Incisione tratta dall`Opera di m. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di
by user
Comments
Transcript
Incisione tratta dall`Opera di m. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di
Incisione tratta dall’Opera di m. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio quinto, del 1570, ripresa dall’edizione apparsa a Venezia, appresso Alessandro Vecchi, 1598 Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati La cucina degli italiani tradizione e lingua dall’Italia al mondo G F Uno dei caratteri peculiari dell’identità linguistica italiana è dato dal concetto dell’unità nella molteplicità. Unità e molteplicità, e, su un piano diverso, stabilità e mutamento sono categorie attraverso le quali si può cercare di interpretare la realtà italiana, anche quella linguistica, nel suo farsi storico e nel suo comporsi attuale. La stabilità è dovuta al costituirsi precoce di un modello unitario di lingua scritta e letteraria, che trova nell’azione di Pietro Bembo il cardine di un principio normalizzatore fondato sulla lingua dei grandi autori fiorentini del Trecento; il mutamento è dovuto all’azione molteplice delle forze di cambiamento che premono sulla lingua (in senso verticale, i dialetti; in senso orizzontale, l’influsso delle lingue straniere di prestigio, il francese prima, l’inglese poi). Queste relazioni assumono particolare rilievo in un settore primario del lessico qual è quello della lingua della cucina e dell’alimentazione: esperienza fondamentale e quotidiana, che presenta un forte ascendente nelle radici delle singole comunità, una forte aderenza alla vita materiale, e al tempo stesso una marcata proiezione esterna, proprio in quanto fattore identitario. Si può dunque riflettere su come questi caratteri si intreccino nel vivo della realtà materiale, ad esempio con gli scambi fra lingua e dialetti: la dicotomia che opponeva la prima ai secondi, in passato assunta in una sorta di irredimibile polarità e fissità, si è venuta col tempo articolando, e i confini dapprima netti si sono progressivamente sfumati in una gradazione di registri molteplici e variamente connotabili fra lo scritto e il parlato. In secondo luogo, il processo di globalizzazione delle merci e dei cibi, successivo all’affermarsi dell’industrializzazione, ha riflessi non solo a livello di mercato e di tutela dei prodotti locali, ma anche nella circolazione delle parole: così che gli italianismi gastronomici nel mondo sono diventati una componente non trascurabile della diffusione dell’italiano di oggi. LA LINGUA DELLA CUCINA MEDIEVALE: UNA REALTÀ MULTIFORME La cucina medievale non è facilmente circoscrivibile né definibile. A tendenze unitarie, che corrispondono a tecniche comuni e vivande di portata addirittura continentale (uniche almeno nel nome, come il favoloso biancomangiare), fanno riscontro caratteri ed elaborazioni non trascurabilmente marcati in senso locale. Il rapporto fra realtà piccole e realtà grandi (locali e globali, diremmo oggi) è terreno particolarmente sensibile per l’epoca medievale: e questo vale a livello del continente e del singolo paese. Anche di recente è stato sottolineato, nella prospettiva della storia della cucina, come la realtà italiana sia dominata fin dal Medioevo dalle città, con il contado a cui sono intimamente legate: la città è luogo di scambio, di mercato, di consumo, le sue porte si aprono ogni mattino per accogliere i contadini, i mercanti, che portano i prodotti della campagna circostante da cui essa trae alimento. Tutta una tradizione storico-artistica non meno che letteraria ci parla di questo rapporto stretto e diuturno fra la realtà urbana e il suo territorio. Si determina poi fra le varie città una circolazione di prodotti, di tecniche, di tradizioni alimentari, che crea una situazione di condivisione, una rete di conoscenze, diremmo oggi; e reciprocamente, anche elementi generalmente conosciuti, di larga condivisione, possono essere localmente declinati secondo usi, consuetudini, tradizioni proprie: è questo il caso, ad esempio, delle torte, salate e ripiene, un elemento fondamentale della cucina medievale che passerà poi a quella rinascimentale, e che vengono caratterizzate in senso locale secondo un principio di inesauribile varietà. Non meno complesso è il problema delle fonti per lo studio della cucina medievale. La codificazione scritta della pratica culinaria, che avviene nell’Europa occidentale, pressoché contemporaneamente nella parte latina e germanica, fra Due e Trecento (Bruno Laurioux ha parlato di una riapparizione, dopo l’oblio altomedievale in cui nemmeno si copiano più i testi classici), produce una messe consistente di testimonianze latine e soprattutto volgari, più o meno organiche, a lungo anonime (il primo “autore” che compare è Maestro Martino intorno alla metà del Quattrocento), dalla testualità aperta a scambi e interferenze, che ci restituiscono le tracce di una cucina alta, nobile o borghese, certo non popolare. Studi specifici negli ultimi venti anni, condotti da storici francesi (Jean Louis Flandrin, Odile Redon, Bruno Laurioux già ricordato, Allen J. Grieco) e studiosi italiani (Lucia Bertolini, Sergio Lubello, Anna Martellotti) ne hanno ridisegnato il panorama e la valenza testuale, le vicende di trasmissione, la connotazione linguistica. Possediamo ora un censimento capillare dei libri di cucina italiani ante 1500, dal quale sembrano emergere due tradizioni principali: una di area meridionale, costituitasi alla corte di Federico II secondo la tesi di Anna Martellotti, fondata sul Liber de coquina (in latino) e poi estesa altrove, e dunque legata all’ambiente delle corti aristocratiche; e una di area toscana, probabilmente di origine senese, la cosiddetta tradizione dei dodici ghiotti, che si muove nell’ambiente dell’alta borghesia. Con autori diversificati, secondo tipologie di intervento differenziate, questi ricettari “capostipiti” sono stati copiati, adattati e modificati in diverse zone d’Italia; linguisticamente, testi differenti accostano a un latino profondamente intessuto di volgarismi nel lessico e nell’andamento sintattico il volgare nelle sue varietà locali. Un esempio importante è costituito dal ricettario conservato nel codice 1071 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, a quanto pare il più antico dei manoscritti in volgare italiano che ci sono pervenuti, che una particolarissima filigrana permette di collocare intorno agli anni 1338-1339. Il ricettario, che appartiene alla seconda tradizione, di area toscana, è alle cc. 40-67 del codice. Dal ms. Riccardiano 1071, pubblicato per la prima volta nel 1890 da Salomone Morpurgo (unico testo di cucina presente al momento nella banca-dati del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, su cui si va costituendo il vocabolario storico dell’italiano antico), si estrae la ricetta del blasmangiere di pesce: Se vuoli fare blasmangiere di pesce | p(er) xij p(er)sone togli tre libr(e) di mandor[le] | e togli meça libr(a) di çucchero e meço quarr[o] | di garofani e due once di pignocchi mond[i] | (e) una libra di riso e togli due peççi di lucc[io]| grosso (e) una peça di tincha e togli le m[an]-|dorle bene monde e bene lavate e bene | macinate et ste(m)p(er)ate con acqua chiara bene | spessa (e) bene colata e togli il riso bene | netto (e) bene lavato co(n) acqua calda (e) bene | rasciutto co(n) tovagla e bene pesto allo spe-|tiale (e) bene stacciato e togli il pesce che | tu ài bene lesso (e) bene colato (e) fallo fre-|dare e sfilare il più sottile che tu puoi a guisa || di polpa /di pollo/ e togli il lacte delle mandorle che ttu | ài le tre parti. Metti a fuoco i(n) vasello netto | e quando è levato il bollore ste(m)pera la farina | del riso che tu ài co(n) latte crudo che è rimaso | e fallo cuocere dalla lungia i(n) sulla brascia (e) me-|stalo spesso. E quando è presso che cotto, mettivi | dentro le polpe del pesce (e) qua(n)tità di çucchero | e trai indietro p(er) minestrare (e) poni spetie | sopra scodella (e) çucchero e garofani i(n)teri e | pignocchi mondi. Questa vivanda vuol esere | bianca qua(n)to puoi il più e dolce. Se vuoli fare | p(er) più p(er)sone o p(er) meno, a q(ue)sta medesima ragione. Banchetto in una miniatura della Bibbia di Borso d’Este, 1455-1461 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, manoscritto Lat. 422 = V.G.12, c. 223r Si può osservare come nell’organizzazione testuale le ricette del Riccardiano 1071 mostrino già una struttura definita, scandita secondo un modulo costante, che apre ogni ricetta con l’ipotetica Se vuoli fare seguita dal nome della preparazione, e si articola con una serie di imperativi di seconda persona singolare (verbi direttivi): togli… e togli… e metti…, che costituiscono l’innervatura del testo prescrittivo, scandendo le varie sequenze del lavoro. Il testo appare organicamente costituito, anche per l’indicazione precisa degli ingredienti e la minuziosa descrizione delle fasi di preparazione. Si tratta di una struttura assolutamente funzionale alla finalità comunicativa, che sarà costantemente presente nella storia di questo genere testuale fino al libro di Artusi, che dispiegherà attente e appropriate strategie linguistiche. Il Riccardiano 1071 permette però anche un’altra osservazione, che assume particolare rilievo perché indicativa di una tendenza di lunga durata che accompagnerà gran parte della storia della lingua alimentare in Italia. Pur essendo scritto in fiorentino, infatti, questo ricettario mostra a livello lessicale una marcata connotazione francesizzante, unita a una rilevante presenza di settentrionalismi: la lingua della cucina manifesta fin dalle origini un debito non trascurabile verso la lingua d’oltralpe. Sono francesismi blasmangiere, adattamento molto conservativo di blanc manger, e cialdello (a cialdello ‘preparazione per carne o pesce, probabilmente una zuppa calda’), brodetto ‘intingolo’ e morsello ‘boccone’, ‘pezzetto’; settentrionalismi (poi divenuti di uso generale) raviuolo e vernaccia ‘vino bianco originario delle Cinque Terre’ (dal toponimo Vernaccia / Vernazza). Non sono però soltanto i ricettari in senso stretto che forniscono notizie sul lessico della cucina; spesso anche altre fonti documentarie, di cui Firenze e la Toscana sono così ricche per i secoli del Medioevo, possono darci testimonianze preziose, quando sulle carte ci sia spazio per la vita quotidiana e l’alimentazione. Cito qualche esempio che mi pare particolarmente significativo, in quanto permette di cogliere nella loro antica esistenza parole che potremmo considerare (o che sono state considerate) più moderne o recenti: nel Libro della Mensa dei Priori di Firenze (ms. Laurenziano Ashburnham 1216), che accoglie registrazioni del periodo 1° maggio 1344-30 aprile 1345 relative alla vita quotidiana dei priori fiorentini nel Palazzo di Arnolfo, troviamo parole come cialda e cialdone (quest’ultimo ‘grossa cialda, avvolta a cannello, che viene farcita’, dal francese chalde), pappardelle ‘tipo di pasta’, cacio parmigiano e anche parmigiano sost., pane impepato, fin da allora legato alla festività del Natale. Assolutamente emblematico è poi il caso di àrista ‘schiena e lombo del maiale’, che, ben prima della datazione quattrocentesca vulgata, è parola e cibo ben noto a Firenze fino dall’ultimo quarto del Duecento, come testimoniato dal Registro di Entrata e Uscita del convento di Santa Maria di Cafaggio (oggi Santissima Annunziata) relativo agli anni 1287 e Opera di m. Bartolomeo Scappi, Venezia, 1598: ritratto dell’autore e tavola con utensili da cucina Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati 1288: è dunque una parola degli anni della giovinezza di Dante, non del Concilio del 1439. Lo stesso Registro offre anche gli esempi più antichi finora noti di mostarda ‘salsa a base di senape e aceto’ (francese mo(u)starde), e di vermicelli ‘tipo di pasta filiforme’, antesignani dei più moderni spaghetti e anche oggi ben presenti nei cataloghi dei pastifici (con molte germinazioni: mezzi vermicelli, vermicellini, vermicelloni). I TRATTATI DEL RINASCIMENTO La letteratura culinaria di età rinascimentale si muove in una prospettiva interregionale, talora assai attenta a un confronto e a una sintesi equilibrata delle varie tradizioni locali: così nell’Opera di Bartolomeo Scappi (Venezia 1570), cuoco del papa, che appare centrata su tre città principali, Milano, Roma e Napoli. Non esiste per la cucina d’Italia un modello centrale: esiste l’incontro di tradizioni diverse in un medesimo circuito di scambi. Non dunque l’unitarietà, ma il confronto, lo scambio di esperienze diverse, che riflette la frammentazione geo-politica della Penisola, e accompagna come tratto costante la sua storia. L’orizzonte a cui guarda Scappi è “italiano”, ma in quanto nasce dal confrontarsi e dal convergere di tradizioni distinte: esso si fonda perciò sull’esistenza di elementi comuni, sulla riconoscibilità complessiva di certe strutture, di determinate pratiche, sulla circolazione di esperienze e conoscenze, su un’identità culturale complessivamente forte. Parallelamente, non esiste – e non sarebbe esistita fino a Artusi – una lingua italiana comune, unitaria della gastronomia, e non esiste (né c’è tuttora) una lingua codificata della cucina in Italia. Nella sua prospettiva policentrica, Scappi è molto attento ai geosinonimi: rilevando ad esempio come il pesce spigolo «in diversi lochi è chiamato con diversi nomi, chiamandosi in Venezia varoli, e in Genova lupi, in Roma spigoli, in Pisa e in Fiorenza ragni» (Opera, c. 112), ci dà una testimonianza viva di come la dimensione pluriregionale della tradizione italiana produca una grande ricchezza linguistica. Alla metà del secolo viene pubblicata l’opera di Cristoforo Mes- Frontespizio dell’opera di Cristoforo Messi Sbugo, pubblicata a Ferrara nel 1549 Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati si Sbugo, Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale (Ferrara 1549), per padronanza tecnica, capacità e originalità nell’organizzazione della materia, alta specificità terminologica uno dei testi fondamentali del Cinquecento, riferimento e modello per gli autori successivi, opera d’arte esso stesso. Il testo di cucina si codifica nelle forme del trattato rinascimentale, così che la data del 1549 si può considerare in limine come la data di nascita di un vero genere letterario. La percezione interregionale è già viva nel Messi Sbugo, per quanto il gentiluomo architriclinus estense si mo- stri più centrato sulla tradizione padana. E questa tensione è ben rappresentata anche a livello linguistico, come ha rilevato lo studio di Maria Catricalà: sul fondo di un non trascurabile influsso del latino, si nota infatti da un lato l’adeguamento al modello toscano, richiesto e favorito dalla diffusione a stampa dell’opera (presente in varia misura, maggiore nel dittongamento [dieci, buono], minore nell’anafonesi [che manca in forme come tencha ‘tinca’, stamegna ‘stamigna’]); dall’altro la sopravvivenza di elementi dialettali di portata non strettamente locale, ma di lunga tradizione “regionale” (ad esempio il trattamento incerto delle vocali finali [Esti ‘Este’, tone ‘tonno’], l’irregolarità delle consonanti doppie, l’assibilazione delle consonanti palatali [zaldoni ‘cialdoni’, beccazza ‘beccaccia’], e vari altri fenomeni morfologici). Si possono poi notare, di particolare interesse nella prospettiva della lunga durata temporale, il largo impiego della suffissazione (specie in -ata, come in perata ‘conserva di pere’); la tendenza all’ellissi (frittelle di vento ‘frittelle piene di vento’), nonché il tipo alla + aggettivo, del genere di alla turchesca, un modulo sintattico destinato a larga e duratura fortuna (ancora nella Scienza in cucina di Artusi circa il 15% delle ricette ha un’intitolazione di questo tipo); per il lessico, tra le prime attestazioni si trovano crescentine ‘sfogliatine dolci’, sfogliata ‘pasta sottile riavvolta’, torrone, e anche truffoli ‘struffoli’ (oggi termine tipico del Meridione), ed è di rilievo infine la presenza, certo non esasperata, dei forestierismi (francesismi e spagnolismi, da fracassea a mantighiglia ‘panetto di burro’). Nel corso del Seicento tramonta il tipo di coinè che si era diffusa nel secolo precedente, e tende a farsi largo una marcata componente regionale, locale ed extralocale (ben rilevata in studi come quello di Petrolini sui ricettari farnesiani), che continuerà anche nell’epoca successiva. Ma nel Settecento intervengono a promuovere il cambiamento alcuni fattori che scompigliano la situazione con i caratteri propri di una vera rivoluzione, che scardina le abitudini degli europei, e di conseguenza la trattatistica gastronomica e l’«italiano culinario». IL SETTECENTO E LA GRANDE CUISINE: FRANCESE E ITALIANO IN CUCINA Un profondo rivolgimento alimentare si verificò nell’Europa occidentale e prima di tutto in Francia nel corso del XVIII secolo, con la rottura definitiva dei codici culinari di ancien régime e della nozione stessa di gusto. Il nuovo abito gastronomico prevedeva la sostituzione delle salse grasse alle salse acide, la diminuzione considerevole dell’impiego delle spezie, la valorizzazione dei sapori naturali, la sempre più netta separazione dell’agro e del dolce, che erano stati tradizionalmente mescolati. In Italia lo spartiacque tra la vecchia produzione trattatistica e la nuova è costituito dal Cuoco piemontese perfezionato a Parigi, edito a Torino nel 1766 sul modello della Cuisinière bourgeoise di Menon (Paris 1746) e ristampato per quasi un secolo in oltre venti edizioni. Ma tutti i ricettari pre-artusiani del secondo Settecento e di buona parte dell’Ottocento sono debitori, con la loro cifra espressiva profondamente «infranciosata», della cucina e della lingua d’oltralpe. Certamente, questa tendenza sarà arginata ed emendata da Artusi, ma penetrerà profondamente nel linguaggio culinario italiano, tanto da lasciarvi un segno stabile, che anzi è riemerso nel corso del Novecento e ai giorni nostri. Al di là dei termini francesi conservati nel Cuoco piemontese (entrée, hors d’oeuvre, escalope, fricandeau, court-bouillon, bechamel, soufflets, petit choux, mignones, gateau, meringues) e degli adattamenti di forte impatto (come in papigliot(t)e per en papillote ‘al cartoccio’, talora favoriti e mediati dalla contiguità del piemontese col francese, come per giambone ‘prosciutto’), che, mescolati all’italiano letterario e alla componente dialettale, producono impasti linguistici assai indigesti, a misurare fino in fondo il «processo di gallicizzazione» della terminologia culinaria può essere utile il maggior trattato della fine del Settecento: l’Apicio moderno, opera originale di Francesco Leonardi, cuoco di esperienza internazionale già al servizio della grande Caterina di Russia e di autorevoli personaggi francesi. L’Apicio moderno (ora finalmente studiato – col suo autore – da Anna Colia), pubblicato in prima edizione nel 1790 e in seconda, accresciuta e rivista, nel 1807-1808, è un trattato imponente, articolato in sei tomi e in un settimo dedicato all’Arte del Credenziere; la sua lingua si fonda su un criterio così enunciato dall’autore: Rapporto però a nomi de’ Piatti, Zuppe, Salse, o altro si rende impossibile di cambiarli, dovendosegli dare quello che portano seco dalla loro origine sia Italiano, Francese, o d’altra Nazione. Lo stesso ho creduto di fare dell’ortografia Francese, servendomi soltanto dei nomi tradotti in pronunzia Italiana, e ciò per maggiore intelligenza di quelli, che non sanno quell’idioma, onde non recherà meraviglia di trovare detti nomi come si pronunziano, e non come si scrivono (Tomo Primo). La corrispondenza fra la cosa e la parola che la esprime, la necessaria fedeltà alle denominazioni originali comportano dunque uno sforzo linguistico per trascrivere foneticamente il termine straniero secondo la grafia italiana. È dunque la densità impressionante degli adattamenti dal francese a dare il tono a questa prosa: Antrè, Orduvre, Antremè; Consomè, Besciamella, Salsa alla Ravigotta, Salsa Ascè (da haché ‘trito’), Escaloppe (alla Barrì, alla Riscelieù, alla Montespà), Cotelette, Ragù, Farsa, Sciarlotta di Mela, Bigné, Sufflé, Torta alla Sciantiglì, Piccioli Gattò, Fondù, Vol-o-Vant: tutta la cucina ne risulta segnata, anche i piatti più legati alle tradizioni regionali, così che il Pasticcio di Lasagne e il Timballo di Maccaroni sono classificati come Antrè, le Flappe, le Zeppole e gli Struscioli (‘struffoli’) come Antremè. Il modello francese fornisce la terminologia tecnica spendibile a livello internazionale, e si tratta di una lingua davvero “speciale”, di non facile apprendimento, tanto che l’autore sente la necessità di includere nel Tomo Sesto una Spiegazione Generale De’ Termini Francesi, e una lista Di alcuni Termini Francesi, ed Italiani usitati nella Cucina in testa al Tomo Primo, da cui si ricavano i pochi esempi indicativi citati qui sotto. In queste liste si mescolano senza ritegno preponderanti termini francesi e termini italiani, a dare anche visivamente l’idea dell’ibridismo linguistico che marca l’esperienza culinaria settecentesca in Italia. (Tomo Primo) Gratinare, gratinato, gratinata sul fuoco, significa attaccare, rosolare, rosolato, abbrustolire, far divenire rosso. Liason nome, che significa rossi d’uova stemperate con acqua, o brodo, o latte, o fiore di latte per brodettare, e legare qualunque Zuppa, Salsa o altra Vivanda. Antrè, Orduvre, Antremè, e diversi altri nomi Francesi servono per l’ordine, e la distribuzione delle vivande. (Tomo Sesto) Consomè, vuol dire Brodo consumato. Aspic, significa Brodo chiarificato, o da gelare, o naturale, e rilevato di gusto. Farsa, significa Carne qualunque, Pesce qualunque, Erba qualunque, pesta, o passata al setaccio. Fricassè, specie di vivanda di Polleria brodettata. Escaloppe, significa fettine fine di qualunque sorta di Carne cruda. Cotelette, sono Costolette, ossiano Braciole. Imbianchire, all’acqua bollente, significa prolessare, o allessare qualunque cosa. Vol o vant, vuol dire Pasticcio, Torta, o Pasticcietto cotto vuoto, e poi ripieno. Metto questa terminologia a confronto con un campione rappresentativo della lista che Pellegrino Artusi inserisce all’inizio della Scienza in cucina fin dalla prima edizione (pp. ix-xi), per mostrare subito la differenza di prospettiva concettuale e linguistica, e l’importanza della svolta che il Manuale di Artusi rappresenta. La lista si intitola Spiegazione di voci che, essendo del volgare toscano, non tutti intenderebbero, anche se in realtà non tutti i termini sarebbero oggi etichettabili come “toscanismi”, e contiene in sostanza parole sentite come interessanti, parole nuove, e così via. Ma basta l’esistenza stessa di questo elenco artusiano a marcare la novità. Carnesecca. Pancetta del maiale salata. Costoletta. Braciuola colla costola, di vitella di latte, d’agnello, di castrato e simili. Cotoletta. Parola francese di uso comune per indicare un pezzo di carne magra, ordinariamente di vitella di latte, non più grande della palma di una mano, battuta e stiacciata, panata e dorata. Fagiuoli sgranati. Fagiuoli quasi giunti a maturazione e levati freschi dal baccello. Frattagliaio. Venditore di frattaglie. Frattaglie. Tutte le interiora e le cose minute dell’animale macellato. Lardatoio. Arnese di cucina per lo più di ottone in forma di grosso punteruolo per steccare la carne con lardone o presciutto. Odori o mazzetto guarnito. Erbaggi odorosi come carota, sedano, prezzemolo, bassilico, ecc. Il mazzetto si lega con un filo. Staccio. Lo staccio da passar sughi o carne pestata è di crino nero doppio e molto più rado degli stacci comuni. Se Francesco Leonardi è un grande cuoco, quello che oggi forse definiremmo uno chef pluristellato, in altri autori di opere gastronomiche, di minori possibilità e più limitato orizzonte, il gergo francesizzante si unisce a una più spiccata presenza di termini dialettali; si legga la ricetta seguente, tratta dal Nuovo cuoco milanese economico di Giovanni Felice Luraschi (prima edizione: 1829, poi ristampato più volte): Lacetto alle cassettine di carta. Imbianchite il lacetto [laccètt milanese ‘animella’] in tre acque che dalla fredda giunga sino alla calda, levate la sua pellesina, mettetela a cuocere alla brasura [condimento di base], tagliate minutamente poco triffole [‘tartufi’], o funghi o spognuole, e poca coradella allessata, formate di tutto questo un ragottino [ragottìn milanese ‘intingoletto, ragù’] con buona sostanza, e ben condito di sale, pepe, noce moscata, e basciamela, legate il ragottino con due rossi d’uova, mon- tate il chiaro, con tutto questo empite le cassettine di carta [...], fatele cuocere in una tortiera un[t]a di butirro e servitele (p. 32). Una lingua dunque fortemente involuta, una terribile e confusa ricetta, che non raccomanderei a nessuno di provare. Serianni ha di recente sottolineato il carattere assolutamente artificioso di questo genere di linguaggio, che mostra un clamoroso scollamento dallo stesso italiano scritto dell’epoca. Autori di questo tipo sono capaci di scrivere frasi come: «prontate una falsa di pivioni» (ossia ‘preparate una farcia di piccioni’), mescolando senza ritegno termini dialettali e stranieri. LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE DI PELLEGRINO ARTUSI: UNA RIVOLUZIONE DI PENNA E DI PENTOLE Per contrasto con le ricette che finora abbiamo letto, proviamo a mettere a confronto le due che seguono: Biscotti da famiglia. Fate una buca nel monte della farina, poneteci gl’ingredienti suddetti [burro, zucchero, vaniglia ecc.] meno il latte, del quale vi servirete per intridere questa pasta, che deve riuscir morbida e deve essere dimenata molto onde si affini; poi tiratene una sfoglia grossa uno scudo, spolverizzandola di farina, se occorre, e per ultimo passateci sopra il mattarello rigato, oppure servitevi della grattugia o di una forchetta per farle qualche ornamento... Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie, Firenze, Salvatore Landi, 1891, p. 81 Biscotti di Natale speziati. Setacciate la farina con il lievito in una ciotola ampia e miscelatela con lo zucchero e la farina di mandorle. […] Fate una fossetta al centro, mettetevi le uova sbattute e il burro a pezzettini e lavorate prima un po’ con la forchetta e poi con le mani senza tuttavia impastare troppo. Formate una palla e mettetela sulla spianatoia infarinata. Stendetela con il mattarello a uno spessore di circa mezzo cm e ritagliatela con gli appositi stampini a soggetto natalizio (rimpastate i ritagli)... Fatta eccezione per qualche parola, tutto ci appare comprensibile e chiaro anche nel primo testo (che proviene dal Manuale di Artusi), e straordinariamente simile a ciò che leggiamo nel secondo (che è estratto da una rivista di cucina degli anni nostri). Dunque, un grande cambiamento a un certo punto avviene nella pratica e nella lingua della cucina italiana; e il merito di questo rivolgimento, che fonda una gastronomia moderna e le dà una voce Alcune edizioni e traduzioni dell’opera di Pellegrino Artusi; in senso orario: La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Firenze, Bemporad, 1910; Science in the kitchen and the art of eating well, New York, Marsilio, 1997; Der Grosse Artusi: die Klassische Italienische Küche, München, Mary Ann, 1982; La ciencia en la cocina y el arte de comer bien, Martorano di Cesena, Arci solidarietà cesenate, 2004; Exciting food for southern types, London, Penguin books, 2011; Science in the Kitchen and the Art of Eating Well, Toronto, University of Toronto Press, 2003. chiara e limpida, spetta a Pellegrino Artusi. Nel 1891, Artusi, romagnolo di nascita, ma fiorentino di adozione e di elezione, nel suo elegante appartamento del centro della città dove viveva con due domestici e due gatti (ai primi lasciò i diritti del libro; ai secondi dedicò la prima edizione), realizzò quella vera e propria impresa culinaria e editoriale che fu l’ideazione, la stesura e la diffusione della Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. La prima edizione uscì con 475 ricette; il successo, insperato e imprevisto, che ne conseguì, determinò un progressivo e inarrestabile lavoro di arricchimento, che portò l’ultima edizione curata dall’autore e uscita quando era ancora in vita, la quattordicesima (1910), a contenere 790 articoli (e in Appendice La cucina per gli stomachi deboli). Completato dal ritratto autorevole e paterno dello scrittore, quel libro, sempre indicato col suo nome, l’Artusi, divenne familiare a generazioni di italiani e soprattutto di italiane, fu una presenza preziosa e amica, spesso una delle poche letture domestiche. Superate le difficoltà iniziali per trovare uno stampatore, quel libro si avviò a diventare uno dei pochi e veri best-sellers e long-sellers dell’editoria italiana, straordinario esempio di opera dinamica e aperta, che cresce come raccolta comunitaria e condivisa, non solo con i due domestici, ma anche col pubblico che, per posta, attivamente partecipa, suggerisce, critica, accompagna il libro con la pratica e l’affetto. La possibilità di un contatto diretto con l’autore conferì al libro un tratto notevole di compartecipazione e quasi di co-autorialità, realizzando modalità di condivisione certamente non ovvie e non scontate (che richiamano alla memoria – non casualmente – la partecipazione dei lettori alla sorte di Pinocchio durante la pubblicazione a puntate dell’opera). Negli anni precedenti la pubblicazione della Scienza, Artusi si era fatto le ossa sulla lingua, leggendo, studiando le opere di grammatica e i vocabolari, scrivendo di letteratura (aveva composto una Vita di Ugo Foscolo e le Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti che l’editore Barbèra aveva stampato fra il 1878 e il 1881): curioso e attento, partecipe della vita culturale fiorentina, era – al di là delle sue stesse aspettative – pronto a scrivere un libro che dalla sua casa sarebbe entrato nelle case degli italiani, finendo nelle mani delle italiane, sui tavoli di cucina e sui tavolini di lettura. Quel libro era stato ideato, provato, scritto fra la studio e la cucina, la penna e le pentole: così racconta il lavoro di Artusi la fidata domestica e collaboratrice Marietta Sabatini: l’unico suo divertimento era lo scrivere. Il libro lo cominciò quasi per ischerzo. Poi vide che gli veniva bene e vi si appassionò. A poco a poco venne ad avere una corrispondenza con persone d’ogni ceto e d’ogni parte d’Italia. Scriveva sempre. Si alzava la mattina alle otto e si metteva a tavolino fino all’ora del pranzo. Poi riprendeva a scrivere per qualche ora. Ed era un continuo alternarsi fra lo studio e la cucina, la penna e le pentole. Si provavano le ricette, tutte, una ad una (da una intervista a «La Cucina Italiana» del 15 febbraio 1932, raccolta da Rina Simonetta). Il ricettario di Artusi fonda il codice alimentare e culinario della nascente Italia borghese: basato sulle tradizioni romagnolo-bolognese e toscano-fiorentina, individua il nucleo essenziale della cucina della nazione appena unita, facendo appello alla conoscenza diretta piuttosto che alla letteratura precedente. La rete ferroviaria permette a Artusi di conoscere le località d’Italia e al tempo stesso disegna il perimetro della sua Penisola gastronomica, da Torino alla Lombardia a Trieste, verso sud fino a Roma ma non oltre Napoli; la rete postale – di una efficienza che forse oggi, sbagliando, esiteremmo a sospettare – permette la comunicazione delle ricette e lo scambio delle esperienze, fa sì che la Scienza acquisti progressivamente il carattere di opera collettiva, frutto di una rete di conoscenze sempre più diffuse. E questo nonostante la fortissima personalità dell’autore, che rimane il nodo centripeto di un’esperienza e di una pratica che riunisce in sé forze tendenzialmente centrifughe e le catalizza nella moderna cucina di Piazza D’Azeglio, affidandole alle mani capaci di Francesco Ruffilli e di Marietta Sabatini. La cucina di Artusi è una cucina biografica, centrata sull’asse Romagna-Toscana; è una cucina di casa e di trat- Illustrazioni di Enrico Mazzanti per Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, Firenze, Paggi, 1883 e di Arnaldo Ferraguti per Cuore di Edmondo De Amicis, Milano, Treves, 1892 toria; è una cucina di mercato e di approvvigionamento diretto di materie prime di alta qualità; è una cucina realizzata con spirito di economicità, attenta al calcolo dei costi; è una cucina di invenzione propria e altrui, provata e riprovata, non di derivazione dai ricettari precedenti; e con essa si misurerà, più o meno rispettosamente, tutta la produzione successiva. Ma non è solo nei contenuti il grande merito di Artusi: all’individuazione di una cucina moderna ed equilibrata, agli ingredienti semplici, alle attrezzature accessibili, ai procedimenti sorvegliati e lineari, alla garanzia di un’infallibile riuscita (così che ancora oggi si può dire che le ricette di Artusi «vengono sempre bene») corrisponde un linguaggio nuovo, che rompe con una tradizione bisecolare e ottiene il grande risultato di uniformare, chiarificare, razionalizzare il lessico della cucina, dando le fondamenta della lingua culinaria moderna. A questo Artusi pervenne compiendo una scelta precisa, ossia individuando – lui non toscano – nel toscano e più precisamente nel fiorentino il modello linguistico da seguire: la lingua di Firenze è adottata nella freschezza del suo «tono medio», nella ricchezza e vitalità della tradizione parlata che si affianca al prestigio e al peso della tradizione scritta, letteraria e illustre, amorosamente e fedelmente indagata e conosciuta. Così la Scienza in cucina può porsi, con Pinocchio e con Cuore, fra i libri che hanno contribuito alla delineazione di un italiano nazionale dell’uso non solo scritto, ma anche parlato: nel solco di Manzoni, nel riconoscimento del primato culturale di Firenze, sempre con equilibrio, misura e amabilità. Così il gentiluomo-gastronomo – non letterato, non cuoco di professione, ma attento studioso di lettere e di lingua, paziente sperimentatore e attento economo – da una casa fiorentina ha conquistato le case degli italiani: dalla sua biblioteca e dalla sua cucina contribuendo non poco a creare un elemento fortemente identitario e così profondamente calato nella realtà quotidiana da incidere sugli usi familiari, caratterizzare le tradizioni da una generazione all’altra, rimanere nella memoria. Davanti a Artusi le finestre di Piazza D’Azeglio, da cui entravano le voci vive di Firenze; le logge dei vicini mercati, dove si acquistavano i prodotti e si imparava la lingua degli artigiani e del popolo; alle sue spalle, la biblioteca, e dunque la sua officina in primis linguistica, ricca di centinaia di volumi, sistemati ovunque ci fosse spazio in quelle nove stanze ben arredate. La biblioteca non è ricostruibile che indirettamente e parzialmente, per le varie traversie che il fondo, legato alla città natale, ha subìto nel corso del tempo; ma attraverso la documentazione superstite, sappiamo che ospitava le opere della tradizione classica italiana, dalle Origini all’Ottocento; la letteratura toscana e fiorentina, specie quella di più viva matrice teatrale e popolareggiante, vera miniera linguistica così tanto amata; le opere di lingua e i dizionari, intesi sia alla conoscenza della tradizione e a un uso rigoroso e corretto, sia all’apertura verso i neologismi, i linguaggi settoriali, l’uso contemporaneo di Firenze (e fra questi, principalissimo per la quotidiana correzione del libro, il Vocabolario Italiano della lingua parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani, pubblicato da Barbèra). Dal confronto con le opere di lingua e di letteratura, con i dizionari italiani e bilingui, la genesi stessa dell’opera più conosciuta di Artusi è risultata non isolata e casuale, ma frutto di un coerente impegno, dotata di un retroterra di studi di portata non trascurabile, accumulati per anni da un lettore attentissimo, metodico e scrupoloso, che leggendo meditava linguisticamente, tenendo il lapis in una mano e il dizionario sotto l’altra; fu l’argomento della Scienza e il tono che l’autore seppe conferirle a farne la fortuna, ma l’attrezzatura della lingua e della scrittura si era già da tempo venuta definendo. Quanto grande sia la portata di questa operazione culturale risulterà chiaro se si osserverà che a fronte della tradizione gastronomica e dei libri di ricette, Artusi si trovava a operare in un contesto linguistico altamente compromesso: la concomitanza di diversi elementi (la frammentazione dialettale, la caratterizzazione fortemente letteraria del modello di lingua scritta, la mancanza o forse meglio la forte limitatezza di una lingua unitaria dell’uso parlato, la pressione del francese) aveva determinato una situazione di vischiosità e di resistenza, che rendeva particolarmente difficile un qualunque intervento teso a modernizzare la lingua, a semplificare e uniformare la terminologia. Tanto più notevole appare dunque il tentativo di Artusi, vero Manzoni della lingua gastronomica italiana (come lo ha definito Luca Serianni), non toscano, non fiorentino, largamente autodidatta, che basandosi sullo studio, sulla naturale immersione nel contesto cittadino e anche, possiamo supporre, giovandosi della consulenza domestica e immediata di Marietta, una piccola Emilia Luti (la governante “linguistica” di Manzoni), ha realizzato un’operazione indubbiamente ardua e meritoria, che si configura come una vera e propria rivoluzione nell’espressione e nella terminologia. Le linee fondamentali della “politica linguistica” di Artusi sono esposte con chiarezza dall’autore stesso: la difesa della lingua italiana contro la tradizionale nomenclatura francesizzante emerge da passaggi come questo: Certi cuochi, per darsi aria, strapazzano il frasario dei nostri poco benevoli vicini con nomi che rimbombano e non dicono nulla, quindi, secondo loro, questa che sto descrivendo, avrei dovuto chiamarla zuppa mitonnée. […] Ma io, per la dignità di noi stessi, sforzandomi a tutto potere di usare la nostra bella ed armoniosa lingua paesana, mi è piaciuto di chiamarla col suo nome semplice e naturale (ricetta 38, Zuppa sul sugo di carne); e altrettanto netta è la consapevolezza della necessità di portare ordine e chiarezza nella congerie delle denominazioni locali, talora quasi non razionalizzabili; celebre la discussione sulla geosinonimia di cacciucco (parola di origine turca, che vale ‘minutaglia’), dell’area tirrenica, e di brodetto, dell’area adriatica: La confusione di questi [cacciucco, brodetto] e simili termini fra provincia e provincia, in Italia, è tale che poco manca a formare una seconda Babele. Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti (ricetta 455, Cacciucco I). Pellegrino Artusi (1820-1911) Tutte le scelte di lingua appaiono dominate dal buon senso e dal buon gusto, senza eccessi e senza estremismi, e senza pretese di artificiose e forzate uniformazioni. La lingua della Scienza – nella fondamentale opzione per il fiorentino contemporaneo – conserva oscillazioni, ammette incertezze, accoglie soluzioni diverse, segno di una duttilità che è cordiale e aperta accettazione del reale, e accorda uno spazio non indifferente alla componente letteraria. In questo, che è il «metodo artusiano», lo confortava uno degli autori più amati, Giuseppe Giusti, «quella splendida luce», in passaggi come il seguente, contenuto in una lettera a Tommaso Grossi: «Ora forse dirò uno sproposito, ma per me chi vuole possedere ve- ramente la nostra lingua, bisogna che faccia fondamento dei suoi studi la lingua parlata; che poi la confronti con tanti d’occhi aperti colla scritta, e che in ultimo, ponendosi a fare di suo, rinfreschi di continuo il campo di questa coi ruscelli vivi e perenni che derivano dalla bocca del popolo». È, detto nella prosa così bella di Giusti, esattamente il programma linguistico di Artusi, anima e fondamento del suo pensiero e della sua prassi. Così il fiorentino di un romagnolo poté riuscire – entro limiti accettabili – naturale e controllato, lontano dagli esiti grotteschi di molti imitatori e manzonisti incauti e meno provveduti di lui. Nel lessico artusiano domina la componente toscana e fiorentina, così ricca, così viva, che evoca immediatamente i suoni e le forme di un capolavoro come Pinocchio. Fra i termini dell’uso corrente si possono citare: adagino adagino riferito al bollire della pentola (notevole è nella prosa artusiana l’impiego dei diminutivi); allupato con uso figurato ‘molto affamato’; avvezzarsi ‘abituarsi’ e avvezzo agg.; avviare ‘cominciare’; babbo; baccellone ‘sciocco’, ‘babbeo’ (usato come sinonimo di minchione); berlingaccio ‘giovedì di carnevale’; briccica ‘sciocchezza’, ‘cosa da nulla’; caldana ‘luogo caldo dove si pone a lievitare il pane’; campare ‘vivere’; canzonare, al passivo: essere canzonato ‘esser preso in giro’; ciocchetta e ciocchettina ‘rametto’: «alcune ciocchette di ramerino», «qualche ciocchettina di salvia»; comparita: fare comparita ‘apparire abbondante (più di quello che è in realtà)’, e dunque ‘far buona riuscita’; fico: importarne un fico ‘importarne nulla’; figurare ‘far bella figura’; fogo: fare fogo ‘andare di traverso’, ‘far male’ (detto di un alimento); garbare ‘piacere’; gocciolo; gola: tornare a gola (detto di un cibo); infreddature ‘raffreddori’; mogi ‘non attivi’ (detto dei bambini); nocco: venire a nocco ‘venire al punto, al dunque’; pari: e tutti pari ‘e tutti contenti’; punto come aggettivo di negazione: «poco o punto fuoco sotto», «senza punta acqua»; rimeritare ‘ricompensare’: al passivo, essere rimeritati; rincalzare i cavoli fig. ‘essere sottoterra’, ‘essere morto’, bellissima espressione che Artusi aveva imparato anche leggendo il Saggio di scherzi comici dell’abate Zannoni: «Se ciò avviene [sc. Se la ricetta degli Gnocchi alla romana vi piacerà] fate un brindisi alla mia salute se sarò vivo, o mandatemi un requiescat se sarò andato a rincalzare i cavoli» (ricetta 231); sbuzzare assoluto ‘fuoruscire’; transitivo ‘eviscerare (un animale)’; sciogliere il corpo ‘danneggiare l’intestino’; siroppo ‘sciroppo’; stuccare ‘risultare non gradito’, ‘nauseare’ (per eccesso di qualche ingrediente); tocco: al tocco ‘all’una’; uscio. Per i tecnicismi gastronomici e culinari estraggo questi esempi: àrista; brigidini ‘piccole cialde impastate con uova, anici e zucchero’; buccellato ‘tipo di ciambella’; cacciucco; cacio; carnesecca ‘pancetta di maiale salata’; castagnaccio ‘preparato a base di farina di castagne’; cenci ‘pasta fritta’; dolce-forte ‘(in) agrodolce’, anche come sostantivo il dolce-forte; donzelline ‘pasta fritta’; gobbi ‘cardoni’; intinto ‘sugo (prodotto dalla carne)’; midolla: la midolla del pane; pesce di maiale ‘lombo di maiale’; popone ‘melone’; ramerino ‘rosmarino’; regamo ‘origano’; zoccoli: frittata in zoccoli ‘frittata con fette di prosciutto tagliato a pezzetti’. La maggior parte di questi tecnicismi non solo sopravvive ma costituisce l’ossatura della terminologia attuale, come mostrano, per gli esempi seguenti, i riscontri con le correnti pubblicazioni di settore: alzare il bollore ‘raggiungere l’ebollizione’; mettere al fuoco; prendere colore; rosolare; tritare; unire (un ingrediente a un altro). E ancora, sono usati e codificati da Artusi: assodare; battere (la carne); cuocere a bagno-maria; digrassare ‘sgrassare’; disporre a suoli ‘a strati’; fare un battuto, un soffritto, un impasto; frollare; lardellare; legare (l’arrosto); mandare in tavola ‘servire’; passare per istaccio; pestare (nel mortaio); ridurre; spolverizzare («spolverizzatelo con zucchero a velo»); tirare a cottura. Difensore della «bella ed armoniosa lingua paesana», Artusi cerca di ricondurre i non troppo frequenti adattamenti dalle lingue straniere a una forma il più possibile vicina alle regole del fiorentino: bordò ‘(vino) bordeaux’, ciarlotta ‘charlotte’, cotolette (sempre in corsivo nel testo, affiancato dall’indigeno costolette), farsito ‘farcito’, fricassea, glassa, gruiera ‘formaggio groviera’, il tradizionale imbianchire (ma affiancato da imbiancare), maionese, regime ‘dieta’, scaloppine; per l’inglese, bistecca, già anche nella locuzione bistecca alla fiorentina; budino, ponce, e il fiorentinissimo rosbiffe, puntual- mente registrato così anche nei vocabolari dell’uso (ma si trova nella Scienza anche roast-beef ). Non mancano creazioni d’autore: balsamella (tanto bella da farci rimpiangere che non abbia prevalso sul recupero settecentesco di besciamella), ciambelline per beignets, pezzo in gelo per biscuit, crosta, crostare per ‘glassare’, intriso per roux ‘farina imbiondita nel burro’, salsa verde per sauce Ravigote, tramessi: «gli entremets dei Francesi», e il bellissimo ma non fortunato sgonfiotto, dall’autore stesso usato insieme a soufflet (sic). Al tempo stesso, l’improponibilità di un esagerato purismo a vantaggio di un sano realismo («andiamo pure in cerca del buono e del bello in qualunque luogo si trovino; ma per decoro di noi stessi e della patria nostra non imitiamo mai ciecamente le altre nazioni per solo spirito di stranieromania» ricetta 182, Krapfen I) e di una sovrana esigenza di comunicazione inducono Artusi a conservare nel suo ricettario un certo numero di parole straniere, che proprio in virtù del loro accoglimento nella Scienza hanno ricevuto consacrazione definitiva nel lessico culinario italiano: alkermes ‘tipo di liquore’, babà, brioches (masch. pl.), latte brûlé, canapè, champagne, cognac, dessert, Krapfen, plum-cake, purée, rhum, sandwichs, sauté ‘specie di tegame, largo e basso, per friggere’ (sempre in corsivo nel testo), Strudel, vol-au-vent, ecc. Ma è ancora di più nella scorrevolezza della sintassi, nella ricchezza dei modi arguti e proverbiali che si dispiega la capacità fabulatoria di Artusi, quel suo tono cordiale e colloquiale con cui il lettore è intrattenuto mentre gli vengono impartiti non solo gli elementi dell’arte culinaria ma anche precetti di igiene, di decoro, di economia domestica: nel libro che non è solo un manuale di ricette, ma un testo da leggere, da interrogare, da ripercorrere con affetto, vengono inseriti aneddoti, storie, riferimenti personali. Al riuscito equilibrio fra elementi tradizionali e tratti della lingua parlata dà il via e il tono proprio l’inizio della prima ricetta, quell’indimenticabile: «Lo sa il popolo e il comune che per ottenere il brodo buono bisogna mettere la carne ad acqua diaccia e far bollire la pentola adagino adagino e che non trabocchi mai», evocatore di tradizioni e consuetudini familiari, di ininterrotte conoscenze, dove confluisce un popolo e comune ‘tutti quanti’ che risale indietro fino al Seicento, e che i lessicografi dell’Ottocento documentavano nella lingua viva di Firenze, e la ripetizione adagino adagino ‘piano piano’ non sfigurerebbe sotto la penna di Collodi, quasi a evocare un sorriso birichino di Pinocchio. È così che nasce il «formidabile romanzo» (Gino Tellini) della cucina italiana, opera insuperata di un autore che non solo mette a disposizione delle sue lettrici, dei suoi lettori – con lui co-autori – un testo tecnico, ma condivide un tesoro di cultura e di esperienze, si racconta, si rivela, sempre con garbo e misura, e con parsimoniosa eleganza. Da qui nasce il desiderio, così moderno, di vedere l’autore, che indusse Artusi a inserire nel libro il suo ritratto fotografico, consegnandoci così di sé l’unica immagine che conosciamo; da qui nasce il quotidiano rapporto epistolare con tutta la Penisola, la spedizione domestica delle copie, prima nata forzosamente da difficoltà editoriali ma trasformatasi poi in un precoce mezzo di vendite librarie. Per questo l’Artusi resta l’Artusi, ancora valido e vivo, e legato con un nodo strettissimo ai giorni e alle opere, alle memorie e alla storia di una nazione intera. DOPO L’UNITÀ E VERSO IL MONDO: DAI DIALETTI ALLA LINGUA L’apporto dei dialetti alla lingua unitaria nel settore della gastronomia è rilevantissimo, ed è venuto progressivamente crescendo – come è facile comprendere – nel periodo post-unitario, e particolarmente nel Novecento e nel secondo dopoguerra: quando la più ampia circolazione dei prodotti, l’intervento talora decisivo dell’industria alimentare, il costituirsi di un mercato su base nazionale prima e internazionale poi, hanno determinato un’emersione e un’affermazione veramente consistente del patrimonio dialettale nella lingua nazionale. Il processo di unificazione politica ha dato (o restituito) vigore e slancio a molte denominazioni gastronomiche, proiettandole dalle realtà locali a un circuito nazionale: con le casse dei maccheroni che già nel Gattopardo si immaginano in viaggio dal sud al nord d’Italia hanno percorso la Penisola termini e prodotti ormai entrati a pieno titolo in un patrimonio condiviso. Si è venuta così definendo sempre meglio l’importanza, storica e linguistica insieme, di due distinti e complementari fenomeni: da un lato l’arricchimento del vocabolario italiano dovuto ai dialettalismi (ossia alle voci di provenienza regionale e dialettale che, in veste fono-morfologica italiana, sono entrate a far parte della lingua comune), dall’altro l’abbondanza dei geosinonimi, cioè dei termini diversi che, a seconda delle aree geografiche, indicano uno stesso prodotto, o prodotti similari (si pensi alle denominazioni del pane, straordinariamente varie, o alla fantasia che ispira i nomi dei dolci di carnevale: bugie, galani, crostoli, cenci, donzelle, fiocchi, nuvole, castagnole, chiacchiere, frappe, sfrappole, e così via: tutti brillantemente indagati da Lorenzo Coveri e Gian Luigi Beccaria). Il rapporto nazionale-locale si presenta oggi nel settore della cucina in termini particolarmente articolati e complessi, dal momento che anche dai livelli più alti e prestigiosi viene un frequente richiamo, con forte connotazione culturale, alla valorizzazione di alimenti, ricette e tradizioni locali: la tendenza dominante sembra non poter prescindere dal coniugare l’apertura verso il “nuovo”, le tecniche e le presentazioni moderne, con la “tradizione”, che si vuole fondata su prodotti locali e valori sicuri (grandi cuochi come Gualtiero Marchesi o Massimo Bottura fanno spesso appello alle tradizioni delle varie aree, o alle proprie esperienze marcatamente localizzate e quindi evocate, ricostruite, trasformate con una tecnicalità d’avanguardia). Il senso dell’identità della cucina italiana – che, bisogna ricordarlo, non ha mai avuto una codificazione che emanasse da un centro unico e ben determinato, come invece è accaduto per quella francese – sembra dunque potersi fondare sul riconoscimento e sulla condivisione di elementi comuni, e insieme su una serrata dialettica fra i poli del locale e del nazionale, col significativo recupero valoriale della tradizione. Cito qui di seguito alcuni esempi di dialettalismi entrati ormai nel vocabolario e nell’uso comune. Sono termini originariamente piemontesi fontina, grissino e gianduiotto; lombardi gorgonzola, mascarpone, stracchino, minestrone, osso buco, brasato, e panettone; veneti lingua sal- mistrata, musetto, (carne) a scottadito; emiliani zampone, piadina; romaneschi abbacchio e supplì (già in un sonetto del Belli supprisa, forma più vicina all’etimo francese surprise ‘sorpresa’); dall’Italia mediana provengono amatriciana, saltimbocca, porchetta, carciofi alla giudia; è meridionale il caciocavallo (prodotto dall’Abruzzo alla Calabria e documentato dal XIV secolo), meridionali scamorza, taralli, calzone, panzerotto, pastiera; siciliana la cassata. Converrà soffermarsi sui termini che indicano alcune varietà di pasta. Alla stratificazione del patrimonio dialettale, alla forza della tradizione, si sono sommate negli ultimi decenni le spinte diverse dell’industrializzazione e della rapida commercializzazione; e bisognerà pure ricordare che è stato con la Scienza in cucina di Artusi che il primo piatto di pasta è stato codificato, definendosi così un modello di pasto propriamente italiano e distinto da quelli d’oltralpe. Di provenienza emiliano-romagnola sono le tagliatelle (tajadèl di Bologna): l’affermazione della forma femminile, oggi unica, sembra sia dovuta alla Scienza di Artusi; così le paste ripiene più famose, i tortellini (bologn. turtlein; nell’italiano antico tortelli, tortelletti valgono ‘pezzi di impasto, con o senza sfoglia di pasta’; il Dizionario moderno di Panzini, nel 1905, registra finalmente tortellini e tortelli col significato attuale), e i cappelletti (i romagnoli caplett; in lingua già in una lettera di Leopardi, e Cappelletti all’uso di Romagna in Artusi); mentre gli agnolotti provengono, almeno per il nome, dal Piemonte (agnolôt, agnölot). Dal Nord Italia giungono il lombardo risotto (attestato dalla metà dell’Ottocento) e le trenette (da trena ‘cordoncino’), liguri al pari del pesto; sono entrate nell’uso nazionale le romane fettuccine. Ma se c’è un nome di pasta che è assurto a simbolo, anche in negativo, di chi la consuma, questo è certamente il termine maccheroni. I maccheroni sono stati caratterizzati fin dai tempi antichi da una singolare variabilità relativa alla forma: nel Medioevo e specialmente in area veneta erano ‘gnocchi’, mentre solo secondariamente e forse più tardivamente sembra essersi diffuso – prima che altrove nell’Italia centromeridionale – il significato di ‘pasta più o meno lunga, forata, a sezione rotonda’. Piuttosto controversa rimane l’identificazione dei maccheroni fiorentini del Trecento (presenti anche nel Decameron e in Sacchetti), forse da intendersi come ‘piccole lasagne’, conformemente al significato che ancora oggi sopravvive in Toscana. La vera rivoluzione, che fa dei maccheroni (maccarune) un piatto fondamentale nell’alimentazione e il simbolo stesso di una città e di un popolo, è avvenuta nel Seicento a Napoli, con il passaggio, causato dal progressivo aggravamento della miseria dei ceti poveri, da un regime a base di carne e foglia (il cavolo) a uno fondato su questa pasta forata lunga condita col formaggio; e tali – cioè una pasta lunga a sezione rotonda – rimangono i maccheroni a Napoli. Il settore della pasta è d’altronde quello forse oggi più significativo della straordinaria varietà delle denominazioni: una ricerca recentemente condotta da Massimo Arcangeli sui cataloghi di sei produttori (Barilla, Buitoni, De Cecco, Garofalo, Rana, Voiello), ha contato 186 nomi di tipi diversi, da acini di pepe, anelli e anellini, avemarie a zite, ziti, zitoni; e come esempio di particolare fantasia potrei aggiungere i radiatori (Di Martino di Gragnano). PAROLE STRANIERE IN CUCINA ITALIANA I primi decenni del Novecento vedono il consolidarsi di un contingente non trascurabile di forestierismi gastronomici, in larga parte, ma non esclusivamente, francesismi. Molti di questi termini hanno come prima attestazione in italiano il Dizionario moderno di Alfredo Panzini (pubblicato in prima edizione nel 1905, ebbe sette edizioni in trenta anni; l’ottava uscì postuma nel 1942 per le cure di Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini, che fino alla decima, nel 1963, incrementarono il testo con un’Appendice di Parole nuove). Panzini, sensibile testimone del cambiamento linguistico, rivolge molte lodi alle operazioni lessicali di Artusi, e tuttavia accoglie frequentemente termini stranieri del linguaggio gastronomico, che vanno accettati con moderazione come segno del contatto con gli altri popoli e come tappa necessaria nell’evoluzione della lingua. Fra i termini che si sono stabilizzati si possono citare i francesismi béchamel, bon bon, brioche, buffet ‘credenza’, e ‘rinfresco’, charlotte, coperto ‘posto a tavola’, uova à la coque, dessert, entre-côte, Locali con nomi italiani o pseudoitaliani; dall’alto in basso: a Shangai, New York e Hong Kong frappé, julienne, marrons glacés, omelette, soufflé, oltre naturalmente a menu; di derivazione geografica varia baccalà, bar, bitter, toast, wafer, würstel. Dopo un episodio, sostanzialmente limitato, di rigetto, ispirato dalla politica neopuristica e autarchica dell’Accademia d’Italia (la legge 2042 del 23 dicembre 1940 proibiva l’uso delle parole straniere nelle intestazioni delle ditte e in ogni forma di comunicazione commerciale, e l’ottava edizione del Dizionario moderno di Panzini pubblicava prontamente la lunga lista dei Forestierismi da eliminare, con proposte di sostituzione o adattamento come: salsa bianca, besciamella, chicca, brioscia, rinfresco, caffè, uovo scottato, fin di pasto, frullato, lista, amaro, pantosto, salsiccia viennese; mentre non hanno ormai più valore che di reperto archeologico le traduzioni proposte da Marinetti, come traidue per sandwich, polibibita per cocktail, ancora più improbabilmente arlecchino secondo l’Accademia d’Italia, pranzoalsole per picnic), il peso della componente straniera nel linguaggio gastronomico novecentesco e nostro contemporaneo è tornato di rilievo. Alcuni sondaggi condotti in recenti opere lessicografiche sembrano mostrare anche un diverso livello d’uso dei forestierismi: per cui i termini francesi appaiono per una quota consistente come tecnicismi settoriali, solo in parte ridotta entrati nel lessico italiano dalla seconda metà del Novecento in avanti e invece di più lontana e tradizionale immissione (tra i più recenti crudités 1989, [insalata] niçoise 1958, profiterole 1957, quiche 1989, vinaigrette 1989, e naturalmente nouvelle cuisine 1986, parallelamente alla diffusione della nuova moda gastronomica); due “falsi amici” di grande successo sono crème caramel (dalla locuzione crème au caramel), datato al 1939 nella forma crème caramelle, al 1970 nella forma attuale, e vitello tonnato, vitel tonné (1905), voce piemontese pseudofrancese, corrispondente al fr. au thon. I francesismi connotano oggi largamente la lingua specialistica della gastronomia, tanto da apparire come una garanzia di raffinatezza e di internazionalità, secondo quanto mostrano le pubblicazioni del settore: per le quali un ristorante di gran livello (e di gran prezzo) è definito «un relais gourmand di alta classe e di stampo internazionale», che serve petit fours, tartare di nasello e caviale, scaloppa di foie gras, pan brioche, crème brûlée, bouquet di odori, quenelle ‘cucchiaiata di un composto’, ecc., mentre termini come menu, chef, sommelier, maître, entrée, mousse, dessert si incontrano ovunque; e nella terminologia specifica delle salse, ad esempio, quasi la metà delle denominazioni contiene un termine francese più o meno adattato, dalla citronette alla demi-glace alla ravigotta. Per contro, le voci inglesi e anglo-americane appaiono legate a un più largo e indifferenziato ambito d’uso e molte di esse presentano una datazione più prossima: sono insomma meno tecniche e più recenti, legate all’ondata di consumismo filo-americano che ha pesantemente investito l’alimentazione e la cucina italiana, modificandone ritmi e abitudini, e investendo il linguaggio soprattutto di giovani e adolescenti e fino dei bambini: ecco allora breakfast, brunch (1983), cake e plum cake, chips ‘patatine’ (1989), cornflakes (1965), hamburger (1963), hot dog (1950), ice cream, ketchup (1957), long drink e soft drink (1957, 1986), popcorn (1958), snack (1959), in gran parte componenti di quel fast-food (1982) al quale ha tentato di reagire un poco italiano slow-food (1989). Da segnalare ancora la presenza di tecnicismi come cutter, mixer fra le attrezzature, e di finger-food (2005) ‘cibo preparato in piccole porzioni, in modo da poter essere mangiato con le dita’, modellato su fast-food e simili, che negli ultimi anni ha avuto una rapida e notevole fortuna; e siamo riusciti persino a sostituire il cibo da strada, così italiano non solo nel nome ma anche nei contenuti (ben noti nelle strade, nelle piazze e nelle fiere d’Italia) con un esterofilo street food. Dominata da un sensibile – ma direi non necessario – desiderio di sprovincializzazione, la cucina italiana pare non poter prescindere da questa marcata ibridazione linguistica, fra tecnicismi francesi e anglicismi di largo consumo. Prendo qualche esempio, che mi pare sintomatico di questo mosaico della lingua, dalle ricette contenute in una recente pubblicazione di alto livello (La cucina regionale italiana. I grandi cuochi, i loro segreti, Parma, Academia Barilla, 2009): un ristorante lombardo propone una «Variazione di pesci di lago: terrina di lavarello e verdure dell’orto, cous-cous con tartare di carpione, gambero d’acqua dolce marinato al passion fruit con sorbetto di finocchio, fritto di alborelle»; in Toscana si offre il «Manzo di chianina dop, tartare, aspic e taglio di bistecca», e in Basilicata un «Baccalà confit con peperoni cruschi, e con zeste di limone candito», per finire con un «Millefoglie di crostoli, spuma di pecorino fresco e miele di acacia» (i corsivi sono nella pubblicazione). Nel Glossario che chiude il volume si registrano molti francesismi di livello squisitamente tecnico, come: bisque ‘salsa di carapaci di crostacei’, brunoise ‘modo di tagliare le verdure a dadini piccolissimi’, chinoise ‘colabrodo di forma conica’, commis ‘ragazzo di cucina, aiuto cuoco’, parfait ‘gelato classico e leggero’, sac a poche ‘tasca di plastica o tela, da riempire con un composto usato poi per farcire o decorare’. Ricordo infine che alcuni crudi forestierismi provengono da altre lingue, e si sono generalmente affermati in anni recenti: cito fra questi i giapponesi surimi ‘cibo a base di pesce, arricchito di condimenti e conservato freddo’ e sushi ‘pesce freddo crudo, tagliato in piccoli bocconi’; la paella spagnola e i taco(s) messicani; appaiono in espansione, con le mutazioni delle condizioni sociali legate ai fenomeni migratori, il kebab turco ‘spiedo di carne arrostita di montone o di agnello’, e i fala(f)fel medio-orientali. L’ITALIANO GASTRONOMICO NEL MONDO Gli italianismi nel mondo costituiscono, com’è noto, un fenomeno di grande importanza, che coinvolge, secondo i rilevamenti più recenti, oltre ventimila parole e un numero imprecisato ma comunque alto di lingue. Se è vero, come ha scritto Leonardo Rossi, che «gli italianismi raccontano ciò che dell’Italia e degli italiani è parso all’estero notevole o tipico a qualche titolo, o riflettono aspetti della cultura, invenzioni o prodotti, che hanno avuto la loro origine o la loro fortuna in Italia», è evidente che il settore del cibo e della cucina si presenta come uno dei più ricchi, dinamici, suggestivi, se non il più importante in senso assoluto. L’immagine dell’Italia all’estero o presso gli stranieri è strettamente, intimamente legata all’idea del suo cibo, che costituisce un modello di unanime apprezzamento, si direbbe quasi un mito; e non può sorprendere che personaggi celebri e meno celebri interrogati sull’aspetto dell’Italia che amano di più rispondano senza esitazione, quasi istintivamente, collocando in prima posizione “il cibo”. Il cibo, si ha l’impressione, quasi più e comunque prima dell’arte, del paesaggio, del cinema, della letteratura. Il cibo italiano è dunque un fattore potente di identità interna e di identificazione del concetto e dell’immagine dell’Italia all’estero: fenomeno che ha lunghe e complesse radici nel ruolo di riferimento culturale e di modello di vita associata che il nostro paese ha avuto nei secoli, ma che si è legato anche – con riflessi più o meno positivi – ai grandi movimenti migratori verso l’Europa e l’America settentrionale e meridionale, che hanno visto spostarsi masse ingenti di persone, e con esse le loro abitudini, le loro tradizioni anche alimentari, e le parole (del dialetto, della lingua) con cui quelle tradizioni si dicono. Il cibo è modo privilegiato di riconoscimento vicendevole, interno al gruppo, ma anche al di fuori, nel confronto non sempre facile con la comunità esterna, che in quelle medesime abitudini alimentari e gastronomiche può identificare un elemento di negatività; e così mangia-spaghetti, mangia-maccheroni diventano gli epiteti che connotano gli immigrati poveri, che si guardano con sospetto, da tenere ai margini. Con la medesima pregiudiziale negatività siamo tentati oggi di guardare agli stranieri che vivono in Italia, e che portano nelle nostre strade le loro abitudini alimentari, i loro negozi, le loro insegne; il senso dell’identità può facilmente scivolare verso posizioni di pregiudizio e di forte ideologizzazione, e la diversità delle tradizioni può essere volta e stravolta in senso politico, tanto che Sì alla polenta No al cous cous è stato qualche tempo fa lo slogan di un partito (eppure il cuscussu era già, come piatto ebraico, nella Scienza in cucina di Artusi, per quanto giudicato di non immediata assimilazione). Non si può del resto dimenticare la portata economica del fenomeno, macroscopicamente evidente soprattutto in tempi di difficile congiuntura interna: la letteratura rileva come in questa fase l’unico elemento trainante del settore agroalimentare sia l’export. L’incremento degli ultimi anni è stato costante, e tocca il 18% del fatturato industriale; ormai quasi un prodotto alimentare su cinque viene esportato. Ancora più sensibile il dato che riguarda la pasta, prodotto simbolico per eccellenza non solo del made in Italy ma di uno stile di vita italiano: oltre il 50% della produzione viene esportato all’estero (principalmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e in Germania), e se l’Italia ancora detiene il primato nel consumo pro capite, posizioni significative sono ormai raggiunte da paesi come il Venezuela, la Tunisia, la Russia. Per rendere l’idea del fenomeno: quasi un piatto di pasta ogni tre che vengono consumati nel mondo è prodotto in Italia. Alcuni italianismi gastronomici sono entrati per tempo nelle lingue straniere: la moderna lessicografia (il Dizionario di italianismi in francese, inglese, tedesco di Harro Stammerjohann, pubblicato dall’Accademia della Crusca nel 2008) permette di rilevare la presenza ad esempio di lasagne in francese nel XVI secolo, in inglese nel XVIII, in tedesco all’inizio del XIX; di datare la comparsa di aleatico in tedesco al 1589, in inglese al 1608, in francese al 1798, mentre le pappardelle e il panettone fanno il loro ingresso in inglese allo spirare del XIX secolo. Ma il fenomeno è vivissimo soprattutto nel Novecento, e particolarmente negli ultimi decenni, quando non si tratta più soltanto di un fatto legato alle migrazioni e alle tradizioni dei gruppi sociali, ma di una realtà che si inserisce nella nuova dimensione globale dell’era industriale e rende possibile la circolazione delle merci con ritmi e modalità prima non sospettabili. La larga reperibilità dei prodotti italiani anche più caratteristici, la creazione insomma di un mercato unico che induce la riconoscibilità del prodotto e del marchio (pensiamo alla caratura internazionale di alcuni dei nostri gruppi alimentari) comporta al tempo stesso la diffusione delle parole. L’accoglimento in sistemi diversi (o assai distanti) di fonemi italiani ha generato adattamenti anche rilevanti: la ormai diffusissima rucola è diventata arugola /arugula negli Stati Uniti, in francese e in inglese panini è stato assunto come singolare (al plurale paninis; panini è registrato dall’Oxford English Dictionary nel 1955, in contemporanea dunque con l’ingresso nella lessicografia italiana di hot dog, e un po’ anteriore a hamburger); in giapponese salame è diventato Prodotti “all’italiana” sullo scaffale di un negozio in Germania sarami, nell’arabo parlato in Egitto pasta diventa basta, e così via. Per contro, la rappresentazione grafica di certi fenomeni del sistema italiano (come le consonanti “doppie”) appare in tempi recenti più attenta. Esiste ormai un fondo solido di italianismi gastronomici, negli ultimi anni in progressiva e persino tumultuosa estensione, col diffondersi all’estero di nuovi prodotti e piatti della cucina italiana, e parallelamente al diversificarsi dei livelli, per cui accanto a una ristorazione di basso e medio livello si ha ormai un’offerta di grado alto e altissimo, e a un pubblico di generici consumatori si affiancano esperti del settore, imprenditori, giornalisti specializzati. Esistono oggi canali diversi di diffusione della cucina italiana all’estero, e anche la competenza lessicale e il trattamento delle parole mutano in relazione ai diversi contesti, alle distinte professionalità. Da una base di italianismi tradizionali muove il cosiddetto «effetto pizza», che sostiene e amplifica la diffusione delle parole: proprio a cominciare da termini “classici” come spaghetti. Gli spaghetti sono molto più recenti degli antichissimi vermicelli: i vocabolari li datano al 1846, e prontamente Artusi li ha accolti, dedicando loro dieci ricette fra le «minestre asciutte». La parola ha forse avuto fortuna prima ancora all’estero che in patria, in particolare negli Stati Uniti (Panzini rileva nel 1942: «Ecco un nome diventato mondiale. Spaghetti-house anche a Nuova York»), ed è entrata anche in composizioni afferenti a settori diversi, come spaghetti western, la cui fortuna è dovuta ai film di Sergio Leone. Tra gli italianismi “storici” si trova appunto pizza, internazionalmente diffuso, parola e cibo che un sondaggio condotto qualche anno fa da un quotidiano eleggeva come simbolo dell’Italia subito dopo Leonardo da Vinci e il Colosseo. Il termine pizza (che la moderna ricerca etimologica tende a ricondurre forse all’antico alto tedesco bƱzzo / pƱzzo ‘pezzo di pane’ e quindi ‘focaccia’) risulta documentato nei vocabolari stranieri già nel XIX secolo (in inglese 1825, in tedesco 1879, in francese 1888), mentre in Italia è ancora considerato per un bel pezzo come dialettale (nel Dizionario moderno di Panzini del 1905 si dice «nome volgare di una vivanda napoletana popolarissima»; e d’altronde per Artusi, ancora nell’edizione del 1910, la Pizza alla napoletana è un dolce di pastafrolla e crema). L’affermazione di questo piatto in Italia, oltre i confini locali, è stata più lenta di quanto si possa pensare, e in fondo postbellica. Sono stati piuttosto i fenomeni migratori, in particolare verso gli Stati Uniti, che hanno fatto della pizza un sinonimo di italianità, anticipandone il processo di diffusione rispetto al suo stesso paese d’origine; al punto che oggi essa sembra aver perso la sua connotazione geografica originaria, tanto profondo è stato il processo di appropriazione da parte degli americani e ormai di tutto il mondo. A riprova, si osservino le nuove denominazioni che sono nate fuori d’Italia, come la pepperoni pizza dei paesi anglosassoni, una pizza con salsiccia (dove pepperoni vale ‘salsiccia piccante’). Si possono ormai considerare assestati termini come cappuccino (con pizza e spaghetti un vero capofila nella diffusione dell’italiano gastronomico), cannelloni, espresso, mortadella, panna, ravioli, risotto, salame (mediamente noti in una trentina di lingue); dagli Specialità di ispirazione italiana in un bar di Broad Street a Oxford anni settanta e ottanta del Novecento si sono rapidamente affermati – oltre a qualche marchionimo come nutella – antipasti (trattato come panini, e per i plurali si vedano anche i casi di broccoli, salami assunti come singolari, da cui ad esempio il fr. les brocolis e il ted. die Brokkolis, ecc.), bruschetta, carpaccio, ciabatta (reso plurale nella forma ciabattas), pesto, rucola, tiramisù (un dolce divenuto davvero internazionale, di cui si crede di poter identificare la terra d’origine nel Veneto, probabilmente a Treviso, e la datazione tra 1970 e 1980; una parola presente in oltre venti lingue, fino al giapponese e all’indonesiano). Un sondaggio condotto dal «Gambero Rosso» alcuni anni fa fra operatori specializzati del settore ha rilevato la diffusa conoscenza di termini anche più specifici, e indicativi di una attenta considerazione dei prodotti tipici, quali parmigiano (anche nella forma del famigerato parmesan), mozzarella, olio d’oliva, aceto balsamico, così come fra i formati di pasta le farfalle sono ormai conosciute quasi quanto le tagliatelle. La vitalità di queste immissioni è mostrata anche dalle nuove e un po’ inquietanti composizioni lessicali in cui entrano termini italiani: così la veal parmigiana, una cotoletta di vitello impanata e fritta, cosparsa di pomodoro e ricoperta con finta mozzarella, o il chai latte, una bevanda composta di latte e spezie orientali (cannella, garofano, zenzero, ecc.), che rischiano di deviare verso una cucina contraffatta e degradata. La contraffazione (o comunque la subdola imitazione) costituisce un serio problema del settore, di cui può dare un’idea il calcolo economico (il mercato del “falso” raggiunge quasi la metà del fatturato alimentare), e richiede interventi di protezione dei livelli qualitativi italiani e di controllo della produzione. In ogni caso, gli italianismi gastronomici sono davvero diffusi nel mondo: come minimo esempio, e a un livello assolutamente di base, posso citare per averlo visto personalmente nella scorsa estate il cartello pubblicitario di un locale in Broad Street a Oxford, di fronte al Balliol College, che reclamizzava: Paninis / Ciabattas / Baguettes / Bagels / Wraps / Cappuccino / Latte / Espresso / Chai Latte: tutti – tranne tre – italianismi, come si vede, più o meno adattati, a testimonianza di una incontestabile fama e di una non limitabile fortuna. Renzo a casa di Tonio nell’incisione di Francesco Gonin per il capitolo VI della “quarantana” dei Promessi Sposi, Milano, Guglielmini e Redaelli Tornando in conclusione all’origine, si può dire che questi siano i caratteri di fondo della lingua della gastronomia italiana: • la straordinaria varietà delle denominazioni • la grande abbondanza di geosinonimi • la diffusione all’estero • l’arricchimento progressivo del vocabolario grazie ai dialettalismi • il largo numero di forestierismi • la presenza di casi di notevole continuità fra il passato e il presente (come àrista, attestata dal 1287; vermicelli, documentati dalla fine del Duecento; panpepato, registrato nel 1344; berlingozzo, attestato in una lettera fiorentina del 1485). Mi si permetterà allora di finire citando un passo splendido di prosa italiana, in cui il cibo si fa vita, evocazione di un’epoca, di un’umanità, di una condizione: come per Caravaggio, che colloca in un’osteria i personaggi delle sue Cene in Emmaus, tra le più potenti rappresentazioni che mano d’uomo abbia trasformato in colore; come per tutti coloro – da Michelangelo a Pontormo su su fino a Dickens – che le tavole hanno frequentato, disegnato, descritto. È un tratto del capitolo VI dei Promessi Sposi: Andò [Renzo] addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. […] La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali […]. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori.