Mi sto avvicinando agli `anta e confesso che tra i tanti acciacchi
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Mi sto avvicinando agli `anta e confesso che tra i tanti acciacchi
Una certa pubalgia Mi sto avvicinando agli ‘anta e confesso che tra i tanti acciacchi soffro di una certa pubalgia. Si accompagna alla prostatite ma riguarda il campo semantico della pubblicità e del marketing. I francesi la pubblicità la chiamano confidenzialmente la pub, tutto il mondo anglosassone la chiama advertising, noi italiani – che siamo un po’ strani – per lungo tempo l’abbiamo chiamata con un francesismo senza corrispondenza réclame. Con pubalgia voglio confessare una certa resistenza, una certa insofferenza al lessico dell’advermarketing. I concetti non sono molto diversi da quelli di Raffaella e degli altri interventi, solo userò un altro approccio e altre parole. Più latine che inglesi. Si usa dire che Nomina sunt consequentia rerum. Niente di più ingenuo e - in fondo -sbagliato. I nomi, le parole, sono conseguenza delle cose? O forse possiamo affermare esattamente il contrario? E cosa vuol dire "conseguenza" in questo caso? Ciò che con mesto tecnicismo definiamo naming e branding non è altro che il camuffamento di una pratica emula del padreterno. Coincidendo la creazione del mondo con un atto di nominazione. “ Dar voce, evocare, significa costituire nel campo dell’essente ciò che non vi era”. La voce, in quanto appello all’essere, crea dal nulla quello che non era. In altre parole vi sto invitando ad essere madri dei vostri prodotti, a chiamarli. La madre è chi insegna a parlare, è chi chiama ad essere un soggetto. Il verbo chiamare significa sia rivolgersi ad un soggetto, nella dimensione dell’evocazione e dell’appello, sia dare un nome. Queste due determinazioni finiscono col coincidere. Almeno nel senso che dare un nome a qualcosa significa evocarla. La parola è fermento. La parola piena, quella poetica, o perlomeno non consunta, è lievito e azione non vista. L'essere non è altro che un effetto del dire. Più sobriamente o - perlomeno - con competitività trattenuta nei confronti della sfera celeste, si tratta di trovare un fondamento alla marca. E allora, come si chiamerà il prossimo agriturismo? (con understatement che rasenta l'anonimato) il cavallo ? (con melensa evocatività) il destriero ? (con evocatività di segno opposto) il ronzino ? (ambiguizzando su un genere musicale) hip-hop ? (con disinvoltura tecnologica) farmer ? (con sineddoche abusata) le selle ? (con citazione vetero-comunista) lo zoccolo duro ? (con evidente posizionamento agro-erotico) crazy horse ? (o con umorismo tutto meridionale) 'u ciuccio ? E’ chiaro che si tratta di un paradigma assolutamente teorico (serve solo a mostrare una tastiera espressiva minima) e che si richiede di liberarci di un altro fondamento mitologico, di un altro concetto enfatizzato: il significato. Cavallo, horse, cheval, sono parole su cui c’è accordo nelle varie lingue per significare, per denotare il cavallo. Potremmo aggiungere: chi se ne frega. La significazione non è il proprio della comunicazione. Se dico cavallo non dico niente, se dico “destriero” o “ronzino” evoco una serie di associazioni e di narrazioni. Se sono in vena di spiritosaggini potrò efficacemente dire “il cavillo”, anche per alludere a un contesto preciso e di cura per il particolare. Ma sarà meglio cercare altre strade, anche per evitare riferimenti negativi ai proprietari, ai gestori, che certo non avrebbero voglia di passare per cavillosi, lignistuarti e cazziddrusi. Spostandoci dall’agriturismo alla fabbrica dei nomi dei vini, è ad esempio ineludibile il potere evocativo di “Terre lontane”, un Cirò bianco che così nomina il proprio cru, oppure “Magno Megonio” che evidentemente non è “Mario Rossi” e che traina un’idea di ricchezza, di aristocrazia, di antichità (e poi di “testamento”, etc.). Pur nella prevalenza dei toponimi (richiesta dai disciplinari del DOC), si tratta sempre di nomi surdeterminati che inscenano una densa polivocità semiotica. In altre parole non si limita a trasmettere un'informazione pura e semplice a proposito di quell'unico oggetto di cui crediamo di parlare. Per quanto riguarda il nome dei vini, ci troviamo dinanzi a un trionfo di toponimi, dispositivo che ovviamente scaturisce dai disciplinari DOC e l’IGT, mentre i nomi creativi finiscono con l’interessare i vini da tavola. La ricerca di una marca di caratterizzazione non esclude però l’aggiunta di un nome d’invenzione da apporre sopra l’indicazione geografica. Alcuni nomi si direbbero "pragmatici", per dire del rinvio agli effetti o alle condizioni di degustazione. E’ il caso di: Quattro Chiacchiere bianco toscano senza troppe pretese, da bere fresco, conviviale e "conversazionale"; In altri casi prevale il suggerimento degli abbinamenti. E’ il caso di Villa Mangiacane Chianti classico che, toponimo a parte (un podere dei Machiavelli), evoca duramente l'abbinamento con la selvaggina e gli arrosti. Spesso prevale metonimicamente l’ingrediente o l’aroma prevalente. E’ il caso di Mandolaia un nome che deriva sì da un'antica tradizione fiabesca trentina ma che evoca con precisione un vino da fine pasto, dall'aroma di pesche albicocca e mandorle. Oppure è il caso di Passule altro vino “da meditazione” (calabrese) che con evidenza ricorda l’ingrediente principale. In molti altri vini prevale il riferimento al carattere, attributo primariamente del vino, che spesso finisce col giocare nell’interscambio col produttore. E se nel caso di Casamatta ancora prevale il riferimento a una tipologia costruttiva (come tutti i vari castelli, casali, casini, ville, fattorie, etc.) prevalente nel paesaggio rurale, Testamatta e Grilli del Testamatta sono nomi di vini toscani che ci raccontano senza ombra di dubbio il carattere passionale e caparbio del vino, oltre che del produttore (Bibi Graetz). La cantina Terre del Gufo (nome antropomorfico suggerito dal profilo del proprietario, arguto e arcigno come quello del gufo) per la fascia alta dei suoi rossi (paradossalmente è un vino da tavola perché non usa il Donnici ma un prezioso Syrah opta per Timpamara. In “Timpamara” non c’è solo l’allusione a una nota prevalente, a una speziatura, a un retrogusto, (ricordo che a Domanico c’è un agriturismo che battezzai semplicemente col nome della contrada: Chiusa sotto la timpa), c’è la capacità di essere unico, sempre diverso e sempre sorprendente, dove il fascino di un luogo, di un’uva, di un’annata - ma anche della maestria di chi lo ha prodotto - si svelano all’interno di un calice raccontando sempre storie diverse. Ammoniva Luigi Veronelli: “attenti, va trattenuto in bocca, così da ascoltarne il racconto. C’è dentro la fatica dei contadini”. Questioni di eufonia “Perché dici sempre Gianna e Margherita, e mai Margherita e Gianna? Preferisci Gianna alla sua sorella gemella?" - "Niente affatto, ma così suona più gradevolmente". Ecco, i pubblicitari, quelli bravi, anche senza aver letto Jakobson, dicono sempre Gianna e Margherita e – pure - l'orribile Oreste ("perché orribile, perché non terribile, tremendo, insopportabile..." - "non so perché, ma orribile gli sta meglio"). Alcuni poi, con un guizzo, giungono a inventare “il rum più bevuto nei peggiori bar di Caracas”, contribuendo alla liquidazione di una trita rassicurazione borghese, l’ipostasi del migliore. Brand est consequentia naming Per i pubblicitari il “logotipo”, amichevolmente abbreviato “logo”, sta per logogram o logotype: "logo, the lay out of a sponsor's name, brand or slogan". Per quanto siano ignoranti e/o anglofoni, non sfugge loro il fatto che tutto gira intorno al logos. E nemmeno che il nomen sia una specie di numen. Nomen, numen: un gioco di parole spesso presente in Victor Hugo. La parola nomen ha in effetti una forma originale che la mette in rapporto con numen, il sacro. Una esplicitazione che avviene con cinquant’anni di anticipo sull’idea di patto col lettore-consumatore e di “marca relazionale”. Ci relazionamo alla marca come se fossero divinità. Non da oggi siamo adoratori della merce. Marx sosteneva che per cercare d’intenderne la logica occorreva frugare nel nebuloso mondo delle religioni. L’ossessione del brand, della marca, a cui ci ha abituati il perverso dispositivo dell’advermarketing, siamo tutti un po’ dopati dalla marca, ha però il pregio di aver capovolto l’idea di stigma e di marchio d’infamia. Gioco d’anticipo, “mi marco da me” sembra dire il branding. Prima che lo facciano gli altri, concorrenti scomunicanti, ne stabilisco le forme e il dove marchiarmi. In altre parole, il posizionamento. Brand anche etimologicamente è come marchio/marca. In francone (il dialetto tedesco parlato dai Franchi, nell'alto medioevo) il verbo brennan sta per 'ardere', 'bruciare'. Brand sta per 'cosa che brucia', 'tizzone'. Si registra evidentemente un processo di metatesi: brun-, burn-. Il concetto è lo stesso di marchiare a fuoco i criminali, il bestiame, gli schiavi. Altro che “no logo”! Se non si può uscire dal linguaggio, non si potrà uscire dalla retorica. E dunque nemmeno dalla non-marca. La dimostrazione ce la fornisce Jacques Séguéla coi “prodotti liberi”. Anche le cosiddette smarche finiscono con l’avere un brand e una buona dose di personalità. In questi casi la tautologia è solo apparente: l’huile Huile e le café Café (facilitatore il secondo termine in maiuscolo), vale a dire l’olio olio e il caffè caffè stanno per il vero olio, il vero caffè. Poteri della reduplicazione 1 e della diafora 2. Completa il tutto la bellissima metafora della libertà che si affaccia nel claim: “les produits libres”. In Italia i farmaci a brevetto scaduto li si sono definiti “generici” o “equivalenti”3: in fondo ammettendo di essere una copia, una smarca. Definirli liberi ha evidentemente una marcia in più. Liberi da cosa? Dalla tirannia della marca. “Sans nom. Aussi bons. Moins cher”. Ovviamente – ma poco importa - una contraddizione in termini, giacché son marcati Carrefour. E’ interessante notare che è in onda una bella campagna di un network di produttori vitivinicoli piccoli e medi che inneggiano ai vini “liberi”. Nella diversità geografica e delle tipicità, tutti accomunati dall’essersi liberati dai pesticidi e dai solfiti. Lo spazio del vino e il balletto delle etichette Il concetto di qualità delle produzioni agricole è strettamente connesso a quello di agro-ecosistema, inteso come risultato dell’azione combinata ed armonica di più fattori riconducibili all’ambiente fisico (clima, suolo), al genotipo (specie, cultivar) e agli aspetti antropici (tecniche di gestione). Mentre i fattori genetici ed antropici possono essere entro certi limiti modificati, l’ambiente fisico rappresenta, nell’ambito del sistema produttivo, l’elemento immutabile, seppur fortemente variabile nello spazio. Da ciò deriva l‘unicità (tipicità) di alcuni prodotti la cui immagine è fortemente legata al territorio, primi fra questi l’olio e i vini di qualità. Premesso ciò, come vengono comunicati l’ancoramento territoriale e l’unicità? La reduplicazione svolge una funzione semantica quando il secondo elemento ha la funzione aggettivale di limitare e precisare il valore del primo (per es., caffè caffè, cioè fatto con vero caffè e non con surrogati, ovvero caffè molto buono); 2 diafora: figura retorica, detta dai latini distinctio, che consiste nel ripetere una stessa espressione attribuendole però un significato diverso: positivo, quando il significato viene rinforzato in direzione di una maggiore pregnanza (“anche se quell’uomo è un nemico, resta sempre un uomo”); negativo, quando viene revocato uno dei significati dati con effetti di ironia o di amplificazione (“La mattina seguente Don Rodrigo si svegliò Don Rodrigo”). 3 Ancora una volta una “reduplicazione” ma questa volta in senso biologico, copia di replicazione di una specialità medicinale registrata, fondata sulla bioequivalenza. 1 Ogni comunità semiotizza il proprio spazio e istituisce il territorio come testo semiotico in cui si iscrivono e prendono forma in strutture territoriali le relazioni sociali. Nel territorio è dunque scritta l’identità e la storia di una comunità. L’uomo non solo percepisce lo spazio e agisce nello spazio, ma anche lo costruisce per esprimere la struttura del suo mondo. L’uomo ha infatti la necessità di stabilire e cogliere relazioni vitali nell’ambiente in cui è inserito, di conferire significato e ordine alle cose e agli avvenimenti e alle azioni. 4 Infatti, quando si parla di prodotti tipici, si vuole intendere un prodotto con caratteristiche uniche; caratteristiche che solo ed esclusivamente cultura, storia, tradizioni, clima, posizione geografica di quel territorio possono regalare. Il ruolo del tempo è preminente non solo nella sovradeterminazione del paesaggio ma pure nel concetto più ampio di "produzione di luogo". E' di Benjamin la distinzione tra l'ottica con cui una città è vista da uno straniero e da un nativo del luogo: mentre lo straniero ha una visione prevalentemente spaziale, il nativo ne ha una visione soprattutto temporale. Le mappe e ancor più le osservazioni ad esse connesse s'inscrivono in una topografia culturale, "presuppongono un viaggio della mente e un'idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l'oggetto città, ma dell'oggetto guardato" (Maria Corti).5 Ciò determina, solo per richiamare uno degli aspetti più ricorrenti del marketing territoriale e della comunicazione turistica, l'enfatizzazione dei percorsi: le strade del vino, le vie dell'olio, le carte della sosta. Indicazioni di viaggio non solo nello spazio ma pure nel tempo. “La capacità degli imprenditori vitivinicoli italiani ha saputo imporre non solo un’eccellenza qualitativa ma soprattutto un’unicità spazio-temporale, impossibile da riprodurre altrove (…). Il mondo del vino ha saputo riempire di altri contenuti, soprattutto culturali, la bottiglia stessa”. Philippe Daverio, critico d’arte, in un intervento al Vinitaly 2006 (la sottolineatura è mia). 5 Maria Corti, La città come luogo mentale,, in "Casabella" n. 535, 1987 4 Scrive Alessandro Cappabianca: "C'è del nome nel luogo come c'è del luogo nel nome" 6. Il nome è il garante dell'identità, ma anche della continuità: ciò che sparisce, se non sparisce il nome, non sparisce del tutto. Il vino, le sue parole sinestesiche e paesaggistiche, i suoi nomi che quasi sempre sono toponimi, tengono desta l’attenzione sui luoghi. In altri termini, il vino è un produttore di luogo. E non solo nel senso del marketing cosiddetto territoriale. Con un corollario: il vino tiene in vita alcune parole diversamente condannate al dimenticatoio. A cavallo tra denotazione e connotazione, tra parola “selvaggia” (fondata sull’invenzione) e parola “missionaria” (concepita in modo puramente strumentale, destinata a promuovere una cultura settoriale), si tratta di un giacimento semantico prima ancora che enogastronomico. Le parole del vino e quelle del paesaggio sono accomunate da un certo furore descrittivo. Entrambi cercano l’inscape, parola che preleviamo da Gerald Manley Hopkins7, per dire la visione che si ha dal di dentro d'un luogo, ma anche dentro di sé. Quanto paesaggio è contenuto nel nome? Critone è in fondo il nome di una contrada di Strongoli ma è pure fortemente sovra-determinato e il consumatore berrà con quel bianco un po’ di antico, di pensosità, di filosofia, di grecità. Potremmo leggere la zonizzazione vitivinicola come una “quadrettatura del possibile” 8? Per far questo risulta utile appoggiarsi alla nozione di inscape e più in generale al tripode "inscape, escape, landscape". Il furore descrittivo legato al mondo dei vini tende all’inscape e al suo correlato: il landscape. Promettendo una fuga (escape). Alessandro Cappabianca, Distruggere l’architettura, Serra e Riva, 1990 Gerald Manley Hopkins, teneva dei diari o taccuini in cui scriveva un consuntivo di cose che aveva osservato. I suoi argomenti sono: le forme e i colori delle nuvole; le forme dei vari tipi di alberi che ha visto, con anche i loro sviluppi; le luci a certe ore del giorno ed eventuali temporali; la neve d'inverno; lo sboccio di fiori in primavera etc. 6 7 8 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (II), Einaudi, 1980 Se la marca - nella nostra epoca - mostra di allontanarsi sempre più dal prodotto, la comunicazione cerca strenuamente un "instress", un ritmo, e un "inscape", un senso fulmineo dell'evocare appieno la cosa territoriale. Tutto il discorso pubblicitario, non solo la comunicazione dei vini o quella turistica, una volta abdicato a qualsiasi pretesa persuasiva, appare oggi come un grande dispositivo produttore di luogo, di paesaggi. La poligrafia dei prodotti della terra Quella del vino, dell’olio, del pane, delle conserve, è una storia rurale. Racconta di un segreto, di un passato indenne attraverso millenni, che ha saputo crescere e svilupparsi negli ultimi tre secoli all’interno del mercato occidentale. E’ la capacità di racchiudere all’interno di una bottiglia o di un vasetto un brano di storia, di memoria, e portarlo quasi immutato, o meglio, con un lento processo evolutivo, conservando, il gusto di anni anche lontani, il segreto di una longevità che continua a esercitare fascino in una società dove sembra essersi perso il senso del tempo. Una dimensione recuperata invece attraverso un prodotto che racchiude in se tutti i poli delle tensioni culturali della società moderna: natura e storia, biologia e cultura, tradizione e innovazione, tecnica e mito. Tra gli infiniti profumi e sapori che il vino e l’olio sono in grado di esprimere si racconta una storia millenaria di rapporti tra l’uomo e l’ambiente. La campagna, le colline, i vigneti, i rumori e le voci del luogo, tutto riverbera in un’etichetta. In una presa d’assieme che lega il prodotto tipico al lavoro (oltre che al consumo) umano, al paesaggio, alle condizioni climatiche, alla tipologia abitativa, etc. E’ questa la “poligrafia” del vino. Quell’infinito di segni, tendenzialmente e naturalmente isotopici9, che finiranno col riverberare prima nella denominazione, poi Secondo Greimas due o più elementi formano un'isotopia quando sono semanticamente omogenei, cioè quando si strutturano allo stesso livello di senso. Ad es. nell'ambito fonologico l'assonanza, l'allitterazione, la paronomasia, la rima formano delle isotopie. Sul piano semantico l'iterazione di certe parole (anafora) può costituire un'indicazione isotopica. nell’etichetta, nel suo vestito. Come in ogni fabula ogni enunciato narrativo è un passo necessario per raggiungere lo stato di cose cui si applicherà l'enunciato narrativo successivo; al contrario da un dato enunciato narrativo, si potrà risalire agli enunciati narrativi ad esso precedenti e da esso presupposti. Per questo motivo una storia si capisce veramente soltanto alla fine. E’ la degustazione che reinterroga la catena e che fa sì che si colga nella bottiglia un certo racconto, un certo movimento, un passo di danza. Altrimenti detto: l’iperisotopia genera coreografia in un teatro di campagna. Le etichette instaurano col paesaggio una sorta d’inscape, parola che usiamo come termine medio tra il contenuto della bottiglia e il territorio d’appartenenza. L’etichetta mette in scena sia l’inscape del vino che quello del microclima e del paesaggio chiamato terroir. L’etichetta, metaforicamente intesa come abbigliaggio, “paesaggifica”. E se è un abito – con Deleuze e Guattari – potremo sostenere che “viseifica”. L’abito infatti è una viseificazione del corpo. Prof. Massimo Celani 09/11/2013