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Marco Dotti L`industria della depressione. Dialogo con Philippe

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Marco Dotti L`industria della depressione. Dialogo con Philippe
Communitas, n. 4 (2012)
ISSN ON LINE 2280-3645
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Marco Dotti
L'industria della depressione. Dialogo con Philippe Pignarre
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la depressione si
candida a diventare il primo problema sanitario, sopravanzando anche
le malattie cardiovascolari. Il fenomeno appare dunque dilagante,
epidemico. Che cosa è successo? Per Philippe Pignarre, a lungo
responsabile
della
comunicazione
presso
la
casa
farmaceutica
Delagrande, oggi editore e autore dell' Industria della depressione
(Bollati-Boringhieri, Torino 2010), se si vuole comprendere davvero i
motivi di questa epidemia senza agente infettivo occorre partire dai
metodi di cura, più che dalle cause e, soprattutto, da una inversione di
metodo che ha reso cause gli effetti e ridotto le cause a meri incidenti
di percorso.
L’OsMed, l’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali ha rilevato che le dosi giornaliere di
farmaci prescritte in Italia sono passate dalle 58 del 2000 alle 924 del 2009, con un incremento del
60%. Gli antidepressivi a totale carico del sistema sanitario italiano sono invece lievitati del 408%.
Ogni giorno, tre italiani su cento assumono antidepressivi. Siamo diventati tutti depressi?
Philippe Pignarre: La depressione è la «malattia» che si sta diffondendo con più rapidità nel mondo.
Un tempo, alla«depressione» si dava meno importanza. Ma in una società ossessionata dal successo
e dalla riuscita individuale, il rifiuto dei valori collettivi e il disperdersi si ogni legame, la perdita di
energia, la tristezza (tutto ciò che è possibile far rientrare sotto il nome di depressione) hanno
qualcosa di insopportabile. Probabilmente, sotto il termine «depressione» classifichiamo tutta una
serie di difficoltà, di problemi, di dubbi, che prima non eravamo abituati a collegare tra loro,
arbitrariamente o meno. Pensiamo alla «timidezza eccessiva», che alcuni sostengono vada
considerata tra le «turbe mentali»!
È sufficiente guardare “nella testa” delle pesone, se si vuole comprendere il meccanismo che genera
la mondializzazione del disturbo depressivo o bisogna guardare anche “fuori”, nel marketing, nella
comunicazione, nel mercato?
Philippe Pignarre: Si inganna la gente, se le si fa credere che si sia capaci di guardare «dentro la
testa» dei pazienti. La questione è che ogni genere di problemi mentali (la schizofrenia, per esempio)
si possono cogliere solo ascoltando il paziente e la sua famiglia e, dopo l’ascolto, esprimendo una
Communitas, n. 4 (2012)
ISSN ON LINE 2280-3645
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diagnosi. Il problema è che si avanzano ipotesi autonome sul funzionamente delle persone depresse
o schizofreniche. Queste ipotesi vengono elaborate in funzione di ciò che conosciamo dell’azione
delle varie terapie. Quindi è il farmaco, non la persona la pietra angolare del ragionamento medico!
Sappiamo, ad esempio, che gli antidepressivi agiscono sulla seratonina e, quindi, si fa in modo di
elaborare una «ipotesi seratoninergica» della depressione. Sappiamo che i neurolettici usati per il
trattamento della schizofrenia agiscono su una sostanza in circolo nel cervello, la dopamina.
Dunque? Dunque si elabora una teoria in base alla quale si dice che vi sarebbero pazienti con
problemi di seratonina o dopamina. Si inverte il ragionamento scientifico, e quello tra causa e effetto,
con poca scientificità mi pare. Non è certo perché non dormite bene, che il vostro cervello manca di
qualche sostanza naturale e risponde agli stimoli delle benzodiazepine (usate come sonnifero). I
farmaci psicotropi sono buttati sul mercato con la velocità con la quale si formulano ipotesi come
quelle a cui ho fatto cenno. E si spende molto in pubblicità, per divulgare queste ipotesi, conferendo
ai farmaci un’aura di legittimità. Così facendo si rinsalda la fiducia dei medici nella loro capacità
taumatugica. Alcuni ricercatori arrivano ad affermare che gli antidepressivi altro non sarebbero che
placebo. Ma la pubblicità e la fiducia che li circondano aiutano a fare la differenza…
Che differenza passa tra l’impero della “depressione” e quello di tutti gli altri farmaci?
Philippe Pignarre: In molte malattie, si è riusciti a isolare una costante biologica che è diventata
anormale. L’obiettivo della cura è quello di ristabilire la sua normalità. Per fare questo, si dispone di
analisi di laboratorio (prelievi del sangue, ad es.), per permettano di agire indipendentemente da ciò
che pensa il paziente (che può essere malato senza saperlo, e senza mostrare sintomi o segni visibili
a occhio nudo). Questa costante biologica non è per forza di cose la «causa» esatta e ultima della
malattia, ma permette di avvicinarsi ad essa. Permette anche di inventare rimedi biologicamente
fondati. Nel caso della psichiatria, tutto funziona diversamente: è solo in rapporto a segni visibili
senza esami diagnostici di laboratorio che si formulano diagnosi. Le cure sono scoperte un po’ a
caso (e sempre più copiando o migliorando i primi rimedi scoperti a caso), ma non esiste alcun test
biologico che permetta di affermare «questa persona ha la tendenza adiventare depressa o
schizofrenica». Non c’è alcun marcatore biologico, e questo produce una differenza enorme.
I bambini e gli anziani sono tra i soggetti più interessanti, dal punto di vista di questa crescita di
consumo?
Philippe Pignarre: La questione dei ragazzi è complessa. Soltanto gli americani non hanno esitato a
medicalizzare completamente il cosiddetto disturbo dell’attenzione, l’iperattività, proponendo di
prescrivere farmaci in quantità enormi. La tradizione europea è più cauta: preferiamo affidare i
ragazzi agli psicologia, salvo poi nei casi gravi ricorrere – con una certa ragione – ai farmaci. Con gli
anziani, invece, la prudenza viene meno ovunque, anche in Europa. La quantità di medicine
consumate nelle case di riposo è preoccupante. Vengono prescritti neurolettici (normalmente
riservati ai pazienti che soffrono di gravi turbe psichiatriche, come la schizofrenia) a persone anziane
al solo fine di farle calmare e dormire in continuazione. Ma nessuno si preoccupa provoca del fatto,
d’altronde molto noto, che questi farmaci provocano problemi di memoria, di parola, e via
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discorrendo. Meno gente avete da sorvegliare, meno personale avrete da impiegare. Il farmaco
risolve tanti problemi, anche di «welfare» e di bilancio. Ma è un crimine contro gli anziani.
La scuola e gli antidepressivi: che legame c’è?
Philippe Pignarre: Molte istituzioni producono depressione: certe imprese dove si sviluppano tecniche
di gestione del personale che provocano afflizione, per esempio. Quando trasferiamo persone,
quando cerchiamo di farle dimettere «spontaneamente» solo perché si ha timore di licenziarle…
Queste persone provano «depressione» sentendosi perseguitate. Ma non è di antidepressivi che
hanno bisogno, bensì di «cura» di attenzioni più generali… Ma anche nelle famiglie in crisi si sta
sviluppando questa idea che, finito l’amore, uno possa distruggere psicologicamente l’altro… Nella
scuola, se l’accento è posto sulla competitività e la concorrenza in termini «squalificanti» e non
inclusivi, allora gli effetti non saranno molto diversi… Ma che cosa dovremmo dedurne? Che sono
tutti dei depressi? Possiamo farlo, certo, ma non avremo prodotto un solo pensiero critico sui
procedimenti di esclusione fabbricati dalla nostra società. Certo, parlare di «depressione» collettiva
ha i crismi della scientificità, visto il contesto in cui ci troviamo e coloro che volessero avanzare
critiche piuù serrate verrebbero facilmente additati come umanisti fuori tempo massimo e,
soprattutto, fuori moda…
È possibile che l’apparente neutralità delle diagnosi e delle prescrizioni nasconda una più profonda
“crisi di senso”?
Philippe Pignarre: Certamente. Una cosa va detta, sul senso: i tanto vituperati psicologi e psicoanalisti
si interessavano ancora ai «contenuti» dei problemi dei loro pazienti, tenevano in debito conto le loro
storie personali. Ma questo non interessa più i medici prescrittori che cercano al massimo di sapere
se un uomo o una donna, un bambino o un anziano presentano i «segni» della depressione che
hanno imparato – ma come? – a riconoscere. Non solo, gli stessi malati imparano a sapere ciò che
serve ai loro medici e ciò che non interessa loro. Calcolano i loro discorsi, le loro attitudini
sull’orizzonte di attesa del medico. Dopo tutto, pensano, se avere una diagnosi di «depressione»
pemette di avere un periodo di malattia e così scappare da un lavoro che non sopportano più, perché
non stare al gioco? Perché porsi dei dubbi e porli, al tempo stesso, al medico? Non credo che la
psicoanalisi disponga ancora dell’energia necessaria per opporsi a questo terribile inaridimento.
Molti persone, infatti, cercano un senso nelle medicine alternative. Ma vista la situazione, possiamo
dar loro torto?
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