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VISTA CON GRANELLO DI SABBIA INCONTRARE IL CORSO

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VISTA CON GRANELLO DI SABBIA INCONTRARE IL CORSO
VISTA CON GRANELLO DI SABBIA
INCONTRARE IL CORSO – APPRENDERE
Cominciando il corso mi sono sentita subito “a casa”. Dopo anni di lavoro
solitario all’interno del mondo ospedaliero, anni in cui ho avuto come interlocutori
medici, psicologi e dirigenti di aziende sanitarie, sentire di nuovo proporre in termini
autorevoli la questione delle dinamiche di costruzione della soggettività ha rinnovato
il senso di legittimità del mio punto di vista, costruito negli anni in cui sono stata
allieva di Luisa Muraro, e in cui ho studiato e mi sono identificata nella prospettiva
epistemologica del costruttivismo sociale con gli insegnamenti di Bruner e Vygotskji.
Nel corso ho respirato di nuovo la valorizzazione dell’esercizio di un punto di vista
che si toglie dall’ovvietà, come per me in passato era stato il punto di vista della
differenza di genere, che significa guardare i discorsi egemonici per decostruirli,
mostrandone gli stereotipi, le forme di violenza che ne sostanziano il linguaggio e
giustificano le azioni. E che questa è un’azione politica, necessaria tanto più se una
lavora all’interno delle istituzioni pubbliche, come me. E’ invece difficile dire che
cosa ho acquisito, imparato, considerato che il corso non è ancora concluso e che
l’apprendimento, per manifestarsi come tale, ha bisogno di un tempo necessario
perché i discorsi a cui ci si espone lavorino nella profondità e possano riemergere in
forma di fertili “innesti” dando forma ad una ricomposizione dei saperi, una
ristrutturazione cognitiva che comprenda quanto di nuovo abbiamo incontrato.
Da pedagogista che si occupa anche di formazione degli adulti ho apprezzato
alcune linee guida del corso e trovato invece deboli altre. Comincio da quello che mi
è piaciuto. Ho trovato utile la funzione di cornice esercitata da Barbara Pinelli con le
sue lezioni che oltre ad essere dense di contenuti e di concetti esercitavano anche una
dichiarata funzione di raccordo tematico. Positiva anche la presenza del tutor a quasi
tutte le lezioni, e della funzione tutoring attivata con l’invio di materiali e di risposte
puntuali alle domande di vario genere. La cadenza settimanale, ritmica, regolare, ha
costituito in questi mesi un tessuto di fondo su cui disporre altre esperienze formative
più puntuali e circoscritte.
Invece, passando al piano della valutazione critica, la funzione di cornice è
andata via via assottigliandosi tant’è che Barbara Pinelli dall’11 gennaio non ci sarà
più fino all’ultimo incontro, che è poi quello in cui si presenteranno le prove finali,
facendomi provare la sensazione di uno sfrangiamento e di un indebolimento della
tenuta complessiva. Certe volte i materiali proposti prima delle lezioni venivano
postati un po’ troppo sotto le date degli incontri e, considerata la mole di alcuni di
questi, non mi hanno consentito di “entrare” nel mondo del docente come invece ho
potuto fare le altre volte, sentendo di ricavarne beneficio nel corso delle lezioni. Tutto
il corso si è svolto all’insegna della lezione frontale, più o meno supportata da
strumenti multimediali, ma indubbiamente non all’insegna della didattica attiva. In
questa prospettiva ho sofferto la mancanza di esercitazioni e di interazione con il
gruppo, tant’è che a tuttoggi, con mio grande dispiacere, non conosco neppure il
nome di alcuni, ovvero quelli/e che non si sono mai espressi spontaneamente nel
corso delle lezioni o dello spazio finale di queste. Anche il tempo del dibattito, che
potrebbe essere considerato un primo livello di elaborazione attiva e di partecipazione
del gruppo, non è stato a mio avviso sufficientemente progettato, tant’è che poteva
esserci come non esserci e anche nel caso della sua presenza somigliava più a un
dibattito estemporaneo che ad una discussione che aveva lo scopo di condurci da
qualche parte. E questa mancanza, anche nella prospettiva di produrre questo
elaborato finale, si è fatta sentire, perché ho avvertito il bisogno insoddisfatto di uno
spazio all’interno del quale “maneggiare” insieme ad altri i concetti e i materiali
presentati per prospettare delle piste di lavoro sulle quali ognuno avrebbe poi potuto
muoversi per conto proprio.
La forma richiesta per l’elaborato finale è l’ultimo argomento di analisi critica
che desidero trattare. Interpretando l’indicazione minima di due pagine come una
provocazione, ho sentito la misura massima prevista troppo stretta, un vincolo che
non consente di articolare un tema in forma sufficientemente strutturata e
soggettivamente differenziata. Avrei preferito un range più ampio, all’interno del
quale dare maggiore espressione al proprio linguaggio. Anche la bipartizione tra
apprendere e utilizzare, che mi prendo la libertà di trasgredire almeno per quanto
riguarda la proporzione reciproca indicata, la percepisco come una forzatura, poiché i
due processi non si differenziano in modo così sequenziale ma piuttosto partecipano
di un movimento ricorsivo, circolare e reiterato.
TRASFORMARE IL PROPRIO LUOGO DI PARTENZA – UTILIZZARE
Non ho mai deciso di occuparmi di migranti. Ci sono capitata in mezzo.
Era il 2006 e mi ero messa a studiare i flussi in entrata nella UONPIA (Unità
Operativa di Neuropsichiatria infantile e dell’Adolescenza) nella quale lavoravo part
time. Avevo percepito qualcosa di diverso nell’andamento della domanda al servizio
ma avevo bisogno di studiare i dati per capire meglio se e che cosa stesse succedendo
(vedi grafico allegato in appendice).
Poiché la crescita della domanda al servizio di NPI territoriale non era
correlata ai numeri assoluti delle presenze di famiglie migranti sul territorio ho
cominciato ad effettuare una lettura qualitativa delle segnalazioni raccolte nel corso
degli anni. Il primo dato che balzava all’occhio era che la quasi totalità dei casi aveva
il medesimo inviante: la scuola. La scuola individuava e segnalava al servizio
sanitario qualcosa che non andava nei bambini, soprattutto difficoltà
nell’apprendimento e nel comportamento che però non trovavano riscontro nelle
valutazioni eventualmente effettuate dai colleghi NPI o psicologi. Approfondendo
l’analisi delle segnalazioni effettuate rilevavo che i bambini inviati in NPI erano tutti
accomunati dall’utilizzo della lingua italiana (L2) soltanto o quasi esclusivamente a
scuola e che provenivano tutti da famiglie di recente o nuova immigrazione.
Componendo questi dati emersi dall’approfondimento qualitativo della domanda con
gli studi epidemiologici proponevo alla mia A.O. (Azienda Ospedaliera Bolognini di
Seriate) un progetto sperimentale che avrebbe avuto come effetto desiderato per la
UONPIA il calo degli invii “impropri”. Ho progettato così un intervento filtro delle
segnalazioni di bambini migranti in un colloquio congiunto con i genitori, le
insegnanti, i mediatori LC e i bambini stessi. La proposta di intervento nasceva
dall’aver individuato già allora, seppure in forma embrionale e poco esplicitata, la
migrazione come esperienza di complessità e di conseguenza il bisogno di osservare
in forma intensiva e ravvicinata le interazioni che caratterizzavano quello che oggi
potrei chiamare il “contesto di approdo” per i bambini migranti che venivano
segnalati: la scuola e la famiglia nel paese di immigrazione e i rapporti tra i due
“terreni”.
Superata un’iniziale diffidenza nei confronti di un dispositivo gruppale e non
gerarchico, gli insegnanti hanno cominciato ad apprezzare di venire a contatto con le
famiglie e con una storia migratoria che raccontava il bambino, la sua famiglia, i paesi
di origine con le relative specificazioni geografiche. Troppo spesso avevo sentito
parlare di bambini nati in “India”, in “Marocco” “Est Europa” come se queste
categorie fossero sufficienti per contribuire ad una conoscenza specifica di quel
particolare bambino nato in quella determinata località che ha un certo numero di
abitanti, che sta in collina piuttosto che in alta quota… All’interno dell’incontro di
filtro si sono finalmente dipanate precise storie che partivano da specifici paesi e che
attraverso rotte geografiche, politiche e motivazionali giungevano fino a quel
particolare spazio/tempo in cui eravamo disponibili per accoglierle.
Un importante guadagno del dispositivo di lavoro presentato è stato quello di
consentire agli insegnanti di osservare i genitori dei bambini comunicare fluentemente
nella propria lingua con i MLC e non soltanto annaspare in una lingua straniera che li
costringe a modalità comunicative ipersemplificate
che vengono giudicate
“primitive” se non addirittura “infantili”. Molto è stato scritto sulla perdita di
autorevolezza genitoriale nell’esperienza della migrazione (Moro M.R., Genitori in
esilio). Un genitore “afasico” al cospetto dei propri figli e delle figure educative di
riferimento è un genitore depotenziato ai suoi stessi occhi, a quelli dei figli e degli
insegnanti stessi. Un contesto che dà l’opportunità di scambiare parole e significati,
motti di spirito, perfino risate nella lingua madre, rilassa i genitori, li legittima e li
sostiene nella loro fatica educativa. In secondo luogo permette che i genitori si
mostrino come competenti, argomentativi, interattivi, veloci, a volte anche spigliati.
In terzo luogo consente agli insegnanti di sperimentare, seppure in misura circoscritta,
come possa essere faticoso anche solo essere esposti ad una lingua di cui non si
capisce niente. Questa esperienza fatta insieme consente di cominciare a parlare della
questione della didattica L2 e di come «il transito fra universi linguistico-culturali
costituisce per molti bambini una prova particolarmente dolorosa». (Beneduce R.,
Breve dizionario di etnopsichiatria).
Il dispositivo, interattivo e multisituato, mi ha permesso di lavorare da un lato
per prospettare o escludere il bisogno di un intervento di NPI e dall’altro per
comprendere più da vicino quali sono le reali condizioni dell’esperienza scolastica,
“contesto di approdo” dei bambini migranti e quali siano gli interventi da progettare
quasi sempre solo all’interno della scuola e del contesto di vita quotidiana.
Quando nei mesi scorsi ho cercato studi di antropologia che incrociassero
bambini e migrazione ho trovato poco. La maggior parte di quello che riguarda i
bambini migranti lo si deve ai pedagogisti che ci dicono come dovrebbero essere
inseriti nelle scuole, agli etnopsichiatri e terapeuti transculturali che li curano quando
le cose non vanno per il meglio oppure ai sociologi che li studiano nell’accezione
categoriale di “non accompagnati”.
Pensavo esistesse “un’antropologia bambina”, un discorso più inclusivo della
rappresentazione della migrazione dal punto di vista dei bambini, ma finora ho
dovuto ricredermi. Di conseguenza anche il mio progetto di revisione e di
perfezionamento dell’intervento con le famiglie e i bambini migranti si è basato
sull’applicazione di alcuni concetti di fondo che ci sono stati presentati e che possono
essere sia strumenti di lettura che supporti di base per la progettualità operativa.
Ho trovato fecondo il concetto di violenza strutturale «con cui si intendono gli
effetti iatrogeni prodotti da ordinamenti sociali caratterizzati da profonde
disuguaglianze». (Quaranta I., Antropologia medica). In questa prospettiva ho potuto
leggere l’inserimento scolastico dei bambini migranti, effettuato fuori da alcuna
specifica consapevolezza della condizione di migrante e del processo migratorio,
come una forma di violenza strutturale tra i cui effetti vedo la crescita degli invii ai
servizi di salute mentale, fenomeno che riguarda tanto i minori quanto gli adulti.
Interpretando i ricongiungimenti familiari come “migrazioni forzate” si
possono comprendere e leggere molte difficoltà che i bambini e i ragazzini, per non
parlare delle loro madri, manifestano. Una lettura ricca e narrativa dell’esperienza
dell’arrivare nel nostro paese non per averlo scelto ma perché si deve aiuta gli
insegnanti a riconfigurare il loro quadro interpretativo e quasi sempre ad avviare una
ristrutturazione dell’intervento sia sul piano didattico che educativo.
Ho sentito affinità con quanto Aime sostiene essere il luogo di lavoro
dell’antropologo «una sorta di terra di nessuno. In un luogo che non è “già”, ma
nemmeno è “ancora”. E’ “tra”, in quella zona non delimitata, dove i pensieri e i gesti
trovano spazi comuni di comprensione.» (Augé M., Il mestiere di antropologo). Tanti
anni fa ho scelto di lavorare su quelle che Gianpaolo Lai chiamava “frange
intermedie”, sull’attraversamento delle frontiere, nella terra di nessuno dove i
significati vanno negoziati tra tutti i soggetti presenti. Pensavo allora come adesso che
se vogliamo occuparci dei bambini non possiamo prescindere dal prendere sul serio e
dal connettere tutti i saperi che sui bambini hanno tutti quelli che ci vivono insieme,
oltre al sapere di sé dei bambini stessi. In questo senso occuparmi di bambini migranti
ha significato allenarmi nella condizione più ricca di possibile complessità. Oggi
credo di avere più strumenti linguistici e concettuali per argomentare la mia proposta
di lavoro che, se è nata per rispondere ai bisogni particolari di alcuni bambini,
funzionerebbe bene anche con gli altri.
Dal punto di vista della politica sanitaria ritengo che un unico servizio che
“pensa diverso” e che propone un modo differente di leggere la difficoltà come non
solo appartenente ad un soggetto a cui viene attribuita e che perciò ne diventa l’unico
portatore, costituisce già di per sé un apprezzabile “granello di sabbia”, un piccolo
ma significativo intoppo nell’ingranaggio. Se poi questo servizio diventa consapevole
del significato politico di quello che sta facendo e si attrezza per comunicarlo ad altri,
a trovare altri che si muovono nella stessa direzione, allora esprime e valorizza una
differenza e contribuisce a creare un luogo di approdo per le differenze degli altri.
Chiudo con le parole della Szymborska che sento compagne di strada: “Nel
parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini: “mondo
normale”, “vita normale”, “normale corso delle cose”… Tuttavia nel linguaggio della
poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale.
Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo
segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo.” (Szymborska W.,
Vista con granello di sabbia).
APPENDICE
BIBLIOGRAFIA
Augé M., Il mestiere dell’antropologo, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
Beneduce R., Breve dizionario di etnopsichiatria, Carocci, Roma 2008.
Bhabha J., L’odissea dei bambini migranti, Editori riuniti, Roma 2008.
Faranda L., Non uno di meno, Armando Editore, Roma 2004.
Goussot A. (a cura di), Bambini “stranieri” con bisogni speciali, Aracne, Roma 2011
Moro M.R., Bambini di qui venuti da altrove, Franco Angeli, Milano 2005.
Petti G., Il male minore, ombre corte, Verona 2004.
Quaranta I. (a cura di), Antropologia medica, Raffaello Cortina, Milano 2006.
Santerini M., La qualità della scuola interculturale, Erikson, Trento 2010.
Sironi F., Violenze collettive, Feltrinelli, Milano 2010.
Szymborska W., Vista con granello di sabbia, Adelphi, Milano 1998.
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