La storia della salvezza nelle vetrate di Pino Casarini
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La storia della salvezza nelle vetrate di Pino Casarini
Prof.ssa Elena Bartolini Pino Casarini (Verona, 1897 – 1972) lavora nell’Istituto nel 1954 per le vetrate della Cappella della comunità di Verona Porta Nuova, dove raffigura i misteri del Rosario, e negli anni 1966/ ’67 per le vetrate della Cappella di Casa Madre a Castelletto di Brenzone che illustrano la storia della salvezza. Queste vetrate, “per varietà delle soluzioni compositive, formali ed espressive,possono essere considerate una summa della pittura a fuoco di Casarini, dalle immagini più teneramente liriche a quelle più drammatiche”. La storia della salvezza, come si rivela attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento è dispiegata, per quasi 80 mq, a partire dalla creazione, alla promessa del Messia della Genesi fino al suo incarnarsi e attuare il disegno del Padre nella missione che giunge al Calvario e alla glorificazione. La Prof.ssa Elena Bartolini, docente di Lingua e Cultura ebraica, a partire dai passi biblici e dai nomi dei personaggi rappresentati dall’artista che ha utilizzato il testo originale ebraico della Scrittura, ci offre una lettura delle vetrate dell’Antica Alleanza, con riferimento alla “particolare teologia biblica che emerge dai simboli utilizzati, dalla scelta di episodi biblici raffigurati e dal modo in cui le diverse scene sono state messe in relazione fra loro”. Si tratta di una “lettura simbolica possibile, che non pretende di essere unica o esaustiva, ma che cerca di orientare l’osservatore alla luce delle dinamiche con cui i testi biblici qui raffigurati sono interpretati sia all’interno della tradizione ebraica, che per prima li ha fissati, che di quella cristiana che li ha ricevuti e riletti a partire dal mistero pasquale di Gesù di Nazaret conosciuto come Messia”. Presentazione delle vetrate decorate da Pino Casarini nella Cappella dell’Istituto delle Piccole Suore della Sacra Famiglia in occasione del 75° Anniversario di fondazione: 1967 I “segni” particolari della storia della salvezza universale Vetrate del raccordo: lato Ovest e lato Nord Queste vetrate, decorate fra il 1966 e il 1967 da Pino Casarini (18971972) per la Chiesa della Casa Madre delle Piccole Suore della Sacra Famiglia in occasione del 75 dell’Istituto, non possono non colpire chi le osserva sia per la loro imponenza che per la ricchezza simbolica con cui illustrano alcuni momenti significativi della storia della salvezza. In questo raccordo, che unisce la parte più antica della Chiesa con quella più nuova, è rappresentato l’Antico Testamento con particolare attenzione ad alcune connessioni con i suoi imprevedibili sviluppi nel Nuovo. Si nota inoltre la ricerca di forme e colori che esprimano il più possibile una comprensione di Dio in riferimento al mistero trinitario, segno di una particolare sensibilità che cerca una sintesi fra intuizioni artistiche e teologia biblica, secondo una prospettiva cristocentrica che si mantiene in dialogo col contesto di fede ebraica nell’ambito del quale avviene l’incarnazione. Dalla documentazione sull’artista e sulle sue opere in possesso dell’Istituto, fornitami gentilmente da Suor Emilia Andreose che teneva in modo particolare allo studio e alla spiegazione delle immagini di queste vetrate, si deduce una sincera passione del Casarini per la Sacra Scrittura che, non solo leggeva con interesse, ma della quale ricercava il senso profondo consultandosi con biblisti e teologi ai quali chiedeva spesso consulenza attraverso incontri che potevano durare anni. Tale passione riusciva inoltre a coinvolgere chi entrava in relazione con lui: le stesse Suore di Castelletto ricordano di aver imparato dalle sue conversazioni a gustare il “libro sacro” da lui illustrato con lo spirito e l’intuito di chi, attraverso l’arte, comunica il suo essere un uomo aperto al mistero. Le spiegazioni che seguono, e che purtroppo non possono trovare riscontro diretto con il pensiero dell’artista in quanto il medesimo non ha lasciato indicazioni scritte al riguardo, cercano di sottolineare la particolare teologia biblica che emerge dai simboli utilizzati, dalla scelta degli episodi biblici raffigurati e dal modo con cui le diverse scene sono state messe in relazione fra loro. Quella che si offre è pertanto una lettura simbolica possibile, che non pretende di essere unica o esaustiva, ma che cerca di orientare l’osservatore alla luce delle dinamiche con cui i testi biblici qui raffigurati sono interpretati sia all’interno della tradizione ebraica, che per prima li ha fissati, che di quella cristiana che li ha ricevuti e riletti a partire dal mistero pasquale di Gesù di Nazaret riconosciuto come Messia. Il percorso parte dalla vetrata del lato ovest che presenta al centro la creazione, per poi proseguire con la vetrata del lato nord che presenta al centro l’Arca di Noè dopo il diluvio. Già da un primo sguardo d’insieme si può notare la particolare scelta tematica dell’artista: da una parte la creazione, che sottolinea l’universalità della storia umana, attorno alla quale si articola la storia particolare del popolo di Israele da Abramo a Mosè; dall’altra la prospettiva universale dell’Alleanza testimoniata da Noè e dai profeti con particolare attenzione ad alcuni incontri significativi fra ebrei e gentili. Tutto ciò orientato fin dalle origini da una promessa divina di salvezza che nella storia si svela e si compie. Tale promessa, nella testimonianza anticotestamentaria, si mostra attraverso la cultura e la lingua del popolo di Israele che costituisce il mezzo con cui la parola di Dio entra nella storia degli uomini, per questo l’ebraico rimane la “lingua sacra” di un’esperienza di Alleanza che in Gesù ha trovato conferma e compimento. Significativa allora la decisione del Casarini di riproporre passi biblici e nomi dei personaggi rappresentati preferendo il testo originale ebraico della Scrittura. perdenti. Se, da una parte, il peccato degli uomini può essere causa di sventura, dall’altra c’è la garanzia dell’amore fedele di un Dio che non può venir meno ad una promessa di vita e di bene. È questo l’orizzonte di fede in cui avviene l’incarnazione e affonda le radici il mistero cristiano in una prospettiva di continuità e novità. Elena Bartolini Castelletto, agosto 2002 quali perdonerà il peccato dimenticando tutte le loro colpe. Riedificherà inoltre Gerusalemme che non sarà più distrutta (cf. Ger 31,31-34). La visione del profeta Ezechiele (subito sotto). Ritroviamo qui la visione con cui il profeta Ezechiele riceve da Dio la promessa di restaurazione dopo la distruzione recepita come castigo. L’immagine, significativamente posta in corrispondenza dei morti del diluvio, è quella delle “ossa inaridite” che ricevono di nuovo la vita dallo Spirito di Dio (cf. Ez 37,1-6). Anche in questo caso è significativo l’atteggiamento del profeta che, con le braccia distese verso i cadaveri, sembra soffiare su di loro. Il gesto sottolinea che questa è una situazione di morte alla quale tuttavia si contrappone una promessa divina di vita: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” (Ez 37,13-14). Se, da una parte, la profezia è riferita alla fine dell’esilio e al ritorno a Gerusalemme, dall’altra lascia spazio alla fede nella resurrezione intesa come azione divina che ridona la vita. Anche questa volta l’utilizzo del colore rosso si conferma in relazione all’azione di Dio e ai suoi segni nella storia che, in questa vetrata, sottolineano in modo significativo l’universalità di un messaggio di salvezza che trova una sua particolare mediazione nel rapporto fra il popolo di Israele e le genti. Le immagini profetiche ci mostrano infatti come l’incontro, spesso in contesti perdenti, fra ebrei e gentili può divenire spazio rivelativo. Significativa è la presenza in questo contesto di due donne: Giaele e Giuditta, che rimanda a tutte le grandi donne che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia della salvezza, come le mogli dei patriarchi, Miriam, Anna Deborah, Ester, Ruth, Elisabetta, Maria … segno di una profezia che si esprime anche al femminile. Emerge inoltre che la storia della salvezza si svela e attua nel tempo rimanendo strettamente connessa alle vicende umane, alle scelte degli uomini spesso contraddittorie, alternando momenti vincenti a momenti L’universalità della creazione e la particolarità della storia del popolo di Israele (lato ovest) IL PASSAGGIO DEL MAR ROSSO LE TAVOLE DELL’ALLEANZA SPEZZATE GIUSEPPE VENDUTO DAI FRATELLI IL DONO DELLA MANNA GIUSEPPE SI FA RICONOSCERE DIO CREATORE LA LOTTA DI GIACOBBE ABRAMO E MELKISEDEK IL SOGNO DI GIACOBBE TRE ANGELI VISITANO ABRAMO ABRAMO È MESSO ALLA PROVA Scena centrale: creazione divina e conseguenze del peccato umano La scena centrale che domina la vetrata presenta in primo piano Dio Creatore circondato da schiere angeliche. Secondo la Scrittura l’azione del “creare” è propria di Dio, tanto che il testo ebraico utilizza una particolare radice verbale, che può avere come soggetto soltanto il Signore, per distinguere il “creare” divino (bara’) dal “fare” dell’uomo (‘asà) che può solo trasformare ciò che già è stato creato. Particolarmente significativi sono i colori della veste e del manto di Dio: l’azzurro e il rosso che, nell’iconografia cristiana, esprimono la compresenza di divinità e umanità, trascendenza e immanenza. È un esplicito richiamo simbolico al mistero dell’incarnazione, sottolineato anche dall’aureola divina a forma triangolare che rimanda a quello trinitario. In questa prospettiva possiamo considerare anche le mani di Dio: la destra indica l’alto, quindi la trascendenza, mentre la sinistra è orientata verso il basso con le tre dita centrali unite, interpretabili come ulteriore riferimento ad una comunione trinitaria aperta alla storia. Le schiere angeliche, che circondano Dio Creatore, richiamano un modo tipicamente biblico di definire il Signore, là dove si dice che è il “Dio degli eserciti”, affermazione che non va intesa nel senso di un “Dio guerriero”, ma di un Dio circondato appunto da schiere angeliche che, collaborando con Lui, costituiscono una mediazione della Sua rivelazione nei confronti dell’umanità. Spesso infatti la Scrittura ci presenta gli angeli come inviati da Dio che portano Suoi messaggi agli uomini. Tali schiere sono raffigurate utilizzando una simbologia particolarmente interessante: sulla sinistra di quella centrale che circonda Dio, e che è rappresentata secondo il canone tradizionale della figura umana alata, compaiono altre due schiere che si presentano invece come un insieme di figure circolari, un gruppo delle quali ha al centro un occhio luminoso mentre l’altro, munito di piccole ali, ha al centro una corona anch’essa luminosa. Un possibile riferimento simbolico è al capitolo quarto dell’Apocalisse, dove si descrive Dio glorificato sul Suo trono dalla corte celeste, che comprende “vegliardi” seduti su seggi con corone d’oro sul capo (cf. Ap 4,4-5). A ciò si può aggiungere che l’utilizzo di forme circolari o sferiche è abbastanza ricorrente nell’iconografia religiosa che coglie in queste figure geometriche un simbolo di eternità: il cerchio e la sfera si caratterizzano infatti per essere un insieme infinito di punti. La mistica ebraica utilizza questa immagine in relazione alle sefirot, che sono una sorta di “emanazioni divine” da intendersi nell’orizzonte di “ipostasi” ove immanenza e trascendenza coabitano, e che esprimono la modalità con cui Dio “entra” nella storia e sta in relazione con la medesima: sono il segno della luce divina percepibile attraverso la materia creata, luce che porta in sé la regalità della parola del Signore. Non a caso, ancora oggi, il rotolo della Scrittura conservato nelle Sinagoghe e comprendente la Torà, il Pentateuco, viene adornato con una corona che sottolinea tale dimensione. La raffigurazione centrale, che rimette a tema la grandezza dell’azione creatrice di Dio, è completata da quattro pannelli più piccoli che ripropongono la creazione di Adamo e di Eva tratta da una sua costola come il Signore possa rivelarsi alle genti attraverso il suo popolo. Il profeta Isaia annuncia al re Acaz la nascita di un figlio (subito sopra). La scena ripropone ciò che è narrato al capitolo settimo del libro di Isaia, nella sezione denominata come “Il libro dell’Emmanuele”, che in ebraico significa “Dio con noi”. Il profeta, raffigurato con un mantello rosso che può essere considerato in relazione al suo essere un portavoce di Dio, suggerisce al re Acaz che si trova in una situazione politica difficile di chiedere un segno al Signore. Di fronte al rifiuto del monarca Isaia annuncia che Dio stesso darà un segno: “la vergine/giovane donna (in ebraico ‘almà che significa “giovane donna in età da marito”) concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” (Is 7,14). È un segno per Acaz, probabilmente riferito al suo futuro figlio Ezechia, ma che per il particolare nome può anche essere interpretato in prospettiva messianica. Per questo la tradizione cristiana collega tale evento con l’annunciazione della nascita di Gesù (cf. Mt 1,22-23; Lc 1,31). Tale relazione è anche qui rilevabile, ma c’è di più: la donna è raffigura con un aureola e con il capo coronato di stelle (cf. Ap 12,1), tiene in grembo un bambino che, con le braccia aperte, rimanda alla morte in croce, alle sue spalle vi sono due angeli. È pertanto evidente il collegamento con il concepimento di Gesù in Maria, ma è anche evidente quello con il suo mistero pasquale, richiamato sia dal segno della croce che dalla duplice presenza degli angeli che rimandano a quelli che, presso la tomba vuota, invitano le donne a “non cercare fra i morti colui che è vivo” (cf. Lc 24,4-5). La profezia di Geremia su Gerusalemme (a destra del quadro centrale, alla stessa altezza). La scena raffigura il profeta Geremia che profetizza la distruzione di Gerusalemme e l’esilio per il popolo (cf. Ger 13-15,9). Significativa la posizione delle braccia e delle mani del profeta: la sinistra, rivolta verso l’alto, rimanda alla “sinistra di Dio” che secondo la tradizione biblica è la mano divina che giudica e castiga, mentre la destra, rivolta verso il basso, mostra i segni di tale giudizio e può essere collegata al fuoco rosso che distrugge. Non è tuttavia un giudizio definitivo: Dio stesso farà una nuova Alleanza col suo popolo, nel senso che rinnoverà quella già stipulata, e scriverà il suo insegnamento nel cuore degli uomini ai questo gesto affinché il Signore possa convertire il cuore di chi ha peccato contro di lui (cf. 1Re 18,27). Il sacrificio che il fuoco divino consuma, appare pertanto un segno dal duplice significato: rivela chi è l’unico Dio degno di lode e ristabilisce la comunione con il popolo chiamato a testimoniarne la verità fra le genti. Il generale Naaman si presenta al profeta Eliseo dopo la guarigione (subito a destra), che avviene nonostante le perplessità iniziali dovute al singolare comportamento del profeta che, anziché riceverlo personalmente, gli comunica cosa fare attraverso un messaggero (cf. 2Re 5,8-14). Naaman, generale del re di Aram che ha sconfitto gli israeliti, è malato di lebbra e ha saputo che in Samaria c’è un profeta capace di guarire, per questo si è recato da lui. La guarigione diventa momento rivelativo che spinge il generale a tornare da Eliseo per dirgli: “Ebbene, ora so che c’è un Dio su tutta la terra se non in Israele. Ora accetta un dono dal tuo servo”; ma Eliseo, che sa di essere il mediatore di una salvezza che non gli appartiene, risponde: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò” (2Re 5,15-16). L’arameo Naaman incontra e riconosce così il Dio di Israele attraverso il suo rapporto con Eliseo, qui raffigurato con un mantello rosso che può essere considerato un segno del suo essere “un uomo di Dio” (cf. 2Re 5,8 e 15). Daniele indovina e spiega a Nabucodonosor un sogno che lo preoccupa (a sinistra sopra Davide e Golia). Si tratta di un particolare momento della vicenda di Daniele deportato presso la corte del re di Babilonia assieme ad Anania, Misaele e Azaria (cf. Dn 1-2). Il monarca ha fatto una richiesta impossibile che li coinvolge: devono indovinare e spiegare un sogno che lo preoccupa ma del quale non intende rivelare nulla. Se non ne saranno capaci verranno sterminati insieme ai saggi e a tutti gli indovini di corte. Insieme invocano Dio che svela a Daniele cosa riferire al re: egli ha sognato una particolare statua che rappresenta cosa accadrà al suo regno. Di fronte alle spiegazioni di Daniele, Nabucodonosor non solo riconosce la sua saggezza ma incontra il Dio di Israele e dice: “Certo, il vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei re e il rivelatore dei misteri, poiché tu hai potuto svelare questo mistero” (Dn 2,47). È una significativa testimonianza di (cf. Gen 2,7ss.), il peccato originale e la conseguente cacciata dal giardino dell’Eden (cf. Gen 3,1ss.). Se ci si sofferma sulla creazione di Adamo, ci si accorge che Dio è raffigurato in un atteggiamento che richiama Gesù sotto il peso della croce, chiara allusione all’incarnazione e al mistero pasquale. Viene così riproposta la relazione fra Adamo e Gesù spiegata dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita” (Rm 5,18). Come si può notare, dall’insieme emerge un uso particolare del colore rosso: è il colore sia del manto divino che dell’aureola del Signore nelle due scene che mostrano la creazione di Adamo e di Eva, ed è lo stesso colore del fuoco nelle mani degli angeli che, nell’ambito della creazione sembra sottolineare continuità fra Dio, gli angeli e la coppia umana, evidenziando quindi l’essere degli uomini ad immagine divina, mentre nell’ambito della cacciata dopo il peccato sembra sottolineare il giudizio divino di fronte all’uso scorretto della libertà umana. Emerge così la duplice valenza del segno del fuoco nella Scrittura: può essere infatti un fuoco rivelativo come quello del roveto attraverso il quale un angelo di Dio parla a Mosè (cf. Es 3,2), oppure può essere un fuoco distruttivo come quello con cui il Signore punisce il peccato di Sodoma (cf. Gen 19,23-25). Dieci pannelli per dieci momenti-chiave della storia del popolo di Israele Attorno al gesto divino della creazione, che ha a che fare con l’universalità della storia umana, si articolano dieci scene che sottolineano invece la particolarità della storia del popolo ebraico da Abramo a Mosè. La tradizione ebraica individua un particolare rapporto fra la creazione del mondo e dell’umanità e la chiamata di Abramo mettendo in relazione le parole del primo capitolo della Genesi con quelle del dodicesimo: se infatti consideriamo i versetti relativi al primo giorno della creazione (Gen 1,2-5), ci accorgiamo che la parola “luce” compare ben cinque volte, così come compare cinque volte l’espressione “benedire/benedizione” nella pericope relativa alla vocazione del primo patriarca (Gen 12,1-4a). Ciò starebbe a significare che all’abbondanza di luce della creazione originaria offuscata dal peccato umano, corrisponde un’abbondanza di benedizione, considerata come una sorta di “nuova creazione”, che attraverso Abramo e il popolo che da lui discende deve raggiungere “tutte le famiglie della terra”. Viene così sottolineato il fatto che, nella testimonianza biblica, l’universalità della rivelazione si manifesta nella storia attraverso quei particolari che Dio, secondo l’imperscrutabilità dei suoi disegni, elegge per un servizio di testimonianza fra le genti. Col gesto divino della creazione ha inizio infatti una rivelazione che avviene attraverso parole ed eventi che devono essere ascoltati e compresi a partire dai segni che si mostrano agli uomini nel tempo. In questo orizzonte sia l’elezione del popolo di Israele che l’incarnazione, nelle loro reciproche implicazioni, sono particolari e unici eventi che vanno considerati nella prospettiva del compimento della salvezza per tutti. Se osserviamo i dieci pannelli a partire dal basso a sinistra, che sono accompagnati da passi biblici riprodotti nell’originale ebraico, possiamo rilevare la seguente progressione: L’incontro fra Abramo e Melkisedeq. Le parole che accompagnano il quadro sono i due nomi dei protagonisti: Abramo e Melkisedeq, il cui nome, in ebraico Malkitzedeq, significa “il mio re è giustizia”. Questo incontro, narrato al capitolo quattordicesimo della Genesi (cf. Gen 14,17ss.), mostra il re-sacerdote dell’antica Shalem, divenuta poi Gerusalemme, che benedice Abramo nel Nome del “Dio Altissimo”. Secondo autorevoli commenti rabbinici (cf. Bereshit Rabbà XLIII,6), tale modo di agire mostra che in questo luogo, allora della gentilità, si venerava e si serviva l’unico Dio Creatore, per questo è un luogo di incontro significativo fra un autorevole gentile e Abramo, il primo patriarca. Tre angeli visitano Abramo e gli annunciano la nascita di Isacco, annuncio avvenuto presso le Querce di Mamre (cf. Gen 18,1-5). In secondo piano, seminascosta dalla tenda, si può notare Sara che incredula ride e, per questo, il figlio della promessa si chiamerà riscatto dalle sue precedenti scelte ambigue. La sua nascita era stata annunciata come quella di un “nazireo consacrato a Dio per liberare Israele” (cf. Gdc 13,1-8); egli si lascia invece sedurre dalla cultura cananea e sposa una filistea mettendosi così “nelle mani dei nemici”. Le conseguenze tragiche dell’astuto tradimento da parte della moglie Dalila (cf. Gdc 16,4-21), non solo lo mettono in una situazione grottesca, ma soprattutto gli mostrano il suo peccato. Solo quando ha il coraggio di ritornare pentito al Dio dei padri ritrova la sua forza e, pagando di persona, sconfigge i Filistei uccidendone un gran numero. La Scrittura commenta questo evento sottolineando che la morte di Sansone produce più vittime di quante egli non ne avesse fatte in vita (cf. Gdc 16,22-31). La forza sovrumana di Sansone si manifesta così in relazione alla fedeltà al Signore e alla volontà di riconoscere il proprio peccato. In questo contesto un segno di avvenuta conversione può essere colto nella veste rossa che egli indossa. Tutto ciò costituisce un insegnamento sia per il popolo di Israele che per i Filistei. Davide uccide il gigante Golia (in basso all’estrema sinistra). Famoso episodio narrato nel primo libro di Samuele, dove si mettono in risalto il coraggio, l’astuzia e la fede di Davide ancora ragazzo: egli infatti si offre volontariamente per accettare la sfida lanciata dal gigante filisteo all’esercito israelita, e fa questo convinto che il Signore, che Golia ha insultato, lo farà cadere nelle sue mani mostrando a tutti che il Dio di Israele “non salva per mezzo della spada” (cf. 1Sam 17,32-54). È in seguito a tale evento che il re Saul decide di tenere Davide con sé a corte (cf. 1Sam 17,55-18,2). Probabilmente Saul è il personaggio esultante raffigurato a destra di Davide vittorioso, il manto rosso che indossa potrebbe essere un segno della sua regalità che, come per ogni re di Israele, viene compresa in relazione ad una unzione divina. Il profeta Elia invoca dal cielo il fuoco di Dio (a destra di Davide e Golia), che domina il centro della scena con grandi fiamme rosse. Anche questo è un episodio noto: Elia, sul monte Carmelo, mostra a tutti la grandezza e l’unicità del Dio di Israele che, rispondendo alla sua invocazione, rivela la falsità dei profeti di Baal (cf. 1Re 18,2040). La narrazione biblica precisa inoltre che il profeta compie Isacco, in ebraico Jischaq, che significa “ha riso”. Le parole del versetto biblico sovrastante sono la risposta del Signore di fronte a tale reazione: “Qualcosa è impossibile per JHWH?” (Gen 18,14). Compare qui il tetragramma JHWH, che indica il Nome proprio del Dio di Israele, che non si vocalizza e non si pronunzia per rispettarne la trascendenza, cioè la sua inafferrabilità totale da parte dell’uomo. Tuttavia, tale dimensione “altra” non impedisce al Signore di mostrarsi e di agire nel mondo da lui creato attraverso parole ed eventi, espressi in ebraico con l’unico termine davar che comprende entrambi i significati. La Scrittura sottolinea così che questa nascita va compresa come un prodigio che Dio compie, nonostante la sterilità di Sara e l’età avanzata di Abramo, un vero e proprio miracolo affinché la promessa possa realizzarsi. Se osserviamo poi i colori degli abiti, ci accorgiamo che Abramo ha un mantello rosso mentre Sara è vestita di azzurro: insieme rimandano ai colori della veste e del manto di Dio, segno che permette di stabilire una relazione con l’essere ad immagine Sua come coppia che, in questo contesto, partecipa in maniera significativa alla storia della salvezza. nei limiti del possibile, le sequenze della narrazione biblica. A questo proposito, partendo dall’alto a sinistra, ci soffermeremo inizialmente sulle scene che, ai quattro angoli, presentano quattro gesti violenti connessi a particolari messaggi; successivamente considereremo le altre sei scene. Le scritte in ebraico che accompagnano ogni quadro indicano il nome del personaggio rappresentato. Giaele uccide il generale nemico Sisara (in alto all’estrema sinistra). Sulla scena si può notare Giaele che mostra a Barak il corpo senza vita di Sisara, confermando ciò che la profetessa e giudice di Israele Deborah gli aveva preannunciato: “Il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna” (Gdc 4,9). Tutta la narrazione della vicenda sottolinea il ruolo vincente dell’astuzia femminile (cf. Gdc 4,1ss.), tuttavia la Scrittura testimonia che questo evento viene compreso e celebrato come azione diretta di Dio a favore della salvezza del suo popolo, come si può rilevare dal cantico di Deborah a cui Barak si associa, nel quale si loda JHWH proclamando le sue vittorie (cf. Gdc 5,1ss.). In questa prospettiva è significativo che Barak indossi un mantello rosso. Giuditta uccide Oloferne (in alto all’estrema destra). La scena rappresenta anche in questo caso l’azione astuta e coraggiosa di una donna, Giuditta, che riesce ad uccidere il generale dell’esercito di Nabucodonosor che sta terrorizzando con la sua ferocia il popolo di Israele. Il modo con cui la Scrittura celebra la potenza di Dio che attraverso di lei si manifesta, sottolinea una particolare relazione con il suo comportamento “retto davanti a Dio” (cf. Gdt 13,17-20). Questa donna è infatti definita come una vedova dalla condotta irreprensibile che teme il Signore e osserva i suoi insegnamenti (cf. Gdt 8,1-8), capace di mettere a rischio la vita per la salvezza del suo popolo. Il rosso del sangue di Oloferne, che macchia il telo bianco nella mano sinistra di Giuditta, crea un contrasto significativo dal punto di vista simbolico: può essere interpretato come il segno della purezza di una vita integra (bianco) che permette alla giustizia di Dio (rosso) di manifestarsi. Sansone uccide i Filistei e muore (in basso all’estrema destra). Questo gesto, che gli costa la vita, costituisce in qualche modo un Abramo è messo alla prova. Le parole che accompagnano la raffigurazione sono quelle con cui Dio chiede ad Abramo il sacrificio di Isacco: “Offrilo là (sul Moria) in olocausto”(Gen 22,2). L’importanza di questo sacrificio sta proprio nel suo essere non compiuto, segno che il Dio di Israele mette alla prova ma non vuole sacrifici umani. Sulla scena sono visibili sia l’angelo che ferma il patriarca che l’ariete offerto in olocausto al posto di Isacco. Come si può inoltre notare, in tutte e tre le scene Abramo compare con un mantello rosso, segno che può essere interpretato come il richiamo alla dimensione rivelativa che la sua vicenda mostra. Il sogno di Giacobbe (immediatamente sopra), il passo biblico di riferimento ripropone le parole del patriarca successivamente alla visione degli angeli di Dio che salgono e scendono dalla scala che unisce cielo e terra: “Quanto è terribile (questo) luogo” (Gen 28,17), terribile nel senso che è segno di un mistero divino. Come si può notare, Dio è qui rappresentato, al culmine della precessione angelica, in modo analogo a quello con cui compare nella scena centrale della creazione ma con una variante simbolica interessante: la figura è molto piccola rispetto agli altri personaggi ed è nell’atteggiamento di Colui che soffia il suo Spirito verso la terra. Se inoltre osserviamo le sue mani, ci accorgiamo che la destra è appoggiata alle labbra mettendo in evidenza il dito indice e medio uniti, simbolo che nell’iconografia cristiana indica sempre l’unione della natura divina con quella umana, mentre la mano sinistra, come nel quadro della creazione, mostra con le dita centrali il numero tre rimandando al mistero trinitario. Si può pertanto cogliere una relazione fra il sogno di Giacobbe e l’incarnazione. La raffigurazione di tale sogno è posta inoltre accanto a quella del sonno di Adamo durante il quale avviene la creazione di Eva, fatto che ci permette un’altra associazione simbolica: secondo la narrazione biblica, la donna è stata tratta dall’uomo affinché fosse possibile una relazione fra essere umani diversi e complementari (cf. Gen 2,21-24); la tradizione ebraica commenta tutto ciò sottolineando che se tale relazione è d’amore autentico è un segno di Dio e della sua presenza nella storia, mentre se avviene nel segno dell’egoismo e del peccato è “come un fuoco” che consuma i due (cf. Talmud Babilonese, Sotah17a). In altri termini: quando la relazione uomodonna mostra la santità di una reciprocità donata è come la scala del sogno di Giacobbe che unisce terra e cielo. La lotta di Giacobbe con l’angelo inviato da Dio (alla stessa altezza a sinistra), accompagnata dalle parole con cui gli viene posto un nome nuovo che, secondo la tradizione biblica, è segno di un nuovo destino: “Non (sarai) più Giacobbe ma Israele” (Gen 32,29). In ebraico Giacobbe significa “inganno”, caratteristica che ha accompagnato fino a questo momento la vicenda del patriarca che, ingannando, ha carpito la primogenitura al fratello Esaù e si è arricchito per sposare le figlie di Labano che, a sua volta, aveva ingannato lui (cf. Gen 27,1ss.; 29-30). Il nuovo nome Israele, che Giacobbe riceve dopo essere stato ferito dell’angelo a causa della sua forza, può essere interpretato sia in senso strettamente letterale: “colui che vede Dio”, oppure così come spiegato dal testo biblico stesso: “colui che ha lottato con Dio e ha vinto”. Questo è il nome che ancora oggi designa il popolo della promessa che vive l’Alleanza, dinamica secondo la quale si può essere anche in rapporto dialettico con Dio. Sullo sfondo emerge poi un’altra scena secondo la promessa. Tutto ciò costituisce un “segno di salvezza” che si irradia positivamente fra i popoli, come ben sottolineato da Elia Benamozegh, rabbino a Livorno nella seconda metà del 1800 e autore di un importante saggio sui rapporti fra Israele e l’umanità, ecco cosa scrive nel medesimo: “Il vero spirito dell’ebraismo si manifesta chiaramente quando proclama che esistono, tra i gentili, uomini giusti amati da Dio, i cui meriti fanno la prosperità delle Nazioni. Non è soltanto Giobbe che i dottori citano come il giusto per eccellenza” (E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, p.209). I “giusti fra le Nazioni”, chiamati anche “timorati di Dio”, sono quindi coloro che insieme al popolo di Israele testimoniano l’orizzonte universale della salvezza rivelata nella Scrittura e, non a caso, sono menzionati anche dall’evangelista Luca negli Atti degli apostoli sia in riferimento alla Pentecoste che all’incontro fra Pietro e il centurione romano Cornelio (cf. At 2,11 e 10,2 e 22). Dieci pannelli per dieci momenti di profezia universale Attorno alla scena centrale e ai suoi segni universali di salvezza, si articolano dieci pannelli più piccoli che ripropongono dieci momenti profetici particolarmente significativi. È infatti attraverso la profezia che la Scrittura testimonia e sviluppa l’universalismo comunque già presente nella Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai. La scelta comprende sia i profeti maggiori che quelli minori, ma anche Davide, Sansone e Giaele che, nel canone biblico cristiano cattolico, sono personaggi che appartengono a libri considerati storici. Dal punto di vista ebraico tuttavia, i libri storici fanno invece parte della sezione profetica, in quanto sono la testimonianza di una storia vissuta e compresa come storia di salvezza, motivo per cui anche il canone biblico protestante ha preferito non estrapolarli dalla profezia. In questo contesto fanno eccezione il pannello dedicato a Daniele, che il canone ebraico e protestante collocano fra gli scritti agiografico-sapienziali, e il pannello dedicato a Giuditta, il cui libro è entrato tardivamente nel canone biblico cattolico ma non compare né in quello ebraico, né in quello protestante. In ogni caso la scelta dell’artista, nel suo insieme, lascia trasparire un orizzonte ecumenico di ampio respiro nel quale sono collocati segni e simboli universali. Vediamoli dunque nel dettaglio cercando di seguire, Il “segno dell’arco” è particolarmente significativo nella Scrittura: innanzitutto segue la decisione di Dio di “non maledire più la terra a causa dell’uomo” (cf. Gen 8,21); inoltre è connesso ad un momento dell’Alleanza fra il Signore e l’umanità che è in questo caso rappresentata da un uomo “giusto e integro” che non appartiene al popolo di Israele, in quanto tutto ciò precede la storia di Abramo, segno quindi di una prospettiva universale che verrà ribadita sia dalla chiamata del primo patriarca (cf. Gen 12,14a) che da tutta la profezia; infine questo è un segno sia per l’uomo che per Dio il quale, guardandolo ogni volta che comparirà fra le nubi, ricorderà l’Alleanza eterna stabilita attraverso Noè con “ogni carne che è sulla terra” (cf. Gen 9,14-17). Un segno naturale che esprime dunque un particolare legame fra il Signore e la storia, un impegno di pace che, come sottolineano alcuni commenti della tradizione rabbinica, risulta così legato ad un potenziale strumento di guerra: l’arco munito di corda è quello che il guerriero usa per scagliare frecce di morte, l’arco fra le nubi invece non ha corda, quindi non può scagliare frecce e non può uccidere, per questo può essere messo in relazione ai segni messianici della profezia di Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2,4). La tradizione ebraica individua inoltre nel patto fra Dio e Noè un interessante prospettiva universale nel segno del rapporto fra il popolo di Israele e le genti che vale la pena ricordare. Secondo la medesima, l’unica rivelazione Sinaitica comprenderebbe un insegnamento divino rivelato in duplice forma: 613 precetti, che costituiscono la prassi religiosa particolare per il popolo di Israele, e 7 precetti per i non ebrei definiti come “i precetti di Noè” o noachidi, in quanto sarebbero stati dati da Dio a questo “uomo giusto” dopo il diluvio (cfr.: Gen 8,21-9,17). Tali precetti, nella loro rielaborazione rabbinica, costituiscono una sorta di minimum di obblighi religiosi ai quali i “giusti come Noè” presenti in ogni Nazione possono attenersi per camminare con Israele. Tale prospettiva implica che ci sia una relazione positiva fra i gentili e il popolo ebraico che, in forme diverse, accolgono e vivono un’unica rivelazione che ha come obiettivo finale la stessa meta, la stessa salvezza, riconoscimento che fa parte del “benedirsi” in Abramo che sembra rimandare all’incontro rappacificatore fra Giacobbe/Israele ed Esaù (cf. Gen 33,1-11), nella quale il patriarca è vestito di rosso, segno che può essere interpretato in relazione all’esperienza della precedente “lotta vincente con Dio”. Giuseppe venduto dai fratelli (immediatamente sopra), le parole che accompagnano la scena sottolineano: “e vendettero Giuseppe” (Gen 37,28). L’immagine ci rimanda dunque agli ultimi capitoli della Genesi, che fanno da cerniera con l’Esodo narrandoci la vicenda di Giuseppe in Egitto seguita dalle benedizioni di Giacobbe sui figli prima della morte. Anche in questo caso una significativa associazione simbolica: la scena, che mostra il peccato dei figli di Giacobbe nei confronti del fratello Giuseppe, sta accanto a quella del peccato originale. Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli (alla stessa altezza a destra), il passo biblico riportato ripropone il momento in cui Giuseppe dice: “Sono io, Giuseppe, vostro fratello” (Gen 45,4), che culmina nell’abbraccio segno del perdono per quanto è avvenuto. Tutto ciò si contrappone simbolicamente alla cacciata dall’Eden accanto a cui questa scena è posta: tale cacciata non è una condanna definitiva perché Dio promette la sconfitta del male (cf. Gen 3,15) ed è pronto a perdonare il peccatore pentito (cf. Is 1,18; Sal 65,4), motivo per cui anche l’uomo può perdonare le offese ricevute. Ogni perdono umano è quindi segno della misericordia divina e, in questa prospettiva, si può considerare il colore rosso della cintura di Giuseppe. Il passaggio del Mar Rosso (in alto a sinistra), significativamente sottolineato dalle parole del cantico attribuito a Mosè: “JHWH è il suo Nome, è stato per me salvezza” (cf. Es 15,2-3). In nome della promessa fatta ad Abramo Dio libera dalla schiavitù il suo popolo che, guidato da Mosè, passa il Mar Rosso ed inizia il cammino nel deserto verso la Terra promessa. È un momento decisivo e unico nella storia della salvezza a partire dal quale va compreso anche il mistero pasquale che in Gesù si compie. Come si può notare Mosè, che svolge un ruolo-chiave in relazione all’azione liberatrice di Dio, è vestito di rosso. Il dono della manna nel deserto (in alto a destra), sottolineato dalla parole di Mosè che spiega al popolo: “È il pane che ha dato JHWH” (Es 16,15). È il segno dell’amorevole provvidenza divina che nutre e sostiene durante il cammino. Un dono di cui Dio stesso spiega le modalità di consumazione: deve infatti essere raccolto in base alle necessità giornaliere di ciascuno e, nel sesto giorno della settimana, in misura doppia al fine di poter osservare il riposo sabbatico, pertanto chi cerca di farne scorta lo vede imputridire (cf. Es 16,1630). In questo modo il popolo impara a non sentirsi proprietario ma amministratore secondo giustizia dei doni divini per tutti. Significativo è che, in questo contesto, un mantello rosso distingua un israelita che raccoglie la manna secondo le indicazioni di Dio sotto lo sguardo vigile di Mosè. Le tavole dell’Alleanza spezzate e il vitello d’oro (in alto al centro), accompagnate dalle parole: “Mosè scagliò dalle mani le tavole” (Es 32,19). Mentre Mosè è sul monte al cospetto di Dio, il popolo costruisce il vitello d’oro; il peccato consiste nell’aver voluto raffigurare il Signore sotto le sembianze di un essere vivente, violando così il secondo comandamento che vieta di farsi immagini di Lui (Es 20, 4-5). Per questo Mosè decide di spezzare le tavole della Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai, gesto col quale mostra al popolo che il peccato rompe il patto di Alleanza con Dio; tuttavia, certo della misericordia divina, ritiene anche di dover mediare il perdono presso il Signore a favore di tutti gli israeliti (cf. Es 32,30-35). Significativo al riguardo è il suo vestito rosso. Il colore rosso è dunque emerso come una sorta di filo conduttore di tutta la vetrata che sottolinea l’agire di Dio e i suoi segni nella storia spesso mediati da figure-chiave. Riconsiderando inoltre nel loro insieme tutti gli elementi analizzati, appare con una certa evidenza come l’universalità dell’azione creatrice di Dio stia in significativo rapporto con un promessa di salvezza che si attua nella storia in stretta connessione con la testimonianza del popolo di Israele, quel popolo che, come ricorda l’apostolo Paolo, rimane il popolo della promessa caro al Signore, poiché l’elezione divina è un dono irrevocabile (cf. Rm 9-11). La prospettiva universale dell’Alleanza testimoniata da Noè e dai profeti d’Israele (lato nord) Giaele uccide Sisara Isaia annuncia una nascita Daniele e Nabucodonosor Davide uccide Golia Costruzione dell’Arca Alleanza di Dio con Noè dopo il diluvio Elia e il fuoco di Dio Eliseo e Naamàn Giuditta uccide Oloferne Profezia di Geremia Visione di Ezechiele Sansone uccide i Filistei e muore Scena centrale: l’Arca dei salvati e il segno dell’Alleanza fra Dio e Noè La scena che domina la vetrata, comprendendo sia il riquadro centrale che il pannello immediatamente superiore, presenta la tragedia del diluvio universale, conseguenza del peccato dell’umanità, alla quale si contrappone l’Arca dei salvati assieme a Noè, definito dalla Scrittura come “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei” capace di “camminare con Dio” (Gen 6,9), caratteristica che può essere messa in relazione alla tunica rossa che indossa. La scena, nel suo insieme, ripropone i momenti e i simboli più significativi testimoniati nella Genesi in rapporto a questo evento (Gen 6-9): Noè che, assieme ai figli, costruisce l’Arca secondo le indicazioni del Signore (cf. Gen 6,14-16); l’azione distruttrice delle acque del diluvio mandato da Dio che fanno perire ogni essere vivente (cf. Gen 7,24); la colomba inviata da Noè fuori dall’Arca che, ritornata con nel becco un ramo di ulivo, è per lui segno del ritiro delle acque dalla terra (cf. Gen 8,6-12); l’arcobaleno o, più biblicamente, “l’arco nelle nubi”, segno dell’Alleanza fra Dio e Noè a favore di tutti gli uomini e di tutti gli esseri viventi (cf. Gen 9,8-17).