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La Matematica dell`infinito L`inquietante storia dell`infinito. Da

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La Matematica dell`infinito L`inquietante storia dell`infinito. Da
La Matematica dell'infinito
L'inquietante storia dell'infinito. Da Aristotele, Gauss e la rigida opposizione di Kronecker fino al paradiso di Cantor e
all'ospitale albergo di Hilbert. Poi venne Gödel. Con i suoi teoremi di incompletezza, i matematici riescono a dimostrare
l'esistenza sia di Dio che del diavolo: Dio esiste perché la Matematica esiste, il diavolo esiste perché non se ne riesce a
provare la coerenza.
Introduzione
Accostare Infinito e Matematica può sembrare collegamento azzardato. L'Infinito, come pure il suo corrispondente
temporale, l'Eterno, è tema adeguato per Religione, Filosofia o Letteratura, ma forse non per la scienza positiva. Meno
che mai per la più positiva delle scienze e cioè la Matematica. Del resto, l'Infinito (in-definito, in-determinato) è, per sua
stessa etimologia e natura, ed anche per la comune opinione, ciò che sfugge ad ogni possibile classificazione e misura,
mentre la Matematica tende a (e pretende di) classificare e misurare ogni oggetto che esamina. Dunque, l'Infinito non è
argomento da Matematica.
In effetti, secondo una visione che risale ai tempi dell'antica Grecia e che si è mantenuta radicata nei secoli fin quasi ai
nostri giorni, la Matematica è la scienza dei numeri naturali 0, 1, 2, ..., semmai allargata a quegli insiemi numerici - gli
interi, i razionali - che ai naturali sono direttamente collegati. Pitagora sosteneva che il numero (naturale) è la base di
tutto. Oltre due millenni dopo, Kronecker (1832-1891) ribadiva che gli interi positivi sono i soli numeri creati da Dio a
voler significare che trattare altri contesti non standard, come quello dei reali, era quasi sacrilego. Dunque la
Matematica va a combaciare, in questa prospettiva, con l'Aritmetica dei numeri 0, 1, 2, ...: tutti rigorosamente finiti per
natura e rappresentazione (a differenza dei reali, che scomodano allineamenti decimali senza limiti e confini).
Si conferma così che non c'è spazio comune per Matematica e Infinito. Eppure, a smentire tutte queste pur ragionevoli
premesse, va detto che la Matematica è stata capace nella sua storia più recente di intuire, accarezzare ed anche
misurare l'Infinito, fin quasi a sognare di dominarlo completamente. Questo è il tema che vogliamo trattare.
Contare o confrontare?
Dobbiamo subito parzialmente correggere quanto detto nell'introduzione. In effetti, se riflettiamo un attimo con
maggiore profondità, dobbiamo riconoscere che l'Infinito non è tema completamente e costituzionalmente estraneo alla
Matematica. Gli stessi numeri naturali 0, 1, 2, ... sono sì ciascuno singolarmente finito, ma costituiscono
complessivamente un insieme infinito. La loro successione si snocciola senza limitazioni in una strada senza fine.
Tuttavia, come già Aristotele osservava, bisogna esercitare un po' di finezza quando si parla di infinito e distinguere la
sua forma potenziale da quella attuale: la prima è umanamente accessibile, la seconda no. In altre parole, possiamo
certamente convenire che ci sono successioni senza termine di oggetti matematici, quali i numeri naturali, ed
abbracciarne con la nostra percezione porzioni comunque grandi (l'infinito potenziale di cui sopra); ma, quanto ad
afferrarne la totalità ed ad identificarla completamente come singolo ente (l'infinito attuale), ebbene, questo è un altro
discorso, inaccessibile ai limiti della nostra mente umana. Per dirla in latino e dare così maggiore autorità alla citazione:
infinitum actu non datur. Questo era il pensiero di Aristotele e, come tutti sappiamo, si trattava di opinione autorevole,
non solo ai tempi dell'antica Grecia ma nei lunghi secoli successivi. Del resto, ancora nel 1831 (di nuovo, due millenni
dopo Aristotele), colui che è comunemente riconosciuto il più grande matematico, e cioè Gauss, si esprimeva quasi
negli stessi termini del suo illustre predecessore. In una lettera al suo allievo Schumacher, scriveva: io devo protestare
veementemente contro l'uso dell'infinito come qualcosa di definito: questo non è permesso in Matematica. L'infinito è
solo un modo di dire, ed intende un limite cui certi rapporti possono approssimarsi vicino quanto vogliono.
Del resto, nei secoli da Aristotele a Gauss, vari spunti avevano introdotto in Matematica l'esigenza di studiare e definire
l'infinito e, se è per questo, anche il suo inverso matematico (l'infinitesimo) nelle loro forme potenziali. Ad esempio, la
necessità di garantire adeguate basi teoriche allo studio delle grandezze fisiche (come la velocità, la accelerazione e così
via) aveva indotto già nel secolo diciassettesimo (e forse anche prima) Newton, Leibniz ed altri a fondare - con qualche
imprecisione, qualche vaghezza e molte polemiche - il calcolo differenziale, il relativo studio delle derivate e, appunto,
l'uso degli infinitesimi. L'obiettivo era quello di descrivere in termini matematici rigorosi il comportamento di una
funzione quando il suo argomento si avvicina indefinitamente ad un punto, o supera ogni barriera verso l'infinito.
Proprio all'epoca di Gauss, l'opera di Cauchy e Weierstrass aveva prodotto (neanche due secoli dopo Newton) una
adeguata risposta al problema e una rigorosa introduzione teorica a questo argomento così delicato, tramite il famigerato
armamentario di epsilon e di delta che consente la definizione del concetto di limite e che, sgombrata la mente dai
ricordi, dalla noia e dai terrori del primo anno di Analisi, si rivela un approccio elegante e profondo all'infinito
potenziale in Matematica.
Ma che si può dire del tabù degli infiniti attuali? Negli stessi secoli, menti autorevoli avevano tentato di avventurarsi in
questa zona proibita, avvertendone però le anomalie e concludendo che forse era il caso di lasciar perdere: è questo il
caso di Galileo Galilei e di alcune sue riflessioni contenute nell'opera [1] del 1638 e note con il nome di Paradosso di
Galileo. Galileo considera i numeri naturali 0, 1, 2, 3 ... ed osserva che l'insieme (infinito) dei loro quadrati 0, 1, 4, 9, ...
è certamente più piccolo e, pur tuttavia, contiene tanti elementi quanti erano i numeri di partenza, perché ad ogni
numero corrisponde in modo biunivoco il suo quadrato. Galileo conclude: io non veggo che ad altra decisione si possa
venire che a dire infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, ... né la moltitudine de' quadrati essere minore di quella
di tutti numeri, né questa essere maggiore di quella, ed, in ultima conclusione, gli attributi di eguale, maggiore e minore
non aver luogo negl'infiniti ma solo nelle quantità terminate, ed aggiunge: queste son di quelle difficoltà che derivano
dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno all'infinito, dandogli quegli attributi che noi diamo alle
cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente.
Al di là di questa conclusione, le riflessioni di Galileo contengono, magari solo in germe, suggerimenti stimolanti su
come potremmo pretendere di misurare l'infinito. In effetti, non possiamo contare né i numeri naturali, né i loro quadrati
(infiniti sono gli uni, infiniti sono gli altri); pur tuttavia, possiamo confrontarli e stabilire rigorosamente che gli uni sono
tanti quanti gli altri, perché c'è una corrispondenza biunivoca tra i loro insiemi.
Per spiegarci con un esempio più semplice, facciamo il caso di un impresario che vuole verificare il successo del suo
spettacolo misurandone il pubblico. Può svolgere l'indagine facendosi riferire la capienza del teatro, poi contando il
numero dei biglietti venduti e, accertatosi che sono uguali, dichiarare compiaciuto il tutto esaurito. Più rapidamente, può
invece sbirciare la sala da dietro il sipario e controllare che ogni spettatore ha la sua poltrona e ogni poltrona il suo
spettatore, che non ci sono né posti vuoti né spettatori in piedi e di nuovo rallegrarsene. Per dirla in termini matematici,
c'è una biiezione tra l'insieme delle poltrone e quello degli spettatori. Nei teatri del mondo, che sono tutti finiti, l'una e
l'altra delle due strategie sono possibili. Se però passiamo ad un contesto infinito, non possiamo pretendere di contare
posti e (forse) spettatori né, per riferirci all'esempio di Galileo, numeri e quadrati. Possiamo tuttavia ancora confrontare
i due insiemi coinvolti, stabilire ove possibile una corrispondenza biunivoca tra di loro e dedurre in tal caso che hanno
lo "stesso numero" di elementi. È esattamente quel che Galileo fa nella trattazione del suo paradosso.
Dunque, all'infinito possiamo, se non contare, confrontare e decidere se due insiemi sono o no ugualmente numerosi.
L'idea è brillante e sottile ed induce alla tentazione di approfondire. Pur tuttavia, c'è una obiezione che sorge abbastanza
spontaneamente: ne vale realmente la pena? In effetti, si potrebbe sostenere che gli insiemi infiniti sono tutti, appunto,
infiniti, e come tali hanno forzatamente lo stesso numero (infinito) di elementi. È dunque inutile soffermarsi in questo
genere di confronti, l'infinito appiattisce tutto. L'esempio dei numeri e dei quadrati (i secondi apparentemente molto
minori dei primi) sembra confermarlo.
C'è un altro famoso argomento che corrobora questa impressione e va sotto il nome di Albergo di Hilbert. Si tratta,
infatti, di un esempio che David Hilbert (1862-1943) adoperava per divulgare presso i non addetti ai lavori le
sottigliezze di questa analisi dell'infinito. Lo ricordiamo brevemente. Gli alberghi di questo mondo sono tutti finiti
(come del resto i teatri). Supponiamo allora di avere un albergo completo, in cui ogni stanza N ha già il suo ospite N. Se
ad un'ora della notte arriva un nuovo cliente in cerca di sistemazione, il portiere dovrà dichiarargli con rammarico di
non poterlo ospitare ed indirizzarlo ad altro ricovero. Ma ammettiamo per un attimo di volare nell'albergo del Paradiso
(magari non a titolo definitivo, ma solo per prenderci un caffè): l'albergo è ovviamente infinito, come si addice a tutto
quel che è trascendente. Gli ospiti che lo popolano sono anch'essi infiniti (come San Giovanni stesso assicura con la sua
autorità nell'Apocalisse, Capitolo 7, versetto 9) e lo riempiono completamente. Abbiamo dunque il problema di trovare
un posto. "Non preoccupatevi" ci direbbe San Pietro "sistemiamo:
l'ospite 0 nella camera 1,
l'ospite 1 nella camera 2, ...
l'ospite N nella camera N+1, ...
e vi liberiamo la camera 0". Il tutto è lecito perché l'albergo è infinito. Di più, tra i requisiti della santità c'è anche quello
della pazienza e i vari trasferimenti di camera dovrebbero essere accettati con serenità e senza polemiche. Dunque, ogni
nuovo ospite trova il suo posto. Per uscir dalla metafora ed usare termini matematici, quanto l'argomento di Hilbert
sottolinea è che un insieme infinito, come quello dei naturali, possa avere tanti elementi quanti un suo sottoinsieme
proprio, come quello che se ne ottiene dimenticando 0. La funzione successore, quella che trasforma ogni naturale N in
N+1 è una corrispondenza biunivoca tra i naturali e i naturali maggiori di 0; togliere l'elemento 0 non diminuisce il
numero complessivo dei punti rimanenti.
Altri esempi storici sostengono il nostro assunto sulla apparente piattezza dell'infinito. Ad esempio, nella sua opera
postuma Paradossi dell'infinito, Bolzano (1781-1848) osservava come il segmento chiuso [0, 5] della retta reale ha tanti
punti quanto l'evidentemente più grande intervallo [0, 12], la corrispondenza biunivoca tra i due essendo stabilita dalla
funzione che trasforma ogni x nei suoi dodici quinti.
Ma chi diede la svolta fondamentale e decisiva all'intera questione fu Georg Cantor (1845-1918). Lo spunto che lo
condusse ad approfondire il tema fu lo sviluppo in serie di Fourier delle funzioni e l'unicità dei relativi coefficienti. La
sua analisi lo portò ad individuare e classificare alcuni insiemi di reali che non soddisfacevano questo risultato di unicità
e, conseguentemente, a valutare quanto "piccoli" e trascurabili fossero questi controesempi a confronto dell'intera
collezione dei reali. Prendendo spunto da questa problematica, Cantor considerò varie coppie di sottoinsiemi infiniti
della retta reale R (e non solo) cercando possibili biiezioni.
Ad esempio, osservò che ci sono tanti punti nell'intera retta quanti nel segmento aperto ]0, 1[ (che pure è per altri aspetti
enormemente più piccolo). La precedente osservazione di Bolzano ed un minimo di trigonometria ci aiutano infatti a
definire una biiezione: ]0, 1[ è in corrispondenza biunivoca con l'intervallo aperto ]-π/2, π/2[ tramite la funzione che
trasforma ogni reale x tra 0 e 1 in πx-π/2 e dunque prima allarga, al modo di Bolzano, ]0, 1[ a ]0, π [, e poi trasla
quest'ultimo segmento di - π/2 portandolo come richiesto su ]- π/2, π/2[. A questo punto, ci ricordiamo che la funzione
tangente, ristretta all'intervallo ]- π/2, π/2[, ne determina una biiezione con l'intero R. Opportune manipolazioni provano
poi che il segmento aperto ]0, 1[ è in corrispondenza con il segmento chiuso [0, 1], o anche con [0, 1[, ]0, 1] e, in
definitiva, con ogni intervallo chiuso, aperto o semiaperto dell'intera retta. Altrettanto vale per l'intero insieme R.
Altri casi furono esplorati da Cantor. Ne elenchiamo alcuni particolarmente significativi. L'insieme N dei naturali 0, 1,
2, ... si potrebbe valutare ad occhio come la metà dell'insieme Z di tutti gli interi ...-2, -1, 0, 1, 2, ...; ma sono infiniti
entrambi, ed in effetti è possibile determinare una corrispondenza biunivoca f che li collega. Basta osservare che i
naturali, a loro volta, si suddividono a metà tra pari 0, 2, 4, ... e dispari 1, 3, 5, ... e dunque trasformare gli interi non
negativi nei primi e quelli negativi nei secondi: in termini rigorosi, porre per ogni x naturale:
f(x) = 2x se x ≠ 0, f(x) = -2x -1 altrimenti.
Lo stesso può dirsi di naturali N e razionali Q: tra i due insiemi c'è una corrispondenza biunivoca. La cosa può sembrare
a prima vista strana e sorprendente; si potrebbe osservare che l'usuale ordine dei naturali ha un primo elemento 0 ed è
discreto (ogni elemento ha un suo immediato successore, ogni elemento escluso 0 ammette un immediato predecessore)
mentre quello dei razionali non ha estremi ed è denso (tra due elementi a<b, c'è sempre un punto intermedio a<c<b), il
che lo rende costituzionalmente diverso dal precedente. Come è possibile che una corrispondenza tra N e Q riesca a
conciliare queste strutture così diverse? La risposta è semplice: quel che a noi preme non è un isomorfismo d'ordine, che
si preoccupi - appunto - di preservare la relazione d'ordine dei due diversi insiemi, ma una semplice biiezione senza
obblighi particolari. Conseguentemente, possiamo riarrangiare i razionali non negativi facendo riferimento alla loro
rappresentazione come frazione m/n, con m e n naturali, n ≠ 0, m e n primi tra loro, e sistemandoli prima secondo m+n
e poi, a parità di somma, secondo il loro ordine abituale, ottenendo così in definitiva una successione:
0 = 0/1, 1/1, 1/2, 2/1, 1/3, 3/1, 1/4, 2/3, 3/2, 4/1, ...
del tutto analoga a quella dei naturali:
0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, ...
e quindi disponibile in corrispondenza biunivoca con N. Ora, è facile estendere questa funzione tra naturali (cioè interi
non negativi) e razionali non negativi, coinvolgendo da un lato tutti gli interi e dall'altro tutti i razionali e concludendo,
nuovamente, che gli uni sono tanti quanti gli altri (pur costituendone un sottoinsieme proprio). A questo punto,
componiamo la biiezione appena trovata tra Z e Q con quella che già conosciamo tra N e Z ed otteniamo la
corrispondenza biunivoca cercata tra N e Q.
Questo fu l'ingegnoso argomento con cui Cantor provò nel 1895, in un articolo sui Mathematische Annalen, che i
naturali sono tanti quanti i razionali (in realtà Cantor aveva già raggiunto questa conclusione nel 1874 sul Journal für
Mathematik, usando però una dimostrazione diversa e più complicata).
Un altro sorprendente risultato di Cantor collega il quadrato, o anche il cubo, con il suo lato: l'uno e l'altro hanno lo
stesso "numero" di punti. Il teorema fu provato nel 1877 e suscitò incredulità e smarrimento tra i matematici dell'epoca.
Lo stesso Cantor ne rimase in un certo senso sorpreso e lo commentò in una lettera a Dedekind con le parole: "lo vedo,
ma non lo credo". La ragione di tanto stupore è facile da capire: il risultato sembra confondere curve, superfici e volumi
e dunque enti geometrici di dimensione 1, 2 e 3 abolendo ogni distinzione al riguardo e, in definitiva, minando le basi
stesse della Geometria. Ma si trattava (e si tratta) solo di un'impressione superficiale, comprensibile in tempi che non
avevano ancora sviluppato compiutamente il concetto di spazio topologico. Come Dedekind osservò lucidamente, le
biiezioni di Cantor sono - appunto - solo biiezioni e non hanno né pretendono di avere quel requisito di continuità che,
se sussistesse, andrebbe a contraddire tante assodate certezze. Segmento, quadrato, cubo hanno lo stesso numero di
punti, ma non sono per questo tra loro omeomorfi.
Ciò premesso, vediamo quale argomento fu usato da Cantor per provare il suo risultato. Assumiamo per semplicità che
il lato sia il segmento unitario [0, 1], così il quadrato corrisponde al prodotto cartesiano [0, 1] x [0, 1] e dunque ha
vertici (0, 0), (0, 1), (1, 0) e (1, 1) (il cubo viene determinato in modo analogo). Facciamo poi riferimento alla
rappresentazione decimale dei numeri reali e, conseguentemente, scriviamo ogni r in [0, 1] nella forma 0, r0 r1 r2 ... rn ...
dove ri (per i naturale) è una cifra tra 0 e 9; ricordiamo che anche 1 ammette una tale decomposizione, come 0,9999... .
Questa rappresentazione decimale non è sempre unica, ma l'unico motivo di ambiguità è quello già osservato a
proposito di 1 = 0,999...; infatti due decomposizioni decimali corrispondono allo stesso numero se e solo se una è della
forma 0, r0 r1 ... rn con rn ≠ 0 (dopo di che si stabilizza uniformemente a 0) e l'altra 0, r0 r1 ... rn-1 9999...: ad esempio, 0,5
= 0,49999... . Così, possiamo convenire di fare comunque costante riferimento ad una delle due rappresentazioni,
magari alla seconda. A questo punto, l'idea per una biiezione tra [0, 1] x [0, 1] e [0, 1] è, tutto sommato, semplice:
associamo alla coppia (r, s) di reali in [0, 1], r = 0, r0 r1 r2 ..., s = 0, s0 s1 s2 ... , il numero 0, r0 s0 r1 s1 r2 s2 ... che
riproduce, con le cifre di posto pari, la rappresentazione di r e, con quelle di posto dispari, la rappresentazione di s.
Messa in questi termini, la corrispondenza è ancora rozza e necessita di qualche raffinamento; ma, sistemati alcuni
dettagli, l'idea funziona e stabilisce la biiezione richiesta tra quadrato e lato. Allo stesso modo si procede per cubo e
lato. Anzi lo stesso ragionamento può essere adoperato per provare che la retta R ha tanti punti quanti il piano R2 o lo
spazio tridimensionale R3.
Questi, ed altri esempi, confermano l'impressione superficiale accennata qualche capoverso fa. Tutti gli insiemi infiniti
hanno lo stesso numero di elementi, appunto perché infiniti. Aggiungere o togliere un elemento, o due elementi, o anche
più elementi, non ne altera il numero complessivo. Dunque, non vale la pena di discutere sull'argomento, di usare
sofismi per distinguere il contare e il confrontare e tentare un'improbabile misurazione di un infinito che non vuole
essere misurato.
Semmai le precedenti osservazioni possono servirci per dare una definizione matematica precisa e convincente di quel
che è un insieme infinito e, accogliendo la proposta avanzata da Dedekind nel 1888 (nell'opera Il finito e l'infinito),
chiamare un insieme A infinito quando può essere messo in corrispondenza biunivoca con un suo qualche sottoinsieme
proprio: condizione, questa, che non può certo essere soddisfatta nei contesti finiti, ma che costantemente registriamo
non appena ne andiamo al di fuori. Ma quanto a cercare più possibili livelli di infinito, tutto lascia presagire che sia
fatica inutile.
Eppure... eppure le cose in Matematica non sempre sono così lisce e banali. Ad esempio, sempre per rimanere sul tema
di come definire l'infinito, Cantor propose (rispetto a Dedekind) un approccio formalmente diverso, che chiama un
insieme A infinito quando non è possibile metterlo in corrispondenza biunivoca con alcun insieme della forma {0, 1, ...,
n} con n naturale. Ad occhio, le due definizioni - quella di Dedekind e quella di Cantor - sembrano entrambe adeguate e
tra loro equivalenti. Eppure, provate a dimostrarlo! (o, magari, leggete qualche testo sull'Assioma della Scelta per
approfondire la questione).
Così, anche a proposito di certe sensazioni sulla presunta piattezza di tutti gli insiemi infiniti, c'è da andare prudenti. E
infatti nel 1874...
Nel paradiso di Cantor
Nel 1874, Cantor dimostrò che, al contrario di quel che tutti gli esempi precedenti lasciano presagire, non tutti gli
infiniti sono uguali e ci sono più possibili modi di essere "infinito". In particolare, i punti della retta reale R non sono
tanti quanti i numeri naturali N. Non c'è corrispondenza biunivoca possibile tra i due insiemi. In verità Cantor aveva già
intuito una prima dimostrazione di questa sorprendente novità già nel 1873 ma aveva atteso il parere e i suggerimenti di
Dedekind per pubblicarla, appunto, nel 1874. Ma la prova più famosa - quella che oggi viene comunemente citata nei
manuali di Teoria degli insiemi e che usa l'argomento comunemente chiamato diagonalizzazione - è successiva di
qualche anno e risale al 1891.
Teorema (Cantor, 1874). Non c'è corrispondenza biunivoca possibile tra l'insieme R dei reali e l'insieme N dei naturali.
Ripercorriamo la seconda dimostrazione di Cantor, quella del 1891. La prima osservazione è che, siccome già sappiamo
che R e l'intervallo aperto ]0, 1[ sono in corrispondenza biunivoca, ci basta escludere qualunque biiezione tra
quest'ultimo e N. Prendiamo allora una qualunque funzione f da N a ]0, 1[ e mostriamo che non può essere biiettiva,
anzi mostriamo di più e proviamo che non può essere neppure suriettiva.
Per ottenere questo risultato, facciamo di nuovo riferimento alla rappresentazione decimale dei reali r già descritta
qualche riga fa. In questo caso, però, ci restringiamo a r ∈ ]0, 1[ (così trascuriamo 0 = 0,00... e 1 = 0,99...). Per ogni n
naturale, il reale f(n) ∈ ]0, 1[ ammette la sua rappresentazione decimale, che è anche unica se eliminiamo i marginali
motivi di ambiguità sopra ricordati. Costruiamo allora un nuovo numero reale r ∈ ]0, 1[ diverso da tutti gli f(n), e quindi
esterno alla immagine di f, nel modo seguente: la cifra di posto 0 dello sviluppo decimale di r è diversa da quella di f(0),
la cifra di posto 1 è differente da quella di f(1), la cifra di posto n da quella corrispondente in f(n), e così via. Il nostro r
può essere esplicitamente costruito, e risulta diverso da ogni f(n) perché differisce da esso nella cifra n-ma dello
sviluppo decimale unico.
f(1)= 0, a00 a01 a02 a03 a04 ...
f(2)= 0, a10 a11 a12 a13 a14 ...
f(3)= 0, a20 a21 a22 a23 a24 ...
f(4)= 0, a30 a31 a32 a33 a34 ...
... ... ... ... ... ... ... ...
Allora r non può appartenere all'immagine di f e f non è suriettiva.
Quindi, ci sono almeno due maniere distinte di essere infiniti, quella dei naturali (e, se è per questo, anche degli interi,
dei razionali e così via) e quella dei reali (e di ]0, 1[ e di ogni intervallo o semiretta di R). Risultato sorprendente e quasi
scandaloso, se riflettiamo al contesto storico in cui maturava (la citazione di Gauss sul divieto di trattare l'infinito
attuale in Matematica risaliva a pochi anni prima). Ma Cantor riuscì presto a generalizzarlo ulteriormente e provare che
c'è addirittura un'infinità di modi diversi di essere infinito: infatti, come risulta da un suo teorema del 1883 (poi
perfezionato in una più semplice dimostrazione del 1892), nessun insieme A può essere in corrispondenza biunivoca
con l'insieme P(A) dei suoi sottoinsiemi. Così, ad esempio, il "numero" dei naturali è differente da quello degli insiemi
di naturali e poi da quello degli insiemi di insiemi di naturali e così via, in un procedimento senza fine che produce
infiniti sempre nuovi. Chi poi è interessato a conoscere a quale livello di questa costruzione si incontrano i reali sarà
contento di sapere che essi sono tanti quanti i sottoinsiemi dei naturali: teorema che richiede una qualche fatica, ma ha
una sua convincente dimostrazione. Ora, la disparità di elementi tra un insieme e l'insieme delle sue parti è risultato ben
noto nei contesti finiti: una semplice e classica applicazione del principio di induzione, spesso utilizzata nei testi di
Matematica proprio ad esemplificare il principio stesso, mostra che, se A ammette un numero finito n di elementi, allora
A ha 2n sottoinsiemi. Ma la novità del risultato di Cantor è che la cosa si trasferisce anche ai casi infiniti.
Teorema (Cantor, 1883). Per nessun insieme A ci può essere una biiezione da A su P(A).
La dimostrazione ripete in un contesto più generale l'argomento della diagonalizzazione e mostra che una funzione f da
A a P(A) non può mai essere suriettiva (e conseguentemente neppure biiettiva). Infatti si può costruire un sottoinsieme
B di A che sta fuori della immagine di f, perché è diverso da tutti gli insiemi che le appartengono.
Per ottenerlo, osserviamo anzitutto che, per ogni elemento a di A, f(a) - come sottoinsieme di A - può includere o
escludere la sua retroimmagine a. Allora collochiamo a in B esattamente quando a ∉ f(a). Dunque B risulta differente
da f(a) per ogni a, in quanto a sta in B esattamente quando non sta in f(a) e, in conclusione, B è proprio l'insieme
cercato.
Visto che gli insiemi infiniti non sono tutti in corrispondenza biunivoca tra loro, ha senso classificarli proprio tramite il
"numero" dei loro elementi. A questo fine, Cantor sviluppò la teoria dei numeri cardinali. In essa, si considera nella
collezione di tutti gli insiemi (finiti e infiniti) la relazione che ne accomuna due, A e B, se e solo se A e B sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. Si verifica che questa relazione è di equivalenza e, come tale, determina una
partizione degli insiemi in classi: A e B si trovano nella stessa classe se e solo se c'è una biiezione tra loro e quindi, in
conclusione, se e solo se hanno, appunto, lo stesso "numero" di elementi. Le classi di equivalenza vengono chiamati
numeri cardinali. Tra di loro compaiono tutti i naturali (che possono essere identificati con i cardinali degli insiemi
finiti) ma anche nuovi numeri infiniti, quali ℵ0 (alef con zero), simbolo che Cantor propose nel 1893 a denotare il
cardinale di N (alef è la prima lettera dell'alfabeto ebraico) oppure il cardinale di R (che Cantor chiamò il continuo ed
indicò con il c gotico c, anche se oggi giorno si preferisce rappresentarlo con 2ℵ0, visto che i reali sono tanti quanti i
sottoinsiemi degli ℵ0 naturali e che, almeno nei contesti finiti, n elementi producono 2n sottoinsiemi).
I numeri cardinali si possono sommare, moltiplicare, ordinare proprio come i naturali, anzi estendendo opportunamente
le definizioni che queste operazioni e relazioni hanno in N. Ad esempio, se α e β sono i cardinali degli insiemi A e B
rispettivamente, si pone α≤β se e solo se c'è un'immersione (una funzione iniettiva) di A in B. È facile vedere che
questa definizione è ben posta, in altre parole dipende solamente da α e β e non dalla conseguente scelta di A e B, che
potrebbe non essere unica. Di più, la nuova relazione estende ovviamente l'ordine di N: infatti, è una semplice
constatazione di calcolo combinatorio osservare che due naturali n, m soddisfano n≤m se e solo se gli insiemi con n
elementi si possono immergere in quelli con m elementi.
Pur tuttavia, il nuovo contesto infinito rivendica talora la sua specificità. Alcune proprietà, che per insiemi e numeri
finiti paiono ovvie, non si estendono automaticamente ai cardinali infiniti. Ad esempio, non è affatto semplice provare
che l'ordine dei cardinali soddisfa in generale la proprietà antisimmetrica, il fatto cioè che due cardinali α e β, per cui
vale tanto α≤β quanto α≥β, siano uguali(ovvero, per dirla in termini più elementari, che due insiemi A e B l'uno
immergibile nell'altro sono in corrispondenza biunivoca tra loro). Anche se la proprietà è ben nota nel contesto ristretto
dei naturali ed intuitivamente convincente, in generale non è facile provarla nell'ambito esteso dei cardinali, tant'è vero
che il relativo risultato costituisce un teorema non banale, di genesi travagliata e di varia paternità (attribuito com'è a
Cantor, Bernstein, Schröder).
Se poi consideriamo l'altra ovvia proprietà dell'ordine di N, la sua linearità (il fatto cioè che, tra due numeri naturali n e
m, ce n'è sempre uno più piccolo e uno più grande) e pretendiamo di trasferirla così come è a cardinali arbitrari (ad
intendere che, comunque dati due insiemi A e B, si può immergere A in B oppure B in A), ci troviamo di fronte a
sorprese anche maggiori: non più teoremi complicati, ma proposizioni dibattute e delicate quali l'Assioma della Scelta
(di cui, appunto, la linearità dell'ordine cardinale è una possibile formulazione).
Dunque l'ordine dei cardinali, così come per altri versi la loro aritmetica (somma e prodotto), ha le sue peculiarità, le
sue difficoltà, i suoi problemi. Ma approfondire questa teoria ci porterebbe lontano. Semmai possiamo citare un'altra
questione famosa e dibattuta a proposito dei cardinali e del loro ordine, uno di quei problemi che sarebbe ineducato
dimenticare: l'Ipotesi del Continuo.
Il discorso riguarda ancora reali e naturali. Una volta stabilito che i primi non sono altrettanto numerosi quanto i
secondi, Cantor si chiese che cosa poteva dirsi dei sottoinsiemi infiniti di R: alcuni, come i razionali, sono in biiezione
con N, altri, come ]0, 1[, con l'intero R. Ebbene, ci sono altri casi possibili e, dunque, livelli di infinito intermedi tra N e
R? Cantor presuppose di no, senza però riuscire a trovare una dimostrazione. Hilbert inserì la questione al primo posto
nella celebre lista di 23 problemi aperti di Matematica, da lui proposta al Congresso Internazionale di Parigi del 1900.
La congettura di Cantor fu chiamata, appunto, Ipotesi del Continuo. Ancor oggi, oltre un secolo dopo la sua
proposizione, non trova una risposta definitiva (ammesso che possa averla). Ma questo può essere tema di altri articoli
[2].
Torniamo comunque ai nostri numeri infiniti e consideriamo il tema delle reazioni alle scoperte di Cantor. Come si può
facilmente immaginare, studiare l'infinito attuale, toccarlo, maneggiarlo, misurarlo non poteva essere esercizio
tranquillo ed indolore. Intanto, la questione aveva risvolti religiosi. Come accennavamo all'inizio, l'Infinito sembra
argomento più da teologi e filosofi che da matematici. Cantor, che era buon credente e si occupava pure di teologia,
cercò di approfondire la questione, dedicandovisi tra il 1885 e 1888 e giungendo a distinguere due possibili infiniti
attuali: nella sua visione il primo, che chiamò Assoluto, ha la I maiuscola, si applica solo a Dio, è tema della religione e
non può essere umanamente percepito e accostato per via scientifica; l'altro, che battezzò Transfinito per sottolinearne la
differenza rispetto al precedente e tenerlo alla dovuta distanza, è appunto l'infinito della Matematica, l'oggetto delle sue
ricerche, sul quale si può lavorare e disquisire senza con questo pretendere di misurare il Paradiso con i suoi angeli.
Ma, risolta per questa via (ed anzi con il Nulla Osta delle autorità religiose di Roma) la questione teologica, Cantor
doveva superare la diffidenza della comunità scientifica rispetto alle sue nuove teorie matematiche. La sua opera
cozzava infatti chiaramente contro il dettato aristotelico e, quel che è forse peggio, contro il parere di matematici illustri,
contemporanei o poco precedenti. Abbiamo già citato l'opinione di Gauss sull'infinito attuale in Matematica (da vietare
categoricamente). Anche Kronecker, che pure era stato il maestro di Cantor durante i suoi studi universitari a Berlino,
ne rifiutò le scoperte: "il lavoro di Cantor sui numeri transfiniti e sulla teoria degli insiemi non è Matematica, ma
misticismo" ed aggiungeva, come già ricordato, che "i numeri interi positivi sono i soli creati di Dio; tutto il resto è
opera dell'uomo e quindi sospetto".
Altri grandi matematici apprezzarono invece l'opera di Cantor e la accolsero con entusiasmo. Del resto, Cantor aveva per così dire - dischiuso all'uomo l'infinito degli angeli, un paradiso lungamente nascosto e ritenuto inaccessibile per
millenni. Così Bertrand Russell scriveva nel 1910: "la soluzione delle difficoltà che in passato circondavano l'infinito
matematico è probabilmente la massima conquista che la nostra epoca ha da vantare" e David Hilbert definiva la teoria
dei cardinali "un prodotto sbalorditivo del pensiero umano" e commentava: "nessuno riuscirà mai ad cacciarci dal
paradiso che Cantor ha creato per noi", non serpenti, né peccati originali, né tentazioni matematiche. Pur tuttavia, la vita
di Cantor dopo la scoperta dell'infinito non fu un paradiso (neppure matematico) ma piuttosto uno di quegli inferni che
gli scienziati sanno ben costruire (quando vogliono) per i loro colleghi, lastricato di invidie, polemiche, ostracismi,
dispetti. Dunque Cantor non ebbe possibilità di carriera universitaria e rimase confinato nella piccola sede di Halle.
Ebbe progressive crisi di depressione, fu ricoverato in clinica psichiatrica e lì, nel 1918, morì.
E IL PROGRAMMA DI HILBERT
Come abbiamo già visto, Hilbert aveva accolto con favore il lavoro di Cantor e la conseguente introduzione e
definizione dell'infinito attuale in Matematica. Pur essendo ben consapevole della conseguente necessità di conciliare il
carattere fondamentalmente finitario del metodo matematico e l'analisi di realtà apparentemente trascendenti, non
intervenne in modo esplicito nel dibattito e nelle polemiche che si accesero a fine Ottocento a questo proposito.
Tuttavia, furono proprio le sue ricerche in quegli stessi anni a dare originali contributi alla questione.
In effetti, già nel 1899, un anno prima della sua famosa relazione al Congresso di Parigi, Hilbert aveva proposto
nell'opera Grundlagen der Geometrie una nuova sistemazione della Geometria elementare, la cui rilevanza superava lo
specifico ambito cui si applicava (la Geometria, appunto) ed andava invece ad investire il modo stesso di concepire la
Matematica e il suo metodo. L'approccio di Hilbert dava infatti particolare enfasi al ruolo degli assiomi, come base
fondamentale per lo sviluppo di tutta la materia. Ora, questo riferimento agli assiomi (o postulati, o come vogliamo
chiamarli) non era di per sé originale ed anzi si rifaceva direttamente alla tradizione di Euclide. Tuttavia differenze non
trascurabili venivano a distinguere l'antica mentalità greca dalla impostazione di Hilbert e, tra queste, la più sostanziale
non era tanto quella (pur evidente, ma superficiale) del numero complessivo delle verità fondamentali poste alla base
del sistema (cinque postulati nell'approccio di Euclide, ventuno in quello di Hilbert) quanto piuttosto il ruolo diverso
che a, queste proposizioni veniva attribuito.
Nella concezione di Euclide, infatti, i postulati venivano scelti sulla base della loro evidenza e plausibilità e la loro
funzione era semplicemente quella di guidare correttamente l'intuizione nel dimostrare i teoremi. La concezione di
Hilbert era invece più fredda e formale e tendeva a raggiungere i teoremi di geometria come passi finali di deduzioni
logiche rigidamente articolate, prive di un esplicito sostegno dell'intuizione. In questa ottica, il ruolo dei ventuno
assiomi era solo quello di fornire una base coerente, priva di contraddizioni e di ridondanze, alle dimostrazioni. In
effetti, gli assiomi di Hilbert forniscono una serie di proposizioni relative ad oggetti che vengono chiamati punti, rette e
piani ma, al di là di questo loro nome, non hanno alcun diretto riferimento alle corrispondenti nozioni geometriche, così
come ci sono proposte dalla intuizione. Secondo Hilbert, hanno il diritto di essere chiamati punti, rette e piani tutti gli
enti che soddisfano le ventuno condizioni basilari del suo sistema. La geometria che ne deriva è, allora, scienza formale
puramente deduttiva.
Per dirla con le parole (vagamente polemiche) usate da Poincaré per commentare l'opera di Hilbert, "tutto vi è
esplicitato in modo da permettere di fare Geometria anche ad un cieco"; "per dimostrare un teorema, non è più
necessario e nemmeno utile sapere cosa vuol dire (...)" e l'intera ricerca scientifica sembra ridursi ad una "macchina in
cui si introducono gli assiomi da una parte e si raccolgono i teoremi dall'altra". Quest'ultimo riferimento ad una
Matematica affidata al lavoro deduttivo di un calcolatore ben programmato (grazie ad una coerente e completa scelta di
assiomi) può affascinare e sconvolgere. Ma c'è un altro aspetto che vogliamo mettere in evidenza nel commento di
Poincaré: se anche un cieco può fare Geometria, se punti, rette e piani diventano entità puramente formali e pur
meritevoli di ricerca, perché non ammettere negli interessi matematici anche lo studio dell'infinito e di qualunque altra
astrazione? L'importante, in questa visione di Hilbert, non è l'oggetto che si considera ma la coerenza del sistema
formale che lo tratta, degli assiomi e delle norme di ragionamento che lo regolano, l'assenza di intrinseche
contraddizioni e paradossi.
Negli anni successivi, Hilbert diede ulteriori contributi allo sviluppo della Matematica con il metodo assiomatico. Ad
esempio, nel 1900, nell'opera Uber den Zahlbegriff, sviluppò un sistema di postulati per i numeri reali e, nella già citata
lista di problemi contenuta nella sua conferenza di Parigi, pose al secondo posto (e quindi subito dopo l'Ipotesi del
Continuo) la questione della coerenza dell'Aritmetica, cioè la possibilità di escludervi ogni intrinseca contraddizione.
Niente però riguardava in modo diretto la questione della Matematica dell'Infinito. Dopo un lungo silenzio, Hilbert
ritornò su questi argomenti nel 1917 con l'opera Axiomatisches Denken e giunse finalmente a presentare, negli anni fra
il 1920 ed i17 930, i lineamenti del suo famoso programma, cui contribuirono anche allievi oggi famosi come W.
Ackermann (1896-1962), P. Bernays (1888-1977) e J. von Neumann (1903-1957). Questo programma approfondiva e
generalizzava la concezione sopra riferita a proposito della Geometria secondo le linee essenziali che adesso
riassumiamo:
a) Tutte le discipline matematiche sufficientemente sviluppate devono essere dotate di un proprio sistema di assiomi e
regole di ragionamento, che permettano la formazione di sequenze finite di proposizioni-le dimostrazioni- delle quali i
teoremi rappresentano gli ultimi passi.
b) Il requisito fondamentale che ognuno di questi sistemi formali deve soddisfare è l'intrinseca coerenza. Infatti, visto
che le teorie matematiche formalizzate non sono altro che collezioni di proposizioni di per sé prive di significato
intuitivo, l'assenza di contraddizioni (e non i1 ricorso ad una presunta evidenza) costituisce l'unico criterio discriminante
di accreditamento.
Così sta all'uomo fissare in modo appropriato e coerente, per ogni sistema matematico, i fondamenti da cui partire (gli
assiomi) e i metodi con cui ragionare (le regole di deduzione). Ciò che chiamiamo Matematica si riduce esclusivamente
a quanto il sistema deduce meccanicamente al suo interno, come pura manipolazione di simboli e (diremmo oggi) con il
solo uso di un computer.
In questa prospettiva, la Matematica dell'Infinito di Cantor trova pieno diritto di cittadinanza. Le nozioni che sono
oggetto del nostro studio possono ben includere il concetto di Infinito, purché il relativo sistema formale soddisfi il
requisito basilare della coerenza e si sviluppi secondo le regole sopra stabilite. In questo modo i metodi finitari della
scienza e l'apparente trascendenza del tema vengono a conciliarsi. Del resto, l'opera in cui (nel 1925) Hilbert meglio
sviluppò questa sua concezione si intitola, appunto, "Sull'infinito".
C'è però, nella visione di Hilbert, un punto sottile da considerare, che si applica ad ogni possibile sistema formale ma
acquista particolare valenza nel caso dell'infinito. Ammettiamo di voler organizzare, sull'esempio di Cantor, uno studio
della Matematica dell'Infinito, che osi dunque avventurarsi a trattare la scienza degli angeli. L'unica credenziale che
Hilbert gli chiede è la coerenza, dunque la mancanza di ogni possibile contraddizione. Resta però da chiarire chi deve
testimoniare questa coerenza. Questa assicurazione, infatti, non può certo provenire da enti certificatori esterni al
sistema; sarebbe come ammettere che, per garantire la nostra ambizione di trattare la scienza degli angeli, dobbiamo
ricorrere proprio a quegli angeli con cui vorremmo competere. Dunque, la richiesta coerenza deve essere proprietà
intrinseca, che il sistema stesso autocertifica come proprio teorema.
Una volta ottenuta questa garanzia, il programma di Hilbert avrebbe finalmente conciliato il carattere finitista della
Matematica e l'introduzione dell'infinito in atto dovuta a Cantor. Tutto si sarebbe risolto una volta fornita una
descrizione coerente assiomatica dei numeri cardinali. In questa prospettiva, si inseriva del resto il problema della
coerenza dell'Aritmetica (e dunque dei numeri cardinali finiti) che Hilbert aveva del resto segnalato al secondo posto nel
suo famoso elenco di questioni. La Teoria dei numeri aveva infatti, grazie a Peano e Dedekind, la sua
assiomatizzazione, sostanzialmente fondata sul Principio di induzione (quello che afferma che una proprietà che è
soddisfatta da 0 e si trasmette da ogni naturale n al suo successore n+1 deve conseguentemente valere per ogni numero
in N). Eventuali esigenze di maneggevolezza logica potevano semmai consigliare un indebolimento del principio ed una
conseguente Teoria. elementare dei numeri (usualmente denotata PA e chiamata Aritmetica di Peano al Primo Ordine).
Si trattava adesso di provare per questi sistemi l'assenza di contraddizioni con tecniche intrinseche, tramite la
autocertificazione di cui sopra.
Fino a11930, Hilbert e i suoi allievi riuscirono effettivamente a dimostrare la coerenza di semplici sistemi formali
(meno "potenti" dell'Aritmetica) illudendosi così di essere sul punto di dimostrare anche la coerenza dell'aritmetica e di
intravedere il traguardo della dominazione dell'infinito da parte dell'uomo. Ma nel frattempo a Vienna...
LA CACCIATA DALL'EDEN
Kurt Gödel (vedi [3] per una ricostruzione dettagliata della vita e delle sue opere) era nato nel 1906 a Brunn (l'attuale
Brno); si era iscritto nel 1924 all'Università di Vienna con l'intenzione di laurearsi in Fisica ma dopo due anni (come
talora capita) si era trasferito a Matematica, ottenendo infine il suo dottorato i1 6 febbraio del 1930 con una tesi sulla
completezza della logica del primo ordine. Aveva dunque raggiunto un risultato di primissimo piano, e pur tuttavia, per
intraprendere la carriera universitaria, doveva ancora superare un ulteriore esame - l'Hlabilitation - che richiedeva, tra
l'altro, la redazione di un lavoro di maggiore importanza (l'Habilitationsschrift).
A tale proposito, il problema di Hilbert di una dimostrazione finitaria della coerenza dell'Aritmetica costituiva ancora
argomento stimolante e fascinoso. Gödel vi si dedicò. Come egli stesso ebbe a rivelare molti anni dopo, la sua
intenzione originaria era quella di contribuire alla realizzazione del programma hilbertiano. Ma, esaminando la
questione della coerenza e sviluppando in particolare una delicata riflessione sui mezzi necessari per dimostrarla,
giunse, a risultati devastanti, di segno completamente opposto alle aspettative e tali da affondare le speranze di Hilbert.
Gödel considerò infatti un sistema formale S con le seguenti proprietà:
a) S ammette un insieme umanamente accessibile (decidibile) di assiomi;
b) S è capace di trattare l'Aritmetica e in particolare la Teoria elementare dei numeri;
c) S è privo di contraddizioni.
Esempi di sistemi S con queste proprietà sono (e lo erano anche ai tempi di Gödel) l'Aritmetica stessa di Peano oppure,
in un contesto meno specifico ed allargato all'intero fondamento della Matematica, la Teoria degli insiemi ZF
assiomatizzata da Zermelo-Fraenkel (eventualmente estesa, ad includere anche il controverso Assioma della scelta) per
la quale però il requisito c) della coerenza è ancora da dimostrare, oppure anche il sistema Principia Mathematica di
Russell e Whitehead. Per dirla con le parole stesse di Gödel, "si potrebbe congetturare che questi assiomi e regole di
inferenza siano sufficienti a decidere ogni questione matematica che possa essere formalmente espressa. nei relativi
sistemi (...) ma non è così, al contrario esistono nei sistemi menzionati problemi relativamente semplici della teoria dei
numeri che non possono essere decisi sulla base degli assiomi".
In effetti il primo fondamentale risultato che Gödel pubblicò nel 1931 (in un articolo apparso su Monatshefte fur
Mathematik und Physik ed intitolato "Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di
sistemi affini") afferma proprio:
1 ° Teorema di incompletezza di Gödel. In ogni sistema formale S con le proprietà a), b) e c) sopra descritte, si possono
costruire proposizioni che il sistema non riesce a decidere: non possono essere dimostrate, né rifiutate, sulla base degli
assiomi e delle regole di deduzione del sistema.
L'idea basilare che Gödel adopera nella dimostrazione è semplice e brillante: ogni proposizione P del sistema viene
etichettata tramite un numero naturale n(P) allo stesso modo in cui, in una biblioteca, ogni volume viene catalogato con
un suo codice. In questo modo le affermazioni relative al sistema (in particolare quelle che riguardano i numeri naturali)
diventano esse stesse numeri naturali, oggetto del proprio stesso interesse. A questo punto, possiamo costruire una
proposizione P che riesce ad affermare: "P non si può dimostrare in S" (riprendendo la situazione di vecchi e classici
giochi logici e paradossi, come quello che chiede se chi afferma: "Sto mentendo" dica o no la verità). Si conclude che P
si può dimostrare se e solo se non si può dimostrare in S e che comunque P è vera ma non dimostrabile in S. In
conclusione, il nostro sistema S non può essere completo, se per completezza si intende la capacità di dirimere ogni
questione al suo interno c dunque di dimostrare vera oppure falsa ogni proposizione che lo riguarda.
È evidente che il 1° teorema di incompletezza infligge un pesante colpo al metodo assiomatico e, in particolare, alle
convinzioni di Hilbert. È vero che il programma hilbertiano metteva il suo accento principale non sulla prerogativa della
completezza, ma su quella della coerenza (autocertificata). Tuttavia Hilbert era convinto della possibilità che una
Matematica ben fondata e organizzata potesse realmente rispondere ad ogni possibile questione. Come lui stesso
affermava in una conferenza tenuta al Congresso internazionale dei matematici del 1928, "non ci sono limiti alla
comprensione matematica, in Matematica non ci sono Ignorabimus". Il primo teorema di Gödel contraddice questa
cortezza.
Ma un secondo risultato di Gödel va a minare anche la proprietà qualificante della coerenza, provocando così il crollo
del programma di Hilbert.
2° Teorema di incompletezza di Gödel. Nessun sistema formale S che includa la Teoria Elementare dei Numeri e sia
privo di contraddizioni sarà capace di autocertificare (quindi dimostrare al suo interno partendo dagli assiomi ed usando
le regole di deduzione) la propria coerenza.
Il risultato si applica anche all'Aritmetica di Peano e alla Teoria degli insiemi ZF (ammesso che ZP sia coerente). In
questi casi, ed in ogni altra situazione che ne condivide le ipotesi, il sistema S avrà bisogno di una garanzia esterna per
confermare la propria assenza di contraddizioni e dunque, in fin dei conti, la propria autorizzazione a trattare
coerentemente ciò che sta trattando.
Vale forse la pena di ricordare che Gödel presentò preliminarmente questi risultati in occasione della Conferenza
sull'Epistemologia delle Scienze Esatte, che si tenne a Kònigsberg dal 5 al 7 settembre del 1930. La comunicazione di
Gödel ebbe luogo nel pomeriggio del 6, ma pochi dei presenti afferrarono la vera portata dei suoi risultati. Forse l'unica
eccezione fu costituita da von Neumann, che rimase letteralmente affascinato dai teoremi di incompletezza. L'ironia del
destino volle che in quei giorni a Konigsberg passasse anche Hilbert ma, come riferito dallo stesso Gödel, non ci fu mai
nessun contatto diretto o epistolare tra i due, né in quella occasione né in altre.
I dettagli delle dimostrazioni di Gödel si possono trovare nei suoi articoli originali [4], [5], inclusi nella raccolta di tutte
le sue opere, o in successive esposizioni quali [6], [7]. Un approccio molto elementare e naif si trova anche in [8]. Per
una bella introduzione sull'argomento si veda [9]. Questi riferimenti propongono anche l'enunciato preciso dei due
teoremi e dunque correggono certe imprecisioni che le nostre note fatalmente contengono, in ragione dei loro confini di
spazio e del loro tono discorsivo. Noi ci limitiamo ad alcuni commenti conclusivi.
Dobbiamo premettero che i risultati di Gödel si prestano facilmente a riflessioni assai superficiali, che spesso trascurano
la loro difficoltà e profondità e non sanno cogliere a pieno ogni loro sfumatura. Ciò premesso, dobbiamo anche dire che
c'è chi comunque li interpreta da un punto di vista filosofico (e forse metafisico) asserendo che essi dimostrano che
l'uomo è un essere limitato ma consapevole del suo limite. Non è capace di comprendere i fondamenti della
Matematica, formulandoli in modo definitivo e completo; sa tuttavia accorgersi di questa sua incapacità, al punto da
dimostrarla in modo matematicamente rigoroso. In questo senso, i teoremi di Gödel possono anche intendersi, alla
stregua della siepe di leopardiana memoria, come il segnalo di un limite che ci impedisco ma non ci si nasconde,
un'autorevole prova scientifica di una realtà che. trascende la nostra dimensione. Del resto, Blaise Pascal aveva
osservato con il suo limpido stile nel Pensiero 188-267: "l'ultimo passo della ragione è riconoscere che vi sono in,finite
cose che la superano".
Ovviamente, né Gödel né la Matematica possono chiarirci che cosa sia questa realtà che ci trascende, se una divinità, o
il caos o altro ancora. Ma, a proposito di queste (controverse) interpretazioni, vale la pena di citare il commento
(scherzoso) di un grande matematico come André Weil, che diceva che i teoremi di Gödel dimostrano l'esistenza tanto
di Dio quanto del demonio, "Dio perché la matematica è coerente, il diavolo perché non possiamo comunque
dimostrarne la coerenza".
Torniamo al nostro tema principale e alla Matematica dell'Infinito. In definitiva, dobbiamo prendere atto che l'uomo non
può dominare completamente la Matematica e comprenderne i fondamenti in modo tale da ridurla ad un puro e
semplice gioco di deduzione al computer. Questa incapacità si registra già nel (l'apparentemente docile) contesto dei
numeri naturali e cioè dei cardinali finiti. La Matematica dell'Infinito (e la speranza hilbertiana di una sua autocertificata
coerenza) devono condividere la stessa imbarazzante situazione. Questo tuttavia non esclude lo studio e
l'approfondimento né dei naturali né dei cardinali infiniti. Progressi sostanziali, spesso fascinosi e stimolanti, sono stati
raggiunti nell'uno e nell'altro campo negli ultimi anni (inclusa la famosa soluzione dell'Ultimo Teorema di Fermat). Ma
i risultati di Gödel restano ancora un punto di riferimento fondamentale sulla vera natura della Matematica e dell'essere
matematico: un recente libro di Doxiadis (vedi [10]) descrive, in tono vagamente surreale, gli imbarazzi e i turbamenti
che la loro conoscenza può ancora provocare ai matematici praticanti.
Georg Cantor e Richard Dedekind tennero una fitta corrispondenza negli anni 1872 e 1899.
Le lettere sano state pubblicate ne[ volume n. 6, curato da Pietro Nastasi, della collana "PRISTEM/Storia - Note di
Matematica, Storia, Cultura"edito da Sprínger-Verlag Italia, Milano, 2002, pp. 134.
E' la prima edizione italiana completa di questo fondamentale carteggio, in cui si vedono nascere la nozione di cardinale
e ordinate transfiniti, in cui si dimostra la non numerabilità dell'insieme dei numeri reali R e si leggono i primi tentativi
e le correzioni alla costruzione di una biiezione tra R e RZ, e le discussioni fra Cantor e Dedekind sull’invarianza della
nozione di dimensione.
"Pochi scritti matematici possono competere - scrive Pietro Nastasi nell'Introduzione - con questa corrispondenza
nell'evidenziare il complesso intreccio psicologico che presiede all'invenzione matematica".
Bibliografia
[1] Galilei G., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Elzeviri, Leida, 1638; Barbera,
Firenze, 1898.
[2] Leonesi S., Toffalori C., Il problema del continuo, Archimede, num. 2, 2003.
[3] Dawson J. D., Dilemmi logici, Bollati Boringhieri, 2001.
[4] Gödel K., Uber die Vollstàndigkeit des Logikkalkiils, Tesi di Dottorato, Università di Vienna 1929; (trad. it. di C.
Mangione, Sulla completezza del calcolo della logica, in Kurt Gödel, Opere, vol. 1, 1929-1936, a cura di E. Ballo, S.
Bozzi, G. Lolli e C. Mangione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 63-82).
[5] Gödel K., Uber formal unentscbeidbare Siitze der `Principia Mathematica" und verwandter Systeme I, in
"Monatshefte fúr Mathematik und Physik", 38, 1931, pp. 173-198; (trad. it. E. Ballo, Sulle proposizioni formalmente
indecidibili dei `Principia Mathematica" e di sistemi affini I, in Kurt Gödel, Opere, vol. 1, 19291936, a cura di E. Ballo,
S. Bozzi, G. Lolli e C. Mangione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 113-138).
[6] Nagel E., Newman J. R., La prova di Gödel, Bollati Boringhieri, 1977.
[7] Smullyan R., Gödel 's Incompleteness Theorem, Oxford University Press, 1992.
[8] Smullyan R., Quale è il titolo di questo libro, Zanichelli, 1981.
[9] Mangione C., La logica nel ventesimo secolo, in L. Geymonat, Storia del pensiero scientifico e filosofico, vol. 6 (Il
novecento), pp.469-682.
[10] Doxiadis A., Zio Petros e la congettura di Goldbach, Bompiani, 2001.
LETTURECONSIGLIATE
Maor E., To infinity and beyond, Princeton University Press, 1991.
Rucker R., La mente e l'infinito, Muzzio, 1994.
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