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Cominciando dagli ultimi

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Cominciando dagli ultimi
JOHN RUSKIN
COMINCIANDO
DAGLI ULTIMI
Introduzione di Luigino Bruni
Cominciando dagli ultimi.indb 3
11/06/14 09.45
Titolo originale: Unto This Last
Traduzione di Riccardo Ferrigato
©EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2014
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
ISBN 978-88-215-9274-4
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INTRODUZIONE
di Luigino Bruni
In una crisi severa, mentre in ballo ci sono tante vite e molte ricchezze, gli economisti non sono di nessun aiuto – ridotti praticamente al silenzio: non sanno dare alcuna soluzione scientifica alla difficoltà, nulla che possa convincere
o calmare le parti che si oppongono tra di loro.
John Ruskin, Unto This Last
I classici sono sempre attuali perché hanno posto domande profonde e originali che toccano la radice dei problemi e
dei valori umani, perché ci interpellano in quanto esseri umani. Socrate, Dante e Leopardi sono classici e per questo ci
parlano ancora. Unto This Last (titolo originale di Cominciando dagli ultimi) di John Ruskin è un testo classico per le scienze sociali poiché ha fatto domande profonde e originali all’economia del suo tempo, e continua a farne a quella del nostro.
Quali sono le motivazioni del buon lavoro? Le virtù servono
all’economia? Che cosa vuol dire “ricchezza”? Cos’è la vera
ricchezza?
Ruskin non era un economista di professione – era troppe
altre cose: critico d’arte, pittore, architetto –, ma conosceva
molto bene il dibattito economico del suo tempo e le principali teorie economiche classiche. Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill, i socialisti: sono tutti ben presenti e ben
discussi nella sua opera. Ruskin non è entrato nella storia della teoria economica ma, come Thomas Carlyle che spesso gli
viene affiancato, ha esercitato una profonda influenza su mol-
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te generazioni di economisti, sociologi e scienziati sociali,
ieri e oggi.
Ruskin è stato un critico del capitalismo (della condizione operaia nelle fabbriche, dovuta alla logica e alla cultura
degli industriali), ma è stato anche un critico della teoria economica del suo tempo, cioè quella di Ricardo, di Thomas
Robert Malthus e soprattutto di Mill. E credo oggi sarebbe
ancora più critico del nostro capitalismo e della nostra teoria
economica, che hanno esasperato i vizi che Ruskin individuava e stigmatizzava nella sua generazione. Da questa prospettiva Ruskin sta dalla parte dei socialisti utopici (egli, come è noto, tentò, come Robert Owen, la costituzione di una
comunità ideale di lavoratori), di Karl Marx, di John Hobson
e, in Italia, di Arturo Labriola, Achille Loria, Ugo Rabbeno,
tanti teorici della cooperazione e molti cristiani sociali, tra
cui Giuseppe Toniolo – il vangelo e la tradizione biblica sono elementi essenziali e decisivi per comprendere in profondità la sua critica al capitalismo. Al tempo stesso, John
Ruskin presenta delle note di modernità e di originalità notevoli che, a differenza di molti altri critici del primo capitalismo, rendono attuale e molto stimolante la lettura e la meditazione dei suoi testi, in particolare e soprattutto di Unto
This Last, che rappresenta senz’altro il suo capolavoro economico e sociale.
In questa introduzione1 mi soffermo su due aspetti del suo
pensiero che emergono da questo libro (in realtà è un insieme
di quattro saggi collegati tra di loro da un robusto filo rosso)
e che considero particolarmente rilevanti, significativi e profetici per l’economia e la società del nostro tempo.
Ringrazio l’editore per avermi chiesto di scrivere questa introduzione. Mi ha
consentito di fare maggiore amicizia con un autentico maestro di pensiero e di critica, che è diventato un mio compagno di viaggio.
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Il primo riguarda i moventi che spingono la persona al lavoro, e in particolare al lavoro ben fatto. Ruskin, nel primo
capitolo, delinea con una forza e una chiarezza non comuni
– mi hanno molto impressionato la sua forza di pensiero e la
sua capacità retorica – un tema cruciale per il nostro capitalismo e per le nostre imprese. E se dopo oltre un secolo e mezzo da questo testo – pubblicato nel 1862 – quelle sue domande restano cruciali, ciò sta a significare che il nostro capitalismo e la sua teoria economica non le hanno ancora prese sul
serio o, meglio, le hanno intenzionalmente scartate perché
troppo difficili e molto scomode. Ruskin è convinto che sia
errato partire nella teoria economica – quella di Mill2 più che
quella di Smith – da un essere umano spinto dall’egoismo o
ridotto alla sola ricerca del piacere, trascurando sistematicamente e intenzionalmente gli altri moventi della vita. Ruskin
è interessato a comprendere il capitalismo, e quindi a capire
la dinamica anche antropologica del lavoro nella fabbrica. Riconosce, evidentemente, che il self-interest (la ricerca del massimo guadagno) sia uno dei moventi del lavoratore, ma è convinto che egli sia molto più complesso di una macchina che
risponde a un solo incentivo. Scrive: «Egli […] è una mac2
John Stuart Mill, suo contemporaneo, è il bersaglio teorico preferito da Ruskin.
Una scelta corretta, poiché Mill, più di altri suoi colleghi o predecessori, è il vero
inventore della metodologia dell’homo oeconomicus. Influenzato dal positivismo di
metà Ottocento, Mill teorizzò nei suoi scritti metodologici giovanili e nel suo System
of Logics il cosiddetto metodo di “analisi e sintesi”: la scienza procede suddividendo il fenomeno da studiare (per esempio, l’uomo reale) in alcune sue componenti
necessariamente artificiali e arbitrarie (homo oeconomicus, homo religiosus, homo
sociologicus…), studiandole quindi una alla volta con distinti e specifici strumenti
analitici, e infine ricomponendo i vari “pezzi” nell’operazione di sintesi, una sintesi
che per Mill doveva essere l’etologia (la scienza del comportamento umano) e che
per il “milliano” Vilfredo Pareto diventerà, qualche decennio dopo, la sociologia. Si
capisce allora che il riduzionismo che Ruskin attribuisce alla scienza economica
(aver eliminato dalle analisi gli elementi sociali e morali) è particolarmente enfatizzato in questa metodologia milliana, su cui si è basata fino a ieri l’economia teorica
(e che solo recentemente inizia ad essere messa in crisi dall’economia sperimentale
e cognitiva).
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china che ha come forza motrice un’Anima, una spinta di un
elemento davvero particolare, una quantità sconosciuta che
entra in tutte le equazioni dell’economista senza che lui se ne
accorga, rendendone false tutte le soluzioni. La più grande
quantità di lavoro di questa strana macchina non si raggiungerà, allora, aumentando il salario, mettendola sotto pressione o con qualche strano tipo di combustibile fornito in quintali o tonnellate. Si otterrà solo quando la forza motrice, cioè
la volontà o lo spirito della creatura, sarà portata alla maggior
potenza grazie al combustibile adatto a lei: i sentimenti» (p.
36). Abbiamo dovuto aspettare psicologi (Edward Deci e Richard Ryan negli anni Settanta), sociologi (Norbert Alter) e
aziendalisti (Anouk Grévin) perché anche qualche economista iniziasse ad accorgersi che i lavoratori hanno un’anima e
non sono macchine a “carota e bastone”, che sono molto sensibili ai segnali di stima, di riconoscimento, di norme di reciprocità, ai premi e non solo agli incentivi3. Fino all’altro ieri,
e nella maggioranza dei libri di testo ancora oggi, l’economista neoclassico continua a insegnare che il lavoratore ha obiettivi non allineati a quelli del datore di lavoro, e che il principale modo per allinearli sarebbe incentivare il lavoratore e
fargli fare così quanto non farebbe, perché è un soggetto che
lavora bene se controllato e adeguatamente pagato. Ruskin,
invece, crede che l’onore e la virtù possano essere moventi
importanti anche nelle ordinarie vicende economiche, anche
nelle fabbriche. Anticipa la replica dell’economia del suo tempo (Mill, per esempio), e la scrive pure: «“I sentimenti sociali”, dice l’economista, “sono elementi accidentali e fuorvianti della natura umana, ma l’avarizia e il desiderio di progresso sono delle costanti. Togliamo allora quello che è accidentale e consideriamo l’essere umano solo come un avido auto3
Su questi temi, il lettore può consultare L. Bruni, A. Smerilli, L’altra metà
dell’economia, Città Nuova, Roma 2014.
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ma; esaminiamo quali siano le leggi del lavoro, dell’acquisto
e della vendita che possano fornire risultati migliori in termini di accumulazione di ricchezza. Starà poi a ciascun individuo, una volta determinate queste leggi, introdurre tanti elementi emotivi quanti ne vorrà, così da determinare un suo
personale risultato in relazione alle condizioni presunte”» (p.
31). E in effetti, qualche decennio dopo, Maffeo Pantaleoni,
economista buon allievo di Mill, sfidava gli economisti sociali (eredi di Ruskin) del suo tempo a dimostrare che le ragioni che portano «gli spazzini a spazzare le strade, la sarta a
fare un abito, il tramviere a fare dodici ore di servizio sul tram,
il minatore a scendere nella mina, l’agente di cambio ad eseguire ordini, il mugnaio a comperare e vendere il grano, il
contadino a zappare la terra, ecc. [fossero] l’onore, la dignità,
lo spirito di sacrificio, l’attesa di compensi paradisiaci, il patriottismo, l’amore del prossimo, lo spirito di solidarietà, l’imitazione degli antenati e il bene dei posteri [e non] soltanto
un genere di tornaconto che chiamasi economico»4.
Dalla parte di Ruskin stava invece un economista cristiano
contemporaneo di Pantaleoni, Giuseppe Toniolo (anche lui
emarginato dal mainstream del suo tempo). In un suo testo
del 1873, pochi anni dopo Unto This Last, così scriveva: «Una
spregiudicata [senza pregiudizi] analisi della natura complessa dell’uomo addita infatti in lui, accanto al principio dell’utile, ancora quello del buono, figlio dello spontaneo riconoscimento di una legge morale imperante, che ingenera la coscienza del dovere: […] lo spirito religioso […], il sentimento dell’onesto e dell’equo che da quello promana; il culto del
vero e del bello, che ha con questo comune fondamento; l’abito della temperanza, la virtù del sacrificio»5.
4
M. Pantaleoni, Erotemi di Economia, vol. 1, Laterza, Bari 1925, p. 217.
G. Toniolo, Dell’elemento etico come fattore intrinseco delle leggi economiche, del 1873, ripubblicato nel suo Trattato di Economia Sociale (varie edizioni), in
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Chi ha ragione, Pantaleoni o Toniolo? Mill o Ruskin? Francesco Giavazzi o Giacomo Becattini (per venire al nostro dibattito contemporaneo)? In realtà la questione non va posta
sul piano della “ragione” o della “verità”, ma su quello del
potere e del successo di teorie economiche e paradigmi. Tutti – economisti, filosofi, intellettuali in generale – sapevano
che i due ragionamenti erano entrambi plausibili e sensati, e
oggi sappiamo che l’economia politica non doveva necessariamente prendere la via tracciata da Mill-Pantaleoni, perché
non c’era nessuna forza intrinseca alla natura delle cose per
portare il carro della scienza sul loro binario invece che su
quello sociale-spurio di Ruskin. La principale ragione è invece interna alle vicende specifiche e ai rapporti di potere che
sono prevalsi in questo secolo e mezzo nella comunità degli
economisti e in quella più ampia che la sosteneva e che da
essa era sostenuta (uomini d’affari, politici ecc.)6.
Tra le ragioni cruciali del successo della via tracciata da
Mill c’è però un elemento culturale che vale la pena di sottolineare. Mi riferisco alla Riforma protestante e alla svolta antropologica da essa prodotta. Al di là delle intenzioni di Lutero e degli altri riformatori (la Riforma, e la Controriforma,
offrono una straordinaria evidenza della potenza del meccanismo dell’eterogenesi dei fini), l’Umanesimo che dalla seconda metà del Cinquecento ha iniziato ad affermarsi nel Nord
appendice nel secondo volume. La citazione è tratta da Giuseppe Toniolo: L’economista di Dio, a cura di D. Sorrentino, Ave, Roma 2012, p. 224.
6
Lo spostamento del baricentro della geopolitica del mondo dopo il 1918 verso
gli Stati Uniti ha contribuito non poco al declino della scuola tedesco-italiana, che
si muoveva sulla linea metodologica di Ruskin e Toniolo. Un altro elemento è stata
la mancanza di grandi talenti teorici interni alla comunità degli economisti, capaci
di fare un discorso critico con lo stesso linguaggio e con lo stesso rigore matematico di un Pareto e dei suoi seguaci inglesi (Hicks) e americani (Samuelson). Oggi
quel paradigma si sta incrinando perché è cambiato il clima culturale nel mondo, ma
anche perché sono ormai molti gli economisti critici che si muovono dentro la stessa comunità e che usano molto bene gli stessi linguaggi ma per dire cose diverse sul
piano antropologico e valoriale (penso a Amartya Sen, ma anche a Robert Sugden).
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dell’Europa e poi negli Stati Uniti (dove, non a caso, fiorisce
la scienza economica moderna) si caratterizza per un forte
pessimismo antropologico di stampo agostiniano (Lutero era
stato, come è noto, monaco agostiniano). L’incapacità radicale di virtù dell’uomo naturale, il decadimento di Adamo
dopo il peccato, produssero una forte parsimonia antropologica che in quei paesi soppiantò la filosofia e la teologia medioevale (quella tomista in particolare) che invece aveva prodotto, anche per l’influsso forte di Aristotele, un’antropologia
naturalmente socievole. L’uomo-lupo hobbesiano nasce da
Lutero, non da Tommaso, da cui invece fiorisce, nel Settecento napoletano, l’homo homini natura amicus di Antonio Genovesi, fondatore dell’economia civile italiana, erede dell’Umanesimo classico, tomista e umanista. L’etica delle virtù
scompare dalla scena perché non è realistica per un uomo radicalmente malato di concupiscenza e avarizia. Così, dovendo rinunciare alle virtù per costruire la società civile e la società commerciale, dobbiamo accontentarci dei più tristi ma
realistici interessi personali – come messo in luce già nel 1977
da Albert Otto Hirschman. È contro questa tristezza e contro
questa parsimonia antropologica che Ruskin e buona parte
degli economisti cattolici dall’Ottocento a oggi reagirono e
reagiscono. E Ruskin – il lettore lo constaterà subito – non
solo lo afferma in linea di principio, ma adduce evidenza e
logica al fine di mostrare che non esiste, né potrebbe esistere,
un agente economico (un “commerciante”) che sia solo egoista, perché la vita è molto più ricca ed eccedente rispetto a
questa visione miope e distorta, nella prassi e nella teoria.
Il secondo aspetto che voglio sottolineare e sviluppare, che
occupa la seconda parte di questo libro, riguarda la ricchezza.
Con pagine ricche di bellissimi brani e piene di colori, cultura e intelligenza, Ruskin mette prima in discussione che la
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ricchezza sia un concetto primitivo e semplice da definire, e
dopo offre una gran mole di argomenti per dirci che la ricchezza da sola non solo dice poco sulla vita buona della gente e sulla loro felicità, ma dice male, a volte malissimo.
Chiunque oggi conosca un po’ del dibattito su PIL e benessere troverà allora mille spunti per rafforzare e arricchire
le proprie idee. Una sua tesi generale, che costituisce la nervatura soprattutto del terzo capitolo del libro, è la seguente:
«L’arte del “diventare ricchi”, nel senso comune, non è né
soltanto né soprattutto l’arte di accumulare molto denaro, ma
è anche quella del fare in modo che i nostri vicini ne abbiano
di meno. In termini più precisi, è “l’arte di stabilire il massimo grado di diseguaglianza in nostro favore”» (p. 56). Una
frase che a prima vista potrebbe far pensare a un Ruskin vittima della fallacia mercantilista (quella per cui si crede che
lo scambio sia un gioco a somma zero, e se qualcuno si arricchisce è perché qualcun altro si impoverisce). In realtà il
suo ragionamento è più complesso. La sua intuizione, che
risale al concetto smithiano di “lavoro comandato”, consiste
nel ritenere che la ricchezza è desiderata quando può comandare l’azione, il lavoro, di persone che la ricchezza non ce
l’hanno, o ne hanno di meno. Secondo Ruskin, in un mondo
senza diseguaglianza, dove tutti sono ugualmente ricchi (ma
forse anche ugualmente poveri), non ci sarebbe l’incentivo
a lavorare per altri in cambio di ricchezza. L’economia di
mercato, quindi, ha un bisogno strutturale di ineguaglianza,
ed emerge con chiarezza: «Ciò che veramente si desidera,
quando si parla di ricchezza, è soprattutto il potere sugli uomini. Detto nel modo più semplice, il potere di ottenere per
noi stessi il vantaggio del lavoro di un servitore, di un artigiano e di un artista; in senso più ampio, l’autorità di guidare grandi masse in una nazione per scopi che possono essere
diversi […]. E questo potere di ricchezza è certamente più o
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meno grande in diretta proporzione con il numero delle persone che sono tanto ricche quanto noi, e che sono pronte a
pagare lo stesso prezzo per un articolo che è disponibile in
modo limitato. Se il musicista è povero, allora canterà per
una paga ridotta fino a quando ci sarà solo un uomo che possa pagarlo, ma se ce ne fossero due o tre, lui canterebbe per
chi gli offre di più. Il potere della ricchezza del padrone […]
dipende quindi in primis dalla povertà dell’artista, e poi dalla limitazione del numero delle persone che dispongono della stessa ricchezza e che vogliono assistere al concerto» (p.
55-56). In altre parole – e la Storia ce l’ha detto, sebbene
mostrandone l’assenza – in un mondo ideale o comunista dove non esistono diseguaglianze nei redditi (e dove per legge
e patto sociale non si possono creare) le persone avrebbero
bisogno di altre motivazioni ideali per lavorare oltre il “dovuto” – servirebbero, nel linguaggio di san Paolo (ma anche
di Lenin), degli “uomini nuovi”.
In Ruskin troviamo poi una profonda e originalissima critica alla natura della ricchezza: «L’idea che si possano dare
direttive su come guadagnare ricchezza senza tener conto della moralità della sua provenienza, o che una qualsiasi legge
generale o una tecnica dell’acquisto e dell’ottenimento possano essere definite da una pratica nazionale, è forse la più
insolentemente futile tra le credenze che abbiano mai istigato
gli uomini al vizio» (p. 63).
A distanza di oltre centocinquant’anni, queste tesi non hanno perso nulla della propria forza profetica e morale. Nel Novecento abbiamo creato la contabilità nazionale, il PIL, lo
abbiamo considerato un indicatore di ricchezza e, indirettamente (ma non poi così tanto), di benessere e forse di felicità
(come scrive Gandhi nella sua bellissima e attualissima prefazione all’edizione indiana dell’opera).
Il PIL dice molte cose ma non il benessere né la qualità
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della vita né la democrazia né i diritti o le libertà di una nazione. Lo sapevamo, ma ogni tanto, magari in occasione di
queste notizie, è bene ricordarcelo. Il PIL indica la produzione in beni e servizi di un paese, niente più. Una volta, in un
mondo più semplice, era anche indicatore della creazione di
posti di lavoro, e forse di benessere (in società che uscivano
dall’indigenza aumentare merci e servizi aumentava anche il
ben-essere delle famiglie). Oggi indica sempre meno e sempre peggio. Da una parte la parola “beni”, cioè cose buone
(bona, in latino), ha perso ogni contatto con ciò che chiamiamo “beni economici”: che cosa hanno di buono la pornografia o la prostituzione? Ma, venendo all’Italia, che cosa hanno
di buono il gioco d’azzardo e l’invasione di legioni di “gratta
e vinci” che stanno impoverendo sempre più i nostri concittadini più fragili, tra cui molti anziani e anziane? Niente, ma
sono tutto PIL: più la gente si rovina giocando con le slot machine, più aumentano i posti di lavoro e il (troppo piccolo)
gettito fiscale, più aumenta il PIL; e, cosa ancora più grave
dal punto di vista etico, parte di questi profitti sbagliati finiscono per finanziarie attività “non profit”, le quali magari si
occupano di cura di quelle stesse dipendenze. «È il capitalismo, bellezza!». Certo, ma è molto triste, e chi ama la verità
e la giustizia non dovrebbe darsi per vinto.
Tutto questo ci rivela quanto poco dica il PIL riguardo alla salute economica e civile di un paese: se oggi l’Italia dovesse, per esempio, ripartire con un PIL finalmente in zona
positiva, grazie all’aumento del gioco d’azzardo, o se la Polonia aumentasse la propria crescita “grazie” alla pornografia
e all’alcol (che vorrebbe introdurre nel PIL), dovremmo avere buone ragioni per rallegrarci? «Aumentano i posti di lavoro», qualcuno replica oggi e replicava all’epoca di Ruskin.
Ma, ieri come oggi, non tutti i posti di lavoro sono cosa buona. Che esperienza umana ed etica fa una donna che oggi, per
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sopravvivere, lavora in una “impresa” pornografica? O chi
lavora in una video lottery dove assiste ad autentiche tragedie
di chi si rovina per “giocare”? O chi produce mine antiuomo?
Ci sono posti di lavoro pessimi, e una civiltà cresce riducendo i lavori sbagliati e aumentando quelli buoni. Questo
Ruskin, anche grazie alla sua cultura cristiana e umanistica,
lo sapeva molto bene, oggi lo sappiamo meno, sempre meno.
Con l’abolizione della schiavitù in Europa e in America abbiamo perso migliaia di posti di lavoro (basti pensare a quanti porti e navi lavoravano fino all’Ottocento in quel turpe commercio, un commercio ancora non estinto quando Ruskin scriveva), ma dopo pochi decenni abbiamo creato le rivoluzioni
industriali e tecniche proprio perché era venuta meno la schiavitù. La democrazia – non solo il mercato – è una “distruzione creatrice”, dove muoiono attività sbagliate e contro la persona e dopo, quando le civiltà funzionano e con esse la democrazia, ne nascono di migliori che le sostituiscono. Ruskin
sapeva anche questo, e di nuovo noi ne siamo meno consapevoli e lo dimentichiamo ogni giorno di più sotto la spinta della dittatura della crescita del PIL a ogni costo.
Ruskin ci invita allora a riflettere sulla natura della ricchezza, del PIL, del benessere, e magari a dar vita ad altri indicatori che diminuiscano quando la gente sta male e si fa
male (mentre aumenta il PIL). Un indicatore di felicità soggettiva, per esempio, che potrebbe dirci altre cose che il PIL
non sa dire, o dice poco e male. Tutto questo Ruskin lo sapeva, noi dobbiamo impararlo di nuovo.
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di Mohandas Karamchand Gandhi, il “Mahatma”,
dall’edizione in lingua gujarati pubblicata nel 1908
I popoli occidentali sono generalmente convinti che tutto
ciò che un uomo deve fare sia promuovere la felicità della
maggior parte del genere umano, una felicità da considerarsi
legata soltanto a parametri fisici e di prosperità economica.
Se le leggi della civiltà morale vengono violate nel percorso
di conquista di una tal felicità, non lo considerano un problema serio. Inoltre, nella ricerca della felicità del maggior numero, gli occidentali sono convinti che sacrificare una minoranza non sia davvero dannoso. Le conseguenze di questa linea di pensiero sono davanti agli occhi di tutta l’Europa.
Questa ricerca esclusiva del benessere fisico ed economico, affrontata in spregio della moralità, è contraria alla legge
divina, così come hanno dimostrato alcuni saggi uomini
dell’Occidente. Uno di questi era John Ruskin che sostiene,
in questo libro, che gli uomini possano essere felici solo se
obbediscono alla legge morale.
In India ci diamo molto da fare oggi nell’imitazione
dell’Occidente. È necessario imitare le virtù dell’Occidente,
ma va anche riconosciuto che spesso i criteri occidentali sono
negativi, e tutti ammetteremo che le cose malvagie sono da
evitare.
Gli indiani in Sudafrica sono ridotti in condizioni gravi e
penose. Andiamo all’estero con il desiderio di fare soldi e cercando di arricchirci velocemente, ma perdiamo di vista la mo-
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ralità e dimentichiamo che Dio ci giudicherà per le nostre
azioni. L’interesse per se stessi assorbe le nostre energie e
paralizza la nostra capacità di distinguere il bene dal male. Il
risultato è che, invece di guadagnare qualcosa, vivendo nei
paesi stranieri perdiamo molto o, almeno, non ricaviamo
quanto dovremmo. La moralità è un ingrediente essenziale
per tutte le fedi del mondo ma, lasciando da parte la religione, è il nostro buon senso a indicarci quanto sia necessario
osservare la legge morale. Solo seguendola possiamo sperare
di essere felici, e questo è ciò che Ruskin dimostra nelle pagine seguenti.
Socrate, nell’Apologia di Platone, ci dà un’idea di cosa sia
il dovere per gli uomini, ed egli era tanto giusto quanto lo erano le sue parole. Credo che quest’opera di John Ruskin sia un
approfondimento delle idee di Socrate; egli ci dice come si
devono comportare gli uomini in vari passaggi della vita se
hanno intenzione di trasformare queste idee in azione1.
1
Gandhi non propose una vera e propria traduzione ma una parafrasi del testo
di Ruskin, «perché una traduzione non sarebbe particolarmente utile per i lettori.
Persino il titolo non è stato tradotto ma parafrasato in Sarvodaya [Il benessere per
tutti], che è l’argomento di cui Ruskin si interessa in questo libro» (ndt).
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Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse
concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e
vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo
quanto a te.
Matteo 20,13-14
«Se vi pare giusto, datemi la mia paga; se no,
lasciate stare». Essi allora pesarono trenta sicli
d’argento come mia paga.
Zaccaria 11,12
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PREFAZIONE
I quattro saggi che seguono sono stati pubblicati diciotto
mesi fa dal “Cornhill Magazine” e hanno trovato critiche perfino violente, a quanto ne so, nella maggior parte dei lettori
che li hanno esaminati.
Nonostante questo credo che siano le migliori, le più vere,
le meglio espresse e le più utili tra tutte le cose che io abbia
mai scritto. L’ultimo di questi saggi, che mi è costato una certa dose di fatica, è probabilmente il meglio che io potrò mai
scrivere.
«Questo», potrebbe ribattere il mio lettore, «può anche essere vero, ma non significa che sia scritto bene». Benché possa ammetterlo, e non per falsa modestia, resta pur certo che
io sia soddisfatto di questo lavoro come di nessun altro. Siccome vorrei continuare ad affrontare gli argomenti proposti
in questi saggi, quando mai ne troverò il tempo, vorrei che
questo scritto introduttivo risultasse alla portata di chiunque
volesse interessarsene. Per questo motivo ripubblico i saggi
tali quali erano alla loro prima apparizione: solo una parola è
stata modificata, nella correzione del valore di un peso, mentre nulla è stato aggiunto.
Anche se non credo ci sia nulla da modificare in questi testi, mi rammarico che la più sorprendente delle tesi qui sostenute – quella per cui è necessario organizzare il lavoro in modo che abbia salari fissi – abbia trovato posto nel primo dei
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saggi: si tratta, tra le tesi da difendere, di una delle meno importanti, ma non per questo delle meno certe. Il nocciolo di
questi scritti, il loro significato e il loro obiettivo principale,
è invece quello di dare una definizione logica della “ricchezza” che sia resa, per la prima volta, in un inglese buono e accessibile (cosa già successa in buon greco, grazie a Platone e
Senofonte, e in un buon latino con Cicerone e Orazio): è qualcosa di assolutamente necessario per porre le basi di una
scienza economica. Il saggio moderno più conosciuto e stimato su questo argomento1, dopo aver affermato che «gli
scrittori di economia politica professano di insegnare o investigare la natura della ricchezza»2, continua con la dichiarazione delle sue tesi: «Ciascuno ha una nozione, sufficientemente corretta per gli scopi comuni, di cosa si intenda per
“ricchezza”», e «non mi propongo, in questo trattato, di raggiungere una raffinatezza metafisica delle definizioni».
Non abbiamo certo bisogno di «raffinatezza metafisica»
per affrontare un tema scientifico, ma sono assolutamente necessarie precisione scientifica e logica accurata.
Supponiamo che l’oggetto della nostra ricerca, invece che
essere la legge-della-casa (oikonomia) fosse quella delle stelle (astronomia), e che chi ne scrivesse, ignorando la differenza tra stelle fisse ed erranti3 – o qui tra ricchezza diffusa
e riflessa – iniziasse dicendo: «Ciascuno ha una nozione, sufficientemente corretta per gli scopi comuni, di cosa si intenda per “stella”: non mi propongo, in questo trattato, di raggiungere una raffinatezza metafisica delle definizioni». Un
saggio che iniziasse in questo modo potrebbe trovare conclusioni molto più veritiere, e mille volte più utili a un ufficiale
di marina, di quanto non sarebbe per l’economista un qualSi tratta dei Principi di economia politica di John Stuart Mill (ndt).
Quale? Dove la ricerca è necessaria, l’insegnamento è impossibile.
3
Il riferimento è ai pianeti (ndt).
1
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siasi trattato che fondasse le sue tesi sul concetto popolare di
ricchezza.
Per questo motivo il primo scopo di questi quattro saggi
fu proprio quello di dare una definizione accurata e salda di
cosa sia la ricchezza. Il secondo proposito era quello di mostrare che l’acquisizione di ricchezza è possibile, in definitiva, solo quando la società risponde a certe condizioni morali,
prima di tutto nella convinzione che l’onestà esista e che sia
praticamente perseguibile.
Senza voler dire – dato che su questi temi il giudizio umano non può essere conclusivo – se sia o meno la più alta tra
le opere di Dio, possiamo però accettare dell’affermazione di
Pope che un uomo onesto sia, per quello che noi possiamo
vedere e allo stato dei fatti, una delle sue creazioni migliori e
più rare, benché certo non sia cosa incredibile o miracolosa,
e neppure eccezionale4. L’onestà non è una forza turbolenta
che sconquassa le orbite dell’economia, ma un’energia coerente e maestosa a cui le leggi dell’economia devono sottomettersi – senza seguirne di altre – se vogliono continuare
evitando il caos.
È vero che qualche volta ho sentito Pope accusato per la
viltà e non acclamato per la virtù dei suoi principi: «L’onestà
è infatti una virtù rispettabile, ma quanto in alto possono arrivare gli uomini? Non ci sarà chiesto altro che essere onesti?».
Per il momento non chiederò altro, miei buoni amici. Sembra che, quando si cerca di andare oltre questo semplice proposito, si perda di vista, in qualche modo, l’importanza
dell’essere onesti. Non intendiamo interessarci a tutto ciò in
cui abbiamo perso la fede, ma è cosa certa che abbiamo smesAlexander Pope (1688-1744) è stato uno dei maggiori poeti del Settecento inglese. Ruskin si riferisce qui a una frase tratta dal suo Saggio sull’uomo:
«Un uomo onesto è la più nobile opera di Dio» (ndt).
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so di credere nella semplice onestà e nella sua forza pragmatica. E questa fede, con tutto ciò su cui essa si fonda, è davvero il nostro primo impegno da recuperare e a cui fare attenzione: non si tratta solo di credervi, ma anche di essere sicuri per esperienza del fatto che esistano ancora nel mondo uomini che possono rifiutarsi di prender parte a una frode, e non
perché temono in questo modo di perdere il proprio posto di
lavoro5. Meglio star certi che è proprio in proporzione a quanti di questi uomini vivono in una nazione, che quella nazione
continua o può continuare ad esistere.
I saggi che seguono sono interessati principalmente a queste due questioni. Il tema dell’organizzazione del lavoro è affrontato soltanto in modo informale perché, se riusciremo a
raggiungere un sufficiente livello di onestà in quanti offrono
lavoro, la sua organizzazione sarà semplice e si svilupperà da
sé senza divergenze o difficoltà. D’altra parte, se non possiamo avere degli industriali onesti, l’organizzazione del lavoro
sarà in ogni caso impossibile.
In seguito mi prenderò spazio per esaminare quali siano le
«La disciplina effettiva che si esercita su di un artigiano non è quella della sua corporazione, ma quella dei suoi clienti. È il timore di perdere l’occupazione che lo trattiene dal frodare e corregge la sua negligenza», A. Smith, La
ricchezza delle nazioni, libro 1, cap. X.
Nota alla seconda edizione. L’unica aggiunta che farò alle parole di questo
libro è una sincera richiesta rivolta a ogni lettore cristiano. A loro chiedo di pensare dentro di sé a quale razza di dannatissimo stato dell’anima avrà accesso un
essere umano capace di leggere e accettare una frase di questo tipo o, peggio
ancora, scriverla, e di opporvi queste parole sul commercio che io ho scoperto
nella più antica chiesa di Venezia: «Intorno a questo tempio sia equa la legge
del mercante, giusti i pesi e leali i contratti» [la chiesa è quella di San Giacomo
di Rialto, l’iscrizione si trova nell’abside e, in latino, recita: «Hoc circa templum
sit jus mercantibus aequum, pondera nec vergant, nec sit conventio prava», ndt].
Se qualcuno dei miei lettori pensa che il linguaggio che uso in questa nota
sia fuori luogo e sconveniente, gli consiglio di leggere con attenzione il diciottesimo paragrafo di Sesamo e gigli e di star sicuro che, per quanto mi riguarda,
non uso mai nel mio scrivere parole che non considero più che appropriate
all’occasione (Venezia, domenica 18 marzo 1877).
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condizioni che, invece, rendono quest’organizzazione possibile6 ma, per paura che il lettore si allarmi di ciò a cui alluderò nella discussione che segue sui principi primi, come se
questi lo guidassero su un terreno inaspettato e pericoloso,
perché si senta più sicuro dirò subito il peggior scenario politico che intendo prospettargli e ciò di cui spero di convincerlo.
Per prima cosa sostengo che ci debbano essere, in tutto il
paese, scuole tecniche per giovani realizzate a spese del governo e sotto il suo controllo7; che ogni bambino nato in patria, se lo desiderano i genitori, debba poterle frequentare (e
che in certi casi sia richiesto per legge) e che lì, insieme ad
altre materie minori, gli si insegnino obbligatoriamente e nel
modo migliore queste tre cose: le leggi della salute e gli esercizi per vivere sani, le abitudini di educazione e giustizia e la
professione di cui dovrà vivere.
In secondo luogo è necessario che, in relazione con queste
scuole tecniche, vengano fondate dal governo, e mantenute
sotto la sua regolamentazione, manifatture e botteghe per la
produzione e la vendita di tutto ciò che è necessario alla vita
e per l’esercizio di ogni arte che sia utile. Queste non dovranno interferire con l’impresa privata – quindi non ci sarebbero
restrizioni o tasse per il commercio privato – ma lasciare che
anch’essa faccia il suo meglio e superi il governo, se può. Le
6
L’autore fa riferimento alla sua opera successiva, Munera pulveris, composta da articoli usciti tra il 1862 e il 1863 per il “Fraser’s Magazine” e poi pubblicata in volume nel 1872 (ndt).
7
Qualcuno poco lungimirante si domanderà con quali fondi sarà possibile
sostenere queste scuole. Esaminerò di qui a poco quali strategie di sostegno diretto vi siano, in modo che esse possano perfino sostenersi da sé. Solo il fatto
che tali scuole permetterebbero di risparmiare molti delitti (forse uno degli articoli di lusso più costosi nel moderno mercato europeo) sarebbe sufficiente per
rendere dieci volte il denaro che servirebbe a mantenerle. La loro economia del
lavoro sarebbe di puro guadagno, e questo sarebbe troppo grande per essere calcolato in questa occasione.
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fabbriche e le botteghe statali dovranno fornire un esempio
di lavoro ben fatto e dovranno vendere prodotti puri e genuini, così che un uomo possa star sicuro, se sceglie di pagare
il prezzo proposto dal governo, di avere in cambio del suo
denaro pane che sia pane, birra che sia birra e lavoro che sia
lavoro.
Come terzo elemento, credo che ogni uomo, donna, ragazzo o ragazza che sia senza lavoro debba essere accolto nella
più vicina scuola statale e assunto per quell’occupazione che,
dopo una prova, sembri essere per lui o lei la più adatta, a un
salario fisso da determinare anno per anno. A coloro che saranno considerati incapaci di lavorare a causa della loro ignoranza, venga insegnato, mentre ci si prenda cura di quanti non
potranno mettersi all’opera perché affitti da una malattia.
Quelli che però si rifiuteranno di lavorare, siano obbligati con
fermezza alle fatiche più dure e degradanti di cui c’è bisogno,
specialmente in miniera e in altri posti pericolosi (tale pericolo, però, andrebbe ridotto al massimo grazie a precisi regolamenti e disciplina), e che il loro salario sia trattenuto: vi si
paghino le spese penali e sia rimesso a disposizione del lavoratore quando si farà un’idea più sana delle leggi del lavoro.
Da ultimo è importante che ai vecchi e ai poveri si diano
cure e una casa. Che questo, se la situazione è dovuta alla
sfortuna di lavorare in un sistema ingiusto, sia onorevole e
non vergognoso per chi riceve aiuto perché (riporto questo
brano dal mio Economia politica dell’arte a cui rimando il
lettore per i dettagli) «un lavoratore serve il suo paese con la
sua vanga proprio come un uomo della classe media lo serve
con la spada, la penna o il bisturi. Se il suo servizio e il suo
salario, quando è in buona salute, sono minori, anche se il
compenso che riceverà da invalido sarà per questo motivo
minore, non sarà però meno onorevole. Dovrebbe essere del
tutto naturale e logico che un lavoratore riceva la sua pensio-
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ne dal suo distretto perché se lo è meritato, così come un uomo di rango superiore incassa una pensione dal suo paese
perché se la merita».
In conclusione voglio solo aggiungere che, per quanto riguarda disciplina e paga di vita e di morte, per le persone di
ogni rango, le parole di Livio rivolte a Valerio Publicola non
dovranno essere una disonorevole chiusura di epitaffio: «De
publico est elatus»8.
Io credo e cercherò quindi di spiegare queste cose e quanto vi è connesso, tentando anche di seguire ciò che ne deriva
come effetto collaterale. Le ho riportate in breve per avvertire il lettore perché non si spaventi delle mie conclusioni, tuttavia gli chiedo di ricordare che in una scienza che si interessi di cose tanto delicate, come quelle che hanno a che fare con
la natura umana, è possibile rispondere solo della verità finale dei principi e non del successo diretto dei progetti: al massimo, di questi ultimi, possiamo discutere di quali siano stati
i risultati immediati, ma non è possibile sapere quanto sarà
realizzato alla fine.
Denmark Hill,
10 maggio 1862
8
«P. Valerius, omnium consensu princeps belli pacisque artibus, anno post
moritur; gloria ingenti, copiis, familiaribus adeo exiguis, ut funeri sumtus deesset: de publico est elatus. Luxere matronæ ut Brutum» [Ruskin cita da Tito
Livio, Ad urbe condita, secondo libro, cap. 16, ma sbaglia confondendo datus
con elatus. La citazione, corretta, va così tradotta: «L’anno seguente morì Publio Valerio, da tutti considerato il migliore sia in pace sia in guerra. Pur avendo
raggiunto il massimo degli onori, la sua povertà era tale da non potergli permettere neppure il funerale, che fu celebrato a spese dello stato. Le donne piansero
come avevano fatto per Bruto», ndt].
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INDICE
Introduzione di Luigino Bruni
pag.
5
Introduzione di M.K. Gandhi »
17
COMINCIANDO DAGLI ULTIMI
Prefazione
I. Le radici dell’onore
II. Le vene della ricchezza
III. Qui iudicatis terram
IV. Ad valorem
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