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Scheda informativa sulla Depressione Maggiore
Che cos’è la Depressione Maggiore?
Quali sono le cause?
Quali sono i sintomi?
Quali sono i trattamenti?
Qual è la prognosi?
Cosa sta facendo l’AFaR?
Che cos’è la Depressione Maggiore?
La Depressione Maggiore (DM) costituisce la forma più grave di abbattimento patologico del tono
dell’umore, o depressione. La depressione è uno dei più comuni disturbi psichiatrici. Si calcola che
almeno il 10 % della popolazione adulta generale soffra di uno o più episodi di depressione nel
corso della vita. Nelle differenti ricerche epidemiologiche la prevalenza per il disturbo depressivo
sarebbe tra il 10 e il 25 % circa nel sesso femminile e tra il 5 e il 12 % nel sesso maschile, con un
rapporto di 2 : 1 tra donne e uomini.
Soltanto una percentuale compresa tra il 10 e il 40 % del totale dei pazienti si rivolge al medico o
allo specialista per ricevere una cura appropriata.
Il disturbo depressivo si caratterizza dal punto di vista sintomatologico per un tono depresso
dell’umore e per la riduzione o perdita degli interessi. Il paziente vive una condizione di tristezza, di
pessimismo, di scoraggiamento o disperazione e non è più in grado di trarre piacere dalle normali
attività della vita. Il lavoro, la vita sociale, gli affetti e gli svaghi appaiono al depresso privi di senso
e di scopo e una condizione dolorosa di attesa afinalistica, di tensione e di inquietudine, che può
arrivare fino all’angoscia, può occupare completamente il suo stato d’animo e placarsi solamente
quando egli avverte, con un certo sollievo, che la giornata sta per volgere al termine e il suo patire
potrà stemperarsi nel sonno.
La depressione viene oggi inclusa tra le patologie più frequenti e costose, e si calcola che entro il
2020 sarà la patologia con la maggiore morbilità e invalidità, superando anche le malattie
cardiovascolari.
Quali sono le cause?
I fattori predisponenti si possono distinguere in: genetici, biologici, ambientali, psicosociali. C’e
un’alta provabilità che questi interagiscano tra loro scatenando la sintomatologia depressiva.
• Fattori genetici
Il tasso di ereditabilità per i sintomi depressivi si attesta attorno al 76%.
Gli studi sui gemelli hanno mostrato percentuali tra il 45 e il 60% di disturbi dell’umore “condivisi”
tra i gemelli omozigoti, o identici, percentuali che si abbassano al 12% tra i gemelli eterozigoti.
L'ereditarietà è comunque meno probabile per le forme di depressione lievi, mentre sembra incidere
più fortemente nelle depressioni ad esordio precoce: il 70% dei bambini depressi hanno, infatti,
almeno un genitore che presenta un disturbo dell'umore.
• Fattori biologici
La ricerca “classica” parlava di ipotesi monoaminica dei disturbi dell'umore o ipotesi delle ammine
piogene (noradrenalina, serotonina), ovvero che la depressione fosse una conseguenza di uno
squilibrio di uno, massimo due neurotrasmettitori. Oggi si tende invece a considerare la
depressione, specie nella sua forma maggiore, quale esito della disregolazione di un ventaglio più
ampio di sostanze cerebrali, tra cui la dopamina, l’acetilcolina, e il GABA.
Queste anomalie possono essere ereditate o determinate da fattori ambientali o da altre condizioni
mediche, quali l’Ictus, l’ipotiroidismo, l’AIDS o l’abuso di sostanze.
Inoltre il ruolo degli ormoni è una delle osservazioni più antiche nello studio della depressione.
Molti studi si sono concentrati sull’iperattività dell’asse cortico-ipotalamico-pituitario-adrenale,
evidenziando un aumento medio del 40% della secrezione di cortisolo nei soggetti depressi. Questi
dati non sono tuttavia specifici della depressione, potendosi riscontrare anomalie simili nei soggetti
con disturbo ossessivo-compulsivo o con altre condizioni mediche.
• Fattori ambientali
Numerose ricerche hanno dimostrato che c'è interazione fra ambiente e fattori genetici. La
depressione in età adulta è strettamente correlata con esperienze di vita negative: la malattia, infatti,
si può innescare dopo alcune fasi importanti della vita, quali un lutto, un licenziamento, un grande
dispiacere ma anche un abbandono della persona amata, una grossa perdita; in generale qualsiasi
cambiamento rilevante può indurre la manifestazione del disturbo in soggetti predisposti alla
malattia stessa. Si è notato, ad esempio, che l'abuso e l'abbandono durante l'infanzia sono fattori di
forte rischio per lo sviluppo dei disturbi dell'umore, proprio perché il forte stress produce influenze
non solo psicologiche, ma anche fisiche e biologiche (in particolare sull'asse ipotalamo-ipofisisurrene)
• Fattori psicologici
Fra questi fattori vi sono ad esempio il tipo di personalità, il coping (cioè l'abilità di fronteggiare le
situazioni stressanti) e il significato stesso che ognuno di noi dà agli eventi stressanti. La
depressione, quindi, non sarebbe pertanto solo favorita o inibita da fattori strettamente
neurobiologici ma anche dovuta a specifiche caratteristiche psicosociali. L’interazione dei vari
fattori, peculiare per ciascun individuo, spiegherebbe perché alcune persone reagiscono con la
depressione e altre no agli stessi eventi stressanti.
Quali sono i sintomi?
La depressione viene definita maggiore se si esprime in uno o più episodi che, per un periodo di
almeno due settimane per episodio, presentano almeno cinque dei sintomi che caratterizzano la
depressione in senso clinico-diagnostico secondo l’American Psychiatric Association, che ha
codificato nel DSM IV (il Manuale internazionale per la classificazione dei disturbi mentali) dei
criteri diagnostici ben precisi.
Cinque (o più ) dei seguenti criteri devono essere contemporaneamente presenti durante un periodo
di 2 settimane e rappresentare un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento;
almeno uno dei sintomi è costituito da 1) umore depresso o 2) perdita di interesse o piacere.
1) Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto
(per esempio si sente triste o vuoto ) o come osservato dagli altri (per esempio appare lamentoso);
2) Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior
parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto o come riportato dagli altri);
3) Significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso (per esempio un
cambiamento superiore al 5 % del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o aumento
dell’appetito quasi ogni giorno;
4) Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno;
5) Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli altri, non
semplicemente sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato);
6) Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno;
7) Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati (che possono essere
deliranti) quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per essere
ammalato)
8) Ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione, quasi ogni giorno (come
impressione soggettiva o osservata dagli altri)
9) Pensieri ricorrenti di morte (non solo per paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza
un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere
suicidio
Quest’ultimo punto, il rischio di suicidio, è uno dei fattori che inquadrano la DM come un disturbo
grave, considerando che il 3,4% delle persone con DM commettono suicidio.
Nei casi più seri, possono presentarsi sintomi tipici delle psicosi, quali allucinazioni e deliri, molto
spesso focalizzati su tematiche di colpa, inadeguatezza, rovina, malattia.
Quali sono i trattamenti?
• Trattamento farmacologico
Agli inizi degli anni ’50 fu descritta una delle principali classi di antidepressivi: gli inibitori delle
monoaminossidasi (IMAO). Questo gruppo di farmaci sono oggi di scarso impiego in terapia o
comunque di seconda scelta a causa dei loro gravi effetti collaterali, quali l’epatotossicità, il rischio
di interazioni ipertensive per l’interazione con alimenti contenenti amine (es. formaggi) e le
numerose interazioni nel caso di trattamento con più farmaci. Tra i farmaci oggi più usati
ricordiamo i triciclici (TCA), il cui meccanismo d’azione consiste nel bloccare il re-uptake
neuronale delle amine piogene (nordadrenalina, serotonina e dopamina) da parte della terminazione
nervosa presinaptica.
Negli ultimi anni si è avuto un grande interesse per la ricerca di nuovi antidepressivi dotati di
un’attività neurochimica più mirata su sintomi depressivi specifici e con minori effetti collaterali di
tipo cardiotossico e anticolinergico, dando luogo agli antidepressivi di nuova generazione. Tra
questi in particolare possiamo distinguere:
- molecole a specifica attività serotoninergica come gli SSRI (inibitori selettivi del re-uptake della
serotonina), tra cui la fluoxetina, la paroxetina, la fluvoxamina, la sertralia, il citalopram.
- molecole con meccanismo d’azione selettivamente noradrenergico, per esempio mianserina,
venlafaxina , o dopaminergico, per esempio amisulpride.
• Trattamenti non farmacologici
E’ opinione comune che l’efficacia dei farmaci utilizzati nella DM viene potenziata
dall’associazione con forme mirate di psicoterapia, la cui efficacia viene comprovata da studi
recenti soprattutto negli effetti a lungo termine e nella prevenzione delle recidive.
Qual è la prognosi?
La Depressione Maggiore è una patologia che si può presentare una sola volta nella vita con un
singolo episodio depressivo. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, essa si presenta con episodi
ricorrenti, a volte separati da lunghi intervalli di tempo (anche anni), e tende a prolungarsi per tutta
la vita del paziente.
La terapia e la presa in carico sono importanti sia per ridurre la durata del singolo episodio e il suo
impatto, sia per prevenire eventuali nuovi episodi o per dilatare il tempo di remissione tra un
episodio e l’altro.
Cosa sta facendo l’AFaR? (A cura della dr.ssa Gabriela Bevacqua)
Il principale campo di ricerca sulla Depressione Maggiore riguarda le metodiche della TMS e della
rTMS per il trattamento dei pazienti farmacoresistenti.
La terapia farmacologica rappresenta la pietra miliare del trattamento antidepressivo. Tuttavia, una
percentuale variabile dal 10 al 20 % dei pazienti non tollera neanche l’intrapresa di un trial iniziale.
Inoltre, dal 25 al 35 % di coloro che completano un trial adeguato di un antidepressivo comprovato
non mostra una risposta accettabile. Le ragioni biologiche della farmacoresistenza nella depressione
e in psichiatria in generale non sono state ben comprese; di recente diversi neurobiologi hanno
spostato il loro campo d’attenzione a livello genetico, al fine di spiegare la variabilità delle risposte
cliniche dei pazienti talvolta ad un medesimo trial farmacologico. La depressione maggiore
farmaco-resistente rappresenta quindi un problema sanitario di notevole rilevanza; ad oggi la
terapia elettroconvulsiva (ECT) rappresenta l’ultima speranza terapeutica per questa fetta di
pazienti, anche se a oggi un campo di applicazione piuttosto limitato. Essa consiste nel provocare
artificialmente nel paziente una crisi epilettica di grande male medicalmente controllata per mezzo
del passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello mediante l’applicazione di due elettrodi alle
tempie. Il risvolto negativo di tutto ciò è la comparsa di possibili effetti collaterali come deficit della
memoria a lungo termine. Inoltre nel 1997 il Consiglio Superiore della Sanità ha diramato una
circolare nella quale, con una decisione molto discussa e criticata, oltre a sostenere che
l’eliminazione di tale pratica dall’armamentario terapeutico non ha giustificazioni etiche, forse per
la prima volta vengono fornite delle precise indicazioni di utilizzo: la depressione grave con rischio
di suicidio o resistente ad altre terapie, la mania grave, alcune forme schizofreniche e la sindrome
maligna da neurolettici (una gravissima, e spesso letale, reazione a questi farmaci). Tutto ciò ha
dato luogo all’esigenza di una alternativa altrettanto valida ma meno invasiva. Di recente tale
alternativa sembra potersi identificare nella metodica di stimolazione magnetica transcranica
(TMS).
Si tratta di una tecnica dove, attraverso un campo magnetico creato da uno stimolatore a forma di
otto o farfalla, s’induce una depolarizzazione cerebrale transitoria. Lo stimolatore è posto sul capo
in modo tale da permettere al campo magnetico di raggiungere la regione del cervello di interesse.
Lo stimolo magnetico si manifesta con un rumore simile ad una serie di clic ed una sensazione di
lieve formicolio sulla pelle del capo. Il campo magnetico generato è molto intenso (dell’ordine di 22.5 Tesla) ma di brevissima durata (meno di 1 millesimo di secondo) ed è in grado di bypassare la
teca cranica, non essendo capace quest’ultima di ridurre l’intensità delle onde magnetiche, a
differenza di quanto accade per le onde elettriche della ECT. Superata la teca cranica, lo stimolatore
può modificare l’eccitabilità dei neuroni della corteccia.
Verso la fine degli anni ’90, è stata introdotta una nuova generazione di stimolatori magnetici
capaci di somministrare treni ritmici di parecchi impulsi per secondo (stimolazione magnetica
transcranica ripetitiva, rTMS ).
Per frequenze inferiori a 1 Hz viene usato il termine rTMS “a bassa frequenza”, mentre per quelle
superiori a 1 Hz si parla di rTMS “ad alta frequenza”. E’stato dimostrato che stimolazioni ad alta e
bassa frequenza hanno effetti distinti sull’attività cerebrale e sul comportamento, come
testimoniato da test neuropsicologici.
La possibilità di indurre cambiamenti a lungo termine nella eccitabilità corticale può spiegare i
risultati positivi ottenuti nei pazienti depressi; questi cambiamenti a lungo termine sono dipendenti
da un certo numero di variabili, come la frequenza di stimolazione, il sito di stimolazione, la
intensità dello stimolo e il numero di applicazioni.
Sebbene il ruolo di alcune di queste variabili sia oggi abbastanza acclarato e condiviso dalla
comunità scientifica (tra queste, la corteccia dorsolaterale prefrontale sinistra, DLPFC, quale sito
d’elezione per la rTMS), altre questioni sono ancora oggetto di dibattito.
In uno studio condotto da Miniussi et al nel 2005 sessanta pazienti depressi farmacoresistenti sono
stati assegnati casualmente a dei cicli di stimolazione a bassa ( <1hz ) o ad alta frequenza ( >5hz ) .
L’area stimolata era la corteccia prefrontale dorsolaterale di sinistra. Venti di questi pazienti hanno
ricevuto solo un trattamento reale, mentre i rimanenti quaranta sia un trattamento reale che un
trattamento placebo (per cinque giorni consecutivi) distanziati tra di loro da un intervallo di due
mesi. Complessivamente i dati mostrano che, sebbene sia rilevabile una generale mitigazione del
quadro depressivo, questo risultato non è strettamente ascrivibile all’effetto reale della stimolazione
dato che il miglioramento ottenuto nelle due condizioni di stimolazione (alta e bassa frequenza) e
nei due tipi di trattamento (reale versus placebo) non è statisticamente differenziabile.
Questa importante ricerca AFaR ha dimostrato che il contributo della rTMS nel trattamento della
depressione è ancora una questione aperta. In particolare, non è ancora abbastanza chiaro se il
miglioramento nella risposta clinica descritto nei pazienti trattati possa essere completamente
attribuibile agli effetti biologici della rTMS, oppure se gli effetti della TMS siano indistinguibili da
un effetto placebo aspecifico.
Per questo motivo, è stata disegnata una nuova sperimentazione con l’obiettivo di ampliare ed
approfondire le conoscenze relative all’utilizzo della Stimolazione Magnetica Transcranica
ripetitiva (rTMS) come terapia non farmacologica nel trattamento del disturbo depressivo farmaco
resistente. Il reclutamento dei pazienti e la somministrazione dei trattamenti si sono appena conclusi
e sta iniziando la fase di analisi dei dati e di interpretazione dei risultati.
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