard con formazione di composti scuri come le melanoidine che contribuiscono, inoltre, all’abbassamento del pH. In fase di cottura, si effettua anche la luppolatura che prevede l’aggiunta di una o più tipologie di luppolo, sovente in tempi diversi, al fine di conferire alla birra il sapore amaro, grazie all’isomerizzazione degli α-acidi in iso-α-acidi, e aromi. L’acidificazione del mosto, da pH 5.7-5.9 a valori di 5.5-5.6 è dovuta, oltre alle melanoidine prodotte dalle reazioni di Maillard, agli acidi del luppolo e alla precipitazione di sali insolubili come il fosfato tricalcico con liberazione di idrogenioni. L’abbassamento del pH, seppur minimo, determina una migliore precipitazione di proteine e polifenoli, una migliore qualità dell’amaro conferito dal luppolo e una maggiore protezione del mosto da eventuali inquinamenti microbici. Allo stesso tempo, però, il pH più basso provoca una minore isomerizzazione degli α-acidi del luppolo (Krottenthaler & Glas, 2009). Al termine della cottura il mosto presenta molte sostanze insolubili in sospensione, prevalentemente flocculi tanno-proteici derivanti dalla reazione dei polifenoli con le proteine del malto, i quali devono essere allontanati. Il metodo più utilizzato è il separatore whirlpool costituito da un serbatoio cilindrico nel quale si pompa il mosto tangenzialmente alla parete in modo da creare un mulinello che porta i torbidi a depositarsi al centro della base. In alternativa possono essere utilizzate centrifughe. 1.1.3.5 La fermentazione Il mosto proveniente dalla cottura, dopo essere stato separato dai torbidi, deve essere raffreddato mediante l’uso di scambiatori di calore per consentire la successiva fermentazione alcolica. Nel caso della birra, è indispensabile l’inoculo del lievito, in quanto il mosto dopo la bollitura è semi-sterile: permangono alcuni batteri lattici termodurici, ma i 21 lieviti presenti in origine non sono sopravvissuti a causa delle temperature elevate impiegate nel processo. Dato che, oltre a un numero di cellule di lievito sufficiente, una buona fermentazione dipende anche dalla disponibilità di ossigeno per il microrganismo, è necessario aerare il mosto con aria sterile o con ossigeno attraverso candele ceramiche, tubi venturi, mixer statici o centrifughi. Nel caso della birra, si parla di alta fermentazione o bassa fermentazione (paragrafo 1.1.2.4). In entrambi i casi, le sostanze zuccherine presenti nel mosto, grazie all’attività dei lieviti, vengono fermentate con produzione di etanolo, anidride carbonica e numerosi sottoprodotti. Questi ultimi possono essere distinti in alcoli superiori, esteri, composti carbonilici, composti sulfurei e acidi organici, tutti caratterizzati da diverse soglie di percezione gustativa e olfattiva. Durante la fermentazione, il pH scende di circa un punto passando da 5.4-5.5 a 4.3-4.6 a causa della formazione di acidi organici volatili (acetico e formico) e non (piruvico e lattico). Una volta raggiunto il grado alcolico desiderato, la birra, previo un periodo di maturazione, può essere filtrata, imbottigliata sotto pressione ed eventualmente pastorizzata. Le birre artigianali, tuttavia, tendenzialmente vengono imbottigliate non gasate e rifermentate in bottiglia al fine di sviluppare l’anidride carbonica che dà la sensazione di effervescenza e non vengono sottoposte a pastorizzazione. 1.1.4 Il barley wine II barley wine, letteralmente “vino d’orzo”, è uno stile di birra ad alta fermentazione caratterizzato da una gradazione alcolica elevata, spesso superiore all’8% vol, da un elevato residuo zuccherino e da un’effervescenza scarsa o nulla. La prima birra ad essere etichettata con questa denominazione è stata la “Bass No. 1 Barley wine”, prodotta dalla Bass Brewery di Burton-upon-Trent (Inghilterra) a partire dai primi del Novecento. In realtà, però, lo stile ha origine più antiche e deriva probabilmente da un antico metodo di produzione conosciuto come parti-gyle attraverso il quale si producevano mosti parecchio concentrati destinati a birre molto alcoliche che spesso venivano anche invecchiate in botti di legno per uno o più anni prima di essere consumate. Utilizzata ancora oggi, la tecnica del parti-gyle consiste 22 nel produrre due mosti da una singola cotta. Dopo la filtrazione sul letto di trebbie, il mosto ottenuto, molto concentrato, viene raccolto senza effettuare il lavaggio delle trebbie e viene utilizzato per produrre birre in stile barley wine. Il lavaggio delle trebbie si esegue solo successivamente e il mosto ottenuto è adoperato per produrre una birra più leggera. Oggi i barley wine vengono prodotti con la tecnica del parti-gyle o mediante l’aggiunta di fonti zuccherine esogene come lo sciroppo di glucosio, zuccheri scuri caramellati, miele… Solitamente vengono fermentati con ceppi di lieviti ale, i quali devono essere molto tolleranti all’etanolo al fine di consentire il raggiungimento delle gradazioni alcoliche desiderate senza incorrere in arresti fermentativi. Prima di essere messi in commercio, inoltre, vengono invecchiati in acciaio o legno o direttamente in bottiglia per periodi di tempo variabili. Esistono essenzialmente due stili di barley wine: quello americano e quello inglese. Il barley wine americano tende a essere più luppolato, più amaro e ha una colorazione che varia dall’ambrato al marrone chiaro. Lo stile inglese, invece, è solitamente meno luppolato e il colore può essere molto variabile, dal rosso dorato al nero opaco. 1.1.4.1 L’invecchiamento della birra Generalmente, la birra è una bevanda che deve essere consumata subito o dopo una breve maturazione, ovvero un periodo di durata variabile da una settimana a un paio di mesi in cui viene lasciata riposare affinché acquisisca caratteristiche sensoriali tali da renderla qualitativamente migliore. In realtà, però, alcune tipologie di birra, come i barley wine, possono migliorare attraverso l’invecchiamento diventando più complesse dal punto di vista sensoriale. L’ossidazione, solitamente considerata come un grave difetto della birra, riveste una notevole importanza nel caso di birre invecchiate. Nel caso di birre non idonee, come ad esempio le pilsner, l’invecchiamento provoca la comparsa di aromi indesiderati come sentori di ribes, pomodoro o cartone bagnato. L’insorgere di queste caratteristiche negative può essere incentivato dalla presenza di ossigeno disciolto nella birra o di ossigeno nello spazio di testa della bottiglia, oltre che da temperature di invecchiamento superiori ai 20°C (Oliver, 2011). 23 A partire dagli anni Sessanta, numerosi studi hanno investigato gli aspetti chimici dell’invecchiamento della birra e, nonostante i cinquant’anni di ricerche, le reazioni che avvengono durante questa fase rimangono difficili da spiegare nel loro complesso. Nel 1977, Dalgliesh (Vanderhaegen, 2006) ha descritto i cambiamenti che si verificano dal punto di vista olfattivo e gustativo durante l’invecchiamento di una birra. Lo studio dell’autore, riassunto nel figura 1.9, però, rappresenta una generalizzazione dell’evoluzione sensoriale e non è applicabile a tutte le tipologie di birra. Dalgliesh sostiene che, durante l’invecchiamento, si verifica una costante diminuzione dell’amaro parzialmente dovuta al mascheramento provocato dall’aumento del gusto dolce, in coincidenza del quale si verifica anche un aumento degli aromi dolciastri, come caramello e zucchero bruciato. Si verificano, inoltre, un rapido aumento di intensità dell’aroma di ribes, seguito da un decremento, e lo sviluppo di aroma di cartone bagnato. Figura 1.9 - Evoluzione sensoriale della birra durante l'invecchiamento (Dalgliesh, 1977) Oltre alla presenza dell’ossigeno, la temperatura di stoccaggio influenza l’evoluzione della birra nel corso dell’invecchiamento. Furusho et al., nel 1999, (Vanderhaegen, 2006) hanno effettuato uno studio sull’evoluzione sensoriale durante la conservazione di diverse birre e hanno notato come l’evoluzione della nota di cartone bagnato sia diversa durante la conservazione di lager a temperature di 20°C e 24 30°C. Ciò era stato dimostrato anche in precedenza, nel 1995, dal lavoro di Kaneda et al. (Vanderhaegen, 2006) che hanno dimostrato che quando una lager è invecchiata a 25°C sviluppa prevalentemente note di caramello, mentre a 30°C e a 37°C lo sviluppo di note di cartone bagnato è maggiore. Nelle birre idonee all’invecchiamento, come i barley wine, una lenta ossidazione e la conseguente degradazione di vari composti porta alla comparsa di un flavor particolare. Inoltre, in queste tipologie di birra, un’eventuale comparsa di aromi non desiderati solitamente viene mascherata dalla forte intensità di altre note positive. Con l’invecchiamento, i barley wine acquisiscono note di nocciola, di mandorla, cioccolato e liquirizia (Oliver, 2011). 1.1.4.2 L’invecchiamento in legno Nel passato, quando i serbatoi in metallo non erano molto diffusi, il legno veniva utilizzato per stoccare e trasportare qualsiasi tipo di bevanda, come acqua, vino, birra, olio di oliva, rum… L’intenzione, tuttavia, non era quella di conferire caratteristiche sensoriali particolari alla bevanda, ma semplicemente avere un contenitore in cui trasportarla. Dai primi dell’Ottocento, i birrai hanno incominciato a trattare le botti, solitamente in quercia, con ripetuti risciacqui con acqua bollente e acido cloridrico per neutralizzarle al fine di ridurre la possibilità che la birra successivamente immessa prendesse note di legno. Con il passare del tempo, si sono sviluppati serbatoi e fusti in acciaio, i quali sono diventati di largo impiego nell’industria birraia causando un progressivo abbandono del legno. Attualmente, molti birrifici hanno ripreso a utilizzare il legno per la produzione di alcune birre, ma questa volta l’obiettivo è totalmente diverso. Le moderne birre, infatti, vengono invecchiate in legno perché acquisiscano caratteristiche particolari nell’aroma e nel flavor. Negli Stati Uniti, dove negli ultimi anni l’invecchiamento della birra si è largamente diffuso, le botti più utilizzate sono quelle del bourbon. Secondo la legge americana, un whisky per essere denominato “straight bourbon” deve essere invecchiato per un minimo di due anni in una botte nuova di quercia bianca americana. Le distillerie, quindi, utilizzano le botti per un paio di anni e poi sono costrette a sostituirle. 25 I principali costituenti del legno sono la cellulosa, l’emicellulosa e la lignina, oltre che tannini e piccole quantità di lipidi (oli e cere). L’emicellulosa in fase di tostatura, si degrada negli zuccheri semplici che la compongono (glucosio, xilosio, mannosio, ramnosio, arabinosio e galattosio), i quali caramellizzano con formazione di furfurolo, idrossimetil-furfurolo, maltolo, ciclotene e altri composti caratterizzati da aromi di mandorla amara, tostato, caramello e mandorla bruciata. La lignina, infine, è un polimero complesso che si compone di unità di guaiacile e unità di siringile. Nelle bevande invecchiate in legno, queste danno origine a due gruppi di composti: • Dalla struttura del guaiacile si formano la coniferaldeide, la vanillina e l’acido vanillico; • Dalla struttura del siringile hanno origine la sinapaldeide, la siringaldeide e l’acido siringico. Se, però, il calore apportato in fase di tostatura del legno è eccessivo, la lignina può essere convertita anche in fenoli volatili, responsabili di aromi di fumo e di medicinale (Ackland, 2001). I lattoni, composti lipidici contenuti all’interno del legno di quercia, sono i principali responsabili dell’aroma conferito da botti in questa varietà di legno. In concentrazioni basse, infatti, questi composti conferiscono le caratteristiche note di legnoso ed erbaceo, mentre in concentrazioni più elevate gli aromi a essi dovuti ricordano la rosa e il cocco. In realtà, però, la stagionatura all’aria aperta del legno e, ancora di più, la tostatura possono portare alla degradazione dei lattoni con conseguente minor incidenza aromatica. I tannini sono composti largamente presenti nel legno di quercia e conferiscono la tipica sensazione di astringenza propria delle bevande affinate in legno. Nel caso di botti di seconda mano, utilizzate per l’affinamento della birra, però, è probabile che la maggior parte dei tannini siano già stati assorbiti, ad esempio dal bourbon, e, quindi, la birra non acquisisce questa caratteristica. D’altro canto, i tannini sono anche potenti antiossidanti in grado di fornire protezione verso l’ossidazione che inevitabilmente si verifica durante la conservazione in botti di legno. 26 Oltre alle caratteristiche sensoriali conferite dal legno stesso, la birra acquisisce anche quelle della bevanda che in precedenza ha sostato nella botte. Infatti, l’utilizzo di botti nuove nel settore della birra è molto raro, in quanto, oltre a essere molto care, conferiscono caratteristiche sensoriali troppo spiccate. L’utilizzo di botti di seconda mano, invece, le rende meno caratterizzanti, in quanto il vino o il distillato che ci ha sostato in precedenza ha già estratto la maggior parte dell’aroma. Inoltre, il legno ha assorbito le caratteristiche del suo precedente ospite, quindi si è arricchito di nuovi aromi che verranno passati alla birra. L’ossidazione è un fattore da tenere in considerazione nell’invecchiamento di una birra in legno, in quanto le botti sono porose e l’ossigeno gradualmente viene assorbito dall’esterno. Una lenta e costante ossidazione è una parte importante della maturazione in legno e può conferire caratteristiche positive con una diminuzione del gusto amaro conferito dal luppolo e un’intensificazione delle note di malto. Se gestito con attenzione, l’ossidazione, quindi, consente lo sviluppo di caratteristiche aromatiche positive, a differenza delle ossidazioni incontrollate che portano a note di muffa e di carta. In ogni caso, se troppo spinta, l’ossigenazione, può causare un incremento di acidità a causa dello sviluppo di Acetobacter. 27 1.2 Tecniche per la caratterizzazione strumentale Le caratteristiche sensoriali di un alimento rivestono notevole importanza nella valutazione della qualità di quest’ultimo. Infatti, quando la sicurezza e l’apporto di nutrienti sono garantiti, l’insieme delle caratteristiche visive, gustative e olfattive diventano il fattore discriminante nella definizione della qualità di un prodotto alimentare. Fino a non molto tempo fa, i parametri sensoriali potevano essere valutati con metodologie molto onorese in termini di tempo e spesso inapplicabili in molti settori del controllo qualità, come, ad esempio, l’impiego di panel test. Negli ultimi anni, però, sono stati introdotti sul mercato strumenti che operano con principi simili a quelli olfattivi e gustativi umani, ovvero il naso e la lingua elettronica, i quali permettono di valutare le caratteristiche sensoriali di un alimento in modo rapido. Questi strumenti trovano largo impiego in diversi settori alimentari (birra e bevande alcoliche, carne e derivati, latte e derivati, prodotti della pesca…) per il controllo delle materie prime, la caratterizzazione e la determinazione dell’origine geografica, il monitoraggio in linea delle fasi di produzione, lo studio della composizione, la presenza di odori estranei. Il naso e la lingua elettronica presentano numerosi vantaggi quali la facilità di utilizzo, la velocità di risposta, la versatilità di impiego, l’assenza di necessità di pretrattamento del campione e l’oggettività delle analisi. Inoltre, possono essere di supporto alle analisi chimico-fisiche e all’analisi sensoriale. 1.2.1 Il naso elettronico Negli ultimi 30 anni, sono stati effettuati diversi studi sulla possibilità di simulare l’olfatto umano attraverso un sistema artificiale. Il concetto di “sistema olfattivo artificiale” è stato introdotto nel 1982 da Persaud e Odd, i quali hanno utilizzato un insieme di sensori chimici non specifici per simulare i recettori olfattivi umani, ma solo negli anni Novanta sono comparsi i primi strumenti sul mercato. La definizione di “naso elettronico” che viene attualmente utilizzata è stata proposta da Gardner e Barlett, i quali lo hanno definito come uno strumento che 28 comprende una serie di sensori chimici aspecifici e un sistema di pattern recognition in grado di riconoscere odori semplici e complessi (Gardner & Yinon, 2003). Il naso elettronico emula quello umano attraverso una serie di sensori in grado di simulare la risposta dei recettori olfattivi agli odori. Grazie a una pompa a vuoto, l’aria contente le molecole odorose del campione viene aspirata e trasportata in una camera di misura realizzata in materiale chimicamente inerte come PVC, vetro o acciaio inox. In questa zona, i composti presenti nello spazio di testa del campione vengono a contatto con una matrice di sensori caratterizzati da una scarsa selettività, ovvero sensibili a un’ampia gamma di molecole (Nagel et al., 1998). L’analisi si compone di tre passaggi: 1. Aspirazione di aria dall’ambiente per effettuare la pulizia dei sensori; 2. Flusso del gas di riferimento (ad esempio, aria ambiente filtrata con passaggio su filtro a carbone) nella camera di misura al fine di stabilire la linea di base; 3. Analisi dello spazio di testa del campione. Quando i composti volatili vengono a contatto con i sensori provocano una variazione fisica e/o chimica del materiale che li costituisce con conseguente variazione delle loro proprietà elettriche (Arshak et al., 2004). Il risultato che lo strumento restituisce è pari al rapporto tra la conduttività del sensore a contatto con le molecole presenti nello spazio di testa del campione e la conduttività del sensore al passaggio del gas di riferimento. 1.2.1.1 Sensori utilizzati nel naso elettronico La parte più importante di un naso elettronico è rappresentata dai sensori, i quali possono essere di diversa formulazione, ma, in ogni caso, operano su una variazione della conducibilità elettrica. I criteri che i sensori devono soddisfare sono alta sensibilità verso i composti chimici e volatili, bassa sensibilità all’umidità e alla temperatura, scarsa selettività verso i composti chimici, alta stabilità, riproducibilità e affidabilità, robustezza, durabilità e facilità di calibrazione. I sensori utilizzati nei nasi elettronici sono generalmente semiconduttori a ossidi metallici (MOS), transistor semiconduttori a ossidi metallici a effetto di campo (MOSFET), polimeri conduttori (CP) e cristalli pinzoelettrici. Questi possono essere divisi in due grandi gruppi: sensori caldi (MOS e MOSFET) e sensori freddi (CP e 29 cristalli pinzoelettrici). I primi operano a temperatura più alta e sono considerati meno sensibili all’umidità (Shaller et al., 1998). I sensori MOS sono stati utilizzati per la prima volta negli anni Sessanta come rivelatori di gas domestici in Giappone. Oggi sono i più utilizzati nei nasi elettronici e sono costituiti da una lamina in ceramica riscaldata internamente da una resistenza elettrica e ricoperta in superficie da uno strato di film di ossidi semiconduttori. Questi ultimi possono essere agenti riducenti (ossido di zinco, biossido di stagno…) o agenti ossidanti (ossidi di nichel e cobalto). Il principio di funzionamento si basa sulla variazione di conducibilità dell’ossido in presenza di molecole odoranti rispetto al valore assunto dalla conducibilità al passaggio del gas di riferimento. Per effetto della temperatura di funzionamento elevata (in genere 200650°C), infatti, le sostanze volatili, sulla superficie dell’ossido di metallo, vengono completamente combuste con produzione di anidride carbonica e acqua e, di conseguenza, si verifica una variazione della resistenza dell’ossido. I sensori MOSFET funzionano in modo analogo a quelli MOS in quanto sono caratterizzati dalla stessa struttura, ma l’elettrodo è ricoperto da un metallo catalizzatore. Si compongono, infatti, di 3 strati: silicio semiconduttore, isolante ad ossido di silice e un metallo catalitico, generalmente palladio o platino. Il principio di rilevazione si basa sulla variazione della conducibilità elettrica del metallo catalitico. I sensori a polimeri conduttori organici (CP), come i sensori MOS, basano il loro funzionamento sulla variazione di resistenza indotta dall’assorbimento di un gas. Questi sensori si compongono di un substrato (ad esempio, fibra di vetro o silicio), una coppia di elettrodi placcati d’oro e un polimero organico conduttore come polipirrolo, polianilina o politiofene. Quando viene imposto un potenziale all’elettrodo, un flusso di corrente passa attraverso il polimero conduttore. Il passaggio di un composto volatile altera la superficie del polimero e modifica il flusso di corrente e, quindi, la resistenza del sensore. Sensori di questo tipo, a causa della loro bassa temperatura di attività (inferiore a 50°C), sono molto sensibili all’umidità del campione. I sensori a cristalli pinzoelettrici sono costituiti da dischi di quarzo, niobato di litio (LINbO3) o tantalato di litio (LiTaO3) ricoperti da materiali chimicamente e termicamente stabili, come fasi stazionarie cromatografiche, lipidi o composti non 30 volatili. Quando viene applicato un potenziale elettrico alternato, il cristallo vibra con una frequenza definita dalle sue proprietà meccaniche. Quando il sensore viene esposto a un flusso di gas, la sua superficie assorbe le molecole in esso presenti, le quali, aumentando la massa del cristallo, ne diminuiscono la frequenza di risonanza, la quale viene monitorata e correlata alla presenza del composto volatile. I cristalli, selezionando il taglio e il tipo di configurazione degli elettrodi, possono essere fatti vibrare in modalità di onda acustica di volume (BAW: bulk acoustic wave) oppure in onda acustica superficiale (SAW: surface acoustic wave). La differenza tra le due tipologie è la loro struttura: i sensori BAW sono caratterizzati da onde tridimensionali che attraversano il cristallo, mentre i SAW da onde bidimensionali (Rayleigh, Love e Bluestein-Gulyaev) che si propagano sulla superficie del cristallo alla profondità di mezza lunghezza d’onda. I sensori SAW sono più sensibili dei sensori BAW, ma entrambi, per fornire risposte comparabili ad altri tipi di sensori, necessitano di un’elevata concentrazione di composti volatili. Inoltre, sono molto sensibili alle variazioni di temperatura e di umidità. 1.2.1.2 L’utilizzo nel settore della birra Il primo studio inerente l’applicazione del naso elettronico alla birra, nel quale uno strumento dotato di 12 sensori CP è stato utilizzato, con successo, per discriminare tra tre birre commerciali, due lager e una ale, è stato effettuato da Pearce et al. (1993). Successivamente, nel 1995, Tomlinson, Ormrod e Sharpe hanno studiato la possibilità di integrare un naso elettronico a 20 sensori CP nel processo produttivo del loro birrificio (Shaller et al., 1998). Nello studio, sono state esaminate varie birre (quattro lager e cinque ale di marche diverse) e le loro materie prime e, nonostante le sovrapposizioni tra le diverse marche, il naso elettronico ha dimostrato un buon livello di discriminazione tra le lager e le ale. Le birre sono, inoltre, state aggiunte di diacetile, composti fenolici e contaminanti metallici con conseguente variazione del segnale del naso elettronico. Dai risultati dello studio è stato evidenziato come il naso elettronico fosse uno strumento promettente per l’industria della birra nonostante fossero necessari ulteriori studi sulle tecniche di campionamento, oltre che sull’architettura della strumento. Nel 2002, McKellar et al. (Berna, 2010) hanno utilizzato un naso elettronico allo scopo di determinare l’influenza del tempo di invecchiamento sullo sviluppo 31 delle caratteristiche aromatiche di una birra presente sul mercato. Lo strumento è stato in grado di discriminare le birre invecchiate per 12-14 giorni da quelle invecchiate per oltre 14 giorni. Più recentemente, un naso elettronico dotato di 5 sensori MOS è stato utilizzato per valutare l’invecchiamento di alcune birre (Ghasemi-Varnamkhasti et al., 2011). Sono state analizzate birre alcoliche e non alcoliche e si è notato come le prime fossero più stabili nel tempo. Infatti, quando l’alcol etilico viene allontanato dalla birra, una parte dei componenti aromatici viene persa. Inoltre, le birre dealcolate non presentano una concentrazione equilibrata dei composti aromatici provenienti dal processo fermentativo (Sohrabvandi et al., 2010). 1.2.2 La lingua elettronica Il primo lavoro inerente l’analisi di matrici liquidi con sistemi multisensori risale al 1985 (Otto & Thomas, 1985), ma il concetto di lingua elettronica è nato una decina di anni dopo. Infatti, la costruzione di uno strumento composto da sensori in grado di misurare e confrontare il gusto di diversi alimenti ha richiesto la fusione di conoscenze provenienti da diverse discipline, quali sensory technology, metodi di riconoscimento di pattern, intelligenza artificiale e strumenti chemiometrici (Ciosek & Wróblewski, 2007). Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, sulle riviste scientifiche, sono, quindi, apparsi i primi articoli riguardanti la lingua elettronica e, negli anni successivi, l’argomento è stato largamente approfondito. I sensori sono caratterizzati da una bassa selettività nei confronti delle molecole presenti nella matrice alimentare e ciò è dovuto al tentativo di rendere l’attività della lingua elettronica il più simile possibile a quella del sistema gustativo umano. Infatti, la lingua umana è dotata di recettori che percepiscono un insieme di sostanze responsabili del gusto, le trasducono in un segnale elettrico e lo trasmettono al cervello dove il gusto viene percepito. Allo stesso modo, la lingua elettronica è basata sul concetto di selettività globale, termine originariamente proposto da Toko et al. nel 1996, e definito come la capacità di suddividere le sostanze chimiche in diversi gruppi a seconda del loro gusto e la quantificazione di questi ultimi mimando l’attività della lingua umana. Lo sviluppo di una lingua elettronica dotata di sensori a selettività globale è basato su un concetto molto diverso rispetto a quello su cui si 32 basano i sensori chimici convenzionali, i quali sono in grado di rilevare selettivamente una specifica sostanza chimica, come ad esempio il glucosio o l’acido citrico. Infatti, il gusto non può essere misurato anche nel caso in cui vengano identificate e quantificate tutte le sostanze chimiche contenute in una matrice alimentare, in quanto l’essere umano non è in grado di distinguere ogni sostanza chimica, ma percepisce il gusto nella sua totalità. Inoltre, esistono interazioni tra le molecole responsabili dei gusti: ad esempio, le sostanze dolci provocano una minore percezione di quelle amare. Attraverso un’analisi con la lingua elettronica, l’obiettivo, quindi, non è discriminare tra tutti i composti chimici presenti in un campione, ma riconoscere i gusti ed effettuarne una quantificazione (Toko, 2000). 1.2.2.1 La misura potenziometrica Una lingua elettronica può sfruttare l’azione di sensori di diverso tipo: elettrochimici (sensori potenziometrici o voltammetrici), ottici o enzimatici (biosensori). I più usati sono i sensori potenziometrici, in particolare gli elettrodi ione-selettivi, i quali sono simili a un elettrodo pH, ma, a differenza di quest’ultimo, non sono dotati di una membrana permeo-selettiva agli ioni idrogeno, ma possono avere diversi tipi di membrane. Il principio di funzionamento degli elettrodi ioneselettivi è basato sulla misura della loro differenza di potenziale nei confronti di un elettrodo di riferimento, il cui potenziale è noto, in assenza di corrente. I principali svantaggi della misura potenziometrica sono la dipendenza del segnale dalla temperatura, l’influenza della matrice e l’assorbimento dei componenti in essa presenti da parte del sensore con conseguente influenza sul potenziale di membrana. Questi fattori possono, però, essere minimizzati mediante il controllo della temperatura dei campioni e il lavaggio degli elettrodi con solventi per limitare l’assorbimento. D’altro canto, i vantaggi degli elettrodi ione-selettivi sono il basso costo, la facilità di fabbricazione, il semplice montaggio, la possibilità di analizzare un più ampio range di composti e la similarità con il meccanismo naturale di riconoscimento del gusto. Tutte queste caratteristiche hanno fatto sì che i sensori potenziometrici siano i più diffusi nelle lingue elettroniche (Ciosek & Wróblewski, 2007). 33 I sensori potenziometrici a selettività globale sono stati sviluppati dal Dipartimento di Ingegneria Elettronica della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Kyushu, in Giappone (Hayashi et al., 1990). Questi sensori sono in grado di rispondere ai diversi attributi del gusto e ogni sensore è caratterizzato da una risposta diversa rispetto a quella degli altri. L’informazione data da ogni sensore è, quindi, complementare a quelle fornite dagli altri e la combinazione di tutte le risposte fornite genera il profilo gustativo (taste fingerprint) dell’alimento (Toko, 2000). Come si nota dalla figura 1.10, ogni sensore, composto da una membrana lipidico/polimerica spessa 200 µm e costituita da un lipide, cloruro di polivinile e un plastificante, è inserito in un tubo di plastica che presenta un foro nella parte superiore, la quale viene chiusa con un tappo nel quale è inserito un elettrodo di riferimento ad Ag/AgCl. Il tubo è, infine, riempito con una soluzione 3 M di KCl. Figura 1.10 – Struttura dei sensori a selettività globale di una lingua elettronica (SA402, Anritsu) (Toko, 2000) La lingua elettronica effettua una misura potenziometrica tra il sensore e l’elettrodo di riferimento, il quale è caratterizzato da un potenziale di elettrodo ben determinato e stabile. 34 1.2.2.2 L’utilizzo nel settore della birra Nonostante il largo utilizzo della lingua elettronica per l’analisi di matrici alimentari liquide, in letteratura sono presenti pochi studi riguardanti la birra. Nel 2006, questa tecnica è stata utilizzata da Ciosek e Wróblewski per effettuare un’analisi qualitativa di diverse marche di birra e uno studio simile è stato effettuato anche nel 2009 da Rudnitskaya et al. analizzando cinquanta campioni di birre belghe e olandesi di diverso tipo (lager, ale, blanche, lambic…). Nello studio, è stata effettuata una comparazione tra i risultati dei test di analisi sensoriale, durante i quali i sette assaggiatori del panel dovevano giudicare la schiuma, l’aroma, il gusto e il restrogusto attribuendo a ciascun parametro un punteggio, e i risultati dell’analisi con una lingua elettronica dotata di 29 sensori potenziometrici. I risultati hanno mostrato come la lingua elettronica fosse in grado di effettuare una maggiore discriminazione tra i campioni rispetto ai membri del panel. Più recentemente, Cetó et al. (2013) hanno utilizzato una lingua elettronica dotata di 20 sensori potenziometrici per la discriminazione di diverse birre presenti sul mercato. 35 SCOPO DEL LAVORO Le birre barley wine sono un prodotto particolare dal punto di vista aromatico e gustativo. Vengono spesso prodotte in modo empirico e, per valutare quando il prodotto può essere messo in commercio, il mastro birraio generalmente si affida a una sua personale analisi sensoriale. Lo scopo di questa ricerca è stato, quindi, quello di studiare l’evoluzione di diverse birre barley wine mediante l’analisi chimico-fisica e l’utilizzo di un naso e una lingua elettronici, al fine di comprendere quali siano le variazioni indotte dall’ossidazione e dall’affinamento in legno e tentare di stabilire dei parametri oggettivi per la definizione del momento per la commercializzazione di questi prodotti. 36 MATERIALI E METODI 3.1 I prodotti Lo studio è stato condotto presso il Birrificio Baladin srl con sede legale a Piozzo (CN) e sede produttiva a Farigliano (CN). L’azienda è operativa dal 1996, anno in cui il fondatore Teo Musso ha deciso di trasformare un pub aperto dieci anni prima, Le Baladin di Piozzo, in un brewpub installando un impianto da 500 L e incominciando a produrre birra da vendere alla spina e, successivamente, anche in bottiglia. Nell’agosto 2000, per esigenze di spazio l’ex pollaio della famiglia Musso è stato trasformato nella cantina di fermentazione e, nel giro di un paio di anni, anche l’impianto è stato trasferito in questo spazio. Infine, nel 2009, la produzione è stata interamente trasferita a Farigliano in un capannone di 3000 m2 dove è stato installato un impianto da 25 hL. Nel giro di pochi anni, la produzione di birra è raddoppiata passando da 5500 hL prodotti nel 2009 a 9400 hL prodotti nel 2011. Tre “barley wine”, definiti “birre da divano”, prodotti dal birrificio Baladin sono stati l’oggetto di questo studio: la Xyauyù, la Xyauyù Barrel e la Xyauyù fumé. Il punto di partenza di questi prodotti è un mosto che viene fermentato fino al raggiungimento di un titolo alcolometrico volumico pari al 14% vol. e, al termine del processo di fermentazione, la birra ottenuta viene sottoposta a un processo di ossidazione in acciaio durante il quale si insuffla ossigeno. Il processo produttivo della Xyauyù si conclude in acciaio, mentre le altre due tipologie vengono affinate in legno per un anno e, più in particolare, la Xyauyù Barrel matura in botti utilizzate per il rum, mentre l’affinamento della Xyauyù Fumé viene effettuato in botti che in precedenza hanno ospitato whisky. Presso l’azienda, a metà aprile 2013, si è realizzata una cotta da 1000 L e il mosto ottenuto è stato fatto fermentare per sei settimane. Al termine della fermentazione si è provveduto al raffreddamento della massa a 2°C per consentire lo spurgo delle fecce. A partire da questo momento, definito “punto zero”, è iniziato il monitoraggio del prodotto con campionamenti effettuati una volta a settimana. A fine maggio è iniziato il processo di ossidazione della birra, il quale è consistito in 2 ore di insufflaggio di ossigeno una volta a settimana per 4 settimane. 37 Infine, a inizio luglio, la massa è stata suddivisa nelle due botti (figura 3.1) e l’evoluzione dei prodotti è stata monitorata, campionando una volta a settimana, per circa 2 mesi. Figura 3.1 – Botti contenenti le future Xyayù Fumé (a sinistra) e Xyauyù Barrel (a destra) Come riferimento si sono utilizzati i prodotti attualmente presenti in commercio, ovvero la Xyauyù 2009, la Xyauyù Barrel 2008 e la Xyauyù fumé 2008, i quali sono stati analizzati tre volte per determinare eventuali evoluzioni del prodotto imbottigliato. 38 3.2 Le valutazioni compositive Ognuno dei campioni prelevati è stato sottoposto a diverse analisi di base atte a verificare il contenuto in alcol, l’acidità totale, il pH, l’estratto secco, gli zuccheri residui, i parametri cromatici, l’attività antiossidante e il contenuto totale in polifenoli. La determinazione del grado alcolico è stata effettuata mediante il metodo densitometrico previa distillazione di 100 mL di campione e lettura della densità del distillato. La misura dell’acidità totale, espressa in g/L di acido tartarico, è stata effettuata con il titolatore automatico DL53 Titrator prodotto dalla Mettler Toledo. L’analisi è stata effettuata su 50 mL di campione filtrato su carta allo scopo di eliminare eventuali tracce di anidride carbonica. La misura del pH è stata effettuata con il pHmetro Knick Portamess 913. L’estratto secco totale è stato misurato mediante la formula di Tabarié che consente di calcolare la densità dell’estratto (de) attraverso la determinazione della densità della birra (db) alla quale deve essere aggiunto 1, valore corrispondente alla densità dell’acqua, e sottratta la densità del distillato (dd): de = db + 1 - dd Dal valore di de, attraverso le tavole di Windisch è possibile calcolare il valore dell’estratto secco totale espresso in g/L. La quantità di zuccheri riduttori è stata calcolata attraverso il metodo di Fehling che consiste nella titolazione con la matrice da analizzare di una miscela di 5 mL di soluzione di Fehling A, 5 mL di soluzione di Fehling B e 40 mL di acqua distillata. Per la titolazione si è utilizzata birra diluita 1:20 con acqua distillata e la quantità di zuccheri espressa in g/L di glucosio è stata ottenuta mediante la formula: g/L di glucosio = 0,05154 ⋅ 1000 ⋅ diluizione mL di titolante La valutazione dei parametri cromatici CIELab dei campioni è stata effettuata mediante spettrofotometro CM-5 prodotto dalla Konica Minolta in combinazione con il software SpectraMagic NX. 39 I parametri CIELab rappresentano il metodo più completo di definizione dello spazio dei colori visibili attraverso tre coordinate: • L: la luminosità del colore che varia da 0 (nero) a 100 (bianco); • a*: la sua posizione tra magenta (valori positivi) e verde (valori negativi) passando per il bianco (0) se la luminosità è pari a 100; • b*: la sua posizione tra giallo (valori positivi) e blu (valori negativi) passando per il bianco (0) se la luminosità è pari a 100. Per la determinazione delle tre coordinate, si è effettuata la misurazione della trasmittanza dei campioni in cuvette con percorso ottico da 1 cm. Il radicale DPPH (2,2-difenil-1-picrilidrazile) è comunemente utilizzato per testare l’attività antiossidante, in quanto è dotato di elevata reattività verso specie riducenti e ha un assorbimento caratteristico alla lunghezza d’onda di 515 nm. L’attività antiossidante è misurata, mediante spettrofotometro, come estinzione dell’assorbanza di una soluzione metanolica a concentrazione nota del radicale. La capacità antiradicalica dei campioni è stata stimata seguendo la procedura proposta da Von Gadov et al. (1997). In una cuvetta monouso in polistirene sono stati posti 3 mL della soluzione radicalica (6 x 10-5 M), ai quali si sono aggiunti 75 µL di campione opportunamente diluito. Dopo agitazione, la miscela è stata fatta reagire al buio e a temperatura ambiente per 60 minuti, fino al raggiungimento di una condizione stazionaria in cui l’assorbanza rimane costante nel tempo. Al termine della reazione, si è letta l’assorbanza a 515 nm (utilizzando uno spettrofotometro Shimatzu UV-1700 Pharmaspec) contro un bianco costituito dalla soluzione metanolica del radicale a cui sono stati aggiunti 75 µL di acqua ultrapura. I risultati sono stati espressi come percentuale d’inibizione (IP) del radicale, secondo la formula: %IP = ABSbianco – ABScampione ABSbianco L’attività antiossidante misurata, che può essere indicata come Radical Scavenging Activity (RSA), è stata calcolata rispetto a quella di un antiossidante di riferimento, il Trolox, con il quale è stata costruita una curva di calibrazione in un range di concentrazione 0–350 µM/L. 40 Ogni misurazione è stata ripetuta tre volte e i risultati sono stati espressi come µM equivalenti di Trolox per litro di campione (µM TE/L). Il contenuto totale di polifenoli (TPC) è stato determinato spettrofotometricamente utilizzando il reattivo Folin-Ciocâlteau (Singleton e Rossi, 1965), adottando la procedura proposta da Zhou e Yu (2006). A 50 µL di birra, opportunamente diluiti in funzione dell’analisi, sono stati aggiunti 250 µL di reattivo di Folin-Ciocâlteau e 3 mL di acqua ultrapura. La miscela è stata fatta reagire per 3 minuti, quindi sono stati aggiunti 750 µL di una soluzione di carbonato di sodio al 20%. I reagenti sono stati accuratamente miscelati e lasciati reagire per due 2 ore a temperatura ambiente e al buio al fine di consentire la reazione del reattivo di FolinCiocâlteau, composto da una miscela di acido fosfotungstico (H3PW12O40) e acido fosfomolibdico (H3PMo12O40), che, in ambiente basico e in presenza di fenoli, produce ossidi di tungsteno e molibdeno (W8O23 e Mo8O23) di colore blu. A reazione ultimata, l’assorbanza della miscela è stata letta a 765 nm (utilizzando uno spettrofotometro Shimatzu UV-1700 Pharmaspec) contro un bianco costituito dai medesimi reagenti, in cui il campione è stato sostituito con un equivalente volume di acqua ultrapura. Ogni misurazione è stata ripetuta tre volte. La quantificazione è stata effettuata sulla base di una retta di calibrazione ottenuta a partire da soluzioni acquose di acido gallico con concentrazioni comprese nell’intervallo 50-100 mg/L. I risultati sono stati espressi in termini di mg di acido gallico equivalente per litro di campione (GAE mg/L). 41 3.3 La caratterizzazione strumentale 3.3.1 L’analisi con il naso elettronico L’analisi dei composti volatili è stata effettuata con il naso elettronico PEN3 della Airsense Analytics (figura 3.2) in combinazione con il software Winmuster. Lo strumento è dotato di 10 sensori termoregolati (150-500°C) composti da semiconduttori a ossidi metallici (MOS). I sensori, posizionati in una camera di misura dal volume di 1.8 mL, sono sensibili a differenti classi di composti chimici (tabella 3.1). Figura 3.2 - Naso elettronico PEN3 (Airsense Analytics) Per ogni campione, sono state analizzate 5 repliche preparate ponendo 3 mL di prodotto in vial scuri da 40 mL chiusi con un tappo a ghiera e un setto di silicone. I vials preparati sono stati, quindi, lasciati incubare a temperatura ambiente per un periodo di 30 minuti al fine di consentire la stabilizzazione dello spazio di testa. Si è proceduto, infine, all’analisi del campione inserendo l’ago posto all’estremità della sonda del naso elettronico nel setto in silicone. Per evitare fenomeni di depressione, contemporaneamente, si è posto un ago collegato a un filtro a carbone attivo. 42 Tabella 3.1 - Sensibilità e limite di rilevabilità dei sensori del naso elettronico PEN3 (Baietto M. et al., 2013) Limite di rilevabilitàb Nr. Nomea 1 W1C Composti aromatici organici 2 W5S Ampia gamma di composti polari e ossidi di azoto 3 W3C Composti aromatici, chetoni e aldeidi 4 W6S Idrogeno 5 W5C Alcani, composti organici non polari 6 W1S Composti metilici 7 W1W Composti solfurei e terpeni 8 W2S Alcoli, chetoni e composti aromatici 9 W2W Composti aromatici e composti sulfurei 10 W3S Alte concentrazioni (>100 mg/kg) di metano e composti organici alifatici a b Descrizione e sensibilità Toluene, 10 mg kg-1 NO2, 1 mg kg-1 Benzene, 10 mg kg-1 H2, 0,1 mg kg-1 aromatici e composti Propano, 1 mg kg-1 CH3, 100 mg kg-1 H2S, 1 mg kg-1 CO, 100 mg kg-1 H2S, 1 mg kg-1 n.d. Come riportato dal software Winmuster. Gomez et al., 2007. Prima di analizzare ciascun campione, i sensori sono stati ripuliti con un ciclo di cinque misurazioni a vuoto al fine di aspirare aria dall’ambiente per garantire l'assenza di molecole volatili residue e stabilizzare la linea di base. Il flusso di gas alla camera di misura è stato impostato a 400 mL/min e ciascuna misurazione è durata 185 secondi suddivisi come segue: • Flush time (pulizia dei sensori): 120 secondi; • Tempo di acquisizione della linea di base: 5 secondi; • Tempo di misurazione: 60 secondi (1 rilevazione/secondo). Il contatto delle molecole volatili presenti nello spazio di testa del campione con i sensori provoca una variazione di conduttività di questi ultimi. La risposta dei sensori viene registrata come rapporto tra la conduttività del sensore al passaggio del gas di riferimento (G0) e la conduttività del sensore durante l’esposizione allo spazio di testa del campione (G). 43 3.3.2 L’analisi con la lingua elettronica L’analisi a livello gustativo è stata effettuata con la lingua elettronica Astree (figura 3.3) prodotta dall’azienda francese Alpha M.O.S., la quale è dotata di sette sensori a selettività globale (ZZ, BA, BB, CA, GA, HA e JB), un autocampionatore in grado di ospitare sedici becher della capacità di 150 mL ed è gestita dal software AlphaSoft fornito dalla stessa azienda. Figura 3.3 - La lingua elettronica Astree (Alpha M.O.S.) I sensori sono basati su una tecnologia potenziometrica elettrochimica detta ChemFET (Chemical Modified Field-Effect-Transistor). Ogni sensore si compone di un rivestimento organico sensibile a diverse molecole presenti nel campione e di un trasduttore che consente di convertire la risposta della membrana in un segnale elettrico. La risposta dello strumento corrisponde a una misurazione della differenza di voltaggio tra il sensore ChemFET e l’elettrodo di riferimento Ag/AgCl. Come si nota dalla tabella 3.2, i sensori sono caratterizzati da una selettività globale, ovvero ciascuno è in grado di rilevare le cinque sensazioni gustative, ma ognuno è caratterizzato da un diverso limite di rilevabilità per la sostanza di riferimento. 44 Tabella 3.2 - Sensori utilizzati e loro limiti di rilevabilità nella lingua elettronica Astree (Xiao H. & Wang J., 2012) Gusto Composto chimico Limite di rilevabilità (M) ZZ BA BB CA GA HA JB Acido Acido Citrico 10-7 10-6 10-7 10-7 10-7 10-6 10-6 Salato NaCl 10-6 10-5 10-6 10-6 10-4 10-4 10-5 Dolce Glucosio 10-7 10-4 10-7 10-7 10-4 10-4 10-4 Amaro Caffeina 10-5 10-4 10-4 10-5 10-4 10-4 10-4 Umami MSG 10-5 10-4 10-4 10-4 10-5 10-4 10-4 Prima di essere utilizzata per le analisi, la lingua elettronica deve essere sottoposta a una procedura di avvio consistente in un’idratazione dei sensori con acqua ultra pura e una calibrazione con una soluzione di acido cloridrico con lo scopo di verificare che i sensori forniscano valori stabili e ripetibili. Inoltre, come suggerito dal produttore, deve essere analizzata anche una sequenza di diagnosi per verificare che la lingua elettronica sia in grado di discriminare tra acido, salato e umami. A tale scopo vengono analizzate tre diverse soluzioni preparate rispettivamente con acido cloridrico, cloruro di sodio e glutammato monosodico. Prima dell’analisi con la lingua elettronica, ogni campione è stato centrifugato a 10 mila giri per 10 minuti e diluito con acqua ultra pura in rapporto di 1:1. Per ogni campione sono state analizzate cinque repliche, le quali, come suggerito dal produttore, sono state alternate a becher contenenti 100 mL di acqua ultra pura al fine di ripulire i sensori tra una replica e l’altra. Ogni misurazione è durata 120 secondi. 45 RISULTATI 4.1 Le analisi di base Nella tabella 4.1 sono riportati i risultati delle analisi di base effettuate sui prodotti finiti e sui prodotti campionati nel corso dello studio. Sulla base dei risultati relativi ai prodotti finiti, le tre bottiglie di Xyauyù Fumé (prodotto B) e Xyauyù Barrel (prodotto C) non presentano variazioni significative nel contenuto in etanolo e acidità totale. Per il pH, l’estratto secco e gli zuccheri residui, invece, in entrambi i casi, si trovano valori diversi (inferiori per il pH e superiori nel caso degli altri due parametri) tra la prima bottiglia analizzata (B e C) e le due repliche successive (B2 - B3 e C2 - C3). La stessa osservazione non può essere effettuata per il prodotto A, in quanto analizzato una sola volta. Durante l’affinamento in acciaio, il contenuto in alcol etilico si aggira su 1313,5% vol, ad eccezione del punto 2 che presenta un contenuto di etanolo pari a 11,4% vol, nettamente inferiore rispetto a quelli dei campionamenti precedenti e successivi, a causa probabilmente di un problema in fase di campionamento. Per quanto riguarda gli altri parametri, invece, non si osservano particolari andamenti, né differenze tra i punti esaminati. Il contenuto in alcol durante la maturazione in legno (punti 6B-13B e punti 6C-13C) si aggira su valori di 13% vol per entrambi i prodotti. Si osserva, in entrambi i casi, un andamento oscillante che probabilmente è correlabile all’estrema complessità della matrice, la quale è probabile causa di errori in fase di determinazione. Per entrambi i prodotti, si verifica, inoltre, un aumento dell’estratto e un’oscillazione degli zuccheri residui intorno ai 95 g/L, con valori caratterizzati da una variabilità inferiore nel caso del prodotto C. 46 Affinamento in acciaio Prodotti finiti Tabella 4.1 - Contenuto in alcol (%vol), acidità totale (g/L di acido tartarico), pH, estratto secco (g/L) e zuccheri residui (g/L) A B C Campioni Alcol Acidità totale pH Estratto secco Zuccheri residui A 14,4 2,16 4,44 97,0 85,12 B 14,2 2,66 4,38 116,5 108,42 B2 14,2 2,62 4,44 103,5 89,57 B3 13,9 2,72 4,45 103,0 91,96 C 13,5 2,76 4,38 130,8 nd C2 13,8 2,78 4,46 116,8 97,17 C3 13,7 2,74 4,45 119,1 98,10 Pto0 13,4 2,56 4,55 151,1 90,75 Pto1 13,3 2,5 4,55 150,8 91,96 Pto2 11,4 2,6 4,57 150,8 103,00 Pto3 13,5 2,62 4,54 150,3 97,63 Pto4 13,0 2,6 4,50 151,4 99,04 Pto5 13,5 2,64 4,61 151,1 108,42 Pto6A 13,3 2,56 4,63 139,6 108,42 Pto7A 13,4 2,52 4,58 137,0 93,64 Pto6B 13,5 2,56 4,63 136,8 100,98 Pto7B 13,1 2,56 4,58 136,8 97,17 Pto8B 13,0 2,64 4,62 137,8 91,15 Pto9B 12,6 2,58 4,45 140,4 93,64 Pto10B 12,7 2,62 4,59 155,5 98,10 Pto11B 12,9 2,58 4,56 156,3 95,37 Pto12B 12,9 2,57 4,55 156,6 98,10 Pto13B 13,3 2,58 4,53 157,1 91,96 Pto6C 13,2 2,56 4,63 136,5 97,17 Pto7C 12,8 2,52 4,58 136,2 93,64 Pto8C 13,3 2,53 4,61 136,8 91,15 Pto9C 13,0 2,6 4,48 137,3 97,17 Pto10C 13,4 2,6 4,57 153,5 94,50 Pto11C 13,2 2,62 4,53 153,5 98,10 Pto12C 13,3 2,58 4,53 153,5 97,17 Pto13C 13,3 2,61 4,52 152,4 97,17 (nd – non determinato) 47 Per quanto riguarda il colore, i valori medi delle coordinate cromatiche L, a* e b* sono riportati nella figura 4.1 per il prodotto A, nella figura 4.2 per il B e nella figura 4.3 per il C. Figura 4.1 - Evoluzione delle coordinate CIELab per la Xyauyù (prodotto A) 48 Figura 4.2 - Evoluzione delle coordinate CIELab per la Xyauyù Fumé (prodotto B) 49 Figura 4.3 - Evoluzione delle coordinate CIELab per la Xyauyù Barrel (prodotto C) 50 La Xyauyù Fumé (figura 4.2) e la Xyauyù Barrel (figura 4.3) hanno mostrato un processo evolutivo simile. Dopo un aumento in corrispondenza del punto 2, il parametro L presenta, infatti, in entrambi i casi, un andamento oscillante. Per il parametro a*, invece, si può osservare, sia per il prodotto B sia per il C, un graduale aumento con un picco in corrispondenza del punto 7. Un andamento analogo, è osservabile anche nei grafici relativi al parametro b*. Inoltre, in entrambi i casi, si evidenzia una netta differenza tra il campione analizzato a fine maggio (B per la Xyauyù Fumé e C per la Xyauyù Barrel) e i due analizzati a fine luglio e a inizio settembre (X(2) e X(3) rispettivamente). Per entrambi i prodotti, la vicinanza tra i punti 2 e 3 e la loro diversità rispetto al primo è osservabile dai grafici delle coordinate a* e b*, mentre per quanto riguarda la luminosità il fenomeno è riscontrabile solo per la Xyauyù Barrel (prodotto C). Per quanto riguarda il prodotto A, i dati a disposizione sono più limitati, in quanto poco dopo la preparazione delle botti, processo che non ha interessato questo prodotto, se ne è interrotto il monitoraggio. Per tutti i parametri, in corrispondenza del punto 6, si nota un decremento del valore dovuto alla presenza di torbidità nella birra, in quanto si è prelevato il prodotto rimasto nel serbatoio di acciaio dopo il trasferimento in legno delle quote di prodotto B e C. Con il punto 7, ultimo campionamento per il prodotto A, i valori sono tornati ai livelli precedenti grazie al depositarsi dei solidi sospesi favorito dalle basse temperature. Con i grafici riportati, è possibile interpretare i risultati dei singoli parametri, ma non è possibile confrontare più parametri contemporaneamente. Per far fronte a questo inconveniente, è stato calcolato il parametro ΔE*, il quale fornisce la descrizione matematica della distanza tra due colori nello spazio L*a*b* attraverso la seguente formula: La lettera E è riferita al termine tedesco Empfindung che significa percezione, in quanto attraverso questo parametro è possibile determinare se la differenza di due colori è percettibile all’occhio umano. Il valore di JND (just noticeable difference, differenza appena percettibile) è stato fissato a 2,3 (Mahy et al., 2004). 51 Utilizzando la formula riportata in precedenza, si sono determinati i valori di ΔE* per la Xyauyù Fumé e per la Xyauyù Barrel; in entrambi i casi, il valore è stato calcolato tra i tre prodotti finiti analizzati, i quali sono stati confrontati anche con i vari campionamenti, e tra ciascun punto e il precedente (tabella 4.2 per il prodotto B e tabella 4.3 per il prodotto C). Tabella 4.2 - Valori delle coordinate CIELab e dei valori di ΔE* per la Xyauyù Fumé analizzata a fine maggio [B], fine luglio [B(2)] e inizio settembre [B(3)] e per i vari campionamenti [Pto6B-Pto13B] ΔE* rispetto aB ΔE* rispetto a B(2) ΔE* ΔE* rispetto rispetto al a B(3) precedente Campioni L* (D65) a* (D65) b* (D65) B 71,8 14,4 70,7 B(2) 61,5 21,5 30,8 41,8 B(3) 68,0 20,4 27,8 43,5 7,3 Pto0 65,5 13,8 24,9 46,2 10,5 7,7 Pto1 64,7 15,6 32,2 39,2 6,9 7,3 7,5 Pto2 74,1 16,3 36,9 33,9 14,9 11,7 10,6 Pto3 72,8 16,3 37,1 33,7 13,9 11,3 1,3 Pto4 75,2 16,3 36,9 34,0 15,9 12,3 2,4 Pto5 74,6 16,3 37,1 33,7 15,4 12,1 0,7 Pto6B 71,0 16,1 32,6 38,1 11,1 7,2 5,8 Pto7B 74,3 17,8 36,8 34,1 14,7 11,4 5,6 Pto8B 71,5 16,9 36,7 34,1 12,5 10,2 3,0 Pto9B 70,7 18,2 36,0 34,9 11,0 8,9 1,7 Pto10B 70,7 18,6 40,2 30,8 13,5 12,9 4,2 Pto11B 69,0 19,0 40,7 30,4 12,7 13,1 1,8 Pto12B 75,0 18,2 36,4 34,7 15,0 11,3 7,4 Pto13B 72,0 18,1 37,5 33,4 12,9 10,7 3,2 52 Tabella 4.3 - Valori delle coordinate CIELab e dei valori di ΔE* per la Xyauyù Barrel analizzata a fine maggio [C], fine luglio [C(2)] e inizio settembre [C(3)] e per i vari campionamenti [Pto6C-Pto13C] ΔE* rispetto aC ΔE* rispetto a C(2) ΔE* ΔE* rispetto rispetto al a C(3) precedente Campioni L* (D65) a* (D65) b* (D65) C 73,5 14,3 74,9 C(2) 65,9 21,3 30,0 46,0 C(3) 67,0 21,3 29,0 46,9 1,5 Pto0 65,5 13,8 24,9 50,6 9,1 8,7 Pto1 64,7 15,6 32,2 43,6 6,2 6,9 7,5 Pto2 74,1 16,3 36,9 38,0 11,8 11,8 10,6 Pto3 72,8 16,3 37,1 37,8 11,1 11,2 1,3 Pto4 75,2 16,3 36,9 38,1 12,6 12,5 2,4 Pto5 74,6 16,3 37,1 37,8 12,2 12,2 0,7 Pto6C 71,2 16,5 34,5 40,5 8,4 8,4 4,3 Pto7C 74,0 17,9 37,3 37,7 11,4 11,4 4,2 Pto8C 72,9 17,3 35,7 39,3 9,8 9,8 2,1 Pto9C 70,6 17,3 35,0 40,0 7,9 8,1 2,4 Pto10C 72,7 17,7 36,5 38,5 10,1 10,1 2,6 Pto11C 71,6 17,8 36,1 39,0 9,0 9,1 1,2 Pto12C 73,5 18,7 37,6 37,5 11,1 11,2 2,6 Pto13C 70,5 18,9 40,5 34,8 11,7 12,3 4,2 Per quanto riguarda i prodotti finiti, nel caso della Xyauyù Fumé si evidenza una notevole differenza tra il prodotto B e i prodotti B(2) e B(3), i quali presentano tra loro un valore di ΔE* molto inferiore, pur rimanendo distinguibili l’uno dall’altro (valore superiore a 2,3). Anche nel caso della Xyauyù Barrel, la differenza di C con C(2) e C(3) è notevole, ma in questo caso, gli ultimi due non presentano una differenza percettibile, in quanto il valore di ΔE* è inferiore a 2,3. Questi dati confermano ciò che emerge anche dai grafici riportanti separatamente le tre coordinate cromatiche, dai quali si evidenzia una similarità tra i prodotti C(2) e C(3) per L, a* e b*, mentre la vicinanza tra B(2) e B(3) è osservabile solo dai valori di a* e b*, in quanto i valori di L tra un prodotto e l’altro presentano una differenza maggiore. Il valore maggiore di ΔE* tra B(2) e B(3) è ascrivibile a questa differenza di luminosità dei due campioni. 53 Nell’ultima colonna di entrambe le tabelle sono riportati i valori di ΔE* calcolati per ogni campionamento rispetto a quello che lo precede. Per entrambi i prodotti, la variazione dal punto di vista cromatico è confermata da valori per la maggior parte maggiori di 2,3 sia durante il periodo di affinamento e ossidazione in acciaio (punto 0 – punto 5), sia durante la fase di maturazione in legno (punto 6 – punto 13). La maggioranza dei valori, tuttavia, è molto vicina al limite di JND pari a 2,3 e ciò indica come l’evoluzione cromatica sia stata molto lenta. Per quanto riguarda i valori di ΔE* calcolati tra i vari campionamenti e le tre bottiglie di prodotto finito, per la Xyauyù Fumé si osserva una notevole distanza tra tutti i punti analizzati e il prodotto B. Nel caso del confronto con B(2) e B(3), invece, i valori di ΔE* mostrano una maggiore vicinanza dei primi campionamenti al colore dei prodotti finiti; andando avanti con i campionamenti, invece, i valori di ΔE* aumentano e ciò indica un allontanamento rispetto al prodotto finito con valori di qualche punto superiori nel confronto con B(2). La maggiore vicinanza dei vari punti rispetto a B(3) può essere osservata anche nella figura 4.2 nella quale si nota la maggiore prossimità del prodotto finito B(3) con i vari campionamenti, in particolare per le coordinate L e a*. Nel caso della Xyauyù Barrel, si evidenzia nuovamente una netta distanza tra i vari campionamenti e il prodotto C e una maggiore similitudine dei primi punti con i prodotti C(2) e C(3). In questo caso, però, dato che C(2) e C(3) presentano tra loro un valore di ΔE* molto basso, l’andamento dei valori rispetto ai due prodotti è analogo. In entrambi i casi, però, nonostante i valori di ΔE* tra ogni campionamento e il precedente abbiano rivelato variazioni dal punto di vista cromatico, i valori di ΔE* relativi ai prodotti finiti non sono progressivamente decrescenti e ciò indica che nelle 10 settimane di affinamento in legno non si è verificata una progressiva evoluzione verso gli obiettivi. Per quanto riguarda i saggi sui polifenoli e sul potere antiossidante, i valori medi (µ) e le rispettive deviazioni standard (σ) risultanti dalle analisi sono riportati nella tabella 4.4. 54 Affinamento in acciaio Prodotti finiti Tabella 4.4 - Potere antiossidante e contenuto in polifenoli totali (µ ± σ) dei campioni analizzati durante il monitoraggio dei tre “barley wine” A B C Campioni Potere antiossidante µmol TE/L Polifenoli totali mg GAE/L A 1006,70 ± 51,01 2445,40 ± 86,98 B 1368,66 ± 140,66 2234,54 ± 146,62 B2 1812,77 ± 112,63 2550,21 ± 260,48 B3 1797,23 ± 8,33 2750,85 ± 30,23 C 1344,55 ± 172,23 2697,55 ± 197,56 C2 1615,63 ± 462,14 3041,37 ± 77,45 C3 1693,66 ± 180,06 2910,46 ± 81,18 Pto0 1029,02 ± 477,55 2476,44 ± 106,86 Pto1 1636,34 ± 138,39 2270,31 ± 0,85 Pto2 1373,66 ± 104,80 2284,70 ± 105,16 Pto3 1357,41 ± 27,78 2193,25 ± 60,64 Pto4 1647,59 ± 190,16 2104,80 ± 97,53 Pto5 1516,88 ± 394,21 2141,68 ± 80,99 Pto6A 1736,70 ± 167,18 2157,87 ± 61,48 Pto7A 1179,55 ± 38,89 2109,95 ± 69,89 Pto6B 1329,20 ± 358,60 2131,19 ± 97,53 Pto7B 1463,30 ± 125,01 2099,17 ± 62,26 Pto8B 1561,34 ± 80,81 1972,48 ± 26,26 Pto9B 1438,66 ± 412,90 2048,85 ± 123,25 Pto10B 1446,70 ± 184,35 2131,06 ± 65,50 Pto11B 1991,88 ± 371,99 2353,12 ± 183,93 Pto12B 2015,27 ±106,07 2077,14 ± 10,99 Pto13B 1696,16 ± 318,96 2236,19 ± 43,97 Pto6C 1034,55 ± 443,46 2079,10 ± 52,52 Pto7C 1342,41 ± 14,65 2183,33 ± 88,10 Pto8C 2103,30 ± 302,29 2380,09 ± 147,82 Pto9C 1538,84 ± 132,84 2165,65 ± 2,12 Pto10C 1784,38 ± 128,54 2104,10 ± 41,72 Pto11C 1983,30 ± 19,45 2309,97 ± 109,46 Pto12C 1741,52 ± 40,15 2155,83 ± 53,61 Pto13C 1669,55 ± 415,68 2188,36 ± 131,06 55 Per i prodotti finiti, sia per quanto riguarda il potere antiossidante sia per il contenuto in polifenoli, si evidenzia una differenza tra i valori riguardanti il campione analizzato a fine maggio (B per la Xyauyù Fumé e C per la Xyauyù Barrel) e quelli dei due analizzati a fine luglio e a inizio settembre (X(2) e X(3) rispettivamente), i quali presentano tra loro valori più vicini e più alti rispetto al primo campione analizzato. Nel caso del prodotto B, la distanza di B(2) e B(3) dal primo campionamento emerge soprattutto dai valori della capacità antiossidante, mentre per quanto riguarda il contenuto in polifenoli, i valori sono crescenti tra la prima bottiglia analizzata, B, e l’ultima, B(3). Nel caso del prodotto C, invece, si osserva una vicinanza tra i prodotti C(2) e C(3), i quali si differenziano da C, soprattutto per il contenuto in polifenoli. I valori relativi ai campionamenti durante l’affinamento in acciaio (punto 0 – punto 5), nel caso del contenuto in polifenoli totali, mostrano un progressivo decremento, dovuto alla precipitazione di questi composti a causa dell’ossidazione. Nel caso del potere antiossidante, invece, si evidenzia un oscillamento dei valori con picchi in corrispondenza del punto 1 e del punto 4. Per quanto concerne l’evoluzione della Xyauyù Fumé (prodotto B), la capacità antiossidante, durante la maturazione in legno (dal punto 6B in poi), aumenta avvicinandosi ai valori dei prodotti finiti B(2) e B(3). Anche il contenuto in polifenoli, dopo una graduale diminuzione tra il punto 0 e il punto 8B, aumenta progressivamente. Riguardo all’andamento della Xyauyù Barrel (prodotto C), infine, si osserva un aumento del potere antiossidante con un picco in corrispondenza del punto 8C (dopo due settimane di permanenza in legno), per il quale si osserva un valore più elevato rispetto agli altri anche per il contenuto in polifenoli totali. L’elevata deviazione standard riportata per numerosi campioni è prova dell’estrema complessità e variabilità delle matrici analizzate. 56 4.2 Il naso elettronico Per ogni campione analizzato, il software Winmuster accoppiato al naso elettronico Airsense PEN3 restituisce un grafico simile a quello riportato in figura 4.4 nel quale sono riportati i tempi sull’asse delle ascisse e il rapporto tra la conduttività del sensore durante l’esposizione allo spazio di testa del campione (G) e la conduttività del sensore al passaggio del gas di riferimento (G0) sull’asse delle ordinate. Ciascuna delle linee del grafico rappresenta uno dei 10 sensori. I dati vengono salvati, inoltre, in una matrice nella quale sono presenti i vari valori di G/G0 per ogni secondo e per ogni sensore. Figura 4.4 - Esempio di grafico risultante dall’analisi di un campione di birra con il naso elettronico Airsense PEN3 accoppiato al software Winmuster Prima di procedere all’elaborazione statistica dei dati ottenuti dall’analisi con il naso elettronico, per ciascun sensore, si sono selezionati i valori delle misurazioni effettuate dal secondo 45 al secondo 55 e si è considerato il valore medio. Si è notato, infatti, che per tutti i campioni analizzati, dopo un primo picco iniziale, intorno al 40esimo secondo il segnale rimaneva stabile fino a fine misurazione. Per l’elaborazione statistica dei dati è stata utilizzata la tecnica di cluster analysis gerarchica agglomerativa conosciuta come metodo di Ward. I metodi gerarchici agglomerativi partono da una partizione iniziale formata da n gruppi, ognuno dei quali è formato da una sola unità, per giungere, attraverso successive 57 fusioni di quelli meno distanti tra di loro, a una situazione in cui si ha un solo gruppo contenente tutte le n unità. Con il metodo di Ward, in particolare, ad ogni passo dell’analisi viene considerata l’unione di tutte le possibili coppie di cluster e vengono combinati tra loro i due cluster il cui raggruppamento fornisce il minimo incremento di varianza all’interno del gruppo. Come indice di distanza si è utilizzata la distanza euclidea, ovvero la radice quadrata della somma dei quadrati delle differenze dei valori di tutte le variabili (k) relative a 2 diversi elementi (i e j): Mediante questa tecnica statistica si sono elaborati i dati relativi alle birre Xyauyù Fumé (prodotto B) e Xyauyù Barrel (prodotto C) e, in particolare, quelli risultanti dalle analisi dei prodotti finiti (analizzati 3 diverse volte: X1, X2 e X3) e dei campionamenti durante la fase di affinamento in legno (X6, X7, X8, X9, X10, X11, X12 e X13). Si è proceduto elaborando i dati in più passaggi, aggiungendo i vari campionamenti uno alla volta, nello stesso ordine con cui sono state effettuate le analisi. Per quanto riguarda il prodotto B, si è osservato come, dal punto 6 fino al punto 9 (campionamento dopo 25 giorni di permanenza in botte), i dati presentassero una varianza limitata, fattore che li ha portati a fondersi tra loro dando origine a dei cluster misti. I campionamenti B6, B7, B8 e B9 risultano essere, però, molto lontani dal prodotto imbottigliato B1 (figura 4.5). Aggiungendo il prodotto finito B2, si è notato come anch’esso tendesse a raggrupparsi con i campionamenti B6, B7, B8 e B9. Si è proceduto, quindi, confrontando direttamente il prodotto B1 con il B2 e si è osservato come la distanza tra i due fosse molto evidente (dati non mostrati). Il campionamento B10, rimuovendo 2 outliers (uno per la serie B9 e uno per la serie B10), invece, si separa creando un cluster proprio distinto da quelli creati dai campionamenti precedenti (figura 4.6). 58 Figura 4.5 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Fumé (prodotto B1) e ai campionamenti delle prime 3 settimane di affinamento in botte (B6-B9) Figura 4.6 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della a Xyauyù Fumé (B1 e B2) e ai campionamenti effettuati durante il primo mese di affinamento in botte (B6-B10) Aggiungendo progressivamente tutti gli altri campionamenti e rimuovendo i vari outliers, si è ottenuto la figura 4.7 dalla quale si nota come il campionamento B11, a sua volta, si separi dal B10, come anche il B12 e il B13. 59 Figura 4.7 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Fumé (B1 e B2) e ai campionamenti effettuati durante l’affinamento in legno (B6-B13) Figura 4.8 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Fumé (B1, B2 e B3) e ai campionamenti effettuati durante l’affinamento in legno (B6-B13) 60 Infine, aggiungendo il prodotto finito B3, si è notato come questo non creasse un cluster a se stante, ma si mescolasse con gli ultimi campionamenti, in particolare con il B11 e il B13 (figura 4.8). Si sono, quindi, confrontati i prodotti finiti B1, B2 e B3 e come si evince dalla figura 4.9, le repliche del prodotto B2, dalle quali è stato rimosso un outlier, si fondono tra di loro creando un unico cluster, il quale, successivamente, incorpora anche le repliche del prodotto B3. Il prodotto B1, invece, crea un cluster a se stante. Figura 4.9 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Fumé (prodotto B) analizzata a fine maggio (B1), fine luglio (B2) e inizio settembre (B3) Anche per il prodotto C si è effettuata lo stesso procedimento e si è notato un comportamento analogo, ovvero la similarità tra i campionamenti C6, C7, C8, C9 e il prodotto finito C2 (figura 4.10) e la separazione del C10 e del C11, il quale, però, presenta similarità con i successivi C12 e C13 (figura 4.11). Nel caso dei prodotti dei prodotti finiti, come per i prodotti B, si è rilevata una similarità tra il C2 e il C3, i quali, però, sono totalmente diversi dal C1 (figura 4.12). 61 Figura 4.10 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Barrel (prodotto C1) e ai campionamenti delle prime 3 settimane di affinamento in botte (C6-C9) Figura 4.11 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Barrel (C1, C2 e C3) e ai campionamenti effettuati durante l’affinamento in legno (C6-C13) 62 Figura 4.12 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con il naso elettronico della Xyauyù Barrel (prodotto C) analizzata a fine maggio (C1), fine luglio (C2) e inizio settembre (C3) 63 4.3 La lingua elettronica Per ogni campione analizzato, il software AlphaSoft accoppiato alla lingua elettronica Astree fornisce un valore corrispondente alla differenza di voltaggio fra la membrana del sensore e l’elettrodo di riferimento dopo un sufficiente periodo di condizionamento del sensore nel campione stesso (figura 4.13). Figura 4.13 - Valori di conducibilità dei sensori nel corso dell’analisi di un campione di birra mediante la lingua elettronica Astree di Alpha M.O.S. accoppiata al software AlphaSoft Per l’elaborazione statistica dei dati è stato utilizzato, come per i dati derivanti dall’analisi con il naso elettronico, il metodo di Ward (tecnica di cluster analysis gerarchica agglomerativa) e come indice di distanza la distanza euclidea. Per l’elaborazione, si sono utilizzati i valori medi risultanti dalle analisi delle cinque repliche. Anche in questo caso, sono stati elaborati esclusivamente i dati relativi alle birre Xyauyù Fumé (prodotto B) e Xyauyù Barrel (prodotto C) e, in particolare, quelli risultanti dalle analisi dei prodotti finiti [X, X(2) e X(3)], dei campionamenti durante la maturazione in acciaio (pto0-pto5) e durante la fase di affinamento in legno (pto6X-pto13X). I dendrogrammi risultanti dalla cluster analysis gerarchica agglomerativa sono riportati nella figura 4.14 per la Xyauyù Fumé e nella figura 4.15 per la Xyauyù Barrel. 64 Figura 4.14 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con la lingua elettronica della Xyauyù Fumé [B, B(2) e B(3)] e ai campionamenti effettuati durante la maturazione in acciaio (pto0-pto5) e l’affinamento in legno [pto6B-pto13B] Figura 4.15 - Dendrogramma ottenuto mediante il metodo di Ward applicato ai risultati dell’analisi con la lingua elettronica della Xyauyù Barrel [C, C(2) e C(3)] e ai campionamenti effettuati durante la maturazione in acciaio (pto0-pto5) e l’affinamento in legno [pto6C-pto13C] 65 Dalla figura 4.14, si osserva come i campioni B(2) e B(3) siano simili tra loro, ma distanti rispetto al primo prodotto esaminato (B) e lo stesso fenomeno può essere osservato anche dalla figura 4.15 per quanto concerne il prodotto C. Dal punto di vista dell’evoluzione del prodotto, in entrambi i casi, si nota una vicinanza tra i campionamenti dal punto 4 all’8, mentre il punto 9 si separa dal cluster precedente. I punti dal 9 al 12, inoltre, mostrano una somiglianza con i prodotti finiti X(2) e X(3), mentre il punto 13 pare allontanarsi dagli obiettivi. 66 CONCLUSIONI L’obiettivo di questa ricerca è stato lo studio dell’evoluzione di tre diversi barley wine sfruttando tecniche di analisi tradizionali e strumenti più innovativi, quali colorimetro, naso e lingua elettronica. Il monitoraggio dell’evoluzione delle birre verso gli obiettivi Xyauyù Fumé e Xyauyù Barrel, tuttavia, si è rivelato difficoltoso a causa dell’instabilità nel tempo degli standard, ossia di prodotti già imbottigliati di lotti precedenti, i quali essendo ottenuti artigianalmente non sono sottoposti a filtrazione o pastorizzazione. Per entrambi i prodotti, infatti, dall’analisi con il naso e la lingua elettronica, dalle coordinate cromatiche e dai valori di estratto secco, zuccheri residui e pH, si sono osservate nette differenze tra il primo campione e i successivi analizzati rispettivamente dopo 60 e 100 giorni. Si è osservata, inoltre, un’estrema variabilità nei risultati delle analisi con valori spesso oscillanti tra un campionamento e l’altro e ciò può essere dovuto alla complessità della matrice, la quale è causa di errori in fase di determinazione soprattutto con le tecniche basate sull’utilizzo di sensori. Attualmente, quindi, per valutare quando questi prodotti sono pronti per essere immessi in commercio il migliore strumento rimane l’esperienza del mastro birraio. Anche un’eventuale analisi sensoriale condotta da un panel di assaggiatori risulterebbe difficoltosa da attuare a causa dell’inesistenza di un prodotto di riferimento stabile nel tempo. 67 RINGRAZIAMENTI Giunta al termine di questo lavoro desidero ringraziare tutte le persone che mi sono state vicino e hanno permesso e incoraggiato la stesura di questa tesi. I miei più sentiti ringraziamenti vanno al Professor Giuseppe Zeppa per aver appoggiato questo progetto di ricerca e per avermi seguito nella stesura di questo elaborato. Desidero, inoltre, ringraziare la dott.ssa Barbara Dal Bello, la dott.ssa Daniela Ghirardello e il dott. Giuseppe Munfuletto del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino per l’aiuto nello svolgimento delle analisi di laboratorio effettuate nel corso di questo studio e per la loro disponibilità nel risolvere i miei numerosi dubbi. Ringrazio, inoltre, Teo Musso per avermi consentito di condurre questo studio presso il Birrificio Baladin e tutti i dipendenti dell’azienda per la disponibilità dimostrata nei miei confronti. Un ringraziamento speciale spetta ai miei compagni di corso, con i quali ho condiviso questi due anni di studi instaurando rapporti di sincera amicizia. Infine, desidero ringraziare con affetto la mia famiglia, Pietro e tutti i miei amici per il sostegno psicologico e per avermi, oltre che supportato, sopportato durante questi mesi di lavoro. 68 BIBLIOGRAFIA Arshak K. et al. (2004) “A review of gas sensors employed in electronic nose applications”, Sensor Review, 24 (2), pp. 181-198. Berna A. (2010) “Metal Oxide Sensors for Electronic Noses and Their Application to Food Analysis”, Sensors, 10, pp. 3882-3910. Briggs E. et al. (2004) Brewing Science and Practice, Cambridge: Woodhead Publishing Limited. Buiatti S. (2009) “Beer composition: an overview”. 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